• [Plein la tête pour pas un rond] Fatima Ouassak
    https://www.radiopanik.org/emissions/plein-la-tete-pour-pas-un-rond/fatima-ouassak

    Politologue et activiste, Fatima Ouassak a formulé dans son premier ouvrage (La puissance des mères. Pour un nouveau sujet révolutionnaire, 2020) et avec l’ouverture de la maison Verdragon à Bagnolet, une proposition politique écologiste à partir d’un point de vue apparemment minoritaire et périphérique : celui des mères des quartiers populaires comme sujets politiques.

    Avec son nouvel ouvrage, Pour une #écologie pirate, elle revient plus spécifiquement sur l’instrumentalisation de l’écologie contre les habitants des quartiers populaires, et sur les obstacles politiques et symboliques à renverser pour qu’émergent d’autres trajectoires écologiques, menées à partir de ces territoires.

    Les mondes de nos ancêtres se sont déjà effondrés. Et pourtant nous sommes là, nous rions avec nos enfants. Nous résistons (...)

    #quartier_populaire #justice #migation #justice_environnementale #écologie_populaire #écologie,quartier_populaire,justice,migation,justice_environnementale,écologie_populaire
    https://www.radiopanik.org/media/sounds/plein-la-tete-pour-pas-un-rond/fatima-ouassak_15683__1.mp3

  • La prima analisi globale dell’attivismo delle donne contro l’industria estrattiva

    Una ricerca ha esaminato 104 conflitti estrattivi registrati nell’Atlante della giustizia ambientale con l’obiettivo di identificare nel contesto globale i punti in comune e le differenze della presenza femminile nelle lotte. Dal Perù al Guatemala, dall’India al Sudafrica. Non solo duri impatti ma anche nuove pratiche di resistenza

    Nei conflitti contro progetti estrattivi di materie prime, le donne non sono solo vittime ma prendono parte in maniera attiva alle azioni di protesta, opposizione e denuncia delle conseguenze ambientali e sanitarie di questi progetti. Assumendo un ruolo predominante nell’opposizione all’industria estrattiva, le donne stanno rimodellando le pratiche esistenti, creando nuove possibilità di lotta che rifiutano l’imposizione della cultura dominante e di un’unica narrazione del progresso.

    Una recente pubblicazione, apparsa sulla rivista Journal of Political Ecology, ha analizzato 104 conflitti estrattivi registrati nell’Atlante della giustizia ambientale (Environmental Justice Atlas – EJA) con l’obiettivo di identificare nel contesto globale i punti in comune e le differenze della presenza femminile nelle lotte per la giustizia ambientale. Si tratta della prima analisi globale dell’attivismo delle donne contro l’industria estrattiva. I ricercatori hanno incluso nell’analisi progetti di estrazione di materie prime come oro, argento, rame, ferro, alluminio, piombo, metalli rari per la produzione di prodotti tecnologici, petrolio, ma anche diamanti e miniere di carbone. La mappatura dei conflitti comprende zone da tutto il mondo, in tutti e cinque i continenti.

    L’Atlante è il più grande inventario esistente di conflitti socio-ambientali, con oltre 3.800 casi segnalati a marzo 2023. Circa il 23% di questi (896 casi) identifica le donne come attori importanti nelle proteste. È il risultato di un lavoro collaborativo da parte di accademici, singoli attivisti e organizzazioni che contribuiscono con approfondimenti per ciascun caso. Alle informazioni dell’Atlante i ricercatori hanno aggiunto, quando disponibili, quelle contenute in testi accademici pubblicati su riviste specialistiche, rapporti istituzionali e altre pubblicazioni di organizzazioni internazionali e locali coinvolte. I conflitti legati all’attività estrattiva possono verificarsi come conseguenza degli impatti socio-ambientali sulla terra, sull’acqua e sui mezzi di sussistenza, come reazione all’esclusione delle donne ai processi decisionali e quindi come proteste contro gli ostacoli all’autodeterminazione femminile, oppure a causa di compensazioni giudicate insufficienti.

    I risultati dell’analisi mostrano che le attività estrattive producono sulle donne quattro tipi di impatti diversi: sulla loro salute e sul lavoro di cura che svolgono; sulle attività legate al sostentamento e al reddito; producono inoltre maggiore violenza nei loro confronti e influenzano le relazioni sociali all’interno delle comunità locali. Le quattro categorie di impatti non si escludono a vicenda, ma possono intrecciarsi tra loro. Di tutti i casi analizzati, il 67% indica conseguenze negative visibili o potenziali che riguardano specificamente le donne.

    In molte comunità rurali, infatti, i compiti quotidiani delle donne sono determinati dalla divisione di genere del lavoro. Occupandosi della produzione di cibo e della gestione dell’acqua, le donne sono particolarmente consapevoli degli impatti che le industrie estrattive hanno sul territorio e sull’ambiente, e sono spesso le prime a denunciarne le conseguenze negative. Le conseguenze sulla salute si devono principalmente alle fonti d’acqua contaminate con cui entrano in contatto che determinano malattie della pelle, problemi legati alla salute riproduttiva come perdita di fertilità e malformazioni durante la gravidanza, problemi respiratori dovuti all’inquinamento da polveri fino allo sviluppo di cancro. Impatti dello stesso tipo possono manifestarsi anche sulla salute di figli e di altri componenti della famiglia, aumentando così il carico del lavoro di cura svolto esclusivamente dalle donne.

    L’occupazione dei terreni coltivabili da parte delle industrie riduce inoltre l’accesso alle risorse, fonti tradizionali di reddito per loro. In questo modo la sicurezza economica delle donne diminuisce, mentre aumenta la dipendenza economica dal lavoro salariato degli uomini, alcuni dei quali lavorano proprio nei luoghi di estrazione.

    Attraverso questi meccanismi, la presenza delle industrie estrattive rafforza le dinamiche patriarcali esistenti nei territori, accrescendo il privilegio maschile e rafforzando il dominio degli uomini. Una condizione che porta le donne a perdere lo status economico, sociale e culturale e a subire anche diverse forme di violenza. Sono minacciate fisicamente, uccise per la loro opposizione all’attività mineraria o sopravvissute a tentativi di assassinio. È il caso di Nasreen Hug che stava preparando una causa internazionale contro il progetto minerario di Phulbari in Bangladesh quando è stata assassinata. Diodora Hernández e Yolanda Oqueli sono entrambe sopravvissute a tentativi di omicidio per il loro attivismo contro i progetti Marlin e El Tambor in Guatemala. Inoltre, la violenza sessuale è usata sia da chi lavora nelle compagnie estrattive sia dalle forze di sicurezza.

    Eppure, dai dati raccolti dalla pubblicazione, emerge che le donne non subiscono passivamente, ma partecipano attivamente all’organizzazione dell’opposizione alle industrie. Il documento distingue otto diverse modalità di protesta: azioni dirette come blocchi stradali, proteste e scioperi; organizzazione di eventi pubblici, come mostre o esibizioni artistiche; vigilanza del territorio, anche per monitorare gli impatti ambientali; promozione di campagne di sensibilizzazione e informazione; avvio di procedimenti legali contro le aziende responsabili di inquinamento; creazione di spazi per lo svolgimenti di attività sociali e politiche; pressione politica nei confronti delle autorità locali, del governo e delle stesse industrie per sensibilizzare alla loro causa e per garantire norme ambientali più severe; gestione dei bisogni materiali, sanitari ed emotivi della comunità come la preparazione di cibo durante le azioni di protesta.

    La pubblicazione è ricca di esempi di donne che hanno lottato e continuano a lottare per la difesa dell’ambiente in cui vivono. Alcune attiviste si sono distinte per aver rifiutato di vendere la terra alle aziende e per aver resistito ai tentativi di esproprio, come nel caso dell’opposizione di Maxima Acuña alla compagnia Yanacocha, promotrice del progetto Conga per l’estrazione di oro e rame in Perù. In Guatemala, Estela Reyes ha bloccato da sola l’avanzata di un trattore, scatenando la resistenza alla miniera d’oro di El Tambor. Altre forme di resistenza comprendono le attività portate avanti da Mukta Jhodia, in India, che ha attraversato i villaggi del Kashipur per informare la popolazione dei potenziali effetti negativi che la miniera di Baphlimali avrebbe avuto sui terreni coltivabili, e quelle di Lorraine Kakaza che in Sudafrica ha lanciato una serie di podcast sui costi che l’estrazione del carbone avrebbe avuto sulla vita delle persone nella provincia di Mpumalanga. Alcune attiviste hanno anche deciso di proseguire il loro impegno entrando in politica: Francia Márquez, leader che si opponeva all’estrazione illegale di oro a La Toma, è stata eletta a giugno 2022 vicepresidente della Colombia.

    Le donne svolgono molto più che un semplice ruolo di supporto, ma la loro capacità di impegnarsi nell’opposizione alle attività estrattive è spesso ostacolata. Se devono far fronte a compiti quotidiani che richiedono tempo, come la produzione di cibo, le faccende domestiche e la cura dei figli, hanno meno tempo da dedicare alla protesta. A volte subiscono pressioni da parte di familiari e di componenti della comunità ad abbandonare l’attivismo. L’analisi, infatti, mostra che esistono relazioni patriarcali anche all’interno dei movimenti di resistenza, che contribuiscono a riprodurre la disuguaglianza di genere anche all’interno dei gruppi di protesta. Le donne devono così affrontare sia le compagnie estrattive sia i partner maschili all’interno della comunità che in alcuni casi organizzano azioni di boicottaggio nei confronti dell’attivismo femminile.

    La volontà di affermare la propria voce nei processi decisionali anche all’interno dei movimenti di opposizione, ha spinto molto spesso la formazione di gruppi di protesta formati da sole donne, alleati a livello locale e internazionale con altri movimenti. Per gli autori della pubblicazione, l’attivismo anti-estrattivista delle donne può contribuire a sfidare le tradizionali percezioni di genere all’interno delle comunità e a promuovere cambiamenti collettivi più ampi in alcuni contesti. È il lavoro, per esempio, portato avanti dalle afrocolombiane di La Toma, in Colombia, e dalle boliviane di Huanuni e Corocoro. Il loro attivismo sta recuperando pratiche ancestrali ripensandole attraverso nuove relazioni con il territorio e all’interno delle comunità, affermando la possibilità di una leadership anche femminile.

    https://altreconomia.it/la-prima-analisi-globale-dellattivismo-delle-donne-contro-lindustria-es

    #femmes #résistance #extractivisme #justice_environnementale

  • The miner and the neon fish: decolonizing Alpine ecologies
    https://denk-mal-denken.ch/wettbewerb-publikumspreis/denkmal/the-miner-and-the-neon-fish-decolonizing-alpine-ecologies

    This is the proposal that won the third price in the Competition (Wettbewerb) that was created in the aftermath of the contestation of monuments worldwide that had some link to colonialism, slavery and racism https://denk-mal-denken.ch.

