• #Monte_Verità

    1906. Hanna ne veut rien d’autre que se libérer de son corset bourgeois. Lorsqu’elle s’enfuit au célèbre Monte Verità, laissant ses filles derrière elle, elle est d’abord réticente à accepter le mode de vie libre de ceux qui cherchent un sens à leur vie. Mais lorsqu’elle commence à photographier les invités, elle se dépasse. Dans sa dévotion à l’art, elle doit se demander : peut-elle retourner dans sa famille sans se renier ?

    https://www.swissfilms.ch/fr/movie/monte-verita/030D2745C6844CEBB173B407A434D520
    #film #Ascona #Tessin #Suisse #liberté #montagne

  • « A travers les légendes sur Jésus, nous arrivons à discerner en filigrane des éléments sur sa véritable existence », Pierluigi Piovanelli
    https://www.lemonde.fr/le-monde-des-religions/article/2023/12/24/a-travers-les-legendes-sur-jesus-nous-arrivons-a-discerner-en-filigrane-des-

    .... A titre purement hypothétique, nous pourrions donc imaginer que Jésus ait été initié aux techniques extatiques de la #Merkava avant le commencement de ses activités publiques, soit en Galilée, par des praticiens locaux, soit au cours de son apprentissage auprès de Jean le Baptiste, voire par des maîtres esséniens. Ce qui est, en revanche, à peu près certain est le fait que #Jésus a été l’un des premiers grands #mystiques du #judaïsme.

    On peut trouver un récit assez proche dans un écrit dit « apocryphe » tardif, l’Evangile du Sauveur, un texte copte du IVe ou du Ve siècle. Nous pouvons y lire que Jésus, parvenu avec les apôtres sur une montagne, entame en leur compagnie une ascension céleste qui les conduira jusqu’au « trône du Père ». Dans l’Evangile de Marie, un autre texte apocryphe, Marie de Magdala – présentée comme la disciple préférée de Jésus, à qui il aurait transmis ses secrets les plus profonds – vit une ascension et se confronte à « sept puissances », dans un récit proche de ceux de la Merkava.

    Dans les Evangiles canoniques, les éléments sont plus ambigus. Jésus a des visions, vit des formes de transe, des expériences qui peuvent rappeler celles de la Merkava. Je formule donc l’hypothèse que les récits ont pu être retravaillés et certains éléments occultés par les premiers chrétiens, qui ne voulaient surtout pas y faire référence.
    Car, dans la Merkava, un fidèle – que cela soit Jésus ou n’importe quel être humain – peut approcher la divinité, avant de redescendre pour partager son savoir avec d’autres disciples, qui pourront éventuellement revivre le même type d’expérience. Ce n’est pas du tout le même message que celui qui est porté par le récit que l’on fera plus tard sur Jésus, d’un dieu venu s’incarner pour quelque temps dans un humain, avant de repartir au ciel.

    Si l’on prend l’ensemble de la littérature ancienne, ce qui se dégage est que Jésus impressionne tout le monde. Il suscite un enthousiasme tel que certains disciples n’ont pas hésité à tout abandonner, y compris leur famille, pour le suivre, mais aussi une hostilité tenace chez certains adversaires. Aujourd’hui, le #leader_charismatique est présenté en sciences sociales à la fois comme quelqu’un qui catalyse les forces d’un groupe et qui est porté par ce groupe.

    Cette grille de lecture m’a amené à me poser la question de savoir comment, dans une société aussi conservatrice que celle de la #Palestine du Ier siècle, quelqu’un a pu être à ce point adulé et développer une aussi grande confiance en son message, se montrant capable de tenir tête aux autorités – religieuses comme politiques – et de s’adresser aux gens en prétendant les connaître intimement, intérieurement. C’est cette question qui m’a conduit à m’intéresser à la #mystique et aux visions de la Merkava, lesquelles ont pu lui donner une telle confiance.

    https://archive.is/7UxC5

    #mysticisme #religion #ascèse #techniques_extatiques #jeûne

  • Perché è importante ricordare la storia di #Giorgio_Marincola, partigiano italo–somalo

    Cento anni fa nasceva uno dei pochi italiani afrodiscendenti nella storia della Resistenza, simbolo di una patria aperta e plurale che ancora oggi fa paura

    Figlio di un maresciallo di fanteria calabrese e di una donna somala, studente antifascista e partigiano. Il 23 settembre 1923 a Mahaddei Uen, presidio militare a cinquanta chilometri da Mogadiscio, nasceva Giorgio Marincola, uno dei pochi italiani afrodiscendenti nella storia della Resistenza.

    La sua vicenda è arrivata per la prima volta all’attenzione dell’opinione pubblica con Razza Partigiana (Iacobelli 2008) (http://www.razzapartigiana.it), una ricerca storica realizzata da due studiosi romani: Carlo Costa e Lorenzo Teodonio. Nonostante una circolazione tutto sommato limitata, il testo ha acceso una luce che negli ultimi quindici anni non si è più spenta sul partigiano italo-somalo, dando vita a numerose letture e presentazioni pubbliche, senza contare la pubblicazione di altri titoli legati alla sua figura. Tra questi il più importante è Timira. Romanzo meticcio (Einaudi 2012). Il libro è incentrato su Isabella, sorella minore di Giorgio scomparsa nel 2010, ed è stato scritto dal figlio Antar Mohamed Marincola e da Wu Ming 2, pseudonimo di Giovanni Cattabriga.

    Il riconoscimento da parte del padre Giuseppe dei due figli avuti da #Aschirò_Hassan e la decisione di portarli entrambi in Italia non sciolgono le contraddizioni di un rapporto sbilanciato e problematico, ma impediscono ingenerose semplificazioni. “A differenza di tante altre vicende, erano due persone che sostanzialmente si volevano bene”, sottolinea Teodonio.

    Dopo aver trascorso l’infanzia in Calabria con la famiglia dello zio paterno, nel 1933 Giorgio si trasferì a Roma. Nella capitale frequentò il liceo-ginnasio Umberto I ed ebbe come professore di storia e filosofia Pilo Albertelli, importante esponente antifascista ucciso alle Fosse Ardeatine. Questo incontro segnò profondamente il giovane Marincola.

    Nel 1943 entrò a far parte del movimento di liberazione nelle fila del #Partito_d’azione. Aderì alla #Resistenza_romana, spostandosi poi nel viterbese nella primavera del 1944, dove combatté in una formazione composta da partigiani di diverse aree e militari sbandati dopo l’8 settembre.

    All’indomani della liberazione di Roma il 4 giugno 1944, si offrì per l’arruolamento nell’intelligence militare britannica. Fu inserito in un’unità paramilitare che venne paracadutata in Piemonte, nel biellese. Arrestato durante un rastrellamento venne deportato al campo di concentramento di Bolzano. Sopravvissuto al lager, da cui uscì il 30 aprile 1945, decise di unirsi a una formazione partigiana della Val di Fiemme. Venne ucciso a Stramentizzo nell’ultima strage tedesca in territorio italiano il 4 maggio 1945.

    Secondo lo storico della mentalità e formatore Francesco Filippi “parlare della Resistenza fatta da persone come Giorgio Marincola, con un’idea di patria aperta e plurale lontana dalle brutalità razziste e dal nazionalismo becero di stampo fascista, potrebbe essere un ottimo esempio per l’antifascismo di oggi”.

    Sia Teodonio che Filippi ritengono che la figura di Giorgio Marincola abbia permesso di far emergere altre storie. Il pensiero di entrambi va alla vicenda rocambolesca raccontata da Matteo Petracci in Partigiani d’oltremare. Dal Corno d’Africa alla Resistenza italiana (Pacini Editore 2019), la storia di un gruppo di eritrei, somali, etiopi e libici che nel 1943 si ritrovarono bloccati nelle zone di montagna del centro Italia e decisero di unirsi alla Resistenza contro i nazifascisti. Petracci ha ricostruito attraverso testimonianze, documenti e fotografie l’esperienza di questi “sudditi coloniali” all’interno della “#Banda_Mario”, un gruppo partigiano composto da donne e uomini di almeno otto nazionalità diverse e tre religioni.

    Due anni dopo l’uscita di Razza Partigiana il sociologo Mauro Valeri pubblicò un libro dedicato al partigiano nero #Alessandro_Sinigaglia, nato a Fiesole da un ebreo di origini mantovane e da una donna afroamericana giunta in Italia come cameriera di una famiglia di Saint Louis.

    Il 9 settembre, in occasione dell’imminente centenario della nascita di Giorgio Marincola, la famiglia ha donato il suo piccolo ma prezioso archivio al Museo storico della Liberazione di via Tasso, a Roma.

    “Giorgio Marincola non è solo un mio parente. Non penso che i legami siano dettati dal sangue”, spiega il nipote Antar Mohamed, educatore e mediatore culturale che da anni vive e lavora a Bologna. “Per quanto mi riguarda i suoi cento anni servono a dire e dirci da che parte stiamo. Non ci sono messaggi o proclami da fare. Tuttavia ricordare che la memoria resistenziale italiana era qualcosa di sovranazionale stride in un Paese come il nostro in cui la cittadinanza è ancora legata al principio dello ius sanguinis”.

    Un’altra scelta politica che secondo alcuni stona non poco è quella adottata dall’attuale amministrazione comunale di Roma. Nell’estate del 2020 una petizione promossa dal giornalista Massimiliano Coccia e rilanciata da Roberto Saviano aveva ottenuto dall’allora sindaca Virginia Raggi l’impegno di intitolare la stazione della metropolitana Amba Aradam / Ipponio al partigiano italo-somalo Marincola.

    Ma come racconta Teodonio “l’attuale giunta Gualtieri con cui dovremmo avere un’affinità politica maggiore e che tra l’altro è composta da molti storici ha modificato questa intitolazione. Ad oggi il nome predisposto per quella fermata è Porta Metronia, senza richiamare né Giorgio né l’Amba Aradam, altopiano montuoso che dà il nome a una battaglia del 1936 che vide le truppe italiane utilizzare armi chimiche vietate dalle convenzioni internazionali contro migliaia di etiopi”.

    https://www.rollingstone.it/politica/attualita/perche-e-importante-ricordare-la-storia-di-giorgio-marincola-partigiano-italo-somalo/789405
    #histoire #résistance #Italie #afro-descendants #partisan #WWII #seconde_guerre_mondiale #mémoire

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    voir aussi ce texte que j’ai écrit pour le blog @neotoponymie :
    La guérilla odonymique gagne une bataille : une nouvelle station du métro romain sera dédiée à #Giorgio_Marincola, partisan italo-somalien, et non à un lieu d’oppression coloniale
    https://neotopo.hypotheses.org/3251
    https://seenthis.net/messages/871903

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    ajouté à la métaliste sur l’#Italie_coloniale
    https://seenthis.net/messages/871953
    #colonialisme_italien

  • Le décès d’un alpiniste entouré de 50 personnes suscite l’indignation : "Ce qu’il s’est passé là-bas est scandaleux" La Rédaction - La Libre

    Mohammad Hassan, un alpiniste pakistanais de 27 ans, a entamé l’ascension du K2, la deuxième plus haute montagne du monde. Mais il a vu son aventure prendre fin à 400 mètres du sommet, abandonné par ses confrères et suscitant l’indignation dans le monde de l’alpinisme.

    Mohammad Hassan a gravement chuté à la suite d’une avalanche le 27 juillet dernier, alors qu’il escaladait le K2. Les lourdes blessures dont souffrait l’alpiniste ont finalement causé sa mort. Mais ce dernier n’est pas décédé sur le coup. Mohammad Hassan s’est retrouvé suspendu par les pieds, la tête en bas, par une corde.

    Mohammad Hassan n’aura pas pu compter sur l’aide de ses coéquipiers, qui ont contourné Mohammad pour continuer leur périple. Des images de drone enregistrées par le caméraman Philip Flämig montrent qu’une cinquantaine d’alpinistes sont passés à côté de lui sans lui porter secours. Ces alpinistes ont même tendu une nouvelle corde pour poursuivre leur épopée.


    Situé dans le massif du Karakoram, le K2 est le deuxième plus haut sommet du monde avec une altitude de 8611 mètres.

    Après de longues minutes d’agonie, seul un travailleur humanitaire est finalement venu en aide à Mohammad et a tenté de le maintenir conscient au moyen d’un massage. Aucune opération de sauvetage n’a été organisée pour sauver le jeune homme, qui a succombé à ses blessures.

    Philip Flämig médusé a partagé ses impressions sur cette scène épouvantable. Pour lui, les autres alpinistes, animés par le défi, ont mal évalué leurs priorités : “C’était une ascension très animée et compétitive vers le sommet”. Ce sentiment d’incompréhension est partagé par Wilhelm Steindl, qui a participé à l’expédition mais a rebroussé chemin suite aux conditions dangereuses. "Ce qu’il s’est passé là-bas est scandaleux. Une personne vivante est laissée sur place pour que l’on puisse encore monter. Il n’aurait fallu que trois ou quatre personnes pour le sauver. Si j’avais vu ça, je serais monté pour aider ce pauvre homme", a-t-il déclaré au Telegraaf.

    #K2Trajedy 
Top female climber Tamara Lungar exploded on the human tragedy on K2 & behaviour of follow climbers there. 
Read her exact words of a true alpinist, who lost a close mate in K2 Winter 2021 

“ I have now really needed a few days to sort out my thoughts because I am pic.twitter.com/x3L97FLPvw
    -- The Northerner (@northerner_the) August 10, 2023 _

    #Montagne #Alpinisme #Sport #performances #ascension #accident #racisme

    Source : https://www.lalibre.be/international/asie/2023/08/11/un-alpiniste-meurt-apres-une-chute-sans-pouvoir-compter-sur-laide-des-50-aut

    • * Menacée sur la toile, l’alpiniste la plus rapide du monde se défend après la mort d’un sherpa : « Nous avons fait de notre mieux » Afp - La Libre

      Kristin Harila, co-détentrice du record du monde des 14 sommets de plus de 8.000 mètres gravis le plus rapidement, s’est défendue à la suite de critiques l’accusant d’avoir enjambé un sherpa mourant pour achever son ascension du K2 au Pakistan.

      Avec son guide népalais Tenjin Sherpa, la Norvégienne a escaladé ces 14 sommets en trois mois et un jour (92 jours), arrachant le 27 juillet le record du monde détenu jusqu’alors par le Népalo-britannique Nirmal Purja.


      Mais cet exploit vient d’être terni par une controverse. Des images de drones partagées par d’autres alpinistes la montrent avec son équipe passer au-dessus du corps visiblement blessé de Mohammad Hassan, un sherpa d’une autre équipe qui est décédé peu après, tandis qu’elle poursuivait son ascension du deuxième sommet le plus haut du monde pour décrocher le record.

      Ils se trouvaient à ce moment-là sur le Bottleneck du K2, un couloir étroit et hautement dangereux surplombé par des séracs d’un champ de glace à seulement 400 m au-dessous du sommet.

      Selon le secrétaire du club d’alpinistes, Karar Haidari, quelque 100 grimpeurs ont atteint le sommet du K2 ce jour-là.

      Les autorités pakistanaises du tourisme au Gilgit Baltistan, qui délivrent les autorisations d’ascension, ont annoncé vendredi avoir ouvert une enquête relative à ce décès.

      « Personne ne se souviendra de ton succès sportif, seulement de ton inhumanité », a écrit un internaute sur Instagram.

      « Le sang des sherpas est sur tes mains », a ajouté un autre.

      Kristin Harila a aussi essuyé des critiques pour avoir célébré son ascension une fois revenue au camp de base, à flanc de montagne.

      Tard jeudi, l’athlète de 37 ans a affirmé sur Instagram « avoir tout fait pour lui (Mohammad Hassan) », dénonçant les « menaces de mort » dont elle a fait l’objet depuis l’accident.

      Elle a assuré qu’elle avait, en compagnie de son caméraman Gabriel, ainsi que deux autres personnes dont « l’ami de Hassan », passé « une heure et demie » à essayer de le remonter après sa chute. Il n’est pas indiqué où se trouvait l’équipe du sherpa, mais de nombreux alpinistes se trouvaient « derrière eux », a relaté la Norvégienne.

      L’alpiniste a ensuite poursuivi sa route, après une alerte à l’avalanche transmise par son équipe.

      Gabriel est lui resté aux côtés de Hassan, a-t-elle assuré, partageant avec lui son oxygène et son eau chaude.

      Au bout d’une heure supplémentaire, le caméraman a décidé de partir, car il avait besoin « de plus d’oxygène pour sa propre sécurité ».

