#braccianti

  • Le madri lontane
    https://www.balcanicaucaso.org/aree/Romania/Le-madri-lontane-226428

    Le migliaia di braccianti romene e bulgare che lavorano nei campi di Italia, Spagna e Germania devono separarsi dai figli per mesi. La lontananza e la “maternità delegata” segnano i figli per sempre

  • Braccianti bambini trattati come schiavi nelle campagne di Latina

    Giovanissimi migranti sfruttati da clan mafiosi e padroncini fascisti. La denuncia di un lavoratore italiano: «Agenti e politici locali in una delle aziende già conosciute alle forze dell’ordine»

    «Nella mia esperienza l’unica legge vigente in alcune aziende dell’#Agro_Pontino è quella del padrone, che decide tutto a partire da chi deve lavorare, quante ore di lavoro deve fare e quanto dobbiamo essere pagati. Se qualcuno si lamenta non ti richiama più, oppure ti insulta o minaccia in modo brutale. L’ho visto personalmente minacciare braccianti del Bangladesh e indiani con fucili e pistole per farli tacere dopo tre mesi di lavoro svolto senza stipendio». A parlare è un bracciante italiano di origine calabrese che da poche settimane ha lasciato la provincia di Latina perché stanco di umiliazioni e violenze. Ha lavorato infatti sotto padrone nelle campagne dell’Agro Pontino da quando aveva 16 anni. Le sue mani sembrano quelle di un anziano bracciante di ottant’anni. Ne ha invece solo quarantadue.

    Mostra delle foto fatte di nascosto col suo cellulare mentre lavora sotto le serre con la schiena piegata accanto a quella di altri suoi compagni immigrati. E con le foto anche alcuni eloquenti vocali. Dichiara e dimostra, ora che è al sicuro in un paese vicino Milano, qualcosa di inaspettato anche per chi si occupa di studiare e denunciare lo sfruttamento dei braccianti italiani e immigrati della provincia di Latina da vent’anni. «Ancora in queste settimane, soprattutto il venerdì, il sabato e la domenica, arrivano anche minori a lavorare come schiavi. Sono ragazzi provenienti dal Bangladesh e dall’India. Hanno 14 anni, altre volte 15. Qualcuno arriva al massimo a 17. Non parlano italiano se non pochissime parole che il caporale indiano, su mandato di sedicenti capi della comunità indiana o bangladese, fa imparare loro per eseguire correttamente gli ordini del padrone italiano. Devono soprattutto capire quando arriva l’ordine di scappare perché si teme l’arrivo dei Carabinieri o di qualche controllo specifico».

    Sono giovanissimi immigrati che anziché frequentare corsi di formazione e di lingua, le scuole italiane come i loro coetanei o pensare a vivere in modo sereno la loro adolescenza, sono impiegati senza contratto anche per dieci o dodici ore al giorno nella raccolta delle carote, delle cipolle o dei ravanelli che garantiscono profitti illeciti a padroni e criminali italiani e immigrati e a un sistema agromafioso che, ricorda l’Eurispes, fattura ogni anno circa 24,5 miliardi di euro.

    «Il padrone li recluta parlando coi caporali o con il capo indiano della comunità per pagarli appena 4 euro l’ora. Parliamo di 40 euro al giorno per svolgere un lavoro faticoso e pericoloso. Devono infatti camminare in ginocchio per raccogliere gli ortaggi, usare coltelli affilati per tagliare cespi di insalata o i famosi cavolirapa per il mercato tedesco, e sollevare cassette molto pesanti dopo averle riempite completamente. Le loro pause, come anche le mie, sono al massimo di quaranta minuti per tutta la giornata. I dolori alla schiena, anche a quell’età, o alle ginocchia, sono molto forti e qualcuno di loro per evitare di sentire la fatica prende, come anche molti altri immigrati sfruttati, pasticche o oppio che alcuni hanno dentro i loro zaini». Si tratta di un fenomeno già denunciato nel 2014 da “In Migrazione”, riscontrato peraltro anche in molti processi in corso presso il Tribunale di Latina.

