• Ci risiamo: il ministro Lollobrigida ha detto che non esiste una “razza italiana” ma “un’etnia italiana” da tutelare, soprattutto attraverso le nascite.

    Dopo la “grande sostituzione”, eccoci qui con un’altra teoria di estrema destra – quella del “differenzialismo”.

    l tentativo è chiarissimo: evitare le accuse di razzismo evitando l’impronunciabile “razza” e usando il più neutro “etnia”.

    Lo usa anche la Treccani!

    In realtà, come ha scritto Pierre-André Taguieff in diversi libri, “etnia” è un modo ripulito di dire “razza”.

    Questa innovazione linguistica la si deve ad Alain De Benoist, l’ideologo della “Nouvelle Droite”.

    Invece che fondarsi sull’inservibile razzismo “biologico-scientifico”, De Benoist si è concentrato sulle “differenze etnico-culturali”; da qui la definizione di “differenzialismo”.

    La faccio breve: siccome ogni “etnia” è “culturalmente” diversa, la convivenza è impossibile.

    Per vivere in pace, dunque, è meglio stare separati e non “contaminarsi”.

    È una forma di “razzismo politicamente corretto”, diciamo così, che ricorda sinistramente l’apartheid.

    Il pensiero di De Benoist non è affatto marginale, almeno all’interno di questo governo.

    Matteo Salvini anni fa ci faceva i convegni insieme.

    Ora invece è stato elogiato pubblicamente dal ministro della cultura Sangiuliano, e sarà ospite al Salone del Libro di Torino.

    Lollobrigida dice anche che occuparsi di natalità è un modo di “difendere la cultura italiana” e il “nostro modo di vivere”.

    Tradotto brutalmente: devono esserci più bambini bianchi.

    Altrimenti arrivano quelli «diversi» e si finisce con la “sostituzione etnica”.

    Insomma: dopo tutte le polemiche delle scorse settimane, rieccoci qui.

    Magari anche questa volta si tirerà in ballo “l’ignoranza”, o si accamperanno scuse di vario genere.

    Ma la realtà è che si tratta di precise scelte lessicali – e dunque politiche.

    https://twitter.com/captblicero/status/1656718304273104910

    #race #racisme #ethnie #terminologie #mots #vocabulaire #Lollobrigida #Italie #grand_remplacement #ethnie_italienne #différentialisme #Alain_De_Benoist #Nouvelle_Droite #extrême_droite #ethno-différentialisme #Francesco_Lollobrigida

    • Lollobrigida, l’etnia italiana e la leggenda della nazione omogenea

      Ci risiamo con una pezza che è peggiore del buco. Agli #Stati_generali_della_natalità (già il titolo meriterebbe un trattato filologico) l’irrefrenabile Lollobrigida, dopo avere detto, bontà sua, che è evidente che non esiste una razza italiana, ha dovuto colmare questa insopportabile lacuna, affermando che: “Esiste però una cultura, una etnia italiana che in questo convegno immagino si tenda a tutelare”. Esisterà dunque anche un’etnia francese (lo dica a bretoni e corsi), una spagnola (lo spieghi a baschi e catalani), una belga (l’importante che lo sappiano fiamminghi e valloni) o una inglese (basta non dirlo a scozzesi, gallesi e irlandesi). Ma forse no, lo stabordante ministro dell’Agricoltura sostiene il principio della purezza indicato peraltro nel punto 5 del Manifesto della razza: “È una leggenda l’apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici”.

      La cultura italiana sarebbe dunque completamente autoctona. In un libretto scritto nel ventennio dal fondatore del Museo di Storia Naturale di Torino, c’era un capitolo (credo fosse d’obbligo) sull’elogio della razza italiana, che si era conservata pura “nonostante qualche invasione”. Quasi commovente quel “qualche”, i nostri libri di storia sono pressoché un elenco di invasioni, ma forse, proprio per questo la cultura italiana ha toccato punte di eccellenza (non adesso) come nel Rinascimento. Proprio grazie alla sintesi di culture diverse, che si sono fuse in una proposta originale fondata sull’incontro con la diversità.

      Siamo tutti d’accordo che il pensiero occidentale deve molto (non tutto, ma molto) a quello dell’antica Grecia, ma nelle sue Lezioni sulla filosofia della storia, Hegel sostiene, giustamente, che “gli inizi della cultura greca coincisero con l’arrivo degli stranieri”. Il tratto costitutivo per la nascita della cultura greca è quindi l’arrivo degli stranieri, di cui i greci avrebbero mantenuto “memoria grata” nella propria mitologia: Prometeo, per esempio, viene dal Caucaso, e lo stesso popolo greco si sarebbe sviluppato a partire da una “#colluvies” , termine che originariamente significava fango, immondizia, accozzaglia, scompiglio, caos.

      Gli Stati si differenzierebbero da quelle che chiamiamo “tribù” o etnia, perché contengono diversità, non omogeneità. Per quanto riguarda l’etnia, vale una celebre affermazione dell’antropologo britannico Siegfried Nadel: “L’etnia è un’unità sociale i cui membri affermano di formare un’unità sociale”. I Greci, peraltro, non associavano il concetto di #ethnos a un territorio, si poteva infatti essere greco anche in terre lontane, come volle esserlo Alessandro. L’etnicità di un popolo sta nel progetto.

      La storia viene spesso manipolata dalle élite, e l’identità evocata da chi sta al potere si fonda spesso sulla storia, o meglio su una storia, quella storia. Perché, come affermava Ernest Renan, per costruire una nazione ci vuole una forte dose di memoria, ma anche un altrettanto forte dose di oblio: “L’oblio, e dirò persino l’errore storico costituiscono un fattore essenziale nella creazione di una nazione (…) Ora l’essenza di una nazione sta nel fatto che tutti i suoi individui condividano un patrimonio comune, ma anche nel fatto che tutti abbiano dimenticato molte altre cose. Nessun cittadino francese sa se è Burgundo, Alano, Visigoto; ogni cittadino francese deve aver dimenticato la notte di San Bartolomeo, i massacri del XIII secolo nel Sud”.

      Dobbiamo fingere di ricordare ciò che ci unisce e dimenticare quanto invece, del nostro passato, ci divide. Oppure accettare, come sostengono Julian S. Huxley e Alfred C. Haddon che: “Una nazione è una società unita da un errore comune riguardo alle proprie origini e da una comune avversione nei confronti dei vicini”.

      https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/05/12/lollobrigida-letnia-italiana-e-la-leggenda-della-nazione-omogenea/7158926

      #nation #homogénéité #diversité #culture #culture_italienne #ethnicité #identité

  • Mystery plans to redraw Balkan borders alarm leaders

    “Changing borders would mean opening Pandora’s box,” says Valentin Inzko.

    As international High Representative in Bosnia-Herzegovina his job is to keep the peace, which has endured since the Dayton Peace Agreement brought conflict to an end in 1995, after almost four years of fighting that cost around 100,000 lives.

    The cause of his consternation was a pair of unofficial documents suggesting some of the borders in the Balkans should be redrawn. The so-called #non-papers made the rounds in diplomatic circles, before being picked up by media in the Western Balkans.