      A leur descente, ils ont constaté que Mohammad Hassan, 27 ans, était décédé.

      Mais son équipe, composée de quatre personnes, « n’était pas en mesure de descendre son corps » en toute sécurité, car il aurait fallu au moins six personnes pour le faire, s’est défendue la Norvégienne qui a relevé que le sherpa n’était pas correctement équipé.

      Sa mort est « vraiment tragique (...) et j’ai beaucoup de peine pour la famille », a-t-elle encore dit, mais « nous avons fait de notre mieux, en particulier Gabriel ».

      De nombreux utilisateurs ont pris la défense de Harila, relevant les dangers encourus lors d’une telle ascension. D’autres se sont demandés pourquoi le sherpa n’avait pas été correctement équipé, une internaute dénonçant l’inégalité de traitements entre les alpinistes occidentaux et les sherpas : « La vie des locaux est bon marché ».

      #Sherpa #Femme #Sportive #Pakistan #athlète #drones #record

      Source : https://www.lalibre.be/international/asie/2023/08/11/menacee-sur-la-toile-lalpiniste-la-plus-rapide-du-monde-se-defend-apres-la-m

  • Le directeur général de la santé pendant le Covid promu numéro 2 de l’OMS : pourquoi Jérôme Salomon a-t-il été nommé ? - midilibre.fr
    https://www.midilibre.fr/2023/04/17/le-directeur-general-de-la-sante-pendant-le-covid-promu-numero-2-de-loms-p

    Jérôme Salomon est épidémiologue de formation. Lors de la crise sanitaire, il a pris la parole plusieurs fois pour détailler l’évolution de la situation sanitaire ou mettre en lumière la campagne de vaccination. C’est aussi à lui que revenait le funeste décompte des décès et des hospitalisations.

    Le bilan de son passage à la DGS est néanmoins mitigé. En 2020, une commission de sénateurs l’accuse d’être en partie responsable du manque de masques au printemps et à l’été 2020 et d’avoir cherché à dissimuler le rôle essentiel qu’ils tenaient dans la diminution des risques de transmission

  • The Origin of Student Debt: Reagan Adviser Warned Free College Would Create a Dangerous “Educated Proletariat”

    In 1970, #Roger_Freeman, who also worked for Nixon, revealed the right’s motivation for coming decades of attacks on higher education.

    With the vociferous debate over President Joe Biden’s announcement that the federal government will cancel a portion of outstanding student debt, it’s important to understand how Americans came to owe the current cumulative total of more than $1.6 trillion for higher education.

    In 1970, Ronald Reagan was running for reelection as governor of California. He had first won in 1966 with confrontational rhetoric toward the University of California public college system and executed confrontational policies when in office. In May 1970, Reagan had shut down all 28 UC and Cal State campuses in the midst of student protests against the Vietnam War and the U.S. bombing of Cambodia. On October 29, less than a week before the election, his education adviser Roger A. Freeman spoke at a press conference to defend him.

    reeman’s remarks were reported the next day in the San Francisco Chronicle under the headline “Professor Sees Peril in Education.” According to the Chronicle article, Freeman said, “We are in danger of producing an educated proletariat. … That’s dynamite! We have to be selective on who we allow [to go to college].”

    “If not,” Freeman continued, “we will have a large number of highly trained and unemployed people.” Freeman also said — taking a highly idiosyncratic perspective on the cause of fascism —“that’s what happened in Germany. I saw it happen.”

    Freeman was born in 1904 in Vienna, Austria, and emigrated to the United States after the rise of Hitler. An economist who became a longtime fixture in conservative politics, he served on the White House staff during both the Dwight Eisenhower and Richard Nixon administrations. In 1970 he was seconded from the Nixon administration to work on Reagan’s campaign. He was also a senior fellow at Stanford’s conservative Hoover Institution. In one of his books, he asked “can Western Civilization survive” what he believed to be excessive government spending on education, Social Security, etc.

    A core theme of Reagan’s first gubernatorial campaign in 1966 was resentment toward California’s public colleges, in particular UC Berkeley, with Reagan repeatedly vowing “to clean up the mess” there. Berkeley, then nearly free to attend for California residents, had become a national center of organizing against the Vietnam War. Deep anxiety about this reached the highest levels of the U.S. government. John McCone, the head of the CIA, requested a meeting with J. Edgar Hoover, head of the FBI, to discuss “communist influence” at Berkeley, a situation that “definitely required some corrective action.”

    During the 1966 campaign, Reagan regularly communicated with the FBI about its concerns about Clark Kerr, the president of the entire University of California system. Despite requests from Hoover, Kerr had not cracked down on Berkeley protesters. Within weeks of Reagan taking office, Kerr was fired. A subsequent FBI memo stated that Reagan was “dedicated to the destruction of disruptive elements on California campuses.”

    Reagan pushed to cut state funding for California’s public colleges but did not reveal his ideological motivation. Rather, he said, the state simply needed to save money. To cover the funding shortfall, Reagan suggested that California public colleges could charge residents tuition for the first time. This, he complained, “resulted in the almost hysterical charge that this would deny educational opportunities to those of the most moderate means. This is obviously untrue. … We made it plain that tuition must be accompanied by adequate loans to be paid back after graduation.”

    The success of Reagan’s attacks on California public colleges inspired conservative politicians across the U.S. Nixon decried “campus revolt.” Spiro Agnew, his vice president, proclaimed that thanks to open admissions policies, “unqualified students are being swept into college on the wave of the new socialism.”

    Prominent conservative intellectuals also took up the charge. Privately one worried that free education “may be producing a positively dangerous class situation” by raising the expectations of working-class students. Another referred to college students as “a parasite feeding on the rest of society” who exhibited a “failure to understand and to appreciate the crucial role played [by] the reward-punishment structure of the market.” The answer was “to close off the parasitic option.”

    In practice, this meant to the National Review, a “system of full tuition charges supplemented by loans which students must pay out of their future income.”

    In retrospect, this period was the clear turning point in America’s policies toward higher education. For decades, there had been enthusiastic bipartisan agreement that states should fund high-quality public colleges so that their youth could receive higher education for free or nearly so. That has now vanished. In 1968, California residents paid a $300 yearly fee to attend Berkeley, the equivalent of about $2,000 now. Now tuition at Berkeley is $15,000, with total yearly student costs reaching almost $40,000.

    Student debt, which had played a minor role in American life through the 1960s, increased during the Reagan administration and then shot up after the 2007-2009 Great Recession as states made huge cuts to funding for their college systems.

    That brings us to today. Biden’s actions, while positive, are merely a Band-Aid on a crisis 50 years in the making. In 1822, founding father James Madison wrote to a friend that “the liberal appropriations made by the Legislature of Kentucky for a general system of Education cannot be too much applauded. … Enlightened patriotism … is now providing for the State a Plan of Education embracing every class of Citizens.”

    “Knowledge will forever govern ignorance,” Madison explained, “and a people who mean to be their own governors must arm themselves with the power which knowledge gives.” Freeman and Reagan and their compatriots agreed with Madison’s perspective but wanted to prevent Americans from gaining this power. If we want to take another path, the U.S. will have to recover a vision of a well-educated populace not as a terrible threat, but as a positive force that makes the nation better for everyone — and so should largely be paid for by all of us.

    https://theintercept.com/2022/08/25/student-loans-debt-reagan
    #Roland_Reagan #Reagan #USA #Etats-Unis #histoire #origine #université #étudiants #endettement #dette_étudiante #how_it_begun #ESR #prolétariat #prolétariat_éduqué #educated_proletariat #classes_sociales #ascension_sociale #éducation #péril #sélection

  • « Tant qu’on sera dans un système capitaliste, il y aura du #patriarcat » – Entretien avec #Haude_Rivoal

    Haude Rivoal est l’autrice d’une enquête sociologique publiée en 2021 aux éditions La Dispute, La fabrique des masculinités au travail. Par un travail de terrain de plusieurs années au sein d’une entreprise de distribution de produits frais de 15 000 salariés, la sociologue cherche à comprendre comment se forgent les identités masculines au travail, dans un milieu professionnel qui se précarise (vite) et se féminise (lentement). Les travailleurs, majoritairement ouvriers, sont soumis comme dans tous les secteurs à l’intensification, à la rationalisation et à la flexibilisation du travail. Leur réponse aux injonctions du capitalisme et à la précarisation de leur statut, c’est entre autres un renforcement des pratiques viriles : solidarité accrue entre hommes, exclusion subtile (ou non) des femmes, déni de la souffrance… Pour s’adapter pleinement aux exigences du capitalisme et du patriarcat, il leur faut non seulement être de bons travailleurs, productifs, engagés et disciplinés, mais aussi des “hommes virils mais pas machos”. Pour éviter la mise à l’écart, adopter de nouveaux codes de masculinité est donc nécessaire – mais laborieux. Dans cette étude passionnante, Haude Rivoal met en lumière les mécanismes de la fabrique des masculinités au travail, au croisement des facteurs de genre, de classe et de race.

    Entretien par Eugénie P.

    Ton hypothèse de départ est originale, elle va à rebours des postulats féministes habituels : au lieu d’étudier ce qui freine les femmes au travail, tu préfères analyser comment les hommes gardent leur hégémonie au travail « malgré la déstabilisation des identités masculines au et par le travail ». Pourquoi as-tu choisi ce point de départ ?

    J’étais en contrat Cifre [contrat de thèse où le ou la doctorant.e est embauché.e par une entreprise qui bénéficie également de ses recherches, ndlr] dans l’entreprise où j’ai fait cette enquête. J’avais commencé à étudier les femmes, je voulais voir comment elles s’intégraient, trouvaient des stratégies pour s’adapter dans un univers masculin à 80%. Ce que je découvrais sur le terrain était assez similaire à toutes les enquêtes que j’avais pu lire : c’était les mêmes stratégies d’adaptation ou d’autocensure. J’ai été embauchée pour travailler sur l’égalité professionnelle, mais je n’arrivais pas à faire mon métier correctement, parce que je rencontrais beaucoup de résistances de la part de l’entreprise et de la part des hommes. Et comme je ne comprenais pas pourquoi on m’avait embauchée, je me suis dit que ça serait intéressant de poser la question des résistances des hommes, sachant que ce n’est pas beaucoup étudié par la littérature sociologique. J’ai changé un peu de sujet après le début de ma thèse, et c’est au moment où est sortie la traduction française des travaux de Raewyn Connell [Masculinités. Enjeux sociaux de l’hégémonie, Paris, Éditions Amsterdam, 2014, ndlr] : cet ouvrage m’a ouvert un espace intellectuel complètement fou ! Ça m’a beaucoup intéressée et je me suis engouffrée dans la question des masculinités.

    C’est donc la difficulté à faire ton travail qui a renversé ton point de vue, en fait ?

    Oui, la difficulté à faire le travail pour lequel j’ai été embauchée, qui consistait à mettre en place des politiques d’égalité professionnelle : je me rendais compte que non seulement je n’avais pas les moyens de les mettre en place, mais qu’en plus, tout le monde s’en foutait. Et je me suis rendue compte aussi que l’homme qui m’avait embauchée pour ce projet était lui-même extrêmement sexiste, et ne voyait pas l’existence des inégalités hommes-femmes, donc je n’arrivais pas à comprendre pourquoi il m’avait embauchée. J’ai compris plus tard que les raisons de mon embauche était une défense de ses propres intérêts professionnels, j’y reviendrai. Ce n’est pas qu’il était aveugle face aux inégalités – il travaillait dans le transport routier depuis 40 ans, évidemment que les choses avaient changé -, mais j’avais beau lui expliquer que les discriminations étaient plus pernicieuses, il était persuadé qu’il ne restait plus grand-chose à faire sur l’égalité hommes-femmes.

    Comment se manifeste cette “déstabilisation des identités masculines au et par le travail”, cette supposée « crise de la virilité », que tu évoques au début de ton livre ?

    Je me suis rendue compte en interviewant les anciens et les nouveaux que rien qu’en l’espace d’une génération, il y avait beaucoup moins d’attachement à l’entreprise. Les jeunes générations avaient très vite compris que pour monter dans la hiérarchie, pour être mieux payé ou pour avoir plus de responsabilités, il ne suffisait pas juste d’être loyal à l’entreprise : il fallait la quitter et changer de boulot, tout simplement. Ce n’est pas du tout l’état d’esprit des anciens, dont beaucoup étaient des autodidactes qui avaient eu des carrières ascensionnelles. Il y avait énormément de turnover, et ça créait un sentiment d’instabilité permanent. Il n’y avait plus d’esprit de solidarité ; ils n’arrêtaient pas de dire “on est une grande famille” mais au final, l’esprit de famille ne parlait pas vraiment aux jeunes. Par ailleurs, dans les années 2010, une nouvelle activité a été introduite : la logistique. Il y a eu beaucoup d’enquêtes sur le sujet ! Beaucoup de médias ont parlé de l’activité logistique avec les préparateurs de commandes par exemple, une population majoritairement intérimaire, très précaire, qui ne reste pas longtemps… et du coup, beaucoup d’ouvriers qui avaient un espoir d’ascension sociale se sont retrouvés contrariés. Ce n’est pas exactement du déclassement, mais beaucoup se sont sentis coincés dans une précarité, et d’autant plus face à moi qui suis sociologue, ça faisait un peu violence parfois. Donc c’est à la fois le fait qu’il y ait beaucoup de turnover, et le fait qu’il n’y ait plus le même sentiment de famille et de protection que pouvait apporter l’entreprise, qui font qu’il y a une instabilité permanente pour ces hommes-là. Et comme on sait que l’identité des hommes se construit en grande partie par le travail, cette identité masculine était mise à mal : si elle ne se construit pas par le travail, par quoi elle se construit ?

    Ça interroge beaucoup le lien que tu évoques entre le capitalisme et le patriarcat : la précarisation et la flexibilisation du travail entraînent donc un renforcement des résistances des hommes ?

    Oui, carrément. Il y a beaucoup d’hommes, surtout dans les métiers ouvriers, qui tirent une certaine fierté du fait de faire un “métier d’hommes ». Et donc, face à la précarisation du travail, c’est un peu tout ce qu’il leur reste. Si on introduit des femmes dans ces métiers-là, qui peuvent faire le boulot dont ils étaient si fiers parce que précisément c’est un “métier d’hommes”, forcément ça crée des résistances très fortes. Quand l’identité des hommes est déstabilisée (soit par la précarisation du travail, soit par l’entrée des femmes), ça crée des résistances très fortes.

    Tu explores justement les différentes formes de résistance, qui mènent à des identités masculines diversifiées. L’injonction principale est difficile : il faut être un homme « masculin mais pas macho ». Ceux qui sont trop machos, un peu trop à l’ancienne, sont disqualifiés, et ceux qui sont pas assez masculins, pareil. C’est un équilibre très fin à tenir ! Quelles sont les incidences concrètes de ces disqualifications dans le travail, comment se retrouvent ces personnes-là dans le collectif ?

    Effectivement, il y a plein de manières d’être homme et il ne suffit pas d’être un homme pour être dominant, encore faut-il l’être “correctement”. Et ce “correctement” est presque impossible à atteindre, c’est vraiment un idéal assez difficile. Par exemple, on peut avoir des propos sexistes, mais quand c’est trop vulgaire, que ça va trop loin, là ça va être disqualifié, ça va être qualifié de “beauf”, et pire, ça va qualifier la personne de pas très sérieuse, de quelqu’un à qui on ne pourra pas trop faire confiance. L’incidence de cette disqualification, c’est que non seulement la personne sera un peu mise à l’écart, mais en plus, ce sera potentiellement quelqu’un à qui on ne donnera pas de responsabilités. Parce qu’un responsable doit être un meneur d’hommes, il faut qu’il soit une figure exemplaire, il doit pouvoir aller sur le terrain mais aussi avoir des qualités d’encadrement et des qualités intellectuelles. Donc un homme trop vulgaire, il va avoir une carrière qui ne va pas décoller, ou des promotions qui ne vont pas se faire.

    Quant à ceux qui ne sont “pas assez masculins », je n’en ai pas beaucoup rencontrés, ce qui est déjà une réponse en soi !

    Peut-on dire qu’il y a une “mise à l’écart” des travailleurs les moins qualifiés, qui n’ont pas intégré les nouveaux codes de la masculinité, au profit des cadres ?