    «Sono minori che vivono in famiglie i cui genitori fanno anche loro i braccianti. Se sommi lo stipendio di padre, madre e figlio minore, tutti sfruttati nelle campagne pontine in aziende molto note, si raggiunge a malapena il salario previsto per il lavoro di un singolo bracciante con regolare contratto. Insomma, ne fai lavorare tre al prezzo di uno, minore compreso. Quando ho provato a dire al padrone che doveva trattarci bene e darci quello che ci doveva, mi ha insultato. Mi ha chiamato calabrese di merda. Una volta mi ha anche preso a calci e a schiaffi, dicendomi che potevo rivolgermi tranquillamente ai sindacati o ai giornalisti, tanto non ha paura di nessuno». Il padrone in questione, peraltro, «è noto alle forze dell’ordine, ma sembra fregarsene. Forse è protetto o si sente protetto, anche perché in azienda, soprattutto nel fine settimana, arrivavano alcuni agenti e politici locali. Si ritrovava anche con alcuni imprenditori agricoli di successo che dicevano fossero molto vicini alla camorra. Si prendevano tutti sotto braccio e pranzavano insieme, mentre io, insieme a quei ragazzi che potevano avere l’età di mio figlio, lavoravamo per loro quasi gratuitamente. E quando qualcuno di noi ha cercato di ribellarsi è finito in ospedale con la testa rotta. Il caporale infatti lo ha preso a bastonate fino a lasciarlo in terra sporco di sangue mentre il padrone faceva sparire il bastone per evitare guai».

    Non solo pratiche però, anche il linguaggio del padrone è importante. E infatti «amava farsi chiamare Mussolini, tanto che aveva fatto montare in azienda busti e adesivi inneggianti al fascismo. Quando pagava i salari, spesso in contanti, ricordava ai braccianti immigrati, minori compresi, che in Italia ci vorrebbe Mussolini o Hitler per sistemare le cose. E poi li insultava definendoli degli indiani idioti, che in Italia devono obbedire agli ordini degli italiani e ringraziare per il lavoro che lui gli garantiva. Era un fascista amico».

    Questo è probabilmente uno di quegli imprenditori che secondo il presidente del Consiglio Giorgia Meloni non deve essere disturbato, come lei stessa ha dichiarato agli industriali durante un’iniziativa pubblica. Peraltro anticipando quanto affermato di fatto anche dal neo direttore generale dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro il giorno del suo insediamento. Non disturbare il manovratore, dunque, anche quando sfrutta lavoratori, ambiente e minori. È la solita dottrina di una destra che è forte con gli sfruttati, italiani e immigrati, donne e uomini, e invece attenta a non disturbare i forti, soprattutto quando sono padroni e fascisti che portano voti e consenso.

    https://ilmanifesto.it/braccianti-bambini-trattati-come-schiavi-nelle-campagne-di-latina
    #exploitation #enfants #enfance #mineurs #braccianti #Italie #Latina #agriculture #néo-esclavage #Bangladesh #Inde #migrations #caporalato

  • #Caporalato in #Friuli_Venezia_Giulia : #Gorizia è solo la punta dell’iceberg

    A fine febbraio una telefonata anonima ha fatto scoprire 30 braccianti rumeni, tra cui due minori, segregati in case fatiscenti, obbligati a lavorare per pochi euro, minacciati e picchiati. Per la Flai Cgil «il caporalato sta dove c’è ricchezza: in Friuli è rappresentata dai vigneti»

    A fine febbraio tre persone sono state arrestate a Gorizia per intermediazione illecita e sfruttamento della manodopera in agricoltura. Le accuse nei loro confronti sono aggravate dalle minacce, dal numero dei lavoratori coinvolti e dalla minore età di due di loro.

    Il nuovo caso di caporalato è emerso grazie a una segnalazione anonima. La guardia di finanza e la procura hanno così scoperto una trentina di persone segregate in case fatiscenti e in precarie condizioni igienico-sanitarie, costrette a lavorare come braccianti agricoli per pochi euro al giorno, minacciate e picchiate se tentavano di ribellarsi. Lavoratori e caporali sono di origine rumena.