    As far as Bosnia is concerned, its high representative is not about to entertain suggestions that the answer to its ongoing dysfunctionality would be to redraw its national boundaries.

    “If somebody likes to think about changing borders, he should first visit all military graves from France to Stalingrad,” he warns.

    The documents did not carry an author’s name. That’s in keeping with the unofficial nature of a non-paper, but the contents caused outrage across the region.

    Among their suggestions were:

    - A “peaceful dissolution” of Bosnia-Herzegovina, with Serbia and Croatia annexing much of its territory
    - Unification of Kosovo and Albania
    - The creation of an autonomous, majority ethnic-Serb region in northern Kosovo.

    It reads very much like an ethno-nationalist wish-list from the 1990s. And everyone remembers how that unfolded at the time.

    “People are worried. One of my employees was crying, she was really worried about these maps”
    Valentin Inzko, High Representative in Bosnia and Herzegovina

    “We are making a mistake if we think that frozen conflicts remain frozen forever,” says Mr Inzko. “You have seen in Nagorno-Karabakh and Palestine - frozen conflicts can break out at any time. This could also be the case in Bosnia and Herzegovina.”

    The non-papers affair has turned into a diplomatic whodunnit.

    Few people have had anything to say in support of the ideas they contain - except Bosnia’s senior ethnic-Serb politician, Milorad Dodik, who never misses a chance to push the idea of secession for the country’s majority ethnic-Serb region. Under the Dayton accords, the country was divided into a Bosniak-Croat Federation and Bosnian Serb Republic (Republika Srpska).

    - The town where neighbours won’t share a coffee
    - Land swap could bridge divide for Serbia and Kosovo
    - Capturing the Balkans 25 years after peace deal
    - Bosnia-Herzegovina: Country profile

    But the non-papers may not be the work of self-serving ultranationalists. Slovenia had to fight off suggestions that it was circulating the first document. And media in Kosovo described the second non-paper as a “Franco-German” proposal.

    James Ker-Lindsay, a Balkans expert at the London School of Economics, says “blue-sky thinking” is one way for European leaders to tackle the region’s seemingly intractable issues.

    “We can’t deny there are problems in the Western Balkans. There are two significant issues which have got to be resolved: the dispute between Serbia and Kosovo over Kosovo’s independence - and the deep-seated political dysfunctionality that exists in Bosnia.”

    “This has vexed policymakers for the last 15 years in both cases. So the idea that we would be looking at trying to come up with new approaches to this isn’t particularly unusual”
    James Ker-Lindsay, Balkans expert, LSE

    Nonetheless, Slovenia attempted to consign the non-papers to the waste bin at a meeting of regional leaders it hosted earlier this month. It proposed a declaration affirming the inviolability of current borders.

    But Serbia refused. President Aleksandar Vucic said his country recognised “the borders determined by the UN charter”. In other words, he was not about to sign a document that could be construed as recognition of Kosovo’s independence.

    After meeting Mr Vucic in Slovenia, Kosovo’s president, Vjosa Osmani, told the BBC that she was convinced Belgrade was behind the non-papers.

    “I had no doubts from the very beginning - it’s enough to just read the contents and to see what these non-papers try to push forward. The idea of border redrawing as something that could achieve peace in the region, when in fact it’s the opposite.”

    “If there is one thing the entire political spectrum in #Kosovo agrees on, it’s that border redrawing is completely unacceptable”
    Vjosa Osmani, Kosovo president

    Naturally, Serbia denies all knowledge and James Ker-Lindsay notes that there are “all sorts of confusion and conspiracy theories kicking in”.

    But with the end of his 12-year stint as high representative approaching, Valentin Inzko simply wants everyone to accept the borders as they are and focus on eventually coming together in the European Union.

    “The better idea would be to follow the example of Tyrol - one part is in Italy, another in Austria. But it is one region, with four freedoms and one currency.”

    But EU membership for Western Balkans countries will remain out of reach for years. And that means many more non-papers, whether mischievous or constructive, are bound to be written.

    https://www.bbc.co.uk/news/world-europe-57251677
    #projet #frontières #Balkans #cartes #différents_frontaliers #Bosnie #Bosnie-Herzégovine #Croatie #Serbie #Albanie #conflits #Milorad_Dodik #Republika_Srpska #République_serbe_de_Bosnie #nationalisme #paix

    ping @reka

  • #L_après ne devra pas être un retour à la « normale » - Libération
    https://www.liberation.fr/debats/2020/03/30/l-apres-ne-devra-pas-etre-un-retour-a-la-normale_1783595

    L’ampleur de la #crise_économique dépendra de l’intensité et de la durée du confinement, qui elles-mêmes sont la conséquence de l’impréparation. Il faudra ensuite penser une économie capable de résister à de tels chocs.

    #Pollution : "Il faut que l’#après soit #différent de l’avant en termes d’émissions de gaz carbonique", déclare Jean Jouzel
    https://www.francetvinfo.fr/sante/maladie/coronavirus/pollution-il-faut-que-l-apres-soit-different-de-l-avant-en-termes-d-emi

    Pollution : « Il faut que l’après soit différent de l’avant en termes d’émissions de gaz carbonique », déclare Jean Jouzel
    Le climatologue Jean Jouzel appelle à changer les comportements et l’organisation de la société pour réduire la pollution de l’air alors que le confinement réduit les émissions de dioxyde d’azote dans toute l’Europe.

  • Contre l’#exception, faire problème commun
    de #Sarah_Mekdjian

    #Biopolitiques_différentielles
    Alors que le #confinement, désormais sous #surveillance_policière depuis le 16 mars 2020 en France, doit protéger de la propagation de la #maladie, l’#enfermement continue de tuer, et de creuser les lignes d’une #biopolitique_différentielle, fondée sur la pénalisation des vies. Dans les #prisons italiennes, les parloirs ont été supprimés, les mutineries flambent. Sept détenus seraient morts dans ces insurrections.

    En France, des détenus qui ont eu des parloirs avec des personnes venues de zones dites dangereuses ont été placés en #isolement. #Punition et #protection se conjuguent. A #Fresnes, une des prisons les plus surpeuplées de France, les premiers cas de #contamination apparaissent, avec une première mort d’un prisonnier évacué. Les #masques sont progressivement distribués aux #personnels_pénitentiaires, même chose pour la #police qui surveille dans les centres de #rétention_administrative. Ce qui n’est pas le cas pour les détenus, ni les retenus.
    La lettre écrite par les retenus du centre de rétention administrative (#CRA) de #Lesquin à proximité de Lille est un cri d’alerte : suite au cas d’une personne contaminée à l’intérieur du CRA le vendredi 13 mars 2020, et à son évacuation, les policiers de la #police_aux_frontières (#PAF) portent des masques et des gants, les retenus non. Elles et ils ont décidé de ne plus fréquenter les lieux collectifs, notamment le #réfectoire. « Nous ne mangeons donc plus depuis trois jours pour beaucoup d’entre nous ». Les auteurs de la lettre, reproduite ici, poursuivent en montrant combien la suppression des visites des proches et soutiens, l’absence de l’association qui enregistre les demandes d’asile, informe, apporte des soutiens, isole encore davantage. « De nombreuses audiences du juge des libertés et de la détention sont reportées, or c’est à l’occasion de ces audiences que nous pouvons être libérés ». « Pour notre survie et le respect de nos droits, nous exigeons la liberté immédiate de toutes les personnes enfermées au CRA de Lesquin et dans tous les centres de rétention ! ».