    Non, c’est un phénomène que j’ai retrouvé aussi chez les cadres. Mais chez les cadres, le conflit est plutôt générationnel : il y avait les vieux autodidactes et les jeunes loups, et c’est la course à qui s’adapte le mieux aux transformations du monde du travail, qui vont extrêmement vite, en particulier dans la grande distribution. C’est une des raisons pour laquelle le directeur des RH m’a embauchée : il avait peur de ne pas être dans le coup ! L’égalité professionnelle était un sujet, non seulement parce qu’il y avait des obligations légales mais aussi parce que dans la société, ça commençait à bouger un peu à ce moment-là. Donc il s’est dit que c’est un sujet porteur et que potentiellement pour sa carrière à lui, ça pouvait être très bon. Ça explique qu’il y ait des cadres qui adhèrent à des projets d’entreprise avec lesquels ils ne sont pas forcément d’accord, mais juste parce qu’il y a un intérêt final un peu égoïste en termes d’évolution de carrière.

    On dit toujours que les jeunes générations sont plus ouvertes à l’égalité que les aînés, je pense que ce n’est pas tout à fait vrai ; les aînés ont à cœur de s’adapter, ils ont tellement peur d’être dépassés que parfois ils peuvent en faire plus que les jeunes. Et par ailleurs, les jeunes sont ouverts, par exemple sur l’équilibre vie pro et vie perso, mais il y a quand même des injonctions (qui, pour le coup, sont propres au travail) de présentéisme, de présentation de soi, d’un ethos viril à performer… qui font qu’ils sont dans des positions où ils n’ont pas d’autres choix que d’adopter certains comportements virilistes. Donc certes, ils sont plus pour l’égalité hommes-femmes, mais ils ne peuvent pas complètement l’incarner.

    L’une de tes hypothèses fortes, c’est que le patriarcat ingurgite et adapte à son avantage toutes les revendications sur la fin des discriminations pour se consolider. Est-ce qu’on peut progresser sur l’égalité professionnelle, et plus globalement les questions de genre, sans que le patriarcat s’en empare à son avantage ?

    Très clairement, tant qu’on sera dans un système capitaliste, on aura toujours du patriarcat, à mon sens. C’était une hypothèse, maintenant c’est une certitude ! J’ai fait une analogie avec l’ouvrage de Luc Boltanski et Ève Chiapello, Le nouvel esprit du capitalisme, pour dire que la domination masculine est pareille que le capitalisme, elle trouve toujours des moyens de se renouveler. En particulier, elle est tellement bien imbriquée dans le système capitaliste qui fonctionne avec les mêmes valeurs virilistes (on associe encore majoritairement la virilité aux hommes), que les hommes partent avec des avantages compétitifs par rapport aux femmes. Donc quand les femmes arrivent dans des positions de pouvoir, est-ce que c’est une bonne nouvelle qu’elles deviennent “des hommes comme les autres”, c’est-à-dire avec des pratiques de pouvoir et de domination ? Je ne suis pas sûre. C’est “l’égalité élitiste” : des femmes arrivent à des positions de dirigeantes, mais ça ne change rien en dessous, ça ne change pas le système sur lequel ça fonctionne, à savoir : un système de domination, de hiérarchies et de jeux de pouvoir.

    Donc selon toi, l’imbrication entre patriarcat et capitalisme est indissociable ?

    Absolument, pour une simple et bonne raison : le capitalisme fonctionne sur une partie du travail gratuit qui est assuré par les femmes à la maison. Sans ce travail gratuit, le système capitaliste ne tiendrait pas. [à ce sujet, voir par exemple les travaux de Silvia Federici, Le capitalisme patriarcal, ndlr]

    Ça pose la question des politiques d’égalité professionnelle en entreprise : sans remise en question du système capitaliste, elles sont destinées à être seulement du vernis marketing ? On ne peut pas faire de vrais progrès ?

    Je pense que non. D’ailleurs, beaucoup de gens m’ont dit que mon livre était déprimant pour ça. Je pense que les politiques d’égalité professionnelle ne marchent pas car elles ne font pas sens sur le terrain. Les gens ne voient pas l’intérêt, parce qu’ils fonctionnent essentiellement d’un point de vue rationnel et économique (donc le but est de faire du profit, que l’entreprise tourne et qu’éventuellement des emplois se créent, etc), et ils ne voient pas l’intérêt d’investir sur ce sujet, surtout dans les milieux masculins car il n’y a pas suffisamment de femmes pour investir sur le sujet. J’ai beau leur dire que justement, s’il n’y a pas de femmes c’est que ça veut dire quelque chose, ils ont toujours des contre-arguments très “logiques” : par exemple la force physique. Ils ne vont pas permettre aux femmes de trouver une place égale sur les postes qui requièrent de la force physique. Quand les femmes sont intégrées et qu’elles trouvent une place valorisante, ce qui est le cas dans certains endroits, c’est parce qu’elles sont valorisées pour leurs qualités dites “féminines”, d’écoute, d’empathie, mais elles n’atteindront jamais l’égalité car précisément, elles sont valorisées pour leur différence. Le problème n’est pas la différence, ce sont les inégalités qui en résultent. On peut se dire que c’est super que tout le monde soit différent, mais on vit dans un monde où il y a une hiérarchie de ces différences. Ces qualités (écoute, empathie) sont moins valorisées dans le monde du travail que le leadership, l’endurance…

    Ça ne nous rassure pas sur les politiques d’égalité professionnelle…

    Si les politiques d’égalité professionnelle marchaient vraiment, on ne parlerait peut-être plus de ce sujet ! Je pense que les entreprises n’ont pas intérêt à ce qu’elles marchent, parce que ça fonctionne bien comme ça pour elles. Ca peut prendre des formes très concrètes, par exemple les RH disaient clairement en amont des recrutements : ”on prend pas de femmes parce que physiquement elles ne tiennent pas”, “les environnement d’hommes sont plus dangereux pour elles”, “la nuit c’est pas un environnement propice au travail des femmes”… Tu as beau répondre que les femmes travaillent la nuit aussi, les infirmières par exemple… Il y a un tas d’arguments qui montrent la construction sociale qui s’est faite autour de certains métiers, de certaines qualités professionnelles attendues, qu’il faudrait déconstruire – même si c’est très difficile à déconstruire. Ça montre toute une rhétorique capitaliste, mais aussi sexiste, qui explique une mise à l’écart des femmes.

    On a l’impression d’une progression linéaire des femmes dans le monde du travail, que ça avance doucement mais lentement, mais je constate que certains secteurs et certains métiers se déféminisent. On observe des retours en arrière dans certains endroits, ce qui légitime encore plus le fait de faire des enquêtes. Ce n’est pas juste un retour de bâton des vieux mormons qui veulent interdire l’avortement, il y aussi des choses plus insidieuses, des résistances diverses et variées.

    En plus, l’intensification du travail est un risque à long terme pour les femmes. Par exemple, il y a plus de femmes qui font des burnout. Ce n’est pas parce qu’elles sont plus fragiles psychologiquement, contrairement à ce qu’on dit, mais c’est parce qu’elles assurent des doubles journées, donc elles sont plus sujettes au burnout. Les transformations du monde du travail sont donc un risque avéré pour l’emploi des femmes, ne serait-ce que parce que par exemple, les agences d’intérim trient en amont les candidats en fonction de la cadence. Il faut redoubler de vigilance là-dessus.

    Tu analyses les types de masculinité qui se façonnent en fonction des facteurs de classe et de race. On voit que ce ne sont pas les mêmes types d’identités masculines, certaines sont dévalorisées. Quelles en sont les grandes différences ?

    Je ne vais pas faire de généralités car ça dépend beaucoup des milieux. Ce que Raewyn Connell appelle la “masculinité hégémonique”, au sens culturel et non quantitatif (assez peu d’hommes l’incarnent), qui prendrait les traits d’un homme blanc, d’âge moyen, hétérosexuel, de classe moyenne supérieure. Par rapport à ce modèle, il y a des masculinités “non-hégémoniques”, “subalternes”, qui forment une hiérarchie entre elles. Malgré le fait que ces masculinités soient plurielles, il y a une solidarité au sein du groupe des hommes par rapport au groupe des femmes, et à l’intérieur du groupe des hommes, il y a une hiérarchie entre eux. Les masculinités qu’on appelle subalternes sont plutôt les masculinités racisées ou homosexuelles. Elles s’expriment sous le contrôle de la masculinité hégémonique. Elles sont appréciées pour certaines qualités qu’elles peuvent avoir : j’ai pu voir que les ouvriers racisés étaient appréciés pour leur endurance, mais qu’ils étaient aussi assez craints pour leur “indiscipline” supposée. En fait, les personnes “dévalorisées” par rapport à la masculinité hégémonique sont appréciées pour leurs différences, mais on va craindre des défauts qui reposent sur des stéréotypes qu’on leur prête. Par exemple, les personnes racisées pour leur supposée indiscipline, les personnes des classes populaires pour leur supposé mode de vie tourné vers l’excès, les femmes pour leurs supposés crêpages de chignon entre elles…. C’est à double tranchant. Les qualités pour lesquelles elles sont valorisées sont précisément ce qui rend l’égalité impossible. Ces qualités qu’on valorise chez elles renforcent les stéréotypes féminins.

    Tu montres que le rapport au corps est central dans le travail des hommes : il faut s’entretenir mais aussi s’engager physiquement dans le travail, quitte à prendre des risques. Il y a une stratégie de déni de la souffrance, de sous-déclaration du stress chez les travailleurs : pour diminuer la souffrance physique et psychologique au travail, il faut changer les conditions de travail mais aussi changer le rapport des hommes à leur corps ?

    Je pensais que oui, mais je suis un peu revenue sur cette idée. Effectivement, il y plein d’études qui montrent que les hommes prennent plus de risques. C’est par exemple ce que décrit Christophe Dejours [psychiatre français spécialisé dans la santé au travail, ndlr] sur le “collectif de défense virile”, qui consiste à se jeter à corps perdu dans le travail pour anesthésier la peur ou la souffrance. Ce n’est pas forcément ce que j’ai observé dans mes enquêtes : en tout cas auprès des ouvriers (qui, pour le coup, avaient engagé leur corps assez fortement dans le travail), non seulement parce qu’ils ont bien conscience que toute une vie de travail ne pourra pas supporter les prises de risque inconsidérées, mais aussi parce qu’aujourd’hui la souffrance est beaucoup plus médiatisée. Cette médiatisation agit comme si elle donnait une autorisation d’exprimer sa souffrance, et c’est souvent un moyen d’entrée pour les syndicats pour l’amélioration des conditions de travail et de la santé au travail. Donc il y a un rapport beaucoup moins manichéen que ce qu’on prête aux hommes sur la prise de risques et le rapport au corps.

    En termes d’émotions, là c’est moins évident : on parle de plus en plus de burnout, mais à la force physique s’est substituée une injonction à la force mentale, à prendre sur soi. Et si ça ne va pas, on va faire en sorte que les individus s’adaptent au monde du travail, mais on ne va jamais faire en sorte que le monde du travail s’adapte au corps et à l’esprit des individus. On va donner des sièges ergonomiques, des ergosquelettes, on va créer des formations gestes et postures, on va embaucher des psychologues pour que les gens tiennent au travail, sans s’interroger sur ce qui initialement a causé ces souffrances.

    D’ailleurs, ce qui est paradoxal, c’est que l’entreprise va mettre en place tous ces outils, mais qu’elle va presque encourager les prises de risque, parce qu’il y a des primes de productivité ! Plus on va vite (donc plus on prend des risques), plus on gagne d’argent. C’est d’ailleurs les intérimaires qui ont le plus d’accidents du travail, déjà parce qu’ils sont moins formés, mais aussi parce qu’ils ont envie de se faire un max d’argent car ils savent très bien qu’ils ne vont pas rester longtemps.

    Donc ce sont les valeurs du capitalisme et ses incidences économiques (les primes par exemple) qui forgent ce rapport masculin au travail ?

    Oui, mais aussi parce qu’il y a une émulation collective. La masculinité est une pratique collective. Il y a une volonté de prouver qu’on est capable par rapport à son voisin, qu’on va dépasser la souffrance même si on est fatigué, et qu’on peut compter sur lui, etc. J’ai pu observer ça à la fois chez les cadres dans ce qu’on appelle les “boys clubs”, et sur le terrain dans des pratiques de renforcement viril.

    Tu n’as pas observé de solidarité entre les femmes ?

    Assez peu, et c’est particulièrement vrai dans les milieux masculins : la sororité est une solidarité entre femmes qui est très difficile à obtenir. J’en ai fait l’expérience en tant que chercheuse mais aussi en tant que femme. Je me suis dit que j’allais trouver une solidarité de genre qui m’aiderait à aller sur le terrain, mais en fait pas du tout. C’est parce que les femmes ont elles-mêmes intériorisé tout un tas de stéréotypes féminins. C’est ce que Danièle Kergoat appelle “le syllogisme des femmes”, qui dit : “toutes les femmes sont jalouses. Moi je ne suis pas jalouse. Donc je ne suis pas une femme.” Il y a alors une impossibilité de création de la solidarité féminine, parce qu’elles ne veulent pas rentrer dans ces stéréotypes dégradants de chieuses, de nunuches, de cuculs… Les femmes sont assez peu nombreuses et assez vites jugées, en particulier sur leurs tenues : les jugements de valeur sont assez sévères ! Par exemple si une femme arrive avec un haut un peu décolleté, les autres femmes vont être plutôt dures envers elle, beaucoup plus que les hommes d’ailleurs. Elles mettent tellement d’efforts à se créer une crédibilité professionnelle que tout à coup, si une femme arrive en décolleté, on ne va parler que de ça.

    Toi en tant que femme dans l’entreprise, tu dis que tu as souvent été renvoyée à ton genre. Il y a une forme de rappel à l’ordre.

    Oui, quand on est peu nombreuses dans un univers masculin, la féminité fait irruption ! Quels que soient tes attributs, que tu sois féminine ou pas tant que ça, tu vas avoir une pression, une injonction tacite à contrôler tous les paramètres de ta féminité. Ce ne sont pas les hommes qui doivent contrôler leurs désirs ou leurs remarques, mais c’est aux femmes de contrôler ce qu’elles provoquent chez les hommes, et la perturbation qu’elles vont provoquer dans cet univers masculin, parce qu’elles y font irruption.

    Toujours rappeler les femmes à l’ordre, c’est une obsession sociale. Les polémiques sur les tenues des filles à l’école, sur les tenues des femmes musulmanes en sont des exemples… Cette volonté de contrôle des corps féminins est-elle aussi forte que les avancées féministes récentes ?

    C’est difficile à mesurer mais ce n’est pas impossible. S’il y a des mouvements masculinistes aussi forts au Canada par exemple, c’est peut-être que le mouvement féministe y est hyper fort. Ce n’est pas impossible de se dire qu’à chaque fois qu’il y a eu une vague d’avancées féministes, quelques années plus tard, il y a forcément un retour de bâton. Avec ce qui s’est passé avec #metoo, on dirait que le retour de bâton a commencé avec le verdict du procès Johnny Depp – Amber Heard, puis il y a eu la la décision de la Cour Constitutionnelle contre l’avortement aux Etats-Unis… On n’est pas sorties de l’auberge, on est en train de voir se réveiller un mouvement de fond qui était peut-être un peu dormant, mais qui est bien présent. L’article sur les masculinistes qui vient de sortir dans Le Monde est flippant, c’est vraiment des jeunes. En plus, ils sont bien organisés, et ils ont une rhétorique convaincante quand tu ne t’y connais pas trop.

    Les milieux de travail très féminisés sont-ils aussi sujets à l’absence de sororité et à la solidarité masculine dont tu fais état dans ton enquête ?

    En général, les hommes qui accèdent à ces milieux ont un ”ascenseur de verre” (contrairement aux femmes qui ont le “plafond de verre”) : c’est un accès plus rapide et plus facile à des postes à responsabilité, des postes de direction. C’est le cas par exemple du milieu de l’édition : il y a énormément de femmes qui y travaillent mais les hommes sont aux manettes. Le lien avec capitalisme et virilité se retrouve partout – les hommes partent avec un avantage dans le monde du travail capitaliste, souvent du simple fait qu’ils sont des hommes et qu’on leur prête plus volontiers d’hypothétiques qualités de leader.

    Dans quelle mesure peut-on étendre tes conclusions à d’autres milieux de travail ou d’autres secteurs d’activité ? Est-ce que tes conclusions sont spécifiques à la population majoritairement ouvrière et masculine, et au travail en proie à l’intensification, étudiés dans ta thèse ?