    «Che il caporalato fosse diffuso in regione lo sapevamo già, almeno dal dicembre 2021, quando sono stati scoperti alcuni casi a Pordenone. Adesso tutti si meravigliano, ma quello che è accaduto a Gorizia è l’ennesima dimostrazione che il caporalato, come la mafia, sta dove c’è ricchezza. E la grande ricchezza a cielo aperto del Friuli, come del Veneto, sono i vigneti che da tempo hanno sostituito le vecchie coltivazioni», dice a Osservatorio Diritti Alessandro Zanotto, coordinatore regionale Flai Cgil Friuli.

    Caporalato in Italia: il fenomeno va da Sud a Nord

    Il caporalato è sempre più radicato anche al Nord. Sono 405 le aree interessate dal fenomeno lungo tutta la Penisola, di queste solo 194 si trovano al Sud.

    Le altre sono divise tra Nord e Centro. Tra le regioni del Nord, Veneto e Lombardia sono quelle più coinvolte con 44 e 21 aree individuate. Due quelle monitorate in Friuli-Venezia Giulia, a Pordenone. A cui ora si aggiunge Gorizia (dati Osservatorio Placido Rizzotto Flai Cgil).

    «L’operazione della Procura e della Guardia di finanza a Gorizia è la prova che nessuna regione, nessuna coordinata geografica è immune allo sfruttamento. Un menù tossico fatto di condizioni di lavoro umilianti e contesti di vita ripugnanti», spiega a Osservatorio Diritti Jean René Bilongo, presidente dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil.

    Differenze non ce ne sono rispetto ai casi scoperti al Sud: spesso i lavoratori sono di origine straniera (nei casi scoperti a Pordenone erano pachistani, a Gorizia rumeni), i salari sono bassissimi, contratti non ce ne sono e neppure diritti.

    Anche se al Nord può capitare che ci si avvalga di società di somministrazione di manodopera o di consulenti del lavoro locali, «che danno una parvenza di legalità, ma che in realtà sono apparati schiavistici. A Gorizia poi erano coinvolti anche due minorenni e i lavoratori erano tutti di origine rumena, quindi cittadini europei. Una vicenda che smentisce la retorica sul permesso di soggiorno», afferma Bilongo.

    Caporalato in Friuli Venezia Giulia

    I casi scoperti in Friuli-Venezia Giulia, in particolare nel territorio di Pordenone (su cui il VI Rapporto Agromafie e Caporalato della Flai Cgil ha acceso i riflettori), sono «solo la punta dell’iceberg in un territorio che si vanta di avere come pilastro della propria società la rettitudine, ma che il caporalato riesce a scalfire ugualmente. E lo stesso numero di vertenze aperte sul territorio è paradigmatico dell’ampiezza del fenomeno», dice Bilongo.

    Anche Zanotto parla di punta dell’iceberg quando racconta dei casi scoperti in regione, in particolare a Pordenone: «In quel caso erano coinvolti lavoratori pachistani, rinchiusi in case in campagna o in centro, alcuni senza permesso di soggiorno. Anche il caporale era pachistano. Ma le vere menti sono locali. È ipocrita chi dice di non sapere e di non vedere: noi li vediamo, questi ragazzi e ragazze, lavorare nei vigneti alle potature, a novembre e dicembre, tutti i giorni, anche i sabati e le domeniche, dalla mattina presto alla sera tardi. Ragazzi e ragazze che arrivano attraverso la rotta dei Balcani e che vengono sfruttati nelle nostre campagne».

    La legge contro il caporalato esiste, ma va applicata

    Ma come si combatte il caporalato? Per Bilongo la risposta è semplice: applicando la normativa di cui l’Italia si è dotata.

    «La legge 199 del 2016 sul caporalato prevede un impianto repressivo, ma anche di prevenzione. E se i dati sui contenziosi non accennano ad arretrare nonostante le forze a contrasto insufficienti, la prevenzione, purtroppo, non decolla», dice il sindacalista.

    Bilongo, in particolare, fa riferimento alla Rete del lavoro agricolo di qualità, l’organismo autonomo istituito dalle legge 116/2014 che punta ad arginare il caporalato in agricoltura attraverso la creazione di una lista di imprese virtuose.