    Exacerbation du gradient différentiel d’exposition aux risques

    L’#enfermement, par la détention et la rétention, devient, en temps de confinement, #isolement_des_foules : l’isolement ne protège pas, mais expose à la #mort, à une #gouvernementalité qui précisément crée un #différentiel_normatif, depuis celles et ceux qui peuvent se confiner pour se protéger de l’exposition aux risques, et celles et ceux qui sont isolés contre leur gré, en tant que population surpeuplée. Il ne s’agit pas d’une situation d’exception, mais de l’exacerbation de situations structurelles d’#isolement - #surpeuplement qui s’intègrent à une biopolitique différentielle.
    L’image de policiers de la PAF masqués et gantés dans les CRA, en cette période de coronavirus, qui surveillent des personnes isolées et exposées au risque, rappelle celle des policiers masqués et gantés de #FRONTEX qui, dans les avions, hors période de pandémie, expulsent des personnes menottées. Les politiques logistiques immunitaires au service d’un contrôle et d’une hyperexploitation de la force de travail sont désormais renforcées.
    Sur les îles grecques, machines internes de l’externalisation frontalière européenne (d’autant plus depuis que la Turquie a en partie refusé cette externalisation), les camps dits de réfugiés isolent des foules, exposées aux risques, réels, du coronavirus et de nombreuses autres maladies, tout comme d’une très grande pauvreté, chacun de ces éléments se renforçant mutuellement. Médecins sans frontières, partie prenante des dispositifs humanitaires de l’#encampement, appelle, à une évacuation urgente de ces #camps, sans demander une transformation radicale de la biopolitique qui crée la possibilité même de ces camps. Une coordinatrice médicale de Médecins sans frontières en #Grèce, précise : « Dans certaines parties du camp de #Moria, il n’y a qu’un seul point d’eau pour 1 300 personnes et pas de savon. Des familles de cinq ou six personnes doivent dormir dans des espaces ne dépassant pas 3m². Cela signifie que les mesures recommandées comme le lavage fréquent des mains et la distanciation sociale pour prévenir la propagation du virus sont tout simplement impossibles ». Il n’y a pas de distanciation sociale possible parmi les foules concentrées et isolées. On pourrait même dire que l’encampement des personnes étrangères permet, en partie, une meilleure acceptation du confinement. Autrement dit, puisqu’il y a des situations « pires », notamment dans les camps, dans les prisons, dans les CRA, pourquoi se plaindre du confinement sous surveillance policière décidé au nom de la « protection » et de la « sécurité » de celles et ceux, par ailleurs, qui peuvent se confiner ?
    A #Grenoble, alors que l’Université est fermée « au public », mais très ouverte aux grands vents néolibéraux de l’enseignement numérique, le #Patio_solidaire, squat occupé depuis deux ans par des personnes la plupart en situation de demande d’asile, dans les locaux désaffectés d’anciens laboratoires de droit, est un oublié de la fermeture : les jours passent tous comme des dimanches, personne ne circule plus sur le campus. Il manque du savon, des denrées alimentaires, le manque est structurel, il est encore renforcé désormais. Le confinement de celles et ceux qui sont autorisé.e.s à l’être renforce nécessairement l’isolement de celles et ceux qui étaient déjà la cible des politiques immunitaires logistiques. L’idée ici n’est pas d’opposer des situations, ni de relativiser la nécessité du confinement. Il s’agit de relever combien les biopolitiques différentielles sont encore exacerbées par ces temps de #pandémie. Il n’y a pas l’#extérieur d’un côté, l’#intérieur de l’autre, mais un gradient, plus ou moins létal, allant du confinement à l’isolement, avec des modalités graduelles d’exposition aux risques, de contrôle, et des boucles de renforcement.

    Pas de mesures d’exception, mais faire problème commun

    Plusieurs textes insistent sur le fait que le confinement permettrait peut-être de faire #problème_commun, et précisément de faire insister qu’il n’y a pas d’un côté les uns, de l’autre, les autres : comprendre, prendre avec soi, ce que signifie être enfermé, détenu, retenu, ciblé par les politiques immunitaires structurelles, depuis précisément la situation présentée comme exceptionnelle du confinement.
    La pandémie de coronavirus permettra-t-elle effectivement que les luttes contre la pénalisation des vies et contre les biopolitiques différentielles soient entendues ? Il est très probable qu’elles ne le soient pas. Ou qu’elles le soient, en partie précisément au nom de l’exception de la situation de la pandémie du coronavirus, ce qui renforcerait, dans le même temps, le gradient différentiel de normes préexistants à la pandémie. Pour illustrer les risques de l’exception, les appels et décisions de libération de retenu.e.s en CRA sont exemplaires.
    Ainsi, depuis le 17 mars 2020, plusieurs décisions de cours d’appel ont ordonné la libération de personnes retenues, en invoquant les conditions sanitaires actuelles exceptionnelles, qui impliquent notamment la suppression des vols qui permettraient les expulsions. Voici par exemple l’extrait de décision de la cour d’appel de Lille, en date du 17 mars 2020, qui acte la non-prolongation de la retenue administrative d’une personne :

    Cette décision va dans le sens de l’argumentaire d’une pétition ayant circulé largement sur les réseaux sociaux dès le 16 mars et demandant la libération des personnes étrangères retenues en centre de rétention :
    « Avec la pandémie en cours de plus en plus de pays adoptent des mesures de protection. Les frontières se ferment et il n’existe plus de perspective de renvoi. Dans ce contexte, la rétention ne se justifie plus ».

    S’il l’on peut se réjouir des décisions de justice amenant à la libération de retenu.e.s, par ailleurs décisions, aux cas par cas et à la demande des avocat.e.s, il semble également important de préciser qu’avoir recours à l’argument d’exception tend à renforcer l’idée de normes, et notamment sous-jacente, la norme de personnes étrangères privées de liberté et expulsables en raison de l’absence de titres de séjour, de refus de leurs demandes d’asile.
    Quand les vols seront rétablis, la rétention pourrait-elle donc « normalement » reprendre ? On peut imaginer que pour beaucoup l’appel à l’argument d’exception soit d’abord stratégique, mais il est aussi particulièrement problématique, dans un contexte où la crise sanitaire renforce les replis nationalistes, qui vont de la recherche d’origines nationales, mais aussi ethniques, voire raciales au coronavirus, avec de nombreux discours et actes racistes prononcés à l’égard de la Chine et des ressortissant.e.s chinois.e.s ou assimilés comme tels, jusqu’au traitement différentiel des personnes étrangères en relation à l’exposition aux risques.