    J’ai pensé mon travail pour que ce soit généralisable à plein d’entreprises. J’ai pensé cette enquête comme étant symptomatique, ou en tout cas assez représentative de plein de tendances du monde du travail : l’intensification, l’informatisation à outrance… Ces tendances se retrouvent dans de nombreux secteurs. Je dis dans l’intro : “depuis l’entrepôt, on comprend tout.” Comme partout, il y a de la rationalisation, de l’intensification, et de la production flexible. A partir de là, on peut réfléchir aux liens entre masculinités et capitalisme. Les problématiques de violence, de harcèlement sortent dans tous les milieux, aucun milieu social n’est épargné, précisément parce qu’elles ont des racines communes.

    Comment peut-on abolir le capitalisme, le patriarcat et le colonialisme ?

    Je vois une piste de sortie, une perspective politique majeure qui est de miser sur la sororité. La sororité fonctionne différemment des boys clubs, c’est beaucoup plus horizontal et beaucoup moins hiérarchique. Il y a cette même notion d’entraide, mais elle est beaucoup plus inclusive. Ce sont des dominées qui se rassemblent et qui refusent d’être dominées parce qu’elles refusent de dominer. Il faut prendre exemple sur les hommes qui savent très bien se donner des coups de main quand il le faut, mais faisons-le à bon escient. C’est une solution hyper puissante.

    Ne pas dominer, quand on est dominante sur d’autres plans (quand on est blanche par exemple), ça revient à enrayer les différents systèmes de domination.

    Tout à fait. Les Pinçon-Charlot, on leur a beaucoup reproché d’avoir travaillé sur les dominants, et c’est le cas aussi pour les masculinités ! Il y a plusieurs types de critique : d’abord, il y a un soupçon de complaisance avec ses sujets d’étude, alors qu’il y a suffisamment de critique à l’égard de nos travaux pour éviter ce biais. Ensuite, on est souvent accusé.e.s de s’intéresser à des vestiges ou à des pratiques dépassés, parce que les groupes (hommes, ou bourgeois) sont en transformation ; en fait, les pratiques de domination se transforment, mais pas la domination ! Enfin, on peut nous reprocher de mettre en lumière des catégories “superflues”, alors qu’on devrait s’intéresser aux dominé.e.s… mais on a besoin de comprendre le fonctionnement des dominant.e.s pour déconstruire leur moyen de domination, et donner des armes à la sororité.

    https://www.frustrationmagazine.fr/entretien-rivoal
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  • Decolonize your eyes, Padova.. Pratiche visuali di decolonizzazione della città

    Introduzione
    Il saggio a tre voci è composto da testi e due video.[1]
    Mackda Ghebremariam Tesfau’ (L’Europa è indifendibile) apre con un una riflessione sulle tracce coloniali che permangono all’interno degli spazi urbani. Lungi dall’essere neutre vestigia del passato, questi segni sono tracce di una storia contesa, che si situa contemporaneamente al cuore e ai margini invisibili della rappresentazione di sé dell’occidente. La dislocazione continua del fatto coloniale nella memoria storica informa il discorso che è oggi possibile sul tema delle migrazioni, del loro governo e dei rapporti tra Nord e Sud Globale. La stessa Europa di cui Césaire dichiarava “l’indifendibilità” è ora una “fortezza” che presidia i suoi confini dal movimento di ritorno postcoloniale.
    Annalisa Frisina (Pratiche visuali di decolonizzazione della città) prosegue con il racconto del percorso didattico e di ricerca Decolonizzare la città. Dialoghi visuali a Padova, realizzato nell’autunno del 2020. Questa esperienza mostra come sia possibile performare la decolonizzazzione negli spazi pubblici e attivare contro-politiche della memoria a livello urbano. Le pratiche visuali di decolonizzazione sono utili non solo per fare vacillare statue e nomi di vie, ma soprattutto per mettere in discussione le visioni del mondo e le gerarchie sociali che hanno reso possibile celebrare/dimenticare la violenza razzista e sessista del colonialismo. Le vie coloniali di Padova sono state riappropriate dai corpi, dalle voci e dagli sguardi di sei cittadine/i italiane/i afrodiscendenti, facendo uscire dall’insignificanza le tracce coloniali urbane e risignificandole in modo creativo.
    Infine, Salvatore Frisina (L’esperienza del A.S.D. Quadrato Meticcio) conclude il saggio soffermandosi sui due eventi urbani Decolonize your eyes (giugno e ottobre 2020), promossi dall’associazione Quadrato Meticcio, che ha saputo coinvolgere in un movimento decoloniale attori sociali molto eterogenei. Da quasi dieci anni questa associazione di sport popolare, radicata nel rione Palestro di Padova, favorisce la formazione di reti sociali auto-gestite e contribuisce alla lotta contro discriminazioni multiple (di classe, “razza” e genere). La sfida aperta dai movimenti antirazzisti decoloniali è infatti quella di mettere insieme processi simbolici e materiali.

    L’Europa è indifendibile
    L’Europa è indifendibile, scrive Césaire nel celebre passo iniziale del suo Discorso sul colonialismo (1950). Questa indifendibilità non è riferita tanto al fatto che l’Europa abbia commesso atti atroci quanto al fatto che questi siano stati scoperti. La “scopertura” è “svelamento”. Ciò che viene svelata è la natura stessa dell’impresa “Europa” e lo svelamento porta all’impossibilità di nascondere alla “coscienza” e alla “ragione” tali fatti: si tratta di un’indifendibilità “morale” e “spirituale”. A portare avanti questo svelamento, sottraendosi alla narrazione civilizzatrice che legittima – ovvero che difende – l’impresa coloniale sono, secondo Césaire, le masse popolari europee e i colonizzati che “dalle cave della schiavitù si ergono giudici”. Era il 1950.
    A più di sessant’anni di distanza, oggi l’Europa è tornata ad essere ben difesa, i suoi confini materiali e simbolici più che mai presidiati. Come in passato, tuttavia, uno svelamento della sua autentica natura potrebbe minarne le fondamenta. È quindi importante capire quale sia la narrazione che oggi sostiene la fortezza Europa.
    La scuola decoloniale ha mostrato come la colonialità sia un attributo del potere, la scuola postcoloniale come leggerne i segni all’interno della cultura materiale. Questa stessa cultura è stata interrogata, al fine di portarne alla luce gli impliciti. È successo ripetutamente alla statua di Montanelli, prima oggetto dell’azione di Non Una di Meno Milano, poi del movimento Black Lives Matter Italia. È successo alla fermata metro di Roma Amba Aradam. È successo anche alle vie coloniali di Padova. La reazione a queste azioni – reazione comune a diversi contesti internazionali – è particolarmente esplicativa della necessità, del Nord globale, di continuare a difendersi.
    Il fronte che si è aperto in contrapposizione alla cosiddetta cancel culture[2] si è battuto per la tutela del “passato” e della “Storia”, così facendo ribadendo un potere non affatto scontato, che è quello di decidere cosa sia “passato” e quale debba essere la Storia raccontata – oltre che il come debba essere raccontata. Le masse che si sono radunate sotto le statue abbattute, deturpate e sfidate, l’hanno fatto per liberare “passato” e “Storia” dal dominio bianco, maschile e coloniale che ha eretto questi monumenti a sua immagine e somiglianza. La posta in gioco è, ancora, uno svelamento, la presa di coscienza del fatto che queste non sono innocue reliquie di un passato disattivato, ma piuttosto la testimonianza silente di una Storia che lega indissolubilmente passato a presente, Nord globale e Sud globale, colonialismo e migrazioni. Riattivare questo collegamento serve a far crollare l’impalcatura ideologica sulla quale oggi si fonda la pretesa di sicurezza invocata e agita dall’Europa.
    Igiaba Scego e Rino Bianchi, in Roma Negata (2014), sono stati tra i primi a dedicare attenzione a queste rumorose reliquie in Italia. L’urgenza che li ha spinti a lavorare sui resti coloniali nella loro città è l’oblio nel quale il colonialismo italiano è stato relegato. Come numerosi autrici e autori postcoloniali hanno dimostrato, tuttavia, questo oblio è tutt’altro che improduttivo. La funzione che svolge è infatti letteralmente salvifica, ovvero ha lo scopo di salvare la narrazione nazionale dalle possibili incrinature prodotte dallo svelamento alla “barra della coscienza” (Césaire 1950) delle responsabilità coloniali e dei modi in cui si è stati partecipi e protagonisti della costruzione di un mondo profondamente diseguale. Al contempo, la presenza di questi monumenti permette, a livello inconscio, di continuare a godere del senso di superiorità imperiale di cui sono intrisi, di continuare cioè a pensarsi come parte dell’Europa e del Nord Globale, con ciò che questo comporta. Che cosa significa dunque puntarvi il dito? Che cosa succede quando la memoria viene riattivata in funzione del presente?
    La colonialità ha delle caratteristiche intrinseche, ovvero dei meccanismi che ne presiedono il funzionamento. Una di queste caratteristiche è la produzione costante di confini. Questa necessità è evidente sin dai suoi albori ed è rintracciabile anche in pagine storiche che non sono abitualmente lette attraverso una lente coloniale. Un esempio è la riflessione marxiana dei Dibattiti sulla legge contro i furti di legna[3], in cui il pensatore indaga il fenomeno delle enclosure, le recinzioni che tra ‘700 e ‘800 comparvero in tutta Europa al fine di rendere privati i fondi demaniali, usati consuetudinariamente dalla classe contadina come supporto alla sussistenza del proprio nucleo attraverso la caccia e la raccolta. Distinzione, definizione e confinamento sono processi materiali e simbolici centrali della colonialità. Per contro, connettere, comporre e sconfinare sono atti di resistenza al potere coloniale.
    Da tempo Gurminder K. Bhambra (2017) ha posto l’accento sull’importanza di questo lavoro di ricucitura storica e sociologica. Secondo l’autrice la stessa distinzione tra cittadino e migrante è frutto di una concettualizzazione statuale che fonda le sue categorie nel momento storico degli imperi. In questo senso per Bhambra tale distinzione poggia su di una lettura inadeguata della storia condivisa. Tale lettura ha l’effetto di materializzare l’uno – il cittadino – come un soggetto avente diritti, come un soggetto “al giusto posto”, e l’altro – il migrante – come un soggetto “fuori posto”, qualcuno che non appartiene allo stato nazione.
    Questo cortocircuito storico è reso evidente nella mappa coloniale che abbiamo deciso di “sfidare” nel video partecipativo. La raffigurazione dell’Impero Italiano presente in piazza delle Erbe a Padova raffigura Eritrea, Etiopia, Somalia, Libia, Albania e Italia in bianco, affinché risaltino sullo sfondo scuro della cartina. Su questo spazio bianco è possibile tracciare la rotta che oggi le persone migranti intraprendono per raggiungere la Libia da numerosi paesi subsahariani, tra cui la Somalia, l’Eritrea e l’Etiopia, la stessa Libia che è stata definita un grande carcere a cielo aperto. Dal 2008 infatti Italia e Libia sono legate da accordi bilaterali. Secondo questi accordi l’Italia si è impegnata a risarcire la Libia per l’occupazione coloniale, e in cambio la Libia ha assunto il ruolo di “guardiano” dei confini italiani, ruolo che agisce attraverso il contenimento delle persone migranti che raggiungono il paese per tentare la traversata mediterranea verso l’Europa. Risulta evidente come all’interno di questi accordi vi è una riattivazione del passato – il risarcimento coloniale – che risulta paradossalmente neocoloniale piuttosto che de o anti-coloniale.
    L’Italia è indifendibile, eppure si difende. Si difende anche grazie all’ombra in cui mantiene parti della sua storia, e si difende moltiplicando i confini coloniali tra cittadini e stranieri, tra passato e presente. Questo passato non è però tale, al contrario plasma il presente traducendo vecchie disuguaglianze sotto nuove vesti. Oggi la dimensione coloniale si è spostata sui corpi migranti, che si trovano ad essere marchiati da una differenza che produce esclusione nel quotidiano.
    I confini coloniali – quelli materiali come quelli simbolici – si ergono dunque a difesa dell’Italia e dell’Europa. Come nel 1950 però, questa difendibilità è possibile solo a patto che le masse popolari e subalterne accettino e condividano la narrazione coloniale, che è stata ieri quella della “missione civilizzatrice” ed è oggi quella della “sicurezza”. Al fine di decolonizzare il presente è dunque necessario uscire da queste narrazioni e riconnettere il passato alla contemporaneità al fine di svelare la natura coloniale del potere oggi. Così facendo la difesa dell’Europa potrà essere nuovamente scalfibile.
    Il video partecipativo realizzato a Padova va esattamente in questa direzione: cerca di ricucire storie e relazioni interrotte e nel farlo pone al centro il fatto coloniale nella sua continuità e contemporaneità.

    Pratiche visuali di decolonizzazione della città
    Il video con Mackda Ghebremariam Tesfau è nato all’interno del laboratorio di Visual Research Methods dell’Università di Padova. Da diversi anni, questo laboratorio è diventato un’occasione preziosa per fare didattica e ricerca in modo riflessivo e collaborativo, affrontando il tema del razzismo nella società italiana attraverso l’analisi critica della visualità legata alla modernità europea e attraverso la sperimentazione di pratiche contro-visuali (Mirzoeff 2011). Come docente, ho provato a fare i conti con “l’innocenza bianca” (Wekker 2016) e spingere le mie studentesse e i miei studenti oltre la memoria auto-assolutoria del colonialismo italiano coi suoi miti (“italiani brava gente”, “eravamo lì come migranti straccioni” ecc.). Per non restare intrappolate/i nella colonialità del potere, le/li/ci ho invitate/i a prendere consapevolezza di quale sia il nostro sguardo su noi stessi nel racconto che facciamo degli “altri” e delle “altre”, mettendo in evidenza il peso delle divisioni e delle gerarchie sociali. Come mi hanno detto alcune mie studentesse, si tratta di un lavoro faticoso e dal punto di vista emotivo a volte difficilmente sostenibile. Eppure, penso sia importante (far) riconoscere il proprio “disagio” in quanto europei/e “bianchi/e” e farci qualcosa collettivamente, perché il sentimento di colpa individuale è sterile, mentre la responsabilità è capacità di agire, rispondere insieme e prendere posizione di fronte ai conflitti sociali e alle disuguaglianze del presente.
    Nel 2020 la scommessa è stata quella di fare insieme a italiani/e afrodiscendenti un percorso di video partecipativo (Decolonizzare la città. Dialoghi visuali a Padova[4]) e di utilizzare il “walk about” (Frisina 2013) per fare passeggiate urbane con studentesse e studenti lasciandosi interpellare dalle tracce coloniali disseminate nella città di Padova, in particolare nel rione Palestro dove abito. La congiuntura temporale è stata cruciale.
    Da una parte, ci siamo ritrovate nell’onda del movimento Black Lives Matter dopo l’omicidio di George Floyd a Minneapolis. Come discusso altrove (Frisina & Ghebremariam Tesfau’ 2020, pp. 399-401), l’antirazzismo è (anche) una contro-politica della memoria e, specialmente nell’ultimo anno, a livello globale, diversi movimenti hanno messo in discussione il passato a partire da monumenti e da vie che simbolizzano l’eredità dello schiavismo e del colonialismo. Inevitabilmente, in un’Europa post-coloniale in cui i cittadini hanno le origini più diverse da generazioni e in cui l’attivismo degli afrodiscendenti diventa sempre più rilevante, si sono diffuse pratiche di risignificazione culturale attraverso le quali è impossibile continuare a vedere statue, monumenti, musei, vie intrise di storia coloniale in modo acritico; e dunque è sempre più difficile continuare a vedersi in modo innocente.
    D’altra parte, il protrarsi della crisi sanitaria legata al covid-19, con le difficoltà crescenti a fare didattica in presenza all’interno delle aule universitarie, ha costituito sia una notevole spinta per uscire in strada e sperimentare forme di apprendimento più incarnate e multisensoriali, sia un forte limite alla socialità che solitamente accompagna la ricerca qualitativa, portandoci ad accelerare i tempi del laboratorio visuale in modo da non restare bloccati da nuovi e incalzanti dpcm. Nel giro di soli due mesi (ottobre-novembre 2020), dunque, abbiamo realizzato il video con l’obiettivo di far uscire dall’insignificanza alcune tracce coloniali urbane, risignificandole in modo creativo.
    Il video è stato costruito attraverso pratiche visuali di decolonizzazione che hanno avuto come denominatore comune l’attivazione di contro-politiche della memoria, a partire da sguardi personali e familiari, intimamente politici. Le sei voci narranti mettono in discussione le gerarchie sociali che hanno reso possibile celebrare/dimenticare la violenza razzista e sessista del colonialismo e offrono visioni alternative della società, perché capaci di aspirare e rivendicare maggiore giustizia sociale, la libertà culturale di scegliersi le proprie appartenenze e anche il potere trasformativo della bellezza artistica.
    Nel video, oltre a Mackda Ghebremariam Tesfau’, ci sono Wissal Houbabi, Cadigia Hassan, Ilaria Zorzan, Emmanuel M’bayo Mertens e Viviana Zorzato, che si riappropriano delle tracce coloniali con la presenza dei loro corpi in città e la profondità dei loro sguardi.
    Wissal, artista “figlia della diaspora e del mare di mezzo”, “reincarnazione del passato rimosso”, si muove accompagnata dalla canzone di Amir Issa Non respiro (2020). Lascia la sua poesia disseminata tra Via Catania, via Cirenaica, via Enna e Via Libia.