    Rony Emmenegger und Stephan Hochleithner, who are both political geographers at the university of Basel won the third price in this competition for their proposals that calls attention to the non-human aspects of the guilding of the hydropower stations Oberhasli and its ecological costs. See: https://denk-mal-denken.ch/wettbewerb-publikumspreis/denkmal/the-miner-and-the-neon-fish-decolonizing-alpine-ecologies.

    #Suisse #hydro-power #décolonial #decolonial #monument

    • Next to a serpentine road, halfway up to Grimsel pass when approaching from the North, stands the miner (Der Mineur), silently splitting rock with his pneumatic hammer. The statue was erected to honor the construction workers of the hydropower stations Oberhasli, whose work has been shaping an Alpine landscape since the early twentieth century. At the top of Grimsel, catchment lakes, water dams, power stations, and power poles morph into a hydroelectric infrastructure, producing energy and carrying it down towards the lowland valleys. Honoring the work of those who brought that infrastructure into being appears indeed justified in light of their sacrifices on the altar of a capitalist mode of production. Throughout the last century, construction work at almost 2000 meters altitude has been particularly challenging for both humans and machines – a challenge «mastered» through a continuous advance of engineering and technology with success increasing over time.

      The sole focus on human achievements, however, obscures the ecological costs and consequences that the extraction of hydropower involves, especially for fish, aquatic organisms, rivers, but also Alpine ecologies more broadly. With our graphic installation – the miner and the neon fish – we aim at problematizing a human-centric historiography of progress that obscures the ecological consequences of hydropower production. We do so by evocatively placing a neon fish under the miner’s pneumatic hammer. It serves as a visual metaphor for the electro-optical connection between humans and the fish, and the latter’s electrostatic discharge in contact with the miner and his machine. And yet, the relation between humans and their environments is not that clear-cut when it comes to commemoration, as we will elaborate in the following.

      The use of hydropower, as a renewable energy source, has a long tradition in Switzerland. In the Grimsel region, the development of hydropower infrastructure intensified at large scale with a first mega dam project in 1925 – the Spitallamm dam. Construction work went on from 1925 to 1932 and resulted in the 114-meter-high dam – the world’s largest at the time. Since then, hydropower infrastructure has been gradually extended. Today, it connects 13 hydropower plants and eight storage lakes, producing between 2100 and 2300 gigawatt hours of electric energy annually.1 A further extension is currently in progress with the construction of a new dam replacing the existing Sptiallamm dam – because it cracked. The finalization of this new dam is scheduled for 2025 and it will then not only secure, but further increase the capacity of the hydroelectric infrastructure – in line with Switzerland’s Energy Strategy 2050 and the envisioned transition towards renewable energy sources after the nuclear phase-out.

      Currently, an exhibition at the UNESCO/KWO Visitors Center2 close to the dam provides visual and acoustic insights into the construction works back in the late 1920s and those ongoing at the new dam today.3 The exhibition includes an outline of the ongoing dam replacement project, compiles a series of engineering schemes, and posts statements of workers involved in the ongoing construction. These exhibition elements are placed in a broader historical context of construction work at the site: a number of selected historical photographs and a short 5-minutes video provide lively insights into the construction work back in the late 1920s. They show laborers at work and demonstrate the logistical network of technology and expertise that coordinated their doing. The exhibition can thus be read as an extension of the miner: it is constituted as a site for the glorification of a human history of progress that made the development of the hydroelectric infrastructure possible.

      However, the ongoing energy transition and the according «boom» (Zarfl et al. 2015) of hydropower raises questions about the potential ecological consequences of engineering, technology, and infrastructural extension (see also Ansar et al. 2014). The power plant operator in the Grimsel region highlights the «connectivity between humans, technology and nature»4, acknowledges the potential «tensions between electricity production and water protection»5 and calls for a responsible engagement with nature in its ongoing and planned projects. And yet, recent plans for the further extension of the hydroelectric infrastructure have still provoked controversies, with various associations still highlighting the negative ecological consequences of these plans.6

      So, who might best speak for fish and aquatic microorganisms in ongoing and planned construction projects? By placing the dying neon fish under the miner’s pneumatic hammer, we aim at problematizing the ecological costs, which infrastructural extension and energy production have been generating for almost a century. We do so by moving beyond a narrow focus on humans and by bringing into consideration an Alpine ecology as a «socialnature» (Braun & Castree 2001), which the extension of hydroelectric infrastructure has profoundly reassembled and turned into a «commodity frontier» (Moore 2000). Such a perspective reveals the extension of hydroelectric infrastructure as an integral part of capitalist expansion into an Alpine frontier, through which «nature» has been «tamed» and «commodified».

      The figure of the miner plays a key role in this colonializing process, as his stone-bare masculine appearance embodies the very believe of human, patriarchal control over nature, glorifying man/kind’s appropriation of water for energy production and legitimizing the future extension of the hydroelectric infrastructure. As such, it sets a metaphysical zero point for a human history of progress, through which the building and extension of hydroelectric infrastructure has been normalized.

      To disfigure the statue of the miner – by putting the neon fish under his hammer – appears justified and fruitful in light of the endeavor to decolonize Alpine ecologies from human domination. And yet, decolonizing ecologies along these lines must not distract from the laborers’ themselves, who had to invest whole parts of their lives into these construction works. In other words, calling for environmental justice must not come at costs of those who have themselves been instrumentalized within that very same narratives and processes of progress and capitalist production.

      However, the statue of the steeled male miner can hardly account for the workers’ bodies and lives: It rather does, in its humble working-class pose, facing down to focus on its work with the drill, embody the hierarchy of class relations. Despite or maybe because the miner embodies these ambiguities, it appears worthwhile to maintain its presence for having a debate. In our installation, we aim at doing so by keeping the fish unlit during the day and thus hardly visible to passers-by, to allow the statue of the miner to remind of the workers. Only by night will the fish then appear in neon light and turn into a dazzling reminder of the colonization of nature – and also of the multitude of meanings which the monument entangles.

      #écologie #écologie_politique #énergie #électricité #Oberhasli #barrages_hydro-électrique #Alpes #montagne #décolonisation #Grimsel #travailleurs #mémoire #poissons #Spitallamm #technologie #nature #eau #protection_de_l'eau #coût_écologique #justice_environnementale #progrès #mineur #statue

  • Les mobilisations environnementales à l’intersection des luttes voyageuses ? | Lise Foisneau
    https://www.revue-ballast.fr/les-mobilisations-environnementales-a-lintersection-des-luttes-voyageu

    Revenant sur six années d’enquête et de vie par­ta­gée avec les habi­tants des aires d’accueil de « gens du voyage », l’ethnologue Lise Foisneau ana­lyse les consé­quences de l’incendie de Lubrizol sur les luttes voya­geuses. Paradoxalement, les récentes batailles envi­ron­ne­men­tales ont jeté un voile d’ombre sup­plé­men­taire sur les mul­tiples atteintes aux droits fon­da­men­taux subies par les col­lec­tifs roma­ni et voya­geurs. Source : Ballast

  • On n’a pas signalé ces deux captations d’interventions d’Aude Vidal sur son livre sur Égologie, dont une très longue par @latelierpaysan ici présent !

    Aude VIDAL - ÉGOLOGIE : écologie, individualisme et course au bonheur
    https://www.youtube.com/watch?v=ouEdpD9w5x0

    L’Atelier paysan s’attaque à l’autonomie technique des paysan-nes en leur proposant une alternative concrète : les former à autoconstruire leur matériel agricole.
    Est-ce suffisant pour enrayer l’industrie de la machine, qui impose de remplacer les paysan- nes par des robots, des drones, des capteurs informatiques ?
    Quelles sont les conséquences de ces « solutions technologiques » pour les communautés paysannes, pour l’environnement, pour le modèle alimentaire ?

    Aude Vidal nous parle ici des « alternatives », dans la suite de son ouvrage Egologie : les
    expérimentations écologistes sont-elles le laboratoire d’innovations sociales plus
    respectueuses de l’être humain et de son milieu ? ou accompagnent-elle un recul sur soi et ce sur quoi il est encore possible d’avoir prise dans un contexte de dépossession démocratique et économique ?

    Une belle manière pour l’Atelier paysan de questionner la limite des alternatives : l’expansion de pratiques alternatives peut-elle provoquer de la transformation sociale ? Les pratiques sociales parviennent-elles à infléchir les rapports sociaux ?
    A l’Atelier paysan, dont l’activité centrale est de proposer des alternatives concrètes et immédiates aux paysannes et paysans, nous pensons que non. Nous avons l’intuition qu’il nous faut dans le même temps tenter d’exercer un rapport de force avec les dominants (pour nous l’industrie de la machine et la techno-science).

    Et une autre plus récente :
    https://www.youtube.com/watch?v=lxqPsK2mkAY

    #Aude_Vidal #écologie #politique #écologie_politique #individualisme #libéralisme #bien-être #développement_personnel

    • Égologie. Écologie, individualisme et course au bonheur

      #Développement_personnel, habitats groupés, jardins partagés... : face au désastre capitaliste, l’écologie se présente comme une réponse globale et positive, un changement de rapport au monde appuyé par des gestes au quotidien. Comme dans la fable du colibri, « chacun fait sa part ».
      Mais en considérant la société comme un agrégat d’individus, et le changement social comme une somme de gestes individuels, cette vision de l’écologie ne succombe-t-elle pas à la logique libérale dominante, signant le triomphe de l’individualisme ?

      http://www.lemondealenvers.lautre.net/livres/egologie.html

      #livre

      #souveraineté_alimentaire #liberté_individuelle #alternatives #Nicolas_Marquis #capitalisme #jardins_partagés #classes_sociales #jardinage #justice_environnementale #dépolitisation #égologie

    • Du bien-être au marché du malaise. La société du développement personnel

      Des ouvrages qui prétendent nous aider dans notre développement personnel, à « être nous-mêmes » ou à « bien communiquer », et des individus qui déclarent que ces lectures ont « changé leur vie » : voilà la source de l’étonnement dont ce livre est le résultat. Comment comprendre ce phénomène ? Comment est-il possible que tant de personnes puissent trouver du sens au monde si particulier du « développement personnel », au point d’en ressentir des effets concrets ?