    Ainsi, faire problème commun ne peut pas simplement tenir dans le fait de vivre le confinement, et d’appeler à des mesures exceptionnelles, en temps d’exception.

    Précisément il n’y pas d’exception, il y a une accentuation, accélération, exacerbation de tout ce qui est déjà là, déjà présent. En appeler à l’exception, c’est renforcer encore le gradient normatif différentiel qui neutralise toutes transformations radicales. Le renforcement des #luttes face à l’exacerbation généralisée de ce qui existait avant la pandémie est aussi en cours.

    https://lundi.am/Contre-l-exception-faire-probleme-commun
    #biopolitique #De_Frontex_à_Frontex

  • Le #Programme_frontières de l’#Union_Africaine

    Plus de 26 frontières africaines ont été re-délimitées par le Programme frontières de l’Union Africaine depuis 2007. Pourquoi et comment sommes-nous en train d’assister à une #re-délimitation des frontières de l’Afrique ?

    Le partage de l’Afrique commencé à la fin du XIXe siècle n’est toujours pas terminé. L’histoire de ces frontières créées à la hâte dans des chancelleries européennes avec une connaissance quasi inexistante des États africains est pourtant relativement bien connue. Cette méconnaissance des réalités africaines par les Européens du XIXe siècle a conduit à une délimitation souvent grossière (mais pas toujours) des colonies africaines, tant sur le plan juridique que pratique, et a encore des conséquences aujourd’hui.

    Pourtant, les frontières entre les différents empires coloniaux ont été délimitées de manière relativement précise par des traités internationaux au début du XXe siècle. Le travail pratique des commissions des frontières était particulièrement important pour l’érection de points de repère physiques le long des frontières internationales. Cependant, beaucoup de ces points de repère ont disparu aujourd’hui. En outre, les #frontières_coloniales créées au sein des empires coloniaux ont rarement été délimitées avec précision et leur localisation peut s’avérer difficile. Par exemple, la frontière entre le #Niger et le #Nigeria était mieux définie que celle entre le #Niger et le #Mali. La première séparait une colonie française et britannique (voir ce que j’ai écrit sur le Borno) tandis que la seconde n’était qu’une limite entre deux colonies françaises.

    Lorsque les pays africains sont devenus indépendants entre les années 1950 et 1970, les dirigeants nouvellement élus ont difficilement remis en question cet héritage et des limites coloniales mal définies sont devenues des frontières internationales. Malgré l’importance des idées panafricanistes dans quelques pays et parmi la diaspora, les frontières coloniales sont restées intactes. Créée en 1963, l’Organisation de l’unité africaine (OUA), malgré son nom, a consacré leur existence. La résolution de 1964 de l’OUA au Caire « déclare ainsi solennellement que tous les Etats membres s’engagent à respecter les frontières existant au moment où ils ont accédé à l’indépendance ». Les frontières créées à la hâte en Europe à des fins coloniales deviennent ainsi en quelques années des frontières internationales.

    Afin de préserver ces frontières, l’OUA a toujours déclaré que ses États membres devaient affecter une partie de leur budget à leur démarcation des frontières. Cependant, cet engagement n’a pas réellement porté ses fruits. Les difficultés économiques et politiques ont rendu ce projet irréalisable jusqu’au début du XXIe siècle. C’est la raison pour laquelle l’organisation qui a succédé à l’OUA, l’Union africaine (UA), a créé le Programme frontières de l’Union africaine à Addis-Abeba (Éthiopie) en 2007.

    Comme les deux tiers des frontières africaines n’ont jamais été délimitées avec précision sur le terrain, sa tâche est colossale. Des progrès ont déjà été constatés et à la fin de 2018, plus de 26 frontières africaines avaient été délimitées par ce Programme frontières (4 700 km sur 83 500 km). De plus, le Programme frontières a créé une dynamique pour ses États membres qui ont signé un nombre considérable de traités, de protocoles d’entente et de protocoles depuis 2007.

    Tout comme pour l’#UA en général, la résolution des conflits et le maintien de la paix sont des objectifs évidents pour le Programme frontières et l’un de ses principaux objectifs est de prévenir les différends frontaliers. Le Programme frontières entend empêcher des #différents_frontaliers entre Etats membres de l’UA. Par exemple, l’existence présumée de ressources en gaz naturel et minérales à la frontière entre le Mali et le Burkina Faso aurait été à l’origine de deux guerres courtes en 1974 et en 1985. Le conflit a été réglé par la Cour internationale de Justice en 1986. Le Programme frontières aurait donc pour but d’empêcher les institutions internationales de s’immiscer dans les affaires africaines. Son rôle dépasse la simple technicité apparente de la démarcation des frontières.

    Les dimensions développementales et économiques du Programme frontières sont extrêmement claires. Le Programme frontières n’hésite pas à utiliser un langage inspiré par le consensus de Washington et cherche à promouvoir le libre-échange. Les frontières ne doivent pas être considérées comme un obstacle, mais doivent offrir des opportunités économiques aux communautés et aux États frontaliers. Ses activités sont principalement axées sur les populations vivant dans les zones commerciales des régions déchirées par des conflits. Par exemple, la région frontalière entre l’Ouganda et la République démocratique du Congo.

    L’UA et son Programme frontières sont officiellement responsables pour la diffusion de la conception dite westphalienne des frontières et de la #souveraineté. Cette conception qui tire son origine d’Europe et du #traité_de_Westphalie de 1648 revient à faire rentrer les pays africains dans un système international. Cette intégration politique et économique qui rappelle l’Union européenne n’est pas une coïncidence, le Programme frontières étant financé par la coopération allemande (Deutsche Gesellschaft für Internationale Zusammenarbeit ou GIZ). Avec plus de 47 millions d’euros investis dans le Programme frontières, les Allemands et donc les Européens continuent toujours à influencer la création des frontières en Afrique même si à la différence de la fin du XIXe siècle, les décisions sont prises maintenant par les dirigeants africains membres du Programme frontières.

    http://libeafrica4.blogs.liberation.fr/2019/07/22/le-programme-frontieres-de-lunion-africaine
    #Afrique #démarcation #frontières_linéaires #ligne #Allemagne #post-colonialisme #frontière-ligne #lignes_frontalières #géographie_politique

    ping @isskein @visionscarto

  • Féminisme et différentialisme à la MG

    mes camarades de la Maison de la Grève (Rennes https://maisondelagreve.boum.org ) organisent un cycle de rencontres féministes en septembre (socle de travail : le boulot de la librairie des femmes de Milan et notamment le bouquin « ne crois pas avoir de droits »)

    #PenserLaDifférence #CyclePolitiqueDesFemmes

    « Tisser les fils d’une politique des femmes », tel est l’intitulé du prochain cycle de conférence à la Maison de la Grève. Ces discussions ouvriront la saison 2019-2020, elles auront lieu du jeudi 12 au samedi 14 septembre.

    Voici le Programme

    Jeudi 12, 18h :
    Soirée en récits et images des mouvements de femmes qui ont animé les années 70 en France.