    «Cerchiamo uno spiraglio per poter respirare, soffocati ben prima che ci tappassero la bocca e ci igienizzassero le mani, cerchiamo una soluzione per poter sopravvivere […]
    Non siamo sulla stessa barca e ci vuole classe a non farvelo pesare. E la mia classe sociale non ha più forza di provare rabbia o rancore.
    Il passato è qui, insidioso tra le nostre menti e il futuro è forse passato.
    Il passato è qui anche se lo dimentichi, anche se lo ignori, anche se fai di tutto per negare lo squallore di quel che è stato, lo Stato e che preserva lo status di frontiere e ius sanguinis.
    Se il mio popolo un giorno volesse la libertà, anche il destino dovrebbe piegarsi».

    Cadigia, invece, condivide le fotografie della sua famiglia italo-somala e con una sua amica si reca in Via Somalia. Incontra una ragazza che abita lì e non ha mai capito la ragione del nome di quella via. Cadigia le offre un suo ricordo d’infanzia: passando da via Somalia con suo padre, da bambina, gli aveva chiesto perché si chiamasse così, senza ricevere risposta. E si era convinta che la Somalia dovesse essere importante. Crescendo, però, si era resa conto che la Somalia occupava solo un piccolo posto nella storia italiana. Per questo Cadigia è tornata in via Somalia: vuole lasciare traccia di sé, della sua storia familiare, degli intrecci storici e rendere visibili le importanti connessioni che esistono tra i due paesi. Via Somalia va fatta conoscere.
    Anche Ilaria si interroga sul passato coloniale attraverso l’archivio fotografico della sua famiglia italo-eritrea. Gli italiani in Eritrea si facevano spazio, costruendo strade, teleferiche, ferrovie, palazzi… E suo nonno lavorava come macchinista e trasportatore, mentre la nonna eritrea, prima di sposare il nonno, era stata la sua domestica. Ispirata dal lavoro dell’artista eritreo-canadese Dawit L. Petros, Ilaria fa scomparire il suo volto dietro fotografie in bianco e nero. In Via Asmara, però, lo scopre e si mostra, per vedersi finalmente allo specchio.
    Emmanuel è un attivista dell’associazione Arising Africans. Nel video lo vediamo condurre un tour nel centro storico di Padova, in Piazza Antenore, ex piazza 9 Maggio. Emmanuel cita la delibera con la quale il comune di Padova dedicò la piazza al giorno della “proclamazione dell’impero” da parte di Mussolini (1936). Secondo Emmanuel, il fascismo non è mai scomparso del tutto: ad esempio, l’idea dell’italianità “per sangue” è un retaggio razzista ancora presente nella legge sulla cittadinanza italiana. Ricorda che l’Italia è sempre stata multiculturale e che il mitico fondatore di Padova, Antenore, era un profugo, scappato da Troia in fiamme. Padova, così come l’Italia, è inestricabilmente legata alla storia delle migrazioni. Per questo Emmanuel decide di lasciare sull’edicola medioevale, che si dice contenga le spoglie di Antenore, una targa dedicata alle migrazioni, che ha i colori della bandiera italiana.
    Chiude il video Viviana, pittrice di origine eritrea. La sua casa, ricca di quadri ispirati all’iconografia etiope, si affaccia su Via Amba Aradam. Viviana racconta del “Ritratto di ne*ra”, che ha ridipinto numerose volte, per anni. Farlo ha significato prendersi cura di se stessa, donna italiana afrodiscendente. Riflettendo sulle vie coloniali che attraversa quotidianamente, sostiene che è importante conoscere la storia ma anche ricordare la bellezza. Amba Alagi o Amba Aradam non possono essere ridotte alla violenza coloniale, sono anche nomi di montagne e Viviana vuole uno sguardo libero, capace di bellezza. Come Giorgio Marincola, Viviana continuerà a “sentire la patria come una cultura” e non avrà bandiere dove piegare la testa. Secondo Viviana, viviamo in un periodo storico in cui è ormai necessario “decolonizzarsi”.

    Anche nel nostro percorso didattico e di ricerca la parola “decolonizzare” è stata interpretata in modi differenti. Secondo Bhambra, Gebrial e Nişancıoğlu (2018) per “decolonizzare” ci deve essere innanzitutto il riconoscimento che il colonialismo, l’imperialismo e il razzismo sono processi storici fondamentali per comprendere il mondo contemporaneo. Tuttavia, non c’è solo la volontà di costruire la conoscenza in modi alternativi e provincializzare l’Europa, ma anche l’impegno a intrecciare in modo nuovo movimenti anti-coloniali e anti-razzisti a livello globale, aprendo spazi inediti di dialogo e dando vita ad alleanze intersezionali.

    L’esperienza del A.S.D. Quadrato Meticcio
    Il video-partecipativo è solo uno degli strumenti messi in atto a Padova per intervenire sulla memoria coloniale. Con l’evento pubblico urbano chiamato Decolonize your Eyes (20 giugno 2020), seguito da un secondo evento omonimo (18 Ottobre 2020), attivisti/e afferenti a diversi gruppi e associazioni che lavorano nel sociale si incontrano a favore di uno scopo che, come poche volte precedentemente, consente loro di agire all’unisono. Il primo evento mette in scena il gesto simbolico di cambiare, senza danneggiare, i nomi di matrice coloniale di alcune vie del rione Palestro, popolare e meticcio. Il secondo agisce soprattutto all’interno di piazza Caduti della Resistenza (ex Toselli) per mezzo di eventi performativi, artistici e laboratoriali con l’intento di coinvolgere un pubblico ampio e riportare alla memoria le violenze coloniali italiane. Ai due eventi contribuiscono realtà come l’asd Quadrato Meticcio, la palestra popolare Chinatown, Non una di meno-Padova, il movimento ambientalista Fridays for future, il c.s.o. Pedro e l’Associazione Nazionale Partigiani Italiani (anpi).
    Si è trattato di un rapporto di collaborazione mutualistico. L’anpi «indispensabile sin dalle prime battute nell’organizzazione» – come racconta Camilla[5] del Quadrato Meticcio – ha contribuito anche ai dibattiti in piazza offrendo densi spunti storici sulla Resistenza. Fridays for future, impegnata nella lotta per l’ambiente, è intervenuta su via Lago Ascianghi, luogo in cui, durante la guerra d’Etiopia, l’utilizzo massiccio di armi chimiche da parte dell’esercito italiano ha causato danni irreversibili anche dal punto di vista della devastazione del territorio. Ha sottolineato poi come l’odierna attività imprenditoriale dell’eni riproduca lo stesso approccio prevaricatore colonialista. Non una di meno-Padova, concentrandosi sulle tematiche del trans-femminismo e della lotta di genere, ha proposto un dibattito intitolando l’attuale via Amba Aradam a Fatima, la bambina comprata da Montanelli secondo la pratica coloniale del madamato. Durante il secondo evento ha realizzato invece un laboratorio di cartografia con gli abitanti del quartiere di ogni età, proponendogli di tracciare su una mappa le rotte dal luogo d’origine a Padova: un gesto di sensibilizzazione sul rapporto tra memoria e territorio. Il c.s.o. Pedro ha invece offerto la strumentazione mobile e di amplificazione sonora che ha permesso a ogni intervento di diffondersi in tutto il quartiere.
    Rispetto alla presenza attiva nel quartiere, Il Quadrato Meticcio, il quale ha messo a disposizione gli spazi della propria sede come centrale operativa di entrambi gli eventi, merita un approfondimento specifico.
    Mattia, il fondatore dell’associazione, mi racconta che nel 2008 il “campetto” – così chiamato dagli abitanti del quartiere – situato proprio dietro la “piazzetta” (Piazza Caduti della Resistenza), sarebbe dovuto diventare un parcheggio, ma “l’intervento congiunto della comunità del quartiere lo ha preservato”. Quando gli chiedo come si inserisca l’esperienza dell’associazione in questo ricordo, risponde: “Ho navigato a vista dopo quell’occasione. Mi sono accorto che c’era l’esigenza di valorizzare il campo e che il gioco del calcio era un contesto di incontro importante per i ragazzi. La forma attuale si è consolidata nel tempo”. Adesso, la presenza costante di una vivace comunità “meticcia” – di età che varia dagli otto ai sedici anni – è una testimonianza visiva e frammentaria della cultura familiare che i ragazzi si portano dietro. Come si evince dalla testimonianza di Mattia: «Loro non smettono mai di giocare. Sono in strada tutto il giorno e passano la maggior parte del tempo con il pallone ai piedi. Il conflitto tra di loro riflette i conflitti che vivono in casa. Ognuno di loro appartiene a famiglie economicamente in difficoltà, che condividono scarsi accessi a opportunità finanziarie e sociali in generale. Una situazione che inevitabilmente si ripercuote sull’emotività dei ragazzi, giorno dopo giorno».

    L’esperienza dell’associazione si inserisce all’interno di una rete culturale profondamente complessa ed eterogenea. L’intento dell’associazione, come racconta Camilla, è quello di offrire una visione inclusiva e una maggiore consapevolezza dei processi coloniali e post-coloniali a cui tutti, direttamente o indirettamente, sono legati; un approccio simile a quello della palestra popolare Chinatown, che offre corsi di lotta frequentati spesso dagli stessi ragazzi che giocano nel Quadrato Meticcio. L’obiettivo della palestra è quello di educare al rispetto reciproco attraverso la simulazione controllata di situazioni conflittuali legate all’uso di stereotipi etno-razziali e di classe, gestendo creativamente le ambivalenze dell’intimità culturale (Herzfeld, 2003). Uber[6], fra i più attivi promotori di Decolonize your eyes e affiliato alla palestra, racconta che: «Fin tanto che sono ragazzini, può essere solo un gioco, e tra di loro possono darsi man forte ogni volta che si scontrano con il razzismo brutale che questa città offre senza sconti. Ma ho paura che presto per loro sarà uno shock scoprire quanto può far male il razzismo a livello politico, lavorativo, legale… su tutti i fronti. E ho paura soprattutto che non troveranno altro modo di gestire l’impatto se non abbandonandosi agli stereotipi che gli orbitano già attorno».

    La mobilitazione concertata del 2008 a favore della preservazione del “campetto”, ha molto in comune con il contesto dal quale è emerso Decolonize your eyes. È “quasi un miracolo” di partecipazione estesa, mi racconta Uber, considerando che storicamente le “realtà militanti” di Padova hanno sempre faticato ad allearsi e collaborare. Similmente, con una vena solenne ma scherzosa, Camilla definisce entrambi gli eventi “necessari”. Lei si è occupata di gestire anche la “chiamata” generale: “abbiamo fatto un appello aperto a tutti sui nostri social network e le risposte sono state immediate e numerose”. Uber mi fa presente che “già da alcune assemblee precedenti si poteva notare l’intenzione di mettere da parte le conflittualità”. Quando gli chiedo perché, risponde “perché non ne potevamo più [di andare l’uno contro l’altro]”. Camilla sottolinea come l’impegno da parte dell’anpi di colmare le distanze generazionali, nei concetti e nelle pratiche, sia stato particolarmente forte e significativo.

    Avere uno scopo comune sembra dunque essere una prima risorsa per incontrarsi. Ma è nel modo in cui le conflittualità vengono gestite quotidianamente che può emergere una spinta rivoluzionaria unitaria. In effetti, «[…] l’equilibrio di un gruppo non nasce per forza da uno stato di inerzia, ma spesso da una serie di conflitti interni controllati» (Mauss, 2002, p. 194).
    Nel frattempo il Quadrato Meticcio ha rinnovato il suo impegno nei confronti del quartiere dando vita a una nuova iniziativa, chiamata All you can care, basata sullo scambio mutualistico di beni di prima necessità. Contemporaneamente, i progetti per un nuovo Decolonize your eyes vanno avanti e, da ciò che racconta Camilla, qualcosa sembra muoversi:
    «Pochi giorni fa una signora ci ha fermati per chiederci di cambiare anche il nome della sua via – anch’essa di rimando coloniale. Stiamo avendo anche altre risposte positive, altre realtà vogliono partecipare ai prossimi eventi».
    L’esperienza di Decolonize your eyes è insomma una tappa di un lungo progetto di decolonizzazione dell’immaginario e dell’utilizzo dello spazio pubblico che coinvolge molte realtà locali le quali, finalmente, sembrano riconoscersi in una lotta comune.

    Note
    [1] Annalisa Frisina ha ideato la struttura del saggio e ha scritto il paragrafo “Pratiche visuali di decolonizzazione della città”; Mackda Ghebremariam Tesfau’ ha scritto il paragrafo “L’Europa è indifendibile” e Salvatore Frisina il paragrafo “L’esperienza del A.S.D. Quadrato Meticcio”.
    [2] Cancel culture è un termine, spesso utilizzato con un’accezione negativa, che è stato usato per indicare movimenti emersi negli ultimi anni che hanno fatto uso del digitale, come quello il #metoo femminista, e che è stato usato anche per indicare le azioni contro le vestigia coloniali e razziste che si sono date dal Sud Africa agli Stati Uniti all’Europa.
    [3] Archivio Marx-Engels
    [4] Ho ideato con Elisabetta Campagni il percorso di video partecipativo nella primavera del 2020, rispondendo alla call “Cinema Vivo” di ZaLab; il nostro progetto è rientrato tra i primi cinque votati e supportati dal crowfunding.
    [5] Da un’intervista realizzata dall’autore in data 10/12/2020 a Camilla Previati e Mattia Boscaro, il fondatore dell’associazione.
    [6] Da un’intervista realizzata con Uber Mancin dall’autore in data 9/12/2020.
    [7] Le parti introduttive e finali del video sono state realizzate con la gentile concessione dei materiali audiovisivi da parte di Uber Mancin (archivio privato).

    Bibliografia
    Bhambra, G., Nişancıoğlu, K. & Gebrial, D., Decolonising the University, Pluto Press, London, 2018.
    Bhambra, G. K., The current crisis of Europe: Refugees, colonialism, and the limits of cosmopolitanism, in: «European Law Journal», 23(5): 395-405. 2017.
    Césaire, A. (1950), Discorso sul colonialismo, Mellino, M. (a cura di), Ombre corte, Verona, 2010.
    Frisina, A., Ricerca visuale e trasformazioni socio-culturali, utet Università, Torino, 2013.
    Frisina, A. e Ghebremariam Tesfau’, M., Decolonizzare la città. L’antirazzismo come contro-politica della memoria. E poi?, «Studi Culturali», Anno XVII, n. 3, Dicembre, pp. 399-412. 2020.
    Herzfeld, M., & Nicolcencov, E., Intimità culturale: antropologia e nazionalismo, L’ancora del Mediterraneo, 2003.
    Mauss, M., Saggio sul dono: forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, G. Einaudi, Torino, 2002.
    Mirzoeff, N., The Right to Look: A Counterhistory of Visuality, Duke University Press, Durham e London, 2011.
    Scego, I., & Bianchi, R., Roma negata. Percorsi postcoloniali nella città, Ediesse, Roma, 2014.
    Wekker, G., White Innocence: Paradoxes of Colonialism and Race, Duke University Press, Durham and London, 2016.

    https://www.roots-routes.org/decolonize-your-eyes-padova-pratiche-visuali-di-decolonizzazione-della
    #décolonisation #décolonial #colonialisme #traces_coloniales #Italie #Italie_coloniale #colonialisme_italien #statues #Padova #Padoue

    ping @cede (même si c’est en italien...)