      Nicolas Marquis prend au sérieux cette expérience de lecture, en cherchant à comprendre ce qui se passe très concrètement entre un lecteur qui veut que quelque chose change dans son existence et un ouvrage qui prétend l’aider en lui parlant de ce qu’il vit personnellement. En procédant à la première enquête sur les lecteurs, il montre en quoi le développement personnel est l’une des institutions les plus frappantes des sociétés individualistes : son succès permet de comprendre les façons dont nous donnons, au quotidien, du sens à notre existence.


      https://www.cairn.info/du-bien-etre-au-marche-du-malaise--9782130628262.htm

    • Le Syndrome du bien-être

      Vous êtes accro à la salle de sport ? Vous ne comptez plus les moutons mais vos calories pour vous endormir ? Vous vous sentez coupable de ne pas être suffisamment heureux, et ce malgré tous vos efforts ? Alors vous souffrez sûrement du #syndrome_du_bien-être. Tel est le diagnostic établi par Carl Cederström et André Spicer.
      Ils montrent dans ce livre comment la recherche du #bien-être_optimal, loin de produire les effets bénéfiques vantés tous azimuts, provoque un sentiment de #mal-être et participe du #repli_sur_soi. Ils analysent de multiples cas symptomatiques, comme ceux des fanatiques de la santé en quête du régime alimentaire idéal, des employés qui débutent leur journée par un footing ou par une séance de fitness, des adeptes du quantified self qui mesurent – gadgets et applis à l’appui – chacun de leurs faits et gestes, y compris les plus intimes... Dans ce monde inquiétant, la bonne santé devient un impératif moral, le désir de transformation de soi remplace la volonté de changement social, la culpabilisation des récalcitrants est un des grands axes des politiques publiques, et la pensée positive empêche tout véritable discours critique d’exister.
      Résolument à contre-courant, ce livre démonte avec une grande lucidité les fondements du culte du corps et de cette quête désespérée du bien-être et de la santé parfaite.

      https://www.lechappee.org/collections/pour-en-finir-avec/le-syndrome-du-bien-etre

      #André_Spicer
      #Carl_Cederström

    • Rigolez, vous êtes exploité

      « Vous êtes éreinté ? Votre activité professionnelle vous plonge dans la #dépression ? Vous songez à mettre fin à vos jours ? Nous avons la solution : ri-go-lez ! » Voilà en substance le message de la direction des #ressources_humaines (DRH) du centre hospitalier universitaire (CHU) de Toulouse au personnel de l’établissement. La solution arrive à point nommé, car la situation menaçait de devenir dramatique…

      Un peu comme France Télécom hier ou la Société nationale des chemins de fer français (SNCF) aujourd’hui, le #CHU toulousain est confronté à une recrudescence de #suicides de salariés. Le rapport d’un cabinet de conseil établi en 2016 est formel : les quatre personnes ayant mis fin à leurs jours en quelques semaines la même année (dont une dans les locaux du CHU) l’ont fait à cause de leurs #conditions_de_travail. L’année suivante, dans un des 26 000 documents internes révélés par la presse (1), une infirmière en gynécologie décrit ainsi son quotidien : « Mise en danger de la vie des patientes, mauvaise prise en charge de la douleur, dégradation de l’image des patientes (patientes laissées plusieurs minutes souillées de vomis) (…) mauvaise prise en charge psychologique (annonce de cancer faite récemment, pas le temps de discuter). (…) Une équipe épuisée physiquement (même pas cinq minutes de pause entre 13 h 30 et 23 heures) et moralement (sentiment de travail mal fait et de mettre en danger la vie des patients). »

      Les choses n’ont guère progressé depuis. En février 2019, un patient meurt d’une crise cardiaque dans le sas des urgences. L’infirmier de garde cette nuit-là, en poste depuis 10 heures du matin, avait la charge de plus de quinze patients. Il n’a pas eu le temps de faire les gestes de premiers secours (2). Début mai 2019, rebelote au service de soins intensifs digestifs, en pleine restructuration, où un problème informatique a mené à la mort d’un patient.

      Depuis 2015, une soixantaine de préavis de grève ont été envoyés à la direction par les syndicats. Au moins quatorze grèves ont eu lieu (cinq rien qu’en 2019), sans compter les quelque vingt mobilisations collectives, la douzaine d’actions d’envergure et les chorégraphies parodiques de soignants vues six millions de fois sur les réseaux sociaux. « À l’hôpital des enfants, le nombre d’arrêts-maladie des quatre premiers mois de 2019 est de 20 % supérieur à celui de la même période en 2018, nous explique Mme Sandra C., vingt ans d’hôpital public à son actif, dont dix-sept à l’hôpital des enfants de Toulouse. Nous avons l’impression d’être traités comme des numéros par une direction dont le seul but est de faire appliquer les réductions de coûts et la baisse du personnel. Nous avons besoin d’au moins six cents embauches dans tout le CHU, et vite. »

      Embaucher ? Impossible !, rétorque la direction, largement convertie au lean management, le « management sans gras », une doctrine d’optimisation du rendement élaborée par les ingénieurs japonais du groupe Toyota après la seconde guerre mondiale et peaufinée ensuite dans les éprouvettes néolibérales du Massachusetts Institute of Technology (MIT). L’objectif ? Faire produire plus avec moins de gens, quitte à pousser les équipes à bout.

      Des conditions de travail déplorables, des contraintes de rentabilité qui interdisent d’améliorer le sort du personnel, des salariés qui préfèrent mettre fin à leurs jours plutôt que d’endurer leur activité professionnelle ? Il fallait réagir. C’est chose faite grâce à une initiative de la DRH : des séances de rigologie, cette « approche globale permettant une harmonie entre le corps, l’esprit et les émotions », comme on peut le lire dans le « Plan d’actions 2018 pour la prévention des risques psychosociaux et la qualité de vie au travail » du pôle hôpital des enfants du CHU de Toulouse.

      Yoga du rire, méditation de pleine conscience, techniques variées de relaxation et de respiration, sophrologie ludique… la rigologie vise à « cultiver les sentiments positifs et sa joie de vivre ». Sur la page d’accueil du site de l’École internationale du rire (« Bonheur, joie de vivre, créativité »), l’internaute tombe sur la photographie d’un groupe de salariés hilares faisant le symbole de la victoire. S’ils sont heureux, suggère l’image, c’est qu’ils ont tous décroché leur diplôme de « rigologue » à la suite d’une formation de sept jours en psychologie positive, yoga du rire et autres techniques de « libération des émotions », facturée 1 400 euros. Un rigologue estampillé École du rire, le leader du marché, se fera rémunérer entre 1 000 et 3 000 euros la journée. Il pourra éventuellement devenir chief happiness officer, ces responsables du service bonheur dont les entreprises du CAC 40 raffolent (3).

      La souffrance au travail est devenue un marché, et le service public apparaît comme un nouveau terrain de jeu du développement personnel. Ainsi des policiers confrontés à une vague de suicides (vingt-huit en 2019), auxquels le directeur général de la police nationale a envoyé, fin mai, une circulaire incitant les encadrants à favoriser « les moments de convivialité et de partage » comme les barbecues, les sorties sportives ou les pique-niques en famille (4). Ainsi des agents de la SNCF, une entreprise qui compte depuis le début de l’année 2019 un suicide de salarié par semaine. La direction lilloise de la société ferroviaire en pleine restructuration a fait appel au cabinet Great Place to Work (« super endroit pour travailler »), qui lui a conseillé de… distribuer des bonbons aux agents en souffrance, de mettre en place des goûters-surprises ou encore des ateliers de maquillage (5).

      « Au départ, nous explique Mme Corinne Cosseron, directrice de l’École internationale du rire et importatrice du concept de rigologie en France, je me suis formée pour plaisanter, comme un gag, au yoga du rire, une technique mise au point par un médecin indien, qui s’est rendu compte que ses patients joyeux guérissaient mieux que les sinistres. Le rire permet de libérer des hormones euphorisantes qui luttent contre la douleur », explique cette ancienne psychanalyste qui évoque les endorphines (« un antidouleur naturel qui agit comme une morphine naturelle »), la sérotonine (« la molécule du bonheur »), la dopamine (celle de la motivation) ou encore l’ocytocine (« l’hormone de l’amour »). « C’est un grand shoot gratuit. Beaucoup de grandes entreprises ont commencé à faire appel à nous (SNCF, Total, Suez, Royal Canin, Danone, etc.), car le rire répare point par point tout ce que les effets du stress détruisent. Non seulement le salarié va aller mieux (il ne va pas se suicider, il n’ira pas voir chez le concurrent), mais, en plus, l’entreprise va gagner en productivité. Donc c’est du gagnant-gagnant. »

      Novateur, le CHU de Toulouse a vu se mettre en place des séances de « libération émotionnelle » et de « lâcher-prise » dans le service des soins palliatifs dès 2017. Dans le cadre de ses propositions d’actions 2018-2019 pour prévenir les risques psychosociaux et pour la qualité de vie au travail, la DRH propose désormais d’élargir son offre à d’autres unités sous tension, comme l’hôpital des enfants, où, au mois de mars dernier, deux grèves ont éclaté pour protester contre le projet de réduction du nombre de lits et d’intensification du travail des soignants.

      On soumet ce projet de lâcher-prise à M. Florent Fabre, 31 ans, infirmier au service des urgences psychiatriques. Sa première réaction est de laisser éclater un long rire, générant probablement un apport non négligeable en bêta-endorphines — ce qui lui permet de dire avec une voix parfaitement détendue : « C’est grotesque et indécent. » Pour ce soignant, qui a participé à la lutte victorieuse des salariés de son service, lesquels ont arraché deux postes supplémentaires d’infirmier à l’issue de deux mois de grève durant le printemps 2019, « le niveau du mépris social affiché par la direction du CHU ainsi que par les cadres régionaux de l’agence régionale de santé est totalement aberrant. Dès lors qu’il s’agit d’entendre qu’il y a un vrai manque de soignants, le dialogue se rompt. La santé des agents hospitaliers est le moindre de leurs soucis ». Contactée, la direction du CHU a refusé de répondre à cet appel à embaucher, qu’elle qualifie de « théories de la CGT [Confédération générale du travail] ». « On assume totalement ce document de proposition de rigologie », nous a précisé le directeur de la communication avant de nous raccrocher au nez. On ne rigole plus.