    Vendredi 13, 18h :
    Nous accueillerons Isabelle Stengers pour aborder la question du déterminisme à travers la pensée de Donna Haraway.

    Samedi 14, 10h :
    Nous échangerons avec Anne-Emmanuelle Berger autour des notions de visibilité, identités et pouvoir.

    Samedi 14, 14h30 :
    Elise Gonthier-Gignac interviendra autour du féminisme italien de la différence et certaines pensées décoloniales.

    l’invitation en format long est à lire en ligne :
    https://maisondelagreve.org/ecrire/?exec=article&id_article=103

    #féminisme #différentialisme conférences #séminaire #rencontres

  • Les bouquetins jouent à saute-frontière alors que les êtres humains (certains êtres humains, les #indésirables...)

    Dans le parc du #Mercantour, les bouquetins jouent à saute-frontières

    Parmi les actions de coopération entre la France et l’Italie soutenues par l’Union européenne, un programme vise depuis 2017 à recenser et protéger la population de bovidés.

    La #montagne n’ayant pas de #frontières, les projets ont très vite pris une envergure européenne.


    https://www.liberation.fr/france/2019/05/09/dans-le-parc-du-mercantour-les-bouquetins-jouent-a-saute-frontieres_17259

    #animaux #frontières_ouvertes #differential_inclusion #humains #êtres_humains

    ping @reka

  • Contre les théories du « grand remplacement » : rompre avec la rationalité eurocentrique | João Gabriell
    https://joaogabriell.com/2019/03/24/contre-les-theories-du-grand-remplacement-%EF%BB%BF-rompre-avec-la-rat

    Contre les théories du « grand remplacement », plutôt qu’un amoncellement de preuves factuelles contradictoires, il faut rompre avec la rationalité eurocentrique qui les fondent, à la fois en imposant un autre type de débats que ceux qui ont cours, et en renforçant nos luttes politiques contre l’impérialisme occidental. Source : Le blog de João

    • Le « grand remplacement », généalogie d’un complotisme caméléon

      Trouvant ses racines dans la chrétienté médiévale, qui considère juifs et musulmans comme une menace, la théorie d’une « submersion » de la France par un prétendu « envahisseur étranger » convoque et adapte toutes les idéologies présentes et passées – racialistes, antisémites et nationalistes – aptes à servir son propos.

      La pensée du « grand remplacement », propagée principalement par l’écrivain #Renaud_Camus, figure des milieux identitaires, et le candidat d’extrême droite à l’élection présidentielle #Eric_Zemmour, ne repose pas simplement sur un délire démographique. Elle s’appuie sur tout un système de représentations, où s’entremêlent des sources clairement identifiables et un imaginaire plus diffus, constitué au fil des siècles et constamment revisité.

      Le « grand remplacement » ne laisse pas toujours deviner son âge, tant il adopte des formules modernes ou des exemples contemporains. C’est par exemple le cas chez Renaud Camus. Ainsi écrit-il dans Le Grand Remplacement (La Nouvelle Librairie, 2021) : « L’expression de “grand remplacement” désigne, certes, essentiellement, le remplacement d’un peuple, le peuple français indigène, par un ou plusieurs autres ; celui de sa culture par la déculturation multiculturaliste ; celui de sa civilisation si brillante et admirée par la décivilisation pluriethnique (le village global), elle-même en rivalité âpre avec l’intégrisme musulman, la conquête et la conversion islamique. »

      [...] Aujourd’hui, les musulmans sont vus comme les acteurs d’une conspiration mondiale menée « par les princes et par les masses, par les multimilliardaires du pétrole et par les “jeunes” sans emploi », croit savoir Camus. (...)

      Après la seconde guerre mondiale, l’extrême droite est contrainte à un renouvellement idéologique. La fin des colonies et la rapide croissance économique se traduisent par la montée d’une immigration venue du Sud vers l’Europe. Et alors, la peur de la submersion démographique qui était jusque-là davantage du domaine de la fiction, commence à se diffuser.
      L’idée de remplacement de la population est exprimée par René Binet, un ancien SS français, qui écrit dans son livre Théorie du racisme (1950) que« la “Révolution” n’a, jusqu’ici, été que l’accession de races inférieures au pouvoir, en remplacement de races supérieures dégénérées ». Camus ne s’inspire pas de ce livre, mais il s’inscrit néanmoins dans ce courant de pensée. Il rend en effet un hommage appuyé à celui qui travailla le plus à développer ses idées, l’essayiste Dominique Venner. Après son suicide en 2013, Camus le décrit comme un « grand intellectuel ». Pour Stéphane François, professeur de science politique à l’université de Mons, en Belgique, et historien des idées, « Venner joue un rôle central, car il se situe à l’avant-garde intellectuelle, il tente de sortir d’un nationalisme étroit par l’adoption d’un pan-nationalisme européen. Il est notamment l’auteur d’Histoire et tradition des Européens. 30 000 ans d’identité [#éditions_du_Rocher, 2002], dans lequel il affirme qu’existe une continuité culturelle en Europe, de la préhistoire à aujourd’hui… On trouve en outre chez lui l’idée que l’immigration est une invasion, que les nouveaux arrivants venus du Sud ne peuvent pas s’intégrer, à cause de leur violence ».

      (...) L’immigration est une « contre-colonisation ». Un large usage est donc fait d’un auteur anticolonialiste tel le psychiatre martiniquais Frantz Fanon. On le transforme en ce qu’il n’est pas : une espèce d’apôtre du « chacun chez soi » identitaire.

      https://www.lemonde.fr/idees/article/2022/01/28/le-grand-remplacement-genealogie-d-un-complotisme-cameleon_6111330_3232.html

      https://justpaste.it/28s9i

      source démocratique et CAC 40, #Alain_Finkielkraut pas cité #extrême_droite #histoire #chrétienté_médiévale #1492 #Joseph_de_Maistre #Ernest_Renan #Maurice_Barrès #Édouard_Drumont #Dominique_Venner #antisémitisme #islamophobie #racisme #complotisme #immigration #différentialisme #Enoch_Powell #Alain_de_Benoist #Nouvelle_droite

  • What’s Driving the Conflict in Cameroon?
    Violence Is Escalating in Its Anglophone Regions.

    In recent months, political violence in the Northwest and Southwest regions of Cameroon has escalated dramatically. So far, at least 400 civilians and 160 state security officers have been killed in the conflict between the government and an armed separatist movement that, just two short years ago, started as a peaceful strike of lawyers and teachers. How did such upheaval come to a country that has prided itself for decades as a bulwark of stability in a region of violent conflict? And why has it escalated so quickly?

    THE ROOTS OF THE VIOLENCE

    The Northwest and Southwest regions of Cameroon have a special historical legacy that sets them apart from the country’s other eight regions: between 1922 and 1960, they were ruled as a British trust or protectorate while the rest of the territory was administered by France. This is why today, 3 million residents of the Northwest and Southwest regions—roughly 20 percent of the Cameroonian population—speak primarily English, not French. These two regions also use their own legal and educational systems, inherited from the British, and have a unique cultural identity.