  • Quand la “Remontada” d’Arnaud Montebourg dégringole en “Zemmourada” | Lignes de force
    https://lignesdeforce.wordpress.com/2021/11/07/quand-la-remontada-darnaud-montebourg-degringole-en-zemmour

    Quand la “Remontada” d’Arnaud Montebourg dégringole en “Zemmourada”

    Ou Le Grand Jury chaque dimanche sur RTL : un Spartouch la balle au centre.
    #fumisterie

  • 700,000 lines of code, 20 years, and one developer: How Dwarf Fortress is built - Stack Overflow Blog
    https://stackoverflow.blog/2021/07/28/700000-lines-of-code-20-years-and-one-developer-how-dwarf-fortress-i

    Q: You have the most interesting release notes. What’s your favorite bug and what caused it?

    A: It’s probably boring for me to say, but I just can’t beat the drunken cat bug. There’ve been a few videos made about it by this point. That was the one where the cats were showing up dead all over the tavern floor, and it turned out they were ingesting spilled alcohol when they cleaned their paws. One number was off in the ingest-while-cleaning code, and it sent them through all the symptoms of alcohol poisoning (which we added when we spruced up venomous creatures.)

    #jeu_vidéo #jeux_vidéo #jeu_vidéo_dwarf_fortress #développement #tarn_adams #interview #entrevue #ascii_art

  • Up and Then Down | The New Yorker
    https://www.newyorker.com/magazine/2008/04/21/up-and-then-down

    Two things make tall buildings possible: the steel frame and the safety elevator. The elevator, underrated and overlooked, is to the city what paper is to reading and gunpowder is to war. Without the elevator, there would be no verticality, no density, and, without these, none of the urban advantages of energy efficiency, economic productivity, and cultural ferment. The population of the earth would ooze out over its surface, like an oil slick, and we would spend even more time stuck in traffic or on trains, traversing a vast carapace of concrete. And the elevator is energy-efficient—the counterweight does a great deal of the work, and the new systems these days regenerate electricity. The elevator is a hybrid, by design.

    While anthems have been written to jet travel, locomotives, and the lure of the open road, the poetry of vertical transportation is scant. What is there to say, besides that it goes up and down? In “The Intuitionist,” Colson Whitehead’s novel about elevator inspectors, the conveyance itself is more conceit than thing; the plot concerns, among other things, the quest for a “black box,” a perfect elevator, but the nature of its perfection remains mysterious. Onscreen, there has been “The Shaft” (“Your next stop . . . is hell”), a movie about a deadly malfunctioning elevator system in a Manhattan tower, which had the misfortune of coming out the Friday before September 11th, and a scattering of inaccurate set pieces in action movies, such as “Speed.” (There are no ladders or lights in most shafts.) Movies and television programs, such as “Boston Legal” and “Grey’s Anatomy,” often rely on the elevator to bring characters together, as a kind of artificial enforcement of proximity and conversation. The brevity of the ride suits the need for a stretch of witty or portentous dialogue, for stolen kisses and furtive arguments. For some people, the elevator ride is a social life.

    #ascenseur #verticalité #densité #urban_matters #ville

    • Plus sûrs que des escalateurs (?).

      Statistics are elusive (“Nobody collects them,” Edward Donoghue, the managing director of the trade organization National Elevator Industry, said), but the claim, routinely advanced by elevator professionals, that elevators are ten times as safe as escalators seems to arise from fifteen-year-old numbers showing that, while there are roughly twenty times as many elevators as escalators, there are only a third more elevator accidents. An average of twenty-six people die in (or on) elevators in the United States every year, but most of these are people being paid to work on them. That may still seem like a lot, until you consider that that many die in automobiles every five hours. In New York City, home to fifty-eight thousand elevators, there are eleven billion elevator trips a year—thirty million every day—and yet hardly more than two dozen passengers get banged up enough to seek medical attention. The Otis Elevator Company, the world’s oldest and biggest elevator manufacturer, claims that its products carry the equivalent of the world’s population every five days.

    • There are two basic elevatoring metrics. One is handling capacity: your aim is to carry a certain percentage of the building’s population in five minutes. Thirteen per cent is a good target. The other is the interval, or frequency of service: the average round-trip time of one elevator, divided by the number of elevators. In an American office building, you want the interval to be below thirty seconds, and the average waiting time to be about sixty per cent of that. Any longer, and people get upset. In a residential building or a hotel, the tolerance goes up, but only by ten or twenty seconds. In the nineteen-sixties, many builders cheated a little—accepting, say, a thirty-four-second interval, and 11.5 per cent handling capacity—and came to regret it. Generally, England is over-elevatored; India is under-elevatored.

      #attente

  • « Nightingale » : le projet secret de Google pour collecter des données médicales – Economie | L’Opinion
    https://www.lopinion.fr/edition/wsj/nightingale-projet-secret-google-collecter-donnees-medicales-202704

    Google s’est associé avec l’un des plus grands réseaux de soins de santé des Etats-Unis dans le cadre d’un projet visant à recueillir et analyser les renseignements médicaux personnels détaillés de millions de personnes dans 21 Etats. Ce plan, dont le nom de code est « Projet Nightingale », semble être le plus grand jamais mis en œuvre par un géant de la Silicon Valley afin de prendre pied dans l’industrie des soins de santé via le traitement des données médicales des patients. Amazon, Apple et Microsoft (...)

    #Ascension #Google #Alphabet #Microsoft #Amazon #GoogleCloud #algorithme #bracelet #Fitbit #domination #BigData #data #Nightingale (...)

    ##santé

  • Google’s Totally Creepy, Totally Legal Health-Data Harvesting
    https://www.theatlantic.com/technology/archive/2019/11/google-project-nightingale-all-your-health-data/601999

    Google is an emerging health-care juggernaut, and privacy laws weren’t written to keep up. The summer after college, I moved back home to take care of my widower grandfather. Part of my job was to manage his medications ; at 80, he was becoming a fall risk and often complained that his prescriptions made him light-headed. But getting someone on the phone was exhausting, and privacy law prevented pharmaceutical call-line employees from answering some of my questions about side effects. So (...)

    #Ascension #Google #Microsoft #Amazon #Facebook #algorithme #bracelet #Fitbit #HealthDataHub #prédiction #BigData #data #marketing #profiling #publicité (...)

    ##publicité ##santé

  • Le scoptisme
    TW - c’est un synonyme pour la castration volontaire
    https://susaufeminicides.blogspot.com/2012/02/scoptisme.html

    Déjà mentionnés par ailleurs la secte de skoptzy a inspiré le nom du syndrome psychiatrique du rejet et dégoût de ses propres organes génitaux, prétendant à la mutilation qui serait seule acceptable. Cette haine peut porter sur l’un des quatre membres également.

    La médecine sexuelle ne peut en rester aux apparences - Il est bien impossible de dire que l’intersexuation, qui n’est pas une indifférenciation du tout, ni non plus en rien volonté obsessionnelle de castration dit syndrome de skoptzy, ceci n’est donc du tout valide et validable même avec des découvertes ultérieures sur toutes les variantes génétiques des gênes superfétatoires qui suivraient XY et XX, et que d’aucuns appellent des sexes autres que les sexes féminin et masculin. Ce qui demande à être nommé avec précision à chaque avancement mais qui ne me parait pas pouvoir être appelé sexe au bas mot. Ce serait affreux de jeter les quelques hermaphrodites vrais ou faux sur la voie de la mutilation sexuelle par confusion, comme il est fait par certains médecins,

    « Il existe bien encore des indifférenciés sexuels, des hommes qui ne savent pas qu’ils sont des femmes et des femmes qui ne savent pas qu’elles sont des hommes, ou... plus scientifiquement, si j’ose dire, selon le DSM IV de sinistre fréquentation, des syndromes de Skoptzy... Qui investigue les transformations psychologiques induites par l’euphémisme urologique ainsi nommé Traitement Hormonal alors qu’il ne s’agit, ni plus ni moins, que d’une mutilation. Faut-il faire confiance aux urologues pour mener des essais sur le retentissement psychosocial de l’eunuquisme ? Qui le fera ? Qui se soucie également de ces hommes qui se cachent, qui cachent non seulement leur cancer mais aussi les conséquences du traitement ? Qui les soutient ? Que font les Autorités Académiques ? Que font les Sociétés Savantes en médecine générale ?Il existe 600 000 castrés aux Etats-Unis d’Amérique.Combien en France ?Regardez autour de vous et comptez les eunuques. » http://docteurdu16.blogspot.com/2010/08/la-reapparition-invisible-et-massive.html

    Celle-ci faisait partie du christianisme et des écrits dogmatiques sur le péché et la pureté, l’Ancien testament de mention de la créature divine hermaphrodite ou androgyne qui avait été partagée justifiait que ces sectataires se mutilent de tous leurs attributs sexuels, tant les femmes que les hommes, lors de rituels d’automutilation collective.

    Nous avons là la première trace religieuse de castration partielle des femmes, à l’époque l’hystérectomie inusitée n’avait pas été envisagée probablement aussi du fait de l’ignorance en matière gynécologique de son inventeur.

    La technique évoluant et l’anesthésie aussi, l’uranisme prussien de la croyance dualiste et spiritiste, animiste donc toujours, de l’âme féminine mal tombée dans une corps masculin, tout d’abord les opérations de castration élective combinée se sont multipliées pour les adultes. L’on voit ainsi que la médecine n’en évolue pas pour autant, la technique parfois leurre le public.

    https://susaufeminicides.blogspot.com/2012/02/scoptisme.html

    Je m’intéresse en particulier aux « trace religieuse de castration partielle des femmes » dont je découvre l’existence. J’ai pensé que ca pouvait être l’excision et l’infibulation mais c’est différent ;

    Castration =
    Opération ayant pour but ou résultat de priver l’individu mâle ou femelle de ses facultés de reproduction.
    Empr. au lat. castratio, de même sens, employé à propos des animaux, des hommes et en bot.

    https://www.cnrtl.fr/definition/castration

    Sur wikipédia je ne trouve pas de traces de castration patielle des femmes
    https://fr.wikipedia.org/wiki/Castration#Chez_l'humain
    mais j’apprends que

    La première ovariectomie a été pratiquée le jour de Noël 1809 par Ephraim McDowell qui réalisa une laparatomie sur une femme souffrant d’un énorme kyste de l’ovaire suffocant, transgressant ainsi le principe moral « Nul ne parviendra à exciser les tumeurs internes quelles que soient leurs origines » puisque la « limite imposée par Dieu » interdisait de franchir le péritoine (seules l’orthopédie et la césarienne étaient admises)1.

    Dès 1862, Eugène Koeberlé fut l’un des tout premiers à en pratiquer avec succès.

    https://fr.wikipedia.org/wiki/Ovariectomie

    Décembre 1809, le jour de Noel, Danville, Etat du Kentucky, USA. Une jeune femme, Jane Crawford, a une douleur abdominale intense, elle va mourir. Elle se croit enceinte mais elle a un énorme kyste de l’ovaire suffocant. Le chirurgien, le Docteur Éphraïm McDOWELL, était venu l’examiner dans sa ville de Green County à 100 km. Sa famille est originaire d’Ecosse, il a été formé à l’université d’Édimbourg. Il est médecin itinérant, il va de ville en ville à cheval. Il diagnostique une tumeur ovarienne. Poussé par la demande de la femme et des villageois, il accepte d’ouvrir l’abdomen et de faire l’ovariectomie. Tumeur de 24 livres. Il transgresse le principe moral : « Nul ne parviendra à exciser les tumeurs internes quelles que soient leurs origines ». La chirurgie des organes internes était jusqu’alors formellement interdite, le chirurgien avait l’interdiction de franchir le péritoine, interdit religieux, "la limite imposée par Dieu" ; seule l’orthopédie était pratiquée ainsi que la césarienne. Éphraïm McDOWELL réalise donc la première intervention chirurgicale sur les organes internes. Sans anesthésie, sans asepsie. Mais il est très méticuleux et souligne son souci de propreté absolue. Bien qu’incroyable, la patiente n’aura aucune infection, aucune péritonite, et elle retournera dans sa ville 25 jours après l’intervention.

    La douleur humaine et la pression populaire ont poussé McDOWELL à transgresser les interdits déontologiques et religieux. Et religieux, il l’était : il avait fondé l’église épiscopale (anglicane) de Danville ! Ajoutons qu’il n’avait pas vraiment le choix : les villageois avaient dressé un gibet devant son domicile et promettaient de le pendre haut et court s’il refusait...et s’il échouait ! Jane Crawford a vécu 33 ans après l’opération et elle fut la première opérée de l’histoire.

    Pour mémoire le premier chirurgien à ouvrir un abcès appendiculaire sera Henry HANCOCK en 1848.

    La césarienne est une opération dont la première mention remonte à une loi de Numa Pompilius (715-672 avant JC), second roi légendaire de Rome. D’après cette loi, aucune femme morte en couches ne pouvait être enterrée avant que l’on eût extrait son enfant par une incision abdominale. En pratique, jusqu’au début du XXème siècle, la mortalité des mères est proche de 100 %. Les surinfections étaient systématiques et terribles. Les médecins passaient d’une autopsie à un accouchement sans se changer ni se laver les mains ! Le Docteur Ignace-Philippe SEMMELWEIS (1818-1865), sujet de thèse de Louis-Ferdinand CELINE, fut le premier a fonder l’hygiène. Alors brisons là une légende : César n’est pas né par césarienne. Dans un texte, il parle de sa mère qui est toujours vivante. CQFD. Le mot césarienne vient du latin coedere, couper. La première césarienne (connue dans les Temps modernes) semble avoir été faite, en 1610, par le chirurgien allemand Jeremias TRAUTMANN.

    Jean-Dominique LARREY (1766-1842) : chirurgien de Napoléon I, il participe à toutes les batailles et assiste à la terrible retraite de Russie, accompagne les blessés, opère sans relâche. Le Baron LARREY pense qu’il est préférable d’amputer tôt et vite, tant qu’existe l’anesthésie physiologique après tout choc. En 1828, il sera le seul soutien à la première communication faite à l’Académie de Médecine, sur les essais d’anesthésie préopératoire réalisés en Angleterre.

    https://www.psychiatriemed.com/textes/41-dr-fabrice-lorin/79-composante-psychologique-de-la-douleur-chronique-dr-fabrice-lorin
    – Je cherche la source de ceci sans la trouvé ;

    « Nul ne parviendra à exciser les tumeurs internes quelles que soient leurs origines »

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    Lors du culte de Cybèle dans la rome antique on trouve la mention de femmes qui se coupent les seins et d’hommes qui se castrent.

    Avec l’expansion du territoire de Rome tout autour de la Méditerranée, la présence des eunuques dans la Rome antique est devenue de plus en plus fréquente. On impute traditionnellement cette évolution à l’assimilation et l’intégration progressives de cultes orientaux au cœur des pratiques religieuse de la cité italienne, comme celui de la déesse Cybèle , à l’origine décriée pour son association aux pratiques bachiques et orgiaques.

    Par la suite, cependant, la déesse est devenue l’une des divinités gardiennes de Rome, à laquelle on attribuait notamment dans l’Antiquité le fait d’avoir détourné Hannibal de la ville en 204 av. J.-C..

    Pour remercier cette divinité, on intégra au calendrier romain une fête en l’honneur de la déesse au cours de laquelle des prêtres castrés (les galles) et les fidèles se flagellaient mutuellement. Durant ces fêtes, des femmes s’y amputaient les seins et des hommes se castraient publiquement .

    https://fr.wikipedia.org/wiki/Eunuques_dans_la_Rome_antique

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    • Skoptisme
      Cette société qui apparut aux environs de 1757 eut énormément d’adeptes en Russie et dans les Balkans. Leurs membres furent considérés comme des fous fanatiques, les Skoptsys, ou castrés. Ces ascètes pensaient accéder à l’union avec le divin par la mortification : les prêtres sacrifiaient leurs organes génitaux par oblation.

      Dans une secte du Skoptisme, les “flagellants” se fouettaient et se mutilaient dans le but de créer l’extase religieuse, un transport érotique dans un “baptême de feu”. Les fidèles, formant cercle, se balançaient rythmiquement, puis tournoyaient rapidement sur eux-mêmes ; lorsque le danseur ralentissait sa cadence, il était fouetté. Exténués, les participants roulaient à terre, en extase ou en convulsions.

      Malgré les répressions du gouvernement impérial, la secte des “Skoptz”, ou “Scopits”, prit de l’extension car elle se référait au sens littéral de l’évangile de saint Matthieu (XXX, 10 à 12). Des personnages influents à la cour ont été eux-mêmes des castrateurs ; le plus célèbre, Selivanov, mourut en 1832 au monastère de Spasso-Euphemius.