      « Mais, s’agace Mme Maguy Mettais, la pharmacienne chargée de la prévention des risques psychosociaux, avez-vous déjà testé la rigologie ? Ça serait peut-être intéressant que vous essayiez une séance, non ? C’est génial, vous verrez. » Adeptes du journalisme total, nous acceptons la proposition. « Alors, vous mettez les mains droit devant vous et vous expirez en faisant “chah” ! On le fait ensemble ? C’est parti ! Après on met les bras sur le côté et on fait “chou” ! Et un dernier, les bras levés vers le ciel et on va faire un grand “chiii” sur le temps d’expiration. » Docile, nous nous exécutons, pour la bonne cause. « Au final, ce qui est rigolo, c’est que ça fait chah-chou-chi… Comme si ça faisait “salsifis” [elle éclate de rire]. Voilà, j’avais envie de vous le faire découvrir, ça peut être bien avant d’écrire votre article. »

      https://www.monde-diplomatique.fr/2019/07/BRYGO/60014

      #rire #thérapie_du_rire

      –—

      Pour rappel, les #formations dédiées au personnel de l’#Université_Grenoble_Alpes :
      1. Gestion de #conflits (formation mise sous le thème « #efficacité_professionnelle »)
      2. Mieux vivre ses #émotions dans ses #relations_professionnelles (aussi mise sous le même thème : #efficacité_professionnelle)
      https://seenthis.net/messages/882135

      #QVT #qualité_de_vie_au_travail

    • La démocratie aux champs. Du jardin d’Éden aux jardins partagés, comment l’agriculture cultive les valeurs

      On a l’habitude de penser que la démocratie moderne vient des Lumières, de l’usine, du commerce, de la ville. Opposé au citadin et même au citoyen, le paysan serait au mieux primitif et proche de la nature, au pire arriéré et réactionnaire.
      À l’opposé de cette vision, ce livre examine ce qui, dans les relations entre les cultivateurs et la terre cultivée, favorise l’essor des valeurs démocratiques et la formation de la citoyenneté. Défi le alors sous nos yeux un cortège étonnant d’expériences agricoles, les unes antiques, les autres actuelles ; du jardin d’Éden qu’Adam doit « cultiver » et aussi « garder » à la « petite république » que fut la ferme pour Jefferson ; des chambrées et foyers médiévaux au lopin de terre russe ; du jardin ouvrier au jardin thérapeutique ; des « guérillas vertes » aux jardins partagés australiens.
      Cultiver la terre n’est pas un travail comme un autre. Ce n’est pas suer, souffrir ni arracher, arraisonner. C’est dialoguer, être attentif, prendre une initiative et écouter la réponse, anticiper, sachant qu’on ne peut calculer à coup sûr, et aussi participer, apprendre des autres, coopérer, partager. L’agriculture peut donc, sous certaines conditions, représenter une puissance de changement considérable et un véritable espoir pour l’écologie démocratique.

      https://www.editionsladecouverte.fr/la_democratie_aux_champs-9782359251012démocratiques

    • La #durabilité en pratique(s) : gestion et appropriation des #principes_durabilistes véhiculés par les #écoquartiers

      Dans cette contribution, il est question de la durabilité comme objet, dans sa dimension heuristique, en tant que moyen de compréhension voire d’explication des initiatives individuelles, collectives et politiques ainsi que des dynamiques. Il s’agit tout d’abord de se pencher sur la manière dont la durabilité est mobilisée et signifiée, aussi bien sur l’horizon du pensable qui l’accompagne que sur les « manières de faire » qu’elle véhicule, parmi des acteurs divers, pris dans des jeux d’échelles, d’intérêts et dans des engagements parfois contradictoires. Politiquement, la mise en œuvre de la durabilité se décline dans des contextes, pour des raisons et à des finalités diverses que peuvent être la transformation des comportements individuels, la modification de la législation et des cadres réglementaires nationaux et locaux, la redéfinition des stratégies communautaires, etc. Entre pratiques, éthique, fiscalité individuelle d’un côté et enjeux techniques, politiques et sociétaux de l’autre, ces multiples mobilisations de la durabilité rendent cette notion évasive, voire équivoque. Au-delà d’un recensement et d’une classification de cette multiplicité d’usage et de traduction « en pratiques » de la durabilité, c’est sur la base des multiples tensions qui caractérisent ces manières de voir, comprendre, mobiliser et opérationnaliser la durabilité que nous cherchons à venir éclairer les pratiques leurs implications mais aussi leurs conséquences. Pour ce faire nous nous appuyons sur les 37 entretiens (15 avec les concepteurs, 22 avec les habitants) réalisés lors d’une enquête menée en 2012 et 2013 sur l’écoquartier de Lyon Confluence dans le cadre de la thèse de doctorat de Matthieu Adam. Nous analysons les discours portant sur la durabilité. Ceux-ci ont toujours une portée normative et performative mais peuvent aussi être considérés en tant qu’embrayeur de sens permettant de saisir les modalités de réactions, passives (acceptation) et/ou actives (refus, adaptation, contre-proposition, etc.) face à cette quête de durabilité. En analysant les pratiques, les manières d’être, les attitudes ainsi que les représentations d’une part liées à l’injonction de durabilité et d’autre part à sa mise en pratique, nous mettrons au débat des éléments portant tant sur les décalages entre intentions et actions que sur les moyens utilisés pour tenter de les lever. De plus, en changeant de focale, l’analyse fine des discours permet de tirer des enseignements sur le développement durable en tant que valeur et idéologie dominante du projet urbain mais aussi en tant que modalités pratiques quotidiennes.

      https://books.openedition.org/cse/124

      #Georges-Henry_Laffont #Matthieu_Adam

  • Les mouvements pour la justice environnementale face aux violences en #Inde
    https://www.cetri.be/Les-mouvements-pour-la-justice

    Défendre la terre et ses ressources expose à la violence en Inde. Si la répression physique à l’égard des militants est particulièrement visible et brutale, elle n’est pas la seule forme de violence. Les conflits socio-environnementaux, en hausse, révèlent une double réalité : celle d’une « distribution écologique » inégale et celle de résistances – acharnées et pacifiques – de la part de mouvements sociaux pour « la justice environnementale (...) #Alternatives_Sud_-_extraits

    / #Environnement, Inde, #Ecologie, #Contestation, #Extractivisme

  • Environmental Justice : Key Issues - 1st Edition - Brendan Coolsaet -

    https://www.routledge.com/Environmental-Justice-Key-Issues/Coolsaet/p/book/9780367139933

    The rapidly growing body of research in this area has brought about a proliferation of approaches; as such, the breadth and depth of the field can sometimes be a barrier for aspiring environmental justice students and scholars. This book therefore is unique for its accessible style and innovative approach to exploring environmental justice. Written by leading international experts from a variety of professional, geographic, ethnic, and disciplinary backgrounds, its chapters combine authoritative commentary with real-life cases. Organised into four parts—approaches, issues, actors and future directions—the chapters help the reader to understand the foundations of the field, including the principal concepts, debates, and historical milestones. This volume also features sections with learning outcomes, follow-up questions, references for further reading and vivid photographs to make it a useful teaching and learning tool.

    Environmental Justice: Key Issues is the ideal toolkit for junior researchers, graduate students, upper-level undergraduates, and anyone in need of a comprehensive introductory textbook on environmental justice.

    #justice_environnementale

  • As Long as Grass Grows| Penguin Random House Higher Education
    https://www.penguinrandomhouse.com/books/567167/as-long-as-grass-grows-by-dina-gilio-whitaker/9780807028360
    https://images.randomhouse.com/cover/9780807028360

    The story of Native peoples’ resistance to environmental injustice and land incursions, and a call for environmentalists to learn from the Indigenous community’s rich history of activism
    The story of Native peoples’ resistance to environmental injustice and land incursions, and a call for environmentalists to learn from the Indigenous community’s rich history of activism

    Through the unique lens of “Indigenized environmental justice,” Indigenous researcher and activist Dina Gilio-Whitaker explores the fraught history of treaty violations, struggles for food and water security, and protection of sacred sites, while highlighting the important leadership of Indigenous women in this centuries-long struggle. As Long As Grass Grows gives readers an accessible history of Indigenous resistance to government and corporate incursions on their lands and offers new approaches to environmental justice activism and policy.

    #écologie #territoire #justice_environnementale # indigènes

  • Migrazioni climatiche (prima parte)

    Un’analisi dei flussi migratori causati dai cambiamenti climatici, che superano quelli dovuti agli eventi bellici. Le normative sovranazionali non hanno ancora recepito il problema che pertanto genera clandestinità.
    Il genere umano, sin dall’epoca preistorica, è sempre stato interessato da spostamenti, su scala più o meno ampia, generati da una vasta gamma di motivazioni, fra le quali principalmente: la ricerca di nuove terre, l’aspirazione verso migliori condizioni di vita, l’espansione coloniale, la fuga da guerre, persecuzioni e discriminazioni varie ed anche da fenomeni naturali avversi quali catastrofi e cambiamenti climatici. Numerosi sono i casi storici di movimenti di interi popoli o di parte di essi sospinti da fenomeni naturali, in quanto le migrazioni hanno da sempre rappresentato una fondamentale strategia di adattamento ai mutamenti climatico-ambientali. Nonostante ciò, l’élite politica mondiale e i media internazionali non hanno, sino a pochi anni fa, prestato particolare attenzione a questo fenomeno. La comunità scientifica mondiale, invece, dalla fine del scorso secolo ha mostrato crescente interesse sia verso lo studio dei cambiamenti climatici che delle sue conseguenze, come l’impatto sui flussi migratori.

    Le problematiche metodologiche

    L’analisi del fenomeno ha tuttavia evidenziato criticità di carattere metodologico a seguito della sua complessità e della sua eterogeneità, pertanto, nonostante le pubblicazioni accademiche abbiano registrato un sensibile incremento nell’ultimo ventennio (Amato 2019 [1]), la sua conoscenza risulta ancora frammentaria e non del tutto esaustiva. Le difficoltà di indagine riguardano aspetti di diversa natura legati, in primis, alla peculiarità del fenomeno migratorio che si può manifestare in ampia gamma di variabili riconducibili alla durata, temporanea o definitiva, alle cause, volontarie o forzate, e al raggio di spostamento, interne, internazionali o intercontinentali.

    Per quanto riguarda il rapporto tra fenomeni naturali e migrazioni, che in questo contesto ci proponiamo di indagare, i primi possono essere distinti, in base alla dinamica temporale in cui si manifestano, in eventi a «insorgenza lenta» come i cambiamenti climatico-ambientali (riscaldamento globale, desertificazione, innalzamento del livello dei mari, erosione dei suoli ecc.) e ad «insorgenza rapida» come uragani, tempeste, bombe d’acqua e inondazioni oltre alle calamità naturali (terremoti, tsunami ed eruzioni vulcaniche). La diversa natura e tipologia di fenomeno scatenante genera inevitabili riflessi sulle caratteristiche dei flussi migratori, infatti mentre i fenomeni ad «insorgenza lenta» spesso generano migrazioni volontarie mosse da motivi economici, le risposte ad eventi ad «insorgenza rapida» risultano invece prevalentemente involontarie e di breve durata.

    Nell’intento di effettuare una classificazione delle migrazioni riconducibili a soli fattori climatici e ambientali, escludendo quindi i fenomeni geofisici come terremoti e tsunami, una corrente di studiosi ha identificato 4 tipologie distinte, equamente ripartite fra processi progressivi ed eventi improvvisi: 1) perdita di territorio dovuto a innalzamento del livello del mare, 2) siccità e desertificazione, 3) disastri naturali come alluvioni, cicloni e tempeste e 4) conflitti per le scarse risorse che possono portare a tensioni e violenze.