    Many analysts argue that the current conflict stems from the intractable historical animosity between Cameroon’s Anglophones and Francophones. Yet if that is the case, it is strange that the violence is only occurring now. Why not in 1972, when Ahmadou Ahidjo, the first president of Cameroon, ended the federation between the Anglophone and Francophone regions, forcing the Anglophones to submit to a unitary state? Or in 1992, when current President Paul Biya held Cameroon’s first multi-party elections, and narrowly won a heavily rigged contest by four percentage points against Anglophone candidate John Fru Ndi? Furthermore, if differences in identity are the primary driver of the conflict, it is quite surprising that Cameroon—one of the most ethnically diverse countries in Africa—has largely avoided ethnic conflict.

    Most Anglophones themselves say that they would be happy to put their national identity above their linguistic one if they weren’t systematically neglected and repressed by Cameroon’s central government. According to a survey from the Afrobarometer, an independent polling and research network, when asked whether they identify more as Cameroonians or more with their ethnic group, the vast majority of respondents in the Northwest and Southwest regions said they identified with these categories equally. Less than five percent said they identified more with their ethnic group. Nonetheless, members of this population have long felt themselves to be treated as second-class citizens in their own country. Anglophones who go to the capital city of Yaoundé to collect government documents, for example, often report being ridiculed or turned away by public officials because they cannot speak French. Separatists argue that this mistreatment and discrimination by Yaoundé, and Francophone Cameroonians more broadly, is grounds for secession.

    Yet regional neglect and mistreatment are not enough to explain the current wave of violence. If they were the root cause, then we should also be seeing separatist movements in Cameroon’s North and Far North regions, where state violence has become endemic in the fight against Boko Haram over the past four years. Moreover, in the North and Far North regions, the poverty rate is higher (more than 50 percent in each, compared to 15 percent in the Southwest and 25 percent in the Northwest) and state investment in public goods such schools, health clinics, and roads is lower than anywhere else in the country.

    To be sure, the Anglophones’ unique linguistic and cultural identity has played a role in the rebellion. But in order to understand why the escalating violence is taking place where and when it is, we must consider not only the Anglophone regions’ exceptional political isolation and relative economic autonomy from the rest of Cameroon, but also the increasing impatience of Africans living under non-democratic regimes.
    WHY THE ANGLOPHONE REGIONS?

    Biya, who last month won his seventh term in office, has been in power since 1982, making him one of the longest ruling leaders in the world. In fact, Cameroon has only had two presidents since gaining independence in 1960. Because the country’s median age is 18, this means that the majority of Cameroonians have only ever known one president. Yet the decline of Africa’s strongmen over the past two decades—most recently Blaise Compaoré in Burkina Faso, Yahya Jammeh in the Gambia, Robert Mugabe in Zimbabwe, José Eduardo dos Santos in Angola, and even Jacob Zuma in South Africa—has made Biya’s continued rule increasingly untenable. Democracy may have begun to lose its appeal in many parts of the world, but it remains important to most sub-Saharan Africans. Many Cameroonians with an education and a smart phone consider their president’s extended rule increasingly illegitimate. The political tide currently washing away the strongmen of Africa has made this moment an exceptional one for mobilizing people against the regime.

    In spite of these democratic headwinds, Biya has managed to maintain his legitimacy in some quarters through his cooptation of Francophone elites and control of information by means of the (largely Francophone) state-owned media. He has masterfully brought Francophone leaders into government, offering them lucrative ministerial posts and control over various government revenue streams. Importantly, he has not been excessively repressive—at least not before the current outbreak of violence—and has gone out of his way to uphold the façade of democratic legitimacy through holding regular elections, allowing a relatively unfettered (although weak) independent media, and having a general laissez-faire attitude toward governing.

    The state media and elites within the ruling Cameroon People’s Democratic Movement are stalwart defenders of the president, operating whole-heartedly on the fictitious assumption that the regime is democratic. Many Cameroonians, especially those isolated from independent media, opposition parties, or information from outside of the country, earnestly believe this narrative. Another survey by the Afrobarometer conducted in 2015 before the outbreak of violence, showed that the presidency is the second most trusted institution of the state, after the army. It also showed that only ten percent of Cameroonian respondents believe that their country is not a democracy.

    In contrast, the Anglophone regions’ relative distance from both Biya’s networks of patronage and influence and the Francophone state media puts them in a unique position to see the autocratic nature of the regime and rebel against it. Although 75.4 percent of Francophone Cameroonian respondents said they trust Biya “somewhat” or “a lot,” in the Afrobarometer poll, only 45.5 percent of Anglophones felt the same way. Part of the reason for this is easier access to criticism of the Biya government. In electoral autocracies, opposition parties are often the only institutions that consistently voice the view that the regime is not truly democratic. The strongest opposition party in Cameroon—the Social Democratic Front (SDF)—is headquartered in the Northwest region, thus further exposing Anglophones to narratives of state repression. Other parts of Cameroon do not have occasion to become as familiar with opposition party politics. In the most recent 2013 elections for the National Assembly, for example, the Cameroon People’s Democratic Movement ran completely unopposed in 13 of the country’s 83 electoral districts.

    In comparison to other parts of the country, such as the north, Cameroon’s Anglophone regions are also more economically autonomous from Yaoundé. They have a robust cross-border trade with Nigeria, successful plantations in the Southwest, and fertile farming land. They are not overly-reliant on the export of primary resources, such as oil or timber, which funnels through state-owned corporations. And they are not as poor as, for example, the northern regions, which face chronic food insecurity. The Anglophones thus have not only the will, but also the resources to rebel.

    THE SUCCESSION QUESTION

    Unfortunately, an end to the crisis is nowhere in sight. Last month, Biya won his seventh term as president with 71.3 percent of the vote. The already unfair election was marked by exceedingly low participation in the Anglophone regions—just five percent in the Northwest—due to security fears. Meanwhile, Biya has responded to the separatists with an iron fist. He refuses to negotiate with them, instead sending in his elite Rapid Intervention Battalion (trained by the United States and led by a retired Israeli officer), which has now been accused of burning villages and attacking civilians in the Northwest and Southwest. But as long as the violence does not spill over into the Francophone regions, the crisis will likely not affect the president’s legitimacy in the rest of the country. Moreover, Biya remains staunchly supported by the West—especially France, but also the United States, which relies strongly on Cameroon in the fight against Boko Haram. The separatists, meanwhile, remain fractured, weak, and guilty of their own atrocities against civilians. Apart from attacking security forces, they have been kidnapping and torturing teachers and students who refuse to participate in a school strike.