      Des revues soviétiques mentionnent parfois les survivances des Skoptsys, plus particulièrement en Roumanie.
      Association apostolique ou Adorateurs de l’Oignon

      Ce second titre peut porter à sourire, et cependant, c’est là un groupe spiritualiste bien implanté qui, en 1929, a pris pour nom Association apostolique.

      François Thomas, qui fut charretier, photographe, comptable, vit à la devanture d’un marchand de légumes un oignon qui germait, et ce fut pour cet homme une révélation subite. Dans le Petit livre de la Sagesse que Frère Thomas écrivit pour condenser son enseignement, il est écrit : “L’oignon est planté dans un sol riche et bien exposé ; il repousse. Puis on lui casse la tige pour l’empêcher de monter en graine. Devenu eunuque, l’oignon germe et rajeunit encore. Empêché d’avoir des enfants, il redevient enfant lui-même. Ainsi, d’année en année, l’oignon se renouvelle dans un corps meilleur que celui qu’il avait l’an passé. Il va vers la perfection et vivra toujours.”

      Si ce groupe ne débouche pas sur la castration comme avec le Skoptisme, on recommande la continence sexuelle pour conserver son énergie. Le nombre d’adhérents est réduit, mais la secte attire par l’étrangeté de ses propos. Frère Auguste et soeur Geneviève ont succédé au frère Thomas (17, rue de la Baronne-Léonini, 60300 Chamant).

      https://www.ceodeo.com/Magie-Sexuelle.html

      #adorateurs_de_l'Oignon

    • Fiche wikipedia sur les Scoptes
      https://fr.wikipedia.org/wiki/Scoptes

      Comme l’indique son nom, une des caractéristiques de la secte était la castration. Ses adeptes professaient qu’après l’expulsion du Jardin d’Éden, Adam et Ève avaient greffé sur leurs corps les moitiés du fruit défendu formant ainsi des testicules et des seins. Aussi, l’ablation de ces organes sexuels devait restituer le Scopte dans son état premier, purifié, d’avant le Péché originel.

      Il y avait deux sortes de castrations : le « petit sceau » et le « grand sceau » (c’est-à-dire la castration partielle et la castration complète). Pour les hommes, la « petite » castration se traduisait par l’ablation des seuls testicules, tandis que la « grande » castration sectionnait aussi le pénis. En cela, les Scoptes soutenaient qu’ils réalisaient le conseil de perfection que le Christ donne dans l’ Évangile selon Matthieu 19,12 et 18,8-9. Les premières traces datées de castration chez les femmes s’observent à partir de 1815. Selon l’Encyclopædia Britannica de 1911, on n’amputait habituellement que les seins. D’autres témoignages suggèrent que les lèvres vaginales, elles aussi, étaient retranchées.

      Les Scoptes croyaient que le mal principal du monde vient du lepost (le charme, la beauté humaine, la sexualité humaine, le sex-appeal…) qui empêche les humains de communiquer avec Dieu. Le chemin de la perfection commence par l’élimination de la cause et il aboutit à la libération de l’âme. La castration garantissait que tous les péchés provoqués par le lepost ne pourraient plus être commis.
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      Une caractéristique remarquable de cette secte est le type des personnes qui y ont adhéré : on y retrouvait des nobles, des officiers de l’armée de terre et de marine, des fonctionnaires, des popes et des commerçants ; leur nombre crut si rapidement qu’entre 1847 et 1866, 515 hommes et 240 femmes furent déportés en Sibérie sans sérieusement menacer l’existence de la secte. En 1874 elle comptait au moins 5 444 adeptes, dont 1 465 femmes. Parmi eux, 703 hommes et 100 femmes s’étaient castrés.

      On essaya le ridicule comme moyen de combat idéologique : des Scoptes affublés de vêtements féminins et coiffés de bonnets de fous étaient promenés à travers les villages. On tenta aussi de réglementer légalement la pratique : une loi de l’Empire russe obligeant les Scoptes à se déclarer et s’inscrire comme eunuques. Rien n’y fit et le scoptisme se perpétua. La répression reprit : en 1876, cent trente Scoptes furent condamnées à la déportation. Pour échapper aux poursuites plusieurs communautés émigrèrent en Roumanie, où certains d’entre eux se mêlèrent aux vieux-croyants exilés appelés Lipovènes. L’auteur satirique roumain Ion Luca Caragiale écrit qu’à la fin du XIXe siècle la plupart des fiacres bucarestois étaient conduits par des Scoptes russes (scapeți en roumain).

      Il fallut l’efficacité répressive des polices politiques communistes pour venir à bout du scoptisme par l’internement psychiatrique en isolement et la déportation au #Goulag : l’on estime que la secte des Scoptes est maintenant éteinte.

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      Les Scoptes ne condamnaient pas la sexualité à finalité reproductive dans le cadre du mariage et professaient que certains puissent avoir un enfant ou deux, avant de devenir membres à part entière. Ce n’étaient pas des misanthropes désirant la fin de l’espèce, mais des idéalistes visant la perfection de l’individu. Leurs cérémonies religieuses incluaient le chant d’hymnes et la danse frénétique finissant dans l’extase, comme c’est le cas chez les khlysts et les derviches tourneurs de l’islam. Des serments stricts de garder le secret étaient exigés de tous les membres, qui formaient une sorte d’association d’aide mutuelle.

      Les réunions se tenaient tard dans la nuit dans les caves et duraient jusqu’à l’aube. Les hommes portaient des longues et larges blouses blanches d’une coupe particulière avec une ceinture et un grand pantalon blanc. Les femmes aussi s’habillaient en blanc. Tous ceux qui étaient présents portaient des bas blancs ou étaient déchaussés. Ils s’appelaient eux-mêmes « les Blanches Colombes ».

      Les Scoptes étaient millénaristes et attendaient un messie qui établirait un empire des saints, c’est-à-dire des « purs ». Mais ils croyaient que le Messie ne viendrait pas avant que l’on eût atteint le nombre de 144 000 Scoptes (nombre donné dans l’Apocalypse 14:1,4, et pris en compte par bien d’autres confessions millénaristes) : tous leurs efforts étaient consacrés à atteindre ce nombre. Le métier préféré du Scoptes était celui de changeur et à Saint-Pétersbourg, il y eut pendant longtemps un banc connu comme le « Banc des Scoptes ». Vers 1911, beaucoup de Scoptes tendaient à considérer qu’ils réalisaient leurs principes simplement en vivant chastement et seuls.

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      L’auteur belge Eric Fagny en fait le thème de son roman "Les Masques Feuillus" paru chez Le Scalde Editions Bruxelles en 2018.

      #castration #mutilation #auto_mutilation

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      L’article en russe est bien sur plus fournis
      https://ru.wikipedia.org/wiki/%D0%A1%D0%BA%D0%BE%D0%BF%D1%86%D1%8B

      Во втором издании Большой советской энциклопедии отмечалось, что в 1947 году секта ещё действовала в СССР[9].

      В 1971 году А. И. Клибанов обнаружил отдельных последователей в г. Тамбов, и действующую общину скопцов в г. Ростов-на-Дону. Её составляли старики, преимущественно родившиеся до революции, однако скопцы не оставляли попыток вовлечения в «корабль» молодёжи и людей среднего возраста. Вовлечение «новаков» проводилось путём обещания материального вознаграждения или наследства, по определённой схеме:

      Изучение родственных и общественных связей, особенностей характера, материального положения потенциального кандидата.
      Завязывание знакомства с вербовщиком.
      В течение 2-3 лет поддержание отношений исключительно на нерелигиозной почве, окружение вербуемого вниманием и благодеяниями.
      Посещение намеченного к вербовке лица на дому, разными членами культа под разными предлогами, для дальнейшего изучения ритма жизни, быта и поведения, знакомств и связей.
      Собеседование с предложением вступить в «корабль» и принять «печати».
      Утверждение кандидата местным лидером секты.

      По информации, полученной учёным от местных антирелигиозных активистов, по крайней мере в трёх крупных городах Северного Кавказа в 1970-х годах существовали скопческие общины, продолжалась практика оскоплений[10]. Деятельность культа велась с соблюдением строгой конспирации. Клибанов приводит подробное описание ритуала посвящения «новаков», включающего клятву «кроме братьев и сестёр, ни с кем о вере не говорить. Ни отцу с матерью, ни родству, ни приятелю, ни явной власти, пусть муки-напасти, не объявлять сию великую тайну»[11]. Причём, за нарушения обетов лидеры секты открыто угрожали последователям расправой[12].

      Имеются сведения об отдельных общинах скопцов, существовавших в 1990-х годах в Латвии[13], и в России (Москва[14], Ставрополь[14] и Ставропольский край[14], Орёл[14] и Орловская область[14]). В настоящее время небольшое количество скопцов осталось в некоторых районах Северного Кавказа. Это так называемые «духовные» скопцы (в их общинах хирургическое оскопление не производится). От участников этих сект требуется отправление определённого культа, сохранение аскетического образа жизни.

      ...

      Несмотря на декларируемое скопцами равенство всех «братьев» и «сестёр», «кормчий», стоящий во главе «корабля», обладал большой властью над прочими общинниками. Помогающая «кормщику» женщина, аналогично хлыстовской практике, именуется «богородицей».

      –—

      Скопцы строго соблюдали воздержание от мясной пищи, вовсе не употребляли алкоголь, не курили, избегали родин, крестин и свадеб, не участвовали в увеселениях, не пели светских песен, вовсе не ругались. В отличие от членов старообрядческих общин, скопцы охотно посещали православную церковь и даже проявляли в вопросах религиозной обрядности большое усердие. При этом они открыто осмеивали православные обряды и таинства; храм называли «конюшней», священников — «жеребцами», богослужения — «ржанием жеребцов», брак — «случкой», женатых людей — «жеребцами» и «кобылами», детей — «щенятами», а их мать — «сучкой, от которой воняет и в одном месте с ней сидеть нельзя». Деторождение называли причиной обнищания и разорения.
      « Вот мы не женимся и замуж не выходим, оттого и богаты. Делайте то же, что и мы, перестаньте верить вашим жеребцам тогда жить будет легче, будете богаты, будете святы. »

      –—

      Мифология

      Скопцы имели собственный взгляд на Евангелие (считали, что кастрацию прошли все апостолы) и создали собственную мифологию, связанную с их взаимоотношениями с русскими царями. Так, согласно вымыслу скопцов, Павел I был убит именно за отказ принять скопчество, а царём стал согласившийся оскопиться Александр I.

      ...

      Зачастую «убелению» подвергались и женщины, входящие в скопческую общину. Существовали «печати» и для женщин: им удаляли половые губы, а в ряде случаев ещё и клитор и груди. Однако в этом случае женщины не теряли способности к деторождению: советский исследователь скопчества этнограф Н. Н. Волков свидетельствует о примерах, когда покинувшие общину женщины даже выходили замуж и имели детей.

      –—

      У скопцов были и свои особенные праздники, посвящённые каким-либо воспоминаниям из жизни основателя скопчества Селиванова; например, 15 сентября — день наказания Селиванова. В такие дни они также устраивали радения.
      Радение «корабликом»

      Существовало четыре способа радений:

      «корабликом»: радеющие становились в круг один позади другого и ходили гуськом друг за другом, сильно припрыгивая;
      «стеночкой»: радеющие становились в круг плечом к плечу и ходили «посолонь» (то есть по солнцу, слева направо), припрыгивая;
      «крестиком»: 4-8 человек становились по одному или по два в каждый угол и затем быстрым шагом, опять-таки припрыгивая, крестообразно менялись местами;
      в «одиночку»: несколько человек выходили на середину и под такт скороговорчатых «распевцев» начинали кружиться на одном месте, все быстрее и быстрее, так что рубахи их надувались и шумели как паруса.

      –—

      В романе «Т» Виктора Пелевина главному герою (прототип — Лев Толстой) конь предлагает оскопить себя; в рассуждениях коня обыгрывается традиционная для скопцов аргументация.

      Tien je découvre un roman de Pelevin qui a pas été traduit :( mais il y en a deux que j’ai pas encore lu et qui vont me tenir compagnie prochainement
      https://fr.wikipedia.org/wiki/Dieux_et_M%C3%A9canismes
      et
      https://fr.wikipedia.org/wiki/Le_Livre_sacr%C3%A9_du_loup-garou
      cool

      #végétarisme #ascèse #danse #trans

    • Sur Cybèle
      https://fr.wikipedia.org/wiki/Cyb%C3%A8le

      Dans la mythologie grecque, Attis fut le jeune amant de la déesse phrygienne Cybèle. La version phrygienne de la légende raconte qu’Attis était le fils de Nana, fille du dieu fleuve Sangarios (un fleuve d’Asie Mineure). Elle le conçut après avoir cueilli la fleur d’amandier. Quand Attis souhaita se marier à la nymphe Sangaride, Cybèle, qui l’aimait et en était jalouse, le rendit fou si bien qu’il se castra lui-même et se tua. Cette légende offre de nombreuses variantes qui visent à expliquer notamment que les prêtres de Cybèle, les Galles, sont des eunuques (ils pratiquaient des rituels d’auto-castration, tous les 24 mars, à l’occasion des sanguinaria). Attis n’apparaît que rarement en Grèce mais, associé à Cybèle, il est une divinité acceptée à Rome sous l’empereur Claude et constitua l’un des plus importants cultes à mystères de l’Empire romain.
      Quatre personnages, de gauche à droite : un nain, une femme avec une double flûte, une femme âgée avec de petits timbales, et une femme âgée qui danse avec un tabourin
      Les Musiciens ambulants du culte de Cybèle, mosaïque de Dioscoride de Samos, IIe siècle av. J.-C., villa de Cicéron à Pompéi, Musée archéologique national de Naples.

      Une version phrygienne rapporte que Cybèle enfant fut abandonnée sur une montagne et élevée par des lions ou par des léopards. Elle créa des danses et livra des cymbales à ses serviteurs, les Corybantes, pour qu’ils célèbrent ses rites. Disposant du don de guérison universel, Cybèle protège les enfants et les animaux sauvages. La déesse tomba amoureuse d’Attis, qui finit par la tromper avec la nymphe Sangaride. Cybèle rendit Attis fou et celui-ci s’émascula.

      –—

      Cybèle et la Vierge Marie

      Pour de nombreux historiens de Cybèle, Marie mère de Dieu aurait hérité purement et simplement des symboles et des fonctions de la « Mère des dieux » : « Marie viendrait remplir une case laissée vide par la défaite et l’exil des divinités féminines, Isis et Cybèle10 ». Philippe Borgeaud affine cette approche et considère qu’en réalité les deux figures de Cybèle et de Marie, qui baignent dans un contexte religieux commun, ont exercé l’une sur l’autre une influence réciproque.

      Ainsi, les rites de Cybèle se transforment dès le IIe siècle en fonction du christianisme, qui favorise la constitution d’une nouvelle figure d’Attis, devenu, à l’image de Jésus, « le fils de la Mère » ; le berger phrygien, homme fait dieu, s’identifie au Christ, cet autre berger, dieu fait homme11.

      Le culte de Cybèle, de son côté, contribue à la promotion de la figure de Marie, qui risque d’acquérir un statut divin. La polémique entre Nestorius (patriarche de Constantinople), qui aurait voulu que l’on appelât Marie « Christokos », « mère du Christ », plutôt que « Theotokos », « mère de Dieu », et Cyrille d’Alexandrie, partisan de cette dernière appellation, lors du concile d’Ephèse en 431, témoigne de cette « tentation redoutable12 ». De plus, « le discours chrétien sur la chasteté se précise à l’aune des pratiques des galles13 », les prêtres châtrés qui se consacraient au culte de Cybèle.

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      Cybèle est aussi associé à Atemis, ici une statue de Cybèle qui porte les testicules de taureau caractéristiques d’Artemis
      https://www.khm.at/objektdb/detail/50146

  • « Health Data Hub » : le méga fichier qui veut rentabiliser nos données de santé
    https://www.mediapart.fr/journal/france/221119/health-data-hub-le-mega-fichier-qui-veut-rentabiliser-nos-donnees-de-sante

    Une plateforme baptisée « Health data hub » centralisera bientôt les données de santé des Français, celles générées par un acte de soin remboursé comme celles des hôpitaux, des médecins et même des pharmaciens. Des partenaires privés pourront y accéder. Face aux inquiétudes suscitées par ce projet et au mécontentement des hôpitaux publics, le gouvernement et la Cnil tentent de rassurer. Le gouvernement est-il en train de mettre en place un « big brother médical » et d’offrir nos données de santé aux géants du (...)