    Opera abbastanza complessa si presenta quindi la l’individuazione, la quantificazione e la classificazione degli spostamenti generati da fenomeni naturali che, nella sostanza a causa della comune origine involontaria, vanno ad aggiungersi alle altre tipologie di migrazioni forzate, riconducibili a guerre, conflitti, persecuzioni personali e calamità naturali. Nonostante il riscaldamento globale, la cui origine antropica sia ormai ampiamente comprovata dalla comunità scientifica mondiale, e i conseguenti cambiamenti climatico-ambientali (siccità, desertificazione, piogge intense, inondazioni, innalzamento del livello dei mari ecc) siano alla base di un numero crescente di spostamenti di persone in tutte le aree del pianeta (Amato, 2019), è opportuno evidenziare come alle migrazioni climatiche non sia stata ancora attribuita una precisa definizione, sia in campo semantico che in quello giuridico.

    Elementi di criticità ad oggi restano oltre all’identificazione del fenomeno, anche la sua estensione territoriale, le cause e la terminologia da utilizzare per identificarlo. I soggetti interessati dal fenomeno vengono definiti indistintamente come: profughi ambientali, migranti ambientali, profughi climatici, rifugiati climatici o rifugiati ambientali. Quest’ultimo termine, che risulta il più utilizzato, non viene però adottato dalle Nazioni Unite in quanto lo status di rifugiato viene riconosciuto dal diritto internazionale (Convenzione di Ginevra sullo statuto dei rifugiati del 1951) ai perseguitati per motivi razziali, religiosi, politici e a chi in fuga da guerre ma non per cause climatiche o ambientali (Amato, 2019). Un vulnus nell’architettura normativa sovranazionale che rappresenta elemento di discriminazione e che necessita di essere colmato, appurato il consistente numero di persone costrette ad abbandonare le proprie case a seguito di fenomeni naturali avversi.

    Sullo sfondo dell’ambito metodologico, si staglia, in veste di problematica principale, la determinazione della causa che, sia nel caso di spostamenti interni che internazionali, si presenta non di rado in forma non univoca. Frequentemente sussistono infatti molteplici cause, spesso interagenti fra loro, riconducibili a fattori di natura sociale, economica, demografica, politica, bellica e ambientale che rendono difficile ricondurne l’origine ad una in particolare. Ad esempio risulta problematico identificare l’origine della migrazione, fra economica e climatica, nel caso in cui il surriscaldamento globale, comportando una riduzione delle rese agricole, spinge i piccoli produttori nella povertà estrema costringendoli ad abbandonare le proprie terre.

    L’origine del termine «migranti climatici» venne coniato nel 1976 dall’ambientalista statunitense Lester Brown, tuttavia, il «padre» della corrente di pensiero viene considerato l’ambientalista inglese, professore ad Oxford, Norman Myers il quale già alla metà degli anni ’90 affermava che a livello mondiale erano presenti circa 25 milioni di “rifugiati climatici” prevedendo che nel 2050 avrebbero raggiunto quota 200 milioni. L’espressione “rifugiato ambientale”, invece, venne utilizzato per la prima volta in un report delle Nazioni Unite del 1985 e, successivamente, inserita nel 1997 nel Glossario di Statistiche Ambientali in riferimento a “una persona sfollata per cause ambientali, in particolare degrado ambientale”.

    Tutt’oggi non è stata ancora trovata né una definizione condivisa, né il suo inquadramento giuridico a causa dell’inerzia politica, in quanto un accordo a livello intergovernativo che modifichi il diritto internazionale introducendo il riconoscimento dello status di «rifugiato ambientale o climatico», con il conseguente obbligo di non respingimento degli stessi alle frontiere, amplierebbe la platea delle persone da accogliere, aumentando le problematiche sociali e logistiche ed i costi per gli stati di arrivo. Pertanto, l’immobilismo della leadership politica internazionale, che peraltro non tiene in considerazione l’aggravarsi degli effetti della crisi climatico-ambientale sulle condizioni di vita delle persone, si concretizza nel fatto che i soggetti coinvolti, non avendo riconosciuto il loro status dal punto di vista giuridico e adeguata protezione internazionale, finiscono per ingrossare le file dell’immigrazione irregolare internazionale.

    Una panoramica globale

    Le emissioni antropogeniche di gas climalteranti, che già alla fine del 2018 avevano fatto salire la concentrazione di CO2 nell’atmosfera a 410 ppm (parti per milione), con aumento di circa 100 punti solo negli ultimi 60 anni (grafico 1), rappresentano la causa principale dell’aumento della temperatura media globale che, rispetto al periodo pre industriale, è aumentata di 1,1° con un’impennata nel quinquennio 2014-2019 di ben 0,2° a conferma dell’aggravamento del trend in atto.

    Il fenomeno, tuttavia, evidenzia elementi di complessità e di difformità geografica accertato che il riscaldamento globale, da un lato, non si presenta in forma omogenea nell’atmosfera terrestre, vista ad esempio la maggior intensità registrata alle alte latitudini (carta 1), dall’altro, innesca un ampio spettro di mutamenti climatici dai connotati locali talvolta molto diversi, che stanno assumendo negli ultimi anni frequenza e intensità crescenti, con inevitabili riflessi sulle condizioni di vita delle popolazioni.

    Dal rapporto pubblicato nel 2017 dal Carbon Disclosure Project emerge come le maggiori responsabilità del fenomeno siano riconducibili alle principali 100 società mondiali, sia pubbliche che private, del settore energetico, le quali tra il 1988 e il 2015 avrebbero rilasciato oltre il 70% delle emissioni globali e che anche a livello dei singoli paesi risultano gravi squilibri visto che solo Cina, Ue e Usa provocano oltre la metà del totale delle emissioni. Fuoriesce un quadro abbastanza nitido rispetto alle responsabilità che non sono attribuibili all’umanità in toto bensì a determinati stati, alle grandi imprese ed ai gruppi finanziari che vi investono.

    Le difficoltà metodologiche precedentemente rilevate rendono problematico da quantificare un fenomeno che, come visto, risulta complesso, spesso multicausale [2] e, soprattutto, riguardante soggetti il cui status non è stato ancora precisamente definito e tanto meno tutelato dal diritto internazionale. In considerazione di ciò, lo studio del fenomeno presenta un certo grado di complessità e di difficoltà oggettive in quanto, nonostante la lunga ricerca, non è risultato possibile attingere dati da fonti ufficiali circa l’entità del fenomeno globale, composto sia dalle migrazioni internazionali che da quelle interne: per le prime sono state diffuse solo stime, mentre per le seconde l’istituto più autorevole impegnato a monitorare, l’Internal Displacement Monitoring Centre (Centro di monitoraggio degli spostamenti interni), è attivo solamente dal 2008.

    Un arco di tempo non lungo ma sufficiente a comprenderne le dimensioni e le tendenze visto che, in base a questa fonte, solo le persone costrette a spostarsi all’interno dello stesso paese (internally displaced persons) a causa di fenomeni climatico-ambientali fra il 2008 e il 2014 sono risultate oltre 150 milioni, un numero superiore rispetto a quello causato da guerre e conflitti e addirittura, nello stesso periodo, oltre 170 milioni secondo i dati dell’Unione Europea (tabella 1).

    In base a recenti pubblicazioni sul tema emerge come gli effetti dei cambiamenti climatici e dei fenomeni estremi inneschino prevalentemente mobilità forzate interne invece che internazionali, ciò a seguito sia della scelta prioritaria di non spostarsi al di fuori del proprio paese, dove le condizioni di vita diventano più difficili, sia per l’impossibilità delle persone in stato di fragilità estrema a muoversi (trapped population) (Amato, 2019). Nell’ambito di questa analisi, risulta utile supporto uno studio [3] che ha indagato il rapporto tra l’aumento della temperatura globale e la migrazione internazionale prendendo in esame 116 paesi, suddivisi fra paesi a basso e a medio reddito, nel periodo compreso fra il 1960 e il 2000.

    L’indagine parte dall’ipotesi che nel lungo termine il riscaldamento atmosferico impoverendo le popolazioni rurali e peggiorando le loro condizioni di vita, influenzi la migrazione, ma con modalità diverse a seconda del reddito delle popolazioni. I risultati delle analisi confermano questa ipotesi: da un lato l’aumento graduale della temperatura contribuisce ad un aumento dei flussi migratori dai paesi a medio reddito. Al contrario, lo stesso fenomeno contribuisce a ridurre l’emigrazione da paesi più poveri. Questo risultato mette in luce l’esistenza di una relazione di costo-opportunità fra gli alti incentivi a migrare e le risorse per farlo. L’aumento della temperatura, infatti, provocando un calo della produttività agricola, genera un maggiore spinta migratoria. Pur rappresentando un significativo input, questo calo del reddito riduce la possibilità di emigrare da paesi meno sviluppati, dove un’elevata percentuale di persone vivono con un misero reddito addirittura sotto la soglia di povertà estrema di 1,90 $ al giorno, in particolare in Africa Sub-Sahariana dove nel 2015 in tale condizione si trovava ancora il 41.2% della popolazione totale [4]. Il riscaldamento globale tende quindi ad intrappolare le popolazioni povere nei loro territori di appartenenza a causa dell’elevato costo degli spostamenti internazionali che i potenziali migranti hanno raramente capacità di finanziare.

    Un secondo importante risultato emerso dall’analisi è che i flussi migratori da paesi a medio reddito causati dell’aumento della temperatura, sono principalmente diretti verso destinazioni limitrofe, in genere nel raggio di 1.000 km, come ci confermano i dati dell’Unhcr [5].

    Procedendo quindi all’analisi degli unici dati attendibili e completi, vale a dire quelli relativi agli sfollati o ai dislocamenti interni, secondo il Global Report on Internal Displacement (2019) pubblicati dall’Internal Displacement Monitoring Centre (IDMC), i nuovi spostamenti interni a livello globale a fine 2018 (tabella 2) raggiungevano i 28 milioni di unità che interessavano 148 paesi dei quali, 17,2 milioni a causa di calamità naturali e 10,8 per conflitti. Le migrazioni interne sono dunque per il 61% legate a eventi naturali e di queste la stragrande maggioranza è rappresentata da persone costrette a fuggire da eventi climatici estremi: 16,1 milioni per alluvioni, cicloni e tempeste, mentre solamente 1,1 milioni riconducibili a fenomeni geofisici, principalmente terremoti [6].

    Il rapporto indica che il totale mondiale degli sfollati interni, a causa sia di fenomeni naturali che di violenze, aveva raggiunto a fine 2018, i 41,3 milioni di persone, la cifra più elevata mai registrata secondo la direttrice dell’IDMC Alexandra Bilac. Un fenomeno che appare fortemente concentrato in specifiche aree, appurato che 3/4, ovvero 30,9 milioni di persone, si trovano in soli dieci paesi, principalmente Siria (6,2), Colombia (5,8), Repubblica Democratica del Congo (3,1), Somalia (2,6) e Afghanistan (2,6) che da sole ne ospitano quasi la metà.