    It is extremely unlikely that Biya will make the concessions necessary for attacks from separatists to stop, and the fluid nature of the insurgency will make it difficult for state security forces to end the violence. The scorched earth tactics on both sides only work to further alienate the population, many of whom have fled to Nigeria. It seems likely that a resolution to the crisis can only happen once the questions of when Biya will step down and who will replace him are fully answered. Right now, there is only unsubstantiated speculation. Many assume he will appoint a successor before the next presidential elections, scheduled for 2025. But if there are any surprises in the meantime similar to the military move against Mugabe in Zimbabwe or the popular uprising against Compaoré in Burkina Faso, a transition may come sooner than expected. A post-Biya political opening might provide a way for Cameroon’ s Anglophones to claim their long-awaited autonomy.

    https://www.foreignaffairs.com/articles/cameroon/2018-11-08/whats-driving-conflict-cameroon?cid=soc-tw
    #Cameroun #conflit #Cameroun_anglophone #violence #différent_territorial #autonomie

  • Des garçons aussi bons que les filles en lecture, c’est possible ! (Libération)
    http://www.liberation.fr/debats/2017/09/10/des-garcons-aussi-bons-que-les-filles-en-lecture-c-est-possible_1595370

    Evidemment, les stéréotypes ne peuvent malheureusement pas s’effacer du jour au lendemain. Mais dans la mesure du possible, tout un chacun (parents, enseignants, psychologues, etc.) doit prendre conscience du poids de ces stéréotypes, et éviter de trop mettre en avant l’identité de genre des élèves en fonction des disciplines scolaires. Par exemple, en proposant aux élèves des modèles de réussite qui vont à l’encontre du stéréotype de genre de manière à le rendre moins menaçant au fil du temps.

    À noter :
    – Le titre de l’article est débile.
    – Cette expérimentation est le pendant de celle réalisée sur les filles où l’on présentait un exercice de géométrie soit comme du dessin, soit comme de la géométrie.
    – Au-delà de la question du genre, l’expérience montre l’importance dans la réussite de l’image que l’enfant a de lui-même et de ses compétences.
    – Une fois encore ce qu’on appelle « évaluation » en lecture est tellement réducteur par rapport à ce qu’est une situation de lecture réelle.

    #éducation #apprentissage #école #genre #stéréotypes #évaluation #différentialisme

  • Entre Kosovo et #Monténégro, une frontière qui ne passe pas

    Le Parlement du Kosovo devait entériner ce jeudi l’accord signé il y a un an avec le Monténégro sur la #délimitation de la frontière entre les deux pays. Des milliers de manifestants sont rassemblés dans le centre de Pristina et, à Haxhaj, dans les montagnes de la Rugova, on ne digère pas cette « trahison ». Reportage.


    http://www.courrierdesbalkans.fr/le-fil-de-l-info/les-montagnes-de-la-dispute.html
    #frontière #dispute_frontalière #dispute_territoriale #Kosovo #frontières

  • Gare à ne pas attiser une fictive guerre des identités
    http://www.lemonde.fr/idees/article/2015/02/06/gare-a-ne-pas-attiser-une-fictive-guerre-des-identites_4571607_3232.html

    Après l’ignoble attentat contre la rédaction de #Charlie_Hebdo, l’abominable tuerie de l’hypermarché casher et le lâche assassinat de policiers, et alors que l’#émotion des Français(es) est à son comble, des voix commencent à se faire entendre qui reprennent une litanie bien inquiétante : la presse de tous bords, y compris celle dont ce n’est pas l’habitude, annonce que nous sommes terrassés par un « malaise identitaire », voire par une supposée « névrose de l’islam » (sic), puisqu’un « choc culturel et religieux » créerait une « #insécurité_culturelle » au sein de la nation.

    Voilà qui donne du grain à moudre aux identitaires de tous poils et nous engage dans une voie dangereuse : l’« identité française », chrétienne, « blanche », « de souche », serait menacée dans son essence par l’islam, perçu comme un tout. Cette idéologie a été analysée de longue date par les spécialistes des sciences sociales : elle peut être nommée #essentialiste et différentialiste.

    On s’étonne que quiconque puisse encore y croire, tellement elle est erronée, historiquement et sociologiquement : la population française n’est ni cohésive ni porteuse d’un destin prédéfini, mais traversée de multiples fractures. Il n’existe pas une unique identité française, figée depuis la nuit des temps (une « essence »), qui serait menacée par une culture musulmane homogène et tout aussi figée.

    D’ailleurs, le discours sur l’identité est un fourre-tout qui change de contenu selon l’air du temps. Que la France ait une histoire longue et complexe, faite de nombreux apports étrangers, c’est l’évidence même. Il n’existe aucune tradition figée, aucune culture pure. L’islam ne fait évidemment pas exception : les pratiques et les analyses théologiques de cette religion de par le monde sont d’une grande diversité.

    Discours repris par des auteurs qui se réclament de la gauche

    Deux « identités pures » qui s’affrontent : malgré l’absurdité de cette thèse, nous avons ici « la » nouvelle idéologie « identitariste » française, soft ou hard, qui parcourt les médias et presque tout le spectre politique, du Front national à l’UMP, jusqu’à quelques experts étiquetés à gauche. Cette gangrène est surtout colportée par des journalistes, écrivains et personnages publics comme Eric Zemmour, #Renaud_Camus, sans compter les excès d’Alain Finkielkraut. Et c’est avec complaisance et avec une grande irresponsabilité qu’un nombre toujours plus important de médias, pour qui la peur fait vendre, diffuse cette idée.

    Or, le « #différentialisme » a été modernisé dans les années 1970, notamment par le Groupement de recherche et d’études pour la civilisation européenne (Grece) et le Club de l’Horloge, deux clubs qui ont cherché à renouveler le discours de l’extrême droite : passant d’une logique raciale – désormais devenue inaudible depuis les abominations de la seconde guerre mondiale – à une logique culturelle, l’idée a germé que chaque peuple doit défendre la pureté de « sa culture » face aux autres – et en particulier l’islam, présenté comme le nouvel ennemi – dans un monde globalisé et traversé par des flux migratoires nombreux.

    Cette théorie d’un « choc des cultures » a été adoptée par le Front national. Elle a ensuite fait tache d’huile quand Nicolas Sarkozy a instauré un ministère de l’identité nationale, alors entouré d’éminences grises venant de l’extrême droite : discours de Dakar sur les Africains non entrés dans l’histoire, discours de Grenoble sur les Roms comme menace, inégalité des civilisations pour Claude Guéant.

    Ces thèmes furent appuyés par l’aile droite de l’UMP, de la « Droite populaire » à Jean-François Copé et son célèbre pain au chocolat. Mais un tel discours, dont les présupposés sont ceux de l’extrême droite, a aussi été repris, certes édulcoré, par des auteurs qui se réclament de la gauche.

    Le géographe #Christophe_Guilluy, dans des publications sur la France périurbaine, et le politiste #Laurent_Bouvet, ancien animateur de la « Gauche populaire », dans un essai récent, truffé de biais sélectifs et partisans, promeuvent les notions de « crise identitaire » et d’« insécurité culturelle » qui frapperaient des autochtones touchés par le sentiment d’être minoritaires dans une société multiculturelle. Les méthodes de ces deux auteurs sont largement contestées au sein de leurs disciplines respectives. Leurs analyses accentuent un brouillage idéologique qui ne peut profiter qu’aux nationaux-populistes.