    #Ascension #Google #GoogleCloud #[fr]Règlement_Général_sur_la_Protection_des_Données_(RGPD)[en]General_Data_Protection_Regulation_(GDPR)[nl]General_Data_Protection_Regulation_(GDPR) #BigData #data #GAFAM #santé #CNIL (...)

    ##[fr]Règlement_Général_sur_la_Protection_des_Données__RGPD_[en]General_Data_Protection_Regulation__GDPR_[nl]General_Data_Protection_Regulation__GDPR_ ##santé ##HealthDataHub

  • Will Google get away with grabbing 50m Americans’ health records ?
    https://www.theguardian.com/technology/2019/nov/14/google-healthcare-data-ascension

    Google’s reputation has remained relatively unscathed despite behaviors similar to Facebook’s. This could be the tipping point Few things are certain in the American healthcare system – except for the paperwork. The tedious ritual of signing forms authorizing new providers to access our medical history is the result of a rarity for Americans : thanks to the first amendment, we have few rights and little expectation of privacy, except when it comes to our medical records. Even doctors who have (...)

    #Ascension #Google #BigData #data #santé

    ##santé
    https://i.guim.co.uk/img/media/0e38f83866322e380421a0d6d3218047f59296f0/287_395_2365_1419/master/2365.jpg

  • Google’s secret cache of medical data includes names and full details of millions – whistleblower
    https://www.theguardian.com/technology/2019/nov/12/google-medical-data-project-nightingale-secret-transfer-us-health-infor

    Whistleblower tells Guardian of growing alarm over secret transfer of medical history data, which can be accessed by Google staff A whistleblower who works in Project Nightingale, the secret transfer of the personal medical data of up to 50 million Americans from one of the largest healthcare providers in the US to Google, has expressed anger to the Guardian that patients are being kept in the dark about the massive deal. The anonymous whistleblower has posted a video on the social media (...)

    #Ascension #Google #Cloud #BigData #data #Nightingale #santé

    ##santé
    https://i.guim.co.uk/img/media/937804e1e26be7b14463e46428bafda243077bb2/0_50_4339_2604/master/4339.jpg

  • L’accord controversé de Google avec plus de cent cinquante hôpitaux aux Etats-Unis
    https://www.lemonde.fr/economie/article/2019/11/12/l-accord-controverse-de-google-avec-plus-de-cent-cinquante-hopitaux-aux-etat

    Le géant du numérique assure que le partenariat avec Ascension révélé par le « Wall Street Journal », qui lui donne accès aux données médicales de millions de patients sans leur consentement, est légal. « Exclusif : Nightingale, le projet secret de Google, amasse les données personnelles de santé de millions d’Américains » : le titre de cet article publié par le Wall Street Journal mardi 11 novembre a de quoi faire peur. D’autant plus que, selon le quotidien, « les patients n’ont pas été informés » de cette (...)

    #Apple #Google #cloud #algorithme #cloud #BigData #data #publicité #santé #Ascension (...)

    ##publicité ##santé ##Nightingale

  • La folie des hauteurs - Critique du #gratte-ciel

    New-York, Chicago, Dubaï, Londres ou encore Barcelone rivalisent d’ingéniosité pour tutoyer le ciel et atteindre des hauteurs de plus en plus grandes. Aujourd’hui, Genève et Paris rêvent également de construire leurs gratte-ciel. Aussi critiqué qu’envié, cet objet architectural à le vent en poupe ! Nombreux sont les touristes et curieux qui se déplacent pour admirer ces nouveaux #skyline. Symbole de #modernité et de prospérité, les immeubles de grandes hauteurs imposent une #ségrégation socio-spatiale avec une #privatisation du #panorama, des pertes énergétiques colossales et l’absence de #mixité. Alors, nouvel eldorado ou délire architectural, les tours de grande hauteur ont le mérite de susciter le débat !

    Quels sont les enjeux urbains autour de ces constructions ? Quelle #urbanité s’y développe ? Est-ce que ces tours permettent réellement de développer de la « #mixité_sociale » ? Est-ce une réponse satisfaisante des villes face aux défis du XXIe siècle ? Les opposants sont-ils antimodernes ou à l’#avant-garde en dénonçant ces objets représentatifs des maux de notre société ?

    Pour accompagner nos réflexions, #Thierry_Paquot, philosophe de l’urbain, revient, avec son dernier ouvrage, La folie des hauteurs. Critique du gratte-ciel, sur ces questions ô combien vertigineuse pour nos #villes.
    En bonus dans cette émission, un Agenda des sorties culturelles vous est proposé. Si ça vous plaît, nous renouvellerons cette rubrique à chaque numéro.
    En dernière partie, Nicolas Tixier aborde dans sa chronique cinéma la ville par le biais des séries TV La petite maison dans la prairie et Dead Wood.

    https://soundcloud.com/la-fabrique-urbaine/la-fabrique-urbaine-thierry-paquot-janvier-2018


    #urbanisme #verticalité #hauteur #énergie #architecture #géographie_urbaine #énergie #ascensceur

    • La folie des hauteurs - Critique du gratte-ciel

      Le gratte-ciel, avec l’étalement urbain, le centre commercial et l’autoroute constituerait-il la négation de ce qui fait une ville ? Serait-il l’expression d’un avenir appartenant au siècle passé ? Enfin, serait-il une impasse en hauteur, une enclave sécurisée fermée ? C’est ce que tente de démontrer Thierry Paquot à travers ce plaidoyer pour la diversité des paysages urbains, l’originalité des formes contrastées loin de cette folie des hauteurs. Plongez dans cette réflexion qui remet en lumière le bien fondé desdites constructions, tant sur le plan social que sur les structures.


      https://www.infolio.ch/livre/la-folie-des-hauteurs.htm
      #livre

  • Pannes d’ascenseurs : à Bobigny, ras-le-bol à tous les étages - Libération
    http://www.liberation.fr/france/2017/11/30/pannes-d-ascenseurs-a-bobigny-ras-le-bol-a-tous-les-etages_1613705

    Dans un immeuble de la ville de Seine-Saint-Denis, les deux élévateurs de la tour de 15 étages sont souvent à l’arrêt. 50 000 personnes ont signé une pétition adressée à Macron et une cinquantaine se sont réunies dans le hall.

    Lundi soir, une cinquantaine d’habitants ont réfléchi tout haut sur leur condition dans un hall de HLM. Et verbalisé la routine de leur bâtiment de quinze étages situé à Bobigny, au 19 rue René Camier : les pannes fréquentes et anarchiques de leurs deux ascenseurs. Première séquence : un trentenaire en tee-shirt assure qu’il y a quelques semaines, il a manqué de perdre son boulot en restant bloqué à l’intérieur de l’un d’eux. Gros retard, son chef s’est fâché. Il précise qu’il est employé à la Rotonde, « là où Macron mange ». Qu’il voulait arrêter de payer les loyers pour faire passer un message fort. Son épouse l’en a dissuadé. La peur de l’expulsion, le stress du conflit.

    Seconde séquence : une dame s’assoit dans un coin, sur une chaise apportée par une voisine, avec un nouveau-né dans les mains, tout de rose vêtu. Elle raconte sa grossesse à grimper et dévaler les marches, et sa hantise, au moment d’accompagner son aîné à l’école, que ce dernier oublie quelque chose à la maison. Cela signifiait devoir remonter le ventre arrondi, redescendre, puis une fois le môme déposé en classe, remonter encore. Comme dans chaque récit du même type, on conclut en relativisant : il y en a des encore moins bien lotis. Les malades, les claustrophobes, les personnes âgées qui s’essoufflent plus vite que les autres dans la faible lumière jaune de la cage d’escalier étroite.

    Une retraitée se souvient de l’un de ses coups de fil au bailleur : « Au téléphone, on m’a dit "je vous comprends" après une panne. J’ai répondu "non, vous ne me comprenez pas car vous ne me connaissez pas". » Un quinqua du voisinage, venu soutenir le mouvement, déroule quelques mots clés, parmi lesquels « sans dents » et « sans voix ».

    Maison hantée

    Les dizaines de témoignages convergent tous : les dysfonctionnements réguliers, qui pourrissent les journées, les nuits et les week-ends, finissent par alourdir les têtes. Le renoncement à recevoir des invités, la sensation de se faire avoir, l’attente du réparateur, la flemme de sortir en pensant à une potentielle ascension au retour, l’angoisse de l’accident, l’obligation de stocker ses courses dans la voiture quand la machine a lâché. Parfois, il arrive que des résidents écartent eux-mêmes les portes quand ils restent coincés entre deux étages. Comme s’ils avaient été engloutis par une bête de fer aveugle. ICF Habitat la Sablière (le bailleur) qualifie cela de « vandalisme » (les pièces s’abîment), les locataires de « démerde » (le sauvetage peut traîner en longueur). Deux mères du onzième étage décrivent une scène de maison hantée. Un jour, les portes de l’un des ascenseurs se sont mises à claquer toutes seules. Il a fallu caler un objet pour s’épargner le boucan en attendant le réparateur.

    Au milieu de la mini-foule, Fouad Ben Ahmed, militant local, met en garde contre les dangers de la résignation et des comportements que celle-ci fabrique. En aparté, il dit : « Dans les milieux modestes, on intériorise trop vite l’idée que l’on mérite ce qui nous arrive. » Puis : « Le projet n’est pas de laisser éclater sa colère une fois ou deux sur la place publique. C’est de travailler sur la durée : il faut que les habitants se réapproprient leurs combats. »

    Avant le premier tour de la présidentielle, quelques membres de l’équipe de Benoît Hamon s’étaient retrouvés à Bondy pour dérouler des propositions sur le long terme à mettre en place dans les périphéries. L’emploi, l’éducation, la lutte contre les discriminations. La séance d’échanges avec le public a tourné en questionnements sur le très court terme. Comment faire quand des dealers planquent de la came dans le cartable des gosses ? Et comment vendre l’égalité à des personnes qui n’arrivent même pas à jouir de leur ascenseur dans des blocs vétustes ? Gros blanc - ce n’était pas prévu. Ce qui se passe actuellement au 19 rue René Camier : la politique dans sa dimension la plus pragmatique.

    A la mi-novembre, Christie et Karima, deux locataires, ont contacté via Facebook Fouad Ben Ahmed, 41 ans, encarté au Parti socialiste, lui-même originaire de Bobigny et référent d’un collectif nommé « Plus sans ascenseurs ». Ils s’étaient ensuite retrouvés un jeudi soir dans l’immeuble malade pour faire du porte-à-porte et sonder les familles. Réactions schizophréniques dans les étages, entre le soulagement d’extérioriser le malaise et la lassitude de rabâcher le champ lexical de la défaite, celui qui fait dire que c’était mieux avant et que tout va de mal en pis à l’intérieur de l’immeuble, mais aussi à l’extérieur.

    Sur son palier, une maman longiligne à lunettes s’était étonnée du décalage entre la communication de la mairie et la situation précaire des destinataires. « Je voulais écrire "MDR" [mort de rire, ndlr] sur l’un de leur courrier. Car je pensais que nous étions invisibles. » Devant sa porte entrouverte du quinzième étage, un trentenaire barbu en survêtement râle contre les plus jeunes. « Ils constatent que l’ascenseur ne fonctionne pas et ça les fait marrer. Pourquoi cela ne provoque pas une autre réaction ? Je ne comprends pas. »

    Une pétition en ligne lancée par le collectif - apolitique - en est presque à 50 000 signataires. Le destinataire : Emmanuel Macron, président de la République. La genèse du mouvement : en juillet 2016, Martine Fontaine, en fauteuil roulant, sèche une paella entre amis, lesquels s’inquiètent de son absence. L’ascenseur de son immeuble d’un autre quartier de Bobigny était en rade, ça faisait des semaines qu’elle ne quittait plus son appartement. Des médias s’intéressent au cas de la dame, immobilisée après des pépins de santé, le bailleur se presse pour régler la situation en quelques jours. Victoire symbolique. Sur les réseaux sociaux, des habitants de Seine-Saint-Denis profitent de l’opportunité pour alerter sur leur situation dans des blocs de Sevran, Aulnay-sous-Bois ou encore Epinay-sur-Seine.

    Palliatif

    700, 800, 900 euros : les locataires du 19 rue René Camier aiment à rappeler le prix des loyers. Christie, trentenaire aux yeux bleus qui vit au douzième, s’interroge. En substance : est-ce normal d’avoir parfois honte de l’endroit où l’on vit ? Et pourquoi faut-il tant de temps pour mobiliser autour d’une cause si concrète ? L’amicale des locataires a disparu depuis des lunes, faute de tauliers pour la faire tourner. Il est désormais question de la reconstituer. Entendu plusieurs fois dans ce coin-ci de Bobigny, sur le ton de la fatalité : l’individualisme grignote de plus en plus dans les quartiers populaires, qui comptent parmi les fiefs historiques de la solidarité - érigée traditionnellement par ceux qui y vivent en palliatif aux manques de moyens. Marcella, auxiliaire de vie sans emploi, habitante de la ville et membre de « Plus sans ascenseurs » : « Le boulot fatiguant, les distances avec la maison, l’éducation des enfants, le poids des factures : c’est un tout dans les milieux très modestes. Est-ce qu’on est toujours conscient de ce que l’on vit ? On finit par accepter parce que le quotidien aspire tout. »

    Etau

    Du côté d’ICF Habitat la Sablière, un responsable admet que les équipements sont fatigués au 19 rue René Camier. Avance que près de la moitié des pannes sont dues à des actes de vandalisme, dont l’ouverture forcée des portes : « Des gamins sautent dans la cabine, des gens urinent à l’intérieur, ce qui use les pièces. » Pointe du doigt des dealers que les pannes arrangeraient pour contrôler les allées et venues. « Je ne dis pas que c’est la cause du problème, simplement un constat. » Ironie, l’immeuble est situé à deux pas du commissariat, à quatre du tribunal.

    Quelle que soit la configuration, les locataires trinquent à la fin. Etau. Fouad Ben Ahmed : « Plus c’est sale et en mauvais état, moins certains respectent. Il faut remettre à neuf. Une fois que ce boulot est fait, la pédagogie commence auprès des habitants. Et les sanctions financières éventuellement prises par le bailleur pourront être transparentes : on verra clairement ce qui a réellement été dégradé ou sali. » Mardi, le collectif a reçu l’assurance du bailleur que le changement d’ascenseurs serait prévu dans le budget de l’année 2018. Et qu’il recevrait une délégation de locataires pour discuter. La veille, le soir du rassemblement, des habitants se sont mis à évoquer la saleté dans les parties communes. Karima, feuilles de papier et stylo à la main, les a conjurés de patienter. Un problème après l’autre, sinon, la revendication de départ se noie. Tout finit alors par se mélanger et du coup, plus personne ne s’écoute.
    Ramsès Kefi Photo Cyril Zannettacci

    #pauvreté #quartiers_populaires #hlm #ascenseurs
    Où ce genre de situation peut-elle perdurer si ce n’est dans les cités où vivent les noirs et les arabes ?

  • À quoi sert la balise <pre> ? - romy.tetue.net
    http://romy.tetue.net/a-quoi-sert-la-balise-pre

    Mais à quoi sert la balise <pre> ? Au texte pré-formaté dit la spec HTML du W3C. Son nom, <pre>, signifie littéralement « PRÉ-formaté ». Et ça fait des années que je me demande ce que ça signifie… Cette balise sert tellement peu souvent que je n’avais jamais pris la peine de creuser. Mais qu’est-ce donc que le texte pré-formaté ?

    Exemples de textes pré-formatés :
    – ASCII Art
    – Poésie
    – Texte brut
    – Balisage léger
    – Arborescence
    – Code informatique

    #HTML #sémantique #pre #ASCIIart #TexteBrut #syntaxes_légères #code

  • Ici, ailleurs… la terre qui nous nourrit on Vimeo
    https://vimeo.com/164469907

    Ce documentaire de 34mn, réalisé par Julio Molina Montenegro, suit Gavin Bridger, jeune maraîcher bio anglais confronté à la perte de ses terres agricoles. Prenant conscience de la difficulté de trouver des terres, il part à la rencontre d’autres fermiers et d’initiatives d’accès à la terre en Europe.

    Introduction très concrète à la question de l’accès à la terre en Europe, ce film offre le panorama d’un mouvement en émergence qui voit fermiers, citoyens et orgnisations de la société civile s’unir pour préserver des terres pour une agriculture et une alimentation de proximité.

    Ce documentaire a été produit par le partenariat Access to land : accesstoland.eu

    http://www.accesstoland.eu/film-La-terre-qui-nous-nourrit
    #terres #foncier #accès_à_la_terre #agriculture #maraîchage