    Premettendo che di anno in anno il quadro mondiale degli sfollati interni appare in sensibile mutamento a causa sia dell’improvvisa esplosione di conflitti che dall’imprevedibilità temporale e geografica dei fenomeni climatici, dall’analisi dei dati macroregionali disaggregati, in base alle cause dei nuovi ricollocati interni del solo 2018, suddivisi fra eventi naturali e conflitti, fuoriesce un quadro eterogeneo (tabella 3): mentre i primi superano i secondi in Asia orientale e Pacifico (9,3 milioni contro 236.000), Asia meridionale (3,3 milioni contro 544.000), Americhe (1,7 milioni contro 404.000), Europa e Asia centrale (41.000 contro 12.000), in Africa Sub-sahariana (2,6 e 7,4 milioni) e nell’area Medio Oriente e Nord-Africa (214.000 contro 2,1 milioni), a causa dell’elevato numero di guerre e scontri armati, la situazione era invertita.

    L’intensificarsi dei fenomeni meteorologici estremi, come visto, ha determinato la maggior parte dei nuovi spostamenti innescando, nel 2018, 17,2 milioni di nuovi ricollocamenti su 28 milioni; dislocamenti interni che geograficamente hanno interessato, soprattutto, l’Asia meridionale e orientale, accertato che Filippine (3,8), Cina (3,8) e India (2,7) hanno assorbito circa il 60% del totale di nuovi sfollati, principalmente sotto forma di evacuazioni. Al quarto posto seguono gli Stati Uniti, unico paese ad economia avanzata fra i primi 10, con 1,2 milioni di sfollati confermando da un lato che i fenomeni naturali estremi colpiscono soprattutto le zone tropicali asiatiche e il Sud del mondo in generale, dall’altro che i paesi sviluppati, anche che se localizzati prevalentemente nella fascia temperata, non ne sono di certo al riparo.

    https://www.lacittafutura.it/esteri/migrazioni-climatiche-prima-parte

    #migrations #asile #réfugiés #réfugiés_environnementaux #réfugiés_climatiques #chiffres #statistiques #flux_migratoires

    ping @reka

    • Migrazioni climatiche (seconda parte)

      Le conseguenze dei cambiamenti climatici verranno pagate di più da chi ne ha meno responsabilità. Giustizia ambientale e giustizia climatica sono inscindibili.

      Le preoccupanti proiezioni future

      Appurata l’aggravarsi della crisi climatico-ambientale con i suoi riflessi sempre più rilevanti sulle condizioni di vita delle persone, il mondo scientifico, le istituzioni e le organizzazioni nazionali e internazionali vi stanno focalizzando in maniera crescente la loro attenzione con studi, dossier e convegni nel tentativo di indurre la leadership politica mondiale ad implementare efficaci strategie di contenimento del riscaldamento globale. Fra i vari, anche il rapporto dell’Ipcc [1], gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite dell’8 agosto 2019, “Cambiamento climatico e territorio”, conferma che a seguito di fenomeni naturali sempre più frequenti e intensi aumenteranno sia la fame che le migrazioni. Le zone più vulnerabili saranno quelle tropicali e subtropicali: si prevede che in Asia e Africa si registri ad esempio il maggior numero di persone colpite dalla desertificazioni. Nell’area del Mediterraneo, come anche in Nord e Sud America, nell’Africa meridionale e nell’Asia centrale osserveremo invece un preoccupante aumento degli incendi. Conseguentemente, conclude il rapporto, il fenomeno delle migrazioni subirà gli effetti dei cambiamenti climatici, sia all’interno dei Paesi che fra paesi diversi, presagendo un inevitabile incremento degli spostamenti oltre frontiera.

      Della crescente rilevanza e gravità del fenomeno delle migrazioni ambientali sembra che stiano prendendo atto anche gli Stati che hanno iniziato, seppur recentemente, a discutere di inserire nelle politiche migratorie anche la sfera climatica e ambientale. In questa direzione deve essere interpretata la «Dichiarazione di New York su rifugiati e migranti», adottata il 19 settembre 2016 nell’ambito della 71°’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che ha formalmente riconosciuto l’impatto dei cambiamenti climatici e ambientali quali fattori significativi nelle migrazioni forzate.

      Un fenomeno destinato in futuro ad assumere maggiore consistenza, sia nella sua dimensione interna che internazionale, come denunciato anche dal rapporto emesso 19 marzo 2018 dalla Banca Mondiale, in base al quale entro il 2050, fino a 143 milioni di persone che attualmente vivono nei paesi dell’Africa Sub-sahariana (86 milioni), dell’Asia meridionale (40 milioni) e dell’America Latina (17 milioni), potrebbero infatti essere costrette a muoversi all’interno dei propri paesi, fuggendo dalle aree meno vitali con minore disponibilità idrica e produttività delle colture, o da zone che saranno colpite dall’innalzamento del livello del mare e dalle mareggiate, creando inevitabili problemi di gestione del fenomeno a governi già afflitti da rilevanti difficoltà economiche e sociali. Preoccupante scenario che, a grandi linee, ricalca quello previsto da Norman Myers negli anni ’90.

      Il razzismo ambientale

      Gli effetti della crisi climatico-ambientale non si declinano esclusivamente attraverso l’alterazione e la distruzione degli ecosistemi naturali ma anche tramite gli aspetti economici e sociali dell’ingiustizia ambientale. Un gruppo di studiosi che ha indagato le correlazioni fra cambiamenti climatici erazzismo ambientale,fra i quali l’autorevole ambientalista statunitense William Ernest «Bill» McKibben [2], osservando che la crisi sta incidendo, e probabilmente continuerà ad incidere, su alcuni gruppi sociali maggiormente che su altri, sono arrivati a comprovare che gli effetti più gravosi vengono subiti da coloro che hanno minori responsabilità in termini di emissioni e di consumi. Secondo le loro ricerche la traiettoria della disuguaglianza sociale si sviluppa conseguentemente a quella del degrado ambientale, pertanto più lasciamo che l’emergenza climatica si aggravi, più le disparità sociali ed economiche si amplieranno. Ad analoghe conclusioni sono giunti anche gli scienziati dell’Ipcc, i quali, sempre nel rapporto “Cambiamento climatico e territorio” evidenziano la dimensione sociale dei cambiamenti climatici affermando che «gli impatti del cambiamento climatico saranno più severi non solo per i più poveri, ma anche per (…) gli anziani, i giovani, i più vulnerabili, gli indigeni e gli immigrati recenti».

      Tale dinamica discriminatoria ha alimentato sin degli anni ‘80 il movimento di giustizia ambientale, che si è concentrato su una sfera particolare del degrado ambientale: il razzismo ambientale, o eco razzismo (eco racism). Termine che sta ad indicare il meccanismo in base al quale le comunità socialmente marginalizzate hanno accessibilità limitata, se non addirittura alcuna, ad acqua, aria e terra non contaminata.
      Il razzismo ambientale benché agisca su due dimensioni distinte, quella sociale e quella territoriale, evidenzia correlazioni fra i due ambiti. Infatti, da un lato, le discariche e gli impianti inquinanti tendono ad essere costruiti nelle aree di comunità marginalizzate, popolate da famiglie a basso reddito e da minoranze sociali con elevati tassi di disoccupazione, come ad esempio in Italia gli impianti siderurgici di Bagnoli e Taranto. Negli Stati Uniti esiste, invece, una dinamica declinata in particolare su una discriminazione di tipo razziale. Uno studio ventennale, condotto da Robert Bullard, noto come il padre della giustizia ambientale americana, ha analizzato le caratteristiche razziali e socio-economiche delle comunità che vivono nelle vicinanze di discariche di rifiuti tossici concludendo che un numero sproporzionato di afroamericani risiede in aree con strutture per lo smaltimento di rifiuti chimici. D’altra parte, nelle aree più colpite dagli effetti del cambiamento climatico vi risiedono le comunità marginalizzate dove la povertà aggrava la loro vulnerabilità, come confermato anche dal rapporto «Tendenze minoritarie e indigene 2019» del Minority Rights Group che affronta gli effetti del cambiamento climatico su minoranze e popolazioni indigene e dal quale si evince che a causa dell’ancestrale rapporto con la terra e l’ambiente in cui vivono (addirittura definita Pachamama, Madre Terra, dalle comunità amerindie), queste risultano le comunità più vulnerabili in assoluto.

      La nuova frontiera dell’Apartheid climatico

      Al concetto di razzismo ambientale o eco razzismo, si sta recentemente affiancando quello più articolato di Apartheid climatico poiché alle crescenti disparità socio-economiche globali si sovrappone, acuendone gli effetti, la differente capacità di risposta delle comunità di fronte alle conseguenze del riscaldamento globale. Come abbiamo precedentemente rilevato, tutte le aree geografiche terrestri risultano interessate, seppur con intensità e forme diverse, dagli effetti del riscaldamento globale e dei cambiamenti climatici, ma ciò che differenzia i vari stati e gruppi sociali interni appare la capacità di risposta a tali fenomeni che, infatti, risulta proporzionale alle risorse a disposizione per difendersene e contrastarle. Mentre gli stati a basso reddito, i gruppi sociali marginali ed i popoli autoctoni ne subiscono i maggiori effetti in quanto privi di capacità di adattamento e di mitigazione – come visto anche la sola migrazione – viceversa, come afferma anche il rapporto presentato lunedì 24 giugno 2019 al Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu da Philip Alston [3], solo i paesi più sviluppati «riusciranno ad operare gli aggiustamenti necessari ad affrontare temperature sempre più estreme». Lo studio in questione, che supporta le proprie affermazioni su dati oggettivi, afferma che i cambiamenti climatici rischiano di annullare i progressi conseguiti a livello globale negli ultimi 50 anni per lo sviluppo, la salute e la lotta alla fame. Tali mutamenti produrranno, entro il 2030, almeno 120 milioni di nuovi poveri, mentre «i benestanti potranno pagare per sfuggire al surriscaldamento, alla fame e ai conflitti, il resto del pianeta sarà lasciato a soffrire». A tal proposito è stato introdotto dalla comunità scientifica il concetto di vulnerabilità che l’Ipcc definisce come “la propensione o predisposizione ad essere affetti negativamente” dai cambiamenti climatici, e “la mancanza di capacità di far fronte e adattarsi” a tali cambiamenti. Alla vulnerabilità è contrapposta la resilienza, vale a dire “la capacità dei sistemi sociali, economici e ambientali di far fronte a un evento, tendenza o disturbo pericoloso”.