    Vrais malaises

    Crise identitaire ? Insécurité culturelle ? Mais comment arrivons-nous à de telles inepties ? Faut-il rappeler, a minima, que les Français musulmans ne sont ni plus ni moins français que les autres ? Pour commencer à tirer les leçons de l’attentat abject contre Charlie Hebdo et des prises d’otages subséquentes, la réflexion devrait d’abord porter sur deux thèmes, que le discours identitaire vise à occulter.

    En effet, on ne peut pas rendre compte du phénomène djihadiste sans tenir compte du rôle joué par les puissances occidentales dans la géopolitique du monde arabe, hier et aujourd’hui. On ne peut pas ignorer non plus que, en raison des politiques menées depuis une trentaine d’années, des pans entiers de la population française sont relégués économiquement et socialement, ce qui met structurellement des recrues à disposition pour le djihad – ce phénomène étant probablement accrû par la crise économique et sociale massive qui frappe le pays depuis plusieurs années.

    Les vrais malaises sont là, exacerbés par l’horreur des attentats, mais aussi attisés par ceux qui en appellent à l’affrontement entre des « communautés » illusoires : d’un côté des différentialistes opposant l’islam aux « vrais Français », de l’autre des antisémites, tels Dieudonné et Alain Soral, voyant « les juifs » à l’origine d’un complot mondial. Notons enfin que les trois assassins djihadistes sont allés à l’école en France : et si le gouvernement entendait les propositions des enseignants sur les projets d’une véritable formation dans laquelle la diversité des références culturelles, historiques et politiques pourrait se retrouver ?

    Dans le marasme actuel, il faut certes saluer les mobilisations toutes récentes, qui indiquent l’attachement d’un grand nombre de Français(es) à un combat séculaire sans cesse renouvelé pour la liberté depuis plus de deux siècles. Il reste toutefois urgent de tordre le cou au stéréotype du « malaise identitaire », encore bien trop présent dans les esprits.

    Signataires : Sylvain Bourmeau, journaliste et sociologue ; Martial Cavatz, historien ; Christophe Charle, historien ; Laurence de Cock, historienne ; Arlette Farge, historienne ; Laura-Maï Gaveriaux, philosophe ; Klaus-Gerd Giesen, politologue et philosophe ; Roland Gori, psychanalyste ; Régis Meyran, anthropologue ; Laurent Mucchielli, sociologue ; Gérard Noiriel, historien ; Nicolas Offenstadt, historien ; Alain Policar, sociologue ; Valéry Rasplus, sociologue ; Michèle Riot-Sarcey, historienne ; Nicolas Roméas, directeur de publication ; Frédéric Sawicki, politiste ; Dominique Kalifa, historien ; Frédéric Régent, historien ; Valérie de Saint-Do, journaliste ; Julien Théry, historien ; Louis-Georges Tin, maître de conférences en lettres.

  • Les fossoyeurs de l’antiracisme

    "A la fin des années ’70, une victoire majeure a été obtenue sur le champ des idées. Elle n’a pas été saluée à sa juste valeur. Comme le monde est oublieux. Elle concerne le racisme et son invention. Et c’est à la Nouvelle Droite (et tout particulièrement au GRECE) qu’on la doit.

    Une Nouvelle Droite allée à l’Ecole de Lévi-Strauss. Une victoire lourde de sens et de conséquence. Mais en quoi consistait-elle ? En une « transmutation » et en un art consommé du détournement et de l’inversion. Alain de Benoist et ses amis avaient réalisé un coup de maître en remplaçant habilement le racisme biologique et inégalitaire (grevé par l’aventure génocidaire nazie) par un racisme culturel et se voulant non-hiérarchique (appelé aussi racisme différentialiste ou racisme sans race).

    Cela nécessitait pour ce faire de s’accaparer et de retourner deux notions clé : le « droit à la différence » et le « relativisme culturel ». Notions qui, malgré leur ambiguïté, avaient été à l’origine des conquêtes remportées de haute lutte sur le discours de la « mission civilisatrice » du temps béni des colonies. Et cette trouvaille avait de l’avenir. Puisqu’elle devint la doxa d’aujourd’hui.

    Le génie de la démarche, à l’évidente ironie, résidait dans le fait qu’elle singeait au plus près l’antiracisme (traditionnel) qui se voulait une réponse au racisme biologique. Et par un jeu de renversement et de symétrie, elle y instalait la confusion.
    Depuis Lévi-Strauss, on distingue un racisme de type universaliste, fondé sur un déni d’identité, et un (néo)racisme de type différentialiste, fondé sur un déni d’humanité ; le premier est dit « hétérophobe » tandis que le second est défini comme « hétérophile »(1).

    L’ironie pouvait se poursuivre, puisque la réplique qu’on trouva à ce nouveau racisme différentialiste n’était autre que l’universalisme, dans sa version nationale républicaine. C’est-à-dire l’autre forme de racisme, celui par le déni d’identité.
    Trois ouvrages ont ponctué et popularisé les « moments » clé de ce passage paradoxal. « La force du préjugé. Essai sur le racisme et ses doubles. » de Pierre-André Taguieff (le péri-situationniste passé à l’ennemi et aficionado des notes de bas de page), « La défaite de la pensée » d’Alain Finkielkraut (le philosophe contrarié et mentor de Breivik) et enfin « La France de l’intégration. Sociologie de la nation en 1990. » de Dominique Schnapper (la fille à papa qui continue la boutique).

    Trois Moments qu’on peut résumer par trois formules lapidaires : 1. la crise de l’antiracisme (Taguieff) , 2. l’antiracisme est un racisme (Finkielkraut) et 3. le salut par la République universelle (Schnapper etc.). "

    http://bougnoulosophe.blogspot.be/2011/10/les-fossoyeurs-de-lantiracisme.html

    Un exemple : http://www.polemia.com/antiracisme-identitaire-versus-antiracisme-egalitaire

  • La Gauche, le #communautarisme et le #différentialisme | Fragments sur les Temps Présents
    http://tempspresents.wordpress.com/2012/06/29/stephane-francois-gauche-communautarisme-differentialisme

    Les rapports entre la gauche et le communautarisme n’est pas une affaire récente, comme beaucoup de personnes le croit aujourd’hui. Bien au contraire. Nous distinguerons dans ce texte deux grands moments : la fin du XIXe siècle et les années post Mai 68. Ce type de discours est en fait symptomatique des thèses développées par une frange de la gauche, voire de la gauche de la gauche, qui souhaite copier les évolutions idéologiques théorisées par la Nouvelle Gauche américaine. Cette dernière en effet incarnait l’aile la plus radicale du progressisme américain. Toutefois, aux cours des années, le progressisme fut abandonné au profit d’un éloge du communautarisme et de la différence, voire d’une condamnation de l’idéologie du « Même », entrant ainsi en résonance avec une droite radicale européenne.

    • Mouais... je vois pas trop où il veut en venir, et pourtant l’article n’est pas long. Genre l’éternel « les extrêmes se rejoignent, ils ont les mêmes thèmes », etc. Ben oui, quand on critique la même société (la société libérale dans laquelle nous vivons là) ben forcément on tombe sur les mêmes thèmes. Ça ne veut pas pour autant dire qu’on promeut le même type de société.