      L’entità dell’impatto degli eventi climatici estremi risulta sovente proporzionale alle condizioni economiche e sociali, delle comunità colpite che, se in condizioni di fragilità, subiscono un aumento della vulnerabilità e una riduzione della capacità di adattamento a situazioni in fase di mutamento. Frequentemente i cambiamenti climatici amplificano, infatti, condizioni preesistenti di vulnerabilità socio-economica fungendo da acceleratori della povertà e dell’ingiustizia sociale. Le persone malate e ferite, i bambini, i disabili, gli anziani, sono spesso tra i sopravvissuti più gravemente colpiti dagli eventi estremi, soprattutto nei paesi meno sviluppati. Sono infatti principalmente le comunità dei Sud del mondo a subire le conseguenze degli effetti del degrado ambientale e dei cambiamenti climatici, vittime da un lato di fenomeni a cui hanno scarsamente contribuito, e dall’altro anche di attività di sfruttamento di risorse o della costruzione di infrastrutture figlie di un modello di sviluppo imposto con poca attenzione ai fabbisogni delle popolazioni locali. In molti casi, soprattutto in società rurali del Sud del mondo, tale vulnerabilità è stata prodotta o amplificata da politiche neocoloniali o di “sviluppo” e globalizzazione capitalista che hanno ridotto la varietà di colture, ridotto la fertilità dei suoli, creato dipendenza economica dall’esportazione di pochi prodotti, indebolito le strutture sociali tradizionali di reciprocità e mutuo supporto a livello locale, così come la capacità degli stati di rispondere a situazioni di emergenza e provvedere a servizi sociali di base come infrastrutture sanitarie e mediche. (D. Andreucci e A. Orlandi 2019). [4]

      In sintesi, riconducendo l’analisi a scala globale, il Sud del mondo che è responsabile del solo 10% delle emissioni, si prevede che dovrà subirne il 75% delle ricadute negative, precipitando di fatto in una situazione di “apartheid ambientale”. La riduzione delle emissioni non risulta pertanto una questione prettamente di carattere ambientale ma una strategia funzionale al rispetto dei diritti umani e sociali, in quanto giustizia sociale e giustizia climatica sono concetti interdipendenti ed i movimenti che le sostengono non possono agire separatamente se aspirano ad ottenere risultati tangibili.

      Dall’Antropocene al Capitalocene

      Il concetto di Antropocene, proposto per la prima volta negli anni ’80 dal biologo Eugene Stroener, ha iniziato a diffondersi, travalicando i confini disciplinari ed accademici, ad opera del premio Nobel per la chimica, Paul Crutzen, per rimarcare l’intensità e la pervasività che l’attività umana aveva assunto nei confronti del processi biologici terrestri (Crutzen, 2005). In ambito ambientalista il concetto evidenza invece il passaggio di stato del nostro Pianeta causato dal manifestarsi su scala globale della crisi climatico-ambientale di origine antropogenica, assurta ad elemento caratterizzante di una nuova era geologica. Tale accezione del concetto di Antropocene risulta tuttavia avulsa da significative connotazioni storico-politiche poiché rapporta il cambiamento climatico all’azione umana, nel suo complesso, senza distinzioni.

      La pluricausalità alla base dei flussi migratori contemporanei riconduce invece a fattori economici e sociali, oltre che a quelli ambientali, chiamando in causa le relazioni fra il Nord e il Sud del mondo e i concetti di giustizia sociale e ambientale legati, come visto, alla vulnerabilità e all’accesso alle risorse e, dunque, alle classi sociali di appartenenza.

      Una corrente accademica di pensiero e alcuni contesti scientifici sostengono che la crisi climatico-ambientale in atto sia il frutto del sistema economico dominante a livello mondiale, nel cui ambito la volontà di una parte nettamente minoritaria di popolazione mondiale di perpetrare lo sfruttamento delle risorse nell’intento di salvaguardare il proprio, ormai insostenibile, livello di consumi [5] (Bush figlio docet), si concretizza in un forte deficit ecologico che impatta, sotto varie forme, prevalentemente nelle aree geografiche economicamente e socialmente meno sviluppate. Prendere in considerazione esclusivamente gli aspetti climatici come causa migratoria significa di fatto rimuovere il ruolo e le responsabilità del sistema dominante di produzione e consumo, che secondo quest’area di studiosi, può assumere più opportunamente una denominazione di matrice geologica diversa: il Capitalocene (Moore, 2017).

      Questo nuovo concetto mette maggiormente in risalto gli aspetti degenerativi della struttura capitalistica che, in modo sempre più «classista», polarizza le vulnerabilità non solo intergenerazionali, in ottica futura, ma soprattutto quelle odierne all’interno e fra società diverse (Amato, 2019).

      Il sistema economico globalizzato, neoliberista e sviluppista, funziona da garanzia per il capitale transnazionale nell’ambito di un modello di sviluppo lineare fondato sul ciclo estrazione, produzione, consumo, sulla concentrazione di immensi profitti e la socializzazione dei costi ambientali. Tuttavia, l’adozione di politiche indirizzate verso un modello economico circolare (Circular economy) in grado parzialmente di rigenerarsi riducendo l’impatto sull’ecosistema terrestre può, a nostro avviso, non essere sufficiente a risolvere la triplice crisi in atto (ambientale, economica e sociale) in quanto non vengono messi in discussione i paradigmi della crescita economica infinita e dell’accumulazione capitalistica.

      La tematica del superamento delle strutture economiche e sociali del Capitalocene, con i suoi insostenibili modelli di produzione, di consumo e di ripartizione della ricchezza, si propone, alla luce della crisi ambientale sull’orlo del punto del non ritorno e delle disuguaglianze sociali sempre più marcate, in modo ancor più attuale, a causa dei suoi effetti degenerativi sempre più pervasivi, arrivati ormai a mettere a repentaglio il futuro del Pianeta e dell’intera umanità.

      Note:

      [1] Intergovernmental Panel On Climate Change è il principale organismo internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici. È stato istituito nel 1988 dalla World Meteorological Organization (WMO) e dall’United Nations Environment Program (UNEP) come uno sforzo da parte delle Nazioni Unite per fornire ai governi di tutto il mondo una chiara visione scientifica dello stato attuale delle conoscenze sul cambiamento climatico e sui suoi potenziali impatti ambientali e socio-economici. Migliaia di scienziati di tutto il mondo contribuiscono al lavoro dell’IPCC, su base volontaria.

      [2] Bill McKibben autore primo libro sul cambiamento climatico (pubblicato nel 1989) e co-fondatore di «350.org».

      [3] Esperto di diritto internazionale e relatore speciale per le Nazioni Unite sulla povertà estrema.

      [4] Migranti e cambiamenti climatici. Chi emigra, perché e come intervenire per porvi rimedio?, 26 giugno 2019.

      [5] Come certificano i dati dell’impronta ecologica. L’impronta ecologica media pro capite mondiale sostenibile è 1,8 ha mente quella effettiva è invece di 2,7 ha. Fra i singoli paesi: Qatar (11,68), Kuwait (9,72), Emirati Arabi Uniti (8,44), Usa (8,1).

      https://www.lacittafutura.it/esteri/migrazioni-climatiche-seconda-parte
      #justice_environnementale

  • Shade - 99% Invisible
    https://99percentinvisible.org/episode/shade

    Journalist Sam Bloch used to live in Los Angeles. And while lots of people move to LA for the sun and the hot temperatures, Bloch noticed a real dark side to this idyllic weather: in many neighborhoods of the city, there’s almost no shade. He was surprised to find people awkwardly huddled behind telephone poles to get relief from the glaring sunlight. “I noticed people waiting behind the people waiting behind telephone poles because there’s only that small sliver of shade,” says Bloch.

    Où il est question de la voiture qui tue la #ville et prend la place des #arbres, de l’électricité (ventilos et #climatisation) qui fait qu’on se fiche d’avoir perdu toute cette #ombre et de comment le #changement_climatique et les #inégalités accrues imposent (#justice_environnementale) de refaire appel aux arbres pour rafraîchir les villes comme savent très bien le faire les habitant·es hispaniques avec leur #grassroots_architecture ou #architecture_vernaculaire #architecture_bio-climatique.

    Et un petit mot rigolo sur les arbres, valeur ajoutée des dessins d’architectes, #greenwashing littéralement.
    #audio

  • Defending territories, Defending our lives : Protecting human rights and the environment in Asia Pacific through system change | Voices from FoE Asia Pacific
    https://foeasiapacific.org/portfolio/defending-territories-defending-our-lives-protecting-human-rights-an

    Every day, peoples and communities across the world come together to take collective action, often fighting for their collective rights, for dignity and for access to resources and their sustainable use.

    Yet many of these Defenders of Territories and Human Rights are being threatened, suppressed or in extreme cases killed. In the last few years, Friends of the Earth Asia Pacific’s member groups’ staff, activists and supporters have been beaten, sued, kidnapped, bankrupted, defamed, jailed and murdered for campaigning for environmental justice.

    To keep Defenders safe we need both systemic change and the introduction of practical policies at the local, national and international level, and also within civil society organisations.

    Lien vers le rapport :
    https://foeasiapacific.org/wp-content/uploads/2019/12/16-FoEI-Human-Rights-Defenders-report-ENG-mr.pdf
    #Indonésie et #Philippines particulièrement
    Je ne sais pas comment taguer... @odilon et @cdb_77 ?

  • #Eric_Piolle sur France inter

    Le maire écologiste de Grenoble est l’invité d"Eric Delvaux à l’occasion de la parution aux éditions Les liens qui libèrent de son livre « Grandir ensemble. Les villes réveillent l’espoir ».

    https://www.franceinter.fr/emissions/l-invite-du-week-end/l-invite-du-week-end-20-octobre-2019
    #Grenoble

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    Quelques extraits :

    « C’est à l’échelle des villes qu’on peut allier #justice_sociale et #justice_environnementale, qui fait défaut à l’échelle nationale ».

    « Pour relever le défi de justice sociale et environnementale, il faut cultiver ensemble des #biens_communs, garantir des sécurités pour chacun »

    « Les habitants du territoire quels qu’ils soient, c’est des habitants légitimes pour travailler sur des budgets participatifs, pour aménager un morceau de quartier, pour s’entraîner à la #démocratie_locale »
    –-> « Le gouvernement Macron nous a attaqués au tribunal pour notre dispositif de #votation_citoyenne parce qu’il était ouvert aux + de 16 ans, parce qu’il était ouvert à tous les résidents quel que soit leur statut par rapport aux listes électorales et parce que les élus, c’était le troisième argument, ne pouvaient pas se déposséder de leur capacité de décision ».

    ping @karine4

  • #Visibilité et #invisibilité de la #pollution des #sols dans les territoires (post)industriels : de nouvelles perspectives sur la #résilience et la #justice_environnementale ?

    « Make the valley green again » : la gestion des #sols_pollués au cœur de la #réhabilitation de la basse vallée de #Swansea (#Pays_de_Galles) [Texte intégral]
    « Make the valley green again » : soil pollution management in the reclamation process of the lower Swansea Valley (Wales)
    Cécile Ferrieux et Robin Le Noan

    –----
    Regard géo-historique sur la difficile transformation des #friches_industrielles de la vallée de la #Fensch : l’exemple de la #reconversion en cours du site de l’#usine_sidérurgique intégrée #SMK (1897-2018) [Texte intégral]
    A geohistorical look at the difficult transformation of industrial wastelands in the Fensch Valley : the example of the ongoing conversion of the SMK integrated steel plant (1897-2018)
    Eric Marochini

    #sidérurgie

    –---

    Du trouble privé au problème public ou… l’inverse ? #Mobilisation locale autour d’un #site_industriel pollué [Texte intégral]
    From private concerns to a public issue or… is it the reverse ?
    Maurice Olive

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    Controverse autour des #stériles_uranifères : de la mise à l’agenda d’un problème public à la remise en cause de l’#expertise [Texte intégral]
    Etude comparative de deux anciens sites miniers : #La_Commanderie (#Vendée/#Deux-Sèvres) et #Pen_Ar_Ran (#Loire-Atlantique)
    Controversy around uranium waste : from putting a public problem on the agenda to challenging expertise. Comparative study of two former uranium mines : La Commanderie (Vendée/Deux-Sèvres) and Pen ar Ran (Loire-Atlantique)
    Saliha Hadna

    #mines

    –-------
    Le laboratoire cévenol de l’après-mine. Une coextensivité des causes et des responsabilités minières, environnementales et sanitaires [Texte intégral]
    The Cevennes laboratory of the post-mine. A coextensivity of mining, environmental and sanitary causes and responsibilities
    Béatrice Mésini

    –--------

    L’#économie_circulaire : cercle vertueux ou cercle vicieux ? Le cas de l’utilisation de terres maraîchères pour aménager des espaces verts urbains [Texte intégral]
    The circular economy : vicious or virtuous circle ? The case of vegetable gardens used to develop green spaces
    Clément Gitton, Yoann Verger, Florence Brondeau, Ronald Charvet, François Nold, Philippe Branchu, Francis Douay, Isabelle Lamy, Christian Mougin, Caroline Petit et Elisabeth Rémy

    –-----

    La strate du sol d’une mégapole : observations localisées sur l’Anthropocène [Texte intégral]
    Les couches issues des périodes préindustrielle et industrielle à #Paris
    A megacity soil’s layer : localised observations about the AnthropoceneThe strata from preindustrial and industrial eras in Paris
    Mathieu Fernandez

    https://journals.openedition.org/geocarrefour/11289
    #revue #in/visibilité #sols

  • #Pesticides : l’#orange amère de Californie - Libération
    https://www.liberation.fr/planete/2019/05/31/pesticides-l-orange-amere-de-californie_1730941

    Aux #États-Unis, l’utilisation du #chlorpyriphos-éthyl est interdite en usage résidentiel depuis 2000. Et son usage agricole aurait été également interdit si le directeur de l’Environmental Protection Agency (l’Agence fédérale de protection environnementale, dite #EPA) n’en avait décidé autrement. Fraîchement nommé par Donald Trump, Scott Pruitt a annulé la procédure à quelques jours de l’échéance, le 29 mars 2017, jugeant « insuffisantes » les preuves scientifiques à l’encontre du pesticide. Une cour d’appel fédérale siégeant à San Francisco a donné trois mois, à compter du 19 avril, pour que l’EPA rende une décision argumentée sur l’interdiction ou non du pesticide à usage agricole. En septembre, le Sénat de Californie votera sur une éventuelle suspension de l’utilisation du chlorpyrifos-éthyl pour deux ans, à l’échelle de son Etat. En attendant, les agriculteurs continuent d’avoir recours au chlorpyriphos-éthyl. Son usage a baissé de plus de 50 % entre 2005 et 2016. Mais aux alentours de Lindsay, il reste le quatrième pesticide le plus utilisé sur les orangers, selon le dernier rapport disponible (2016).

    #santé #justice_environnementale #agriculture #maraîchage

  • Les #inégalités_environnementales

    Les #problèmes_environnementaux, devenus globaux, menacent tous les humains, mais ils les menacent inégalement. Cet ouvrage, entièrement inédit, de la Collection Vie des Idées/Puf, révèle la dimension environnementale des #inégalités_sociales ainsi que les effets inégalitaires des #politiques_écologiques.


    https://laviedesidees.fr/Les-inegalites-environnementales.html
    #justice_environnementale #livre #environnement

  • En #Thaïlande, avec le parti des #Commoners | Portfolios | Mediapart
    https://www.mediapart.fr/studio/portfolios/en-thailande-avec-le-parti-des-commoners

    Après cinq ans de dictature militaire, la Thaïlande se rend aux urnes le 24 mars. Même si les règles ont été manipulées par la junte au pouvoir, des dizaines de partis se présentent dans un élan d’enthousiasme civique. Les Commoners (« Gens du peuple ») sont une petite formation née des nombreuses #lutte_environnementales du pays, mêlant villageois affectés par des projets de mines ou de barrages et un groupe de jeunes militants des droits de l’homme de l’Issan, une province déshéritée du Nord-Est. Portraits de candidats qui livrent bataille aux marges du pays pour la survie économique et politique de leurs #communautés .

    L’un des intérêts des #communs est qu’ils donnent un cadre pour les récits et les perspectives politiques de militants de base, notamment pour la #justice_environnementale. Ici en Thailande.

  • CASO CHEVRON TEXACO – ECUADOR: CRONACA DI UN DISASTRO ANNUNCIATO

    Da 25 anni comunità indigene e abitanti dell’Amazzonia ecuadoriana portano avanti un’azione legale contro il gigante petrolifero, responsabile dell’intenzionale contaminazione di acqua, aria e suolo. La recente udienza del processo in Canada marca una nuova tappa nella decennale lotta per la giustizia.


    http://www.giustiziambientale.org/caso-chevron-texaco-ecuador-cronaca-di-un-disastro-annunciato

    #Equateur #justice #justice_environnementale #Texaco #Chevron #pétrole #peuples_autochtones #Amazonie #pollution #eau #sol #contamination #Chevron_Texaco
    cc @daphne @albertocampiphoto @marty

  • #Justice climatique : en #Colombie, une décision historique contre la #déforestation

    Par un jugement historique rendu le 5 avril 2018, la Cour suprême de la Colombie a ordonné au gouvernement colombien de mettre fin à la déforestation, lui rappelant son devoir de protéger la nature et le climat au nom des générations présentes et futures.

    Elle a ainsi donné raison à un groupe de 25 enfants et jeunes qui, accompagnés par l’ONG Dejusticia, ont poursuivi l’État pour ne pas garantir leurs droits fondamentaux à la vie et à l’environnement. La Haute Cour leur a accordé une « tutelle », dispositif créé en 1991 qui garantit aux citoyens un examen rapide des plaintes pour violation des droits constitutionnels.

    Dans le commentaire de leur décision, les juges ont enjoint le gouvernement, les gouverneurs des différentes provinces et les municipalités d’élaborer un plan d’action dans les cinq mois à venir pour préserver la forêt.


    https://theconversation.com/justice-climatique-en-colombie-une-decision-historique-contre-la-de
    #jurisprudence #justice_climatique #forêt #justice_environnementale
    cc @odilon

  • Pas de justice pour les victimes de déversements pétroliers

    Un tribunal britannique porte un coup dur aux victimes des déversements pétroliers et compromet la responsabilisation des entreprises. La cour d’appel a statué le 14 février 2018 que deux communautés du delta du Niger ne peuvent pas voir leurs recours contre le géant pétrolier #Shell examinés au Royaume-Uni, parce que la société-mère ne peut être tenue pour responsable des actions de sa filiale nigériane.


    https://www.amnesty.ch/fr/themes/economie-et-droits-humains/exemples/shell-nigeria/docs/2018/shell-pas-de-justice-pour-les-victimes
    #impunité #justice #injustice #pétrole #Nigeria #Delta_du_Niger #justice_environnementale #procès

  • The Challenges of Tackling Global Environmental Injustice

    Since the 1980s, environmental justice researchers have struggled to make sites and histories of environment injustices visible. Some, such as Phil Brown, Barbara Allen, and Jennifer Gabrys help with citizen science efforts to monitor, report, and campaign about environmental exposures in communities. Others, including Gwen Ottinger and Joan Martínez-Alier have brought them into the open through their writings.


    http://lacuna.org.uk/environment/challenges-tackling-global-environmental-injustice
    #justice_environnementale
    cc @ieva @albertocampiphoto @daphne @marty

  • Comment enseigner les faits survenus autour du Dakota Access Pipeline ?

    Dear Critters: I hope you’re all well. I’ve received lots of requests asking about ways to teach the Dakota Access Pipeline (DAPL) issues. I’m very encouraged by all the engagement with the NoDAPL movement - and given the space/place dimensions of the Standing Rock Tribe’s struggles against the pipeline, the member of this list are in a great position to educate students, as I’ve been a follower of this list for awhile now and benefited greatly from it. Lots of scholars in Indigenous Studies and beyond have worked to create materials for teaching Dakota Access Pipeline issues. I added a page to my website that includes as many of these scholarly resources as I know of (including the excellent Standing Rock Syllabus and this special collection), a few of my pieces on NoDAPL, and a bunch of online essays and documents associated with the issues: http://kylewhyte.cal.msu.edu/nodapl

    –-> reçu via la mailing-list « crit-geog-forum »

    #standing_rock #pipeline #North_Dakota #résistance #enseignement #ressources_pédagogiques #peuples_autochtones
    cc @reka

    Quelques sites évoqués dans le mail :
    #StandingRockSyllabus


    https://nycstandswithstandingrock.wordpress.com/standingrocksyllabus
    –-> très très riche !

    Standing Rock, #NoDAPL, and Mni Wiconi

    Thousands of Water Protectors from more than three hundred Native nations, as well as allied supporters from a range of social movements, gathered at the Standing Rock Sioux Indian Reservation in Cannon Ball, North Dakota during 2016 to halt the construction of the Dakota Access Pipeline (DAPL). The DAPL threatens to cross under the Mni Sose (the Missouri River), which is the fresh-water supply for millions of humans and countless nonhuman relations. By blocking settler access to capital through direct action, the enactment of political counterclaims to the land and river through ceremony and legal challenges in U.S. courts, #NoDAPL front-line protectors are directly challenging the fossil-fuel industry’s centrality in colonial accumulation and demonstrating that climate change is indelibly linked to historic and ongoing colonialism and Indigenous erasure and elimination. Contributors to this Hot Spots series consider the social, historical, cultural, and political significance of the #NoDAPL movement, situating it within Oceti Sakowin (Great Sioux Nation) history, leadership strategies and direct action/organizing, Indigenous anticolonial resistance across Turtle Island, and conditions of ongoing state violence against Indigenous bodies and lands.

    https://culanth.org/fieldsights/1010-standing-rock-nodapl-and-mni-wiconi

    Syllabus Materials for Teaching #NoDAPL in Ethics and Other Courses
    http://kylewhyte.cal.msu.edu/nodapl

    La personne qui a écrit le message est aussi sur twitter :
    https://twitter.com/kylepowyswhyte
    Et enseigne à la Michigan state university :
    http://kylewhyte.cal.msu.edu