    La legge sul caporalato del 2016 ha potenziato la Rete, prevedendo l’istituzione di sezioni territoriali in ogni provincia. Ma a fine 2021, le sezioni attivate sono solo 21. E le aziende iscritte alla Rete sono 5.978 su un potenziale di 250 mila (dati Osservatorio Placido Rizzotto – Quaderno n. 1 Geografia del caporalato).

    Qual è il motivo di numeri così bassi? «Il caporalato è una via facile per avere manodopera da discount ed è ormai una modalità consolidata. Eppure la soluzione è lì perché se un’azienda non ha niente da rimproverarsi può iscriversi alla rete ed essere certificata come sana. Dobbiamo rivendicare la necessità di fare prevenzione attraverso la Rete», afferma Bilongo.

    In Friuli-Venezia Giulia ci stanno provando, ma, come precisa Zanotto, «spesso le controparti partecipano agli incontri ma poi finisce lì. Eppure ciò che vediamo noi dovrebbero vederlo anche loro e rendersi conto che chi utilizza questa forma di manodopera rappresenta una concorrenza sleale per le aziende in regola».
    Sindacato di strada: ecco come si combatte il caporalato oggi

    Nei luoghi di lavoro, in quelli di aggregazione o di preghiera, nelle piazze dove avvengono gli ingaggi giornalieri, la Flai Cgil da alcuni anni ha scelto di reinventarsi come sindacato di strada per poter incontrare i lavoratori, distribuire materiale informativo e contratti in diverse lingue, segnalare i servizi del territorio, sostenere chi vuole denunciare.

    «A Pordenone è stato grazie al lavoro del sindacato di strada che abbiamo scoperto quello che stava e sta accadendo», dice Zanotto.

    Con il camper dei diritti – presente in Campania, Sardegna, Puglia, Piemonte, Basilicata, Calabria, Sicilia, Veneto – sono stati avvicinati molti lavoratori che, per paura o problemi di natura logistica, non riuscivano a entrare in contatto con il sindacato.

    «I braccianti agricoli lavorano dall’alba al tramonto e quando rientrano il sindacato è chiuso. Abbiamo rovesciato il paradigma andando loro incontro per intercettare bisogni, farci carico delle criticità, infondere consapevolezza. Questo significa recarsi di notte nei luoghi da cui partono per andare nei campi, o la domenica nei mercati o in moschea. È un lavoro costoso ma efficace. Nel 2018 a Latina quasi 5 mila braccianti indiani sono scesi in piazza. Il coraggio per farlo è il frutto del lavoro del sindacato di strada che, per anni, ha presidiato quella zona», conclude Bilongo.

    https://www.osservatoriodiritti.it/2023/04/03/caporalato-friuli-venezia-giulia
    #Italie #exploitation #main_d'oeuvre #travail #agriculture #braccianti #migrations #vignobles #migrants_roumains #Pordenone #loi #legge_199 #industrie_agro-alimentaire

    • Exploitation, vulnérabilité et résistance : le cas des #ouvriers_agricoles indiens dans l’Agro Pontino

      De nombreuses représentations trompeuses continuent à peser sur l’exploitation des ouvriers agricoles étrangers en Italie, rendant difficile la compréhension du phénomène et l’intervention sur ses causes réelles. Cet article tente de questionner les principaux lieux communs sur le sujet, en analysant un cas particulièrement éclairant : celui de la communauté #Pendjabi de #religion_sikh employée sur l’Agro Pontino, dans le Latium. Cette étude de cas permet, d’une part, de faire ressortir les conditions d’exploitation systémiques, masquées derrière des mécanismes apparemment légaux ; de l’autre, il révèle que même les individus les plus vulnérables peuvent résister à l’exploitation et revendiquer activement leurs droits.

      https://www.cairn.info/revue-confluences-mediterranee-2019-4-page-45.htm

    • #In_migrazione

      In Migrazione è una Società Cooperativa Sociale nata nel 2015 dalla volontà di persone impegnate nella ricerca, nell’accoglienza e nel sostegno agli stranieri in Italia.

      Diversi percorsi professionali e umani che hanno attraversato un ampio spaccato di esperienze diverse e che con In Migrazione si sono uniti per dare vita ad un soggetto collettivo, innovativo, aperto e trasparente.

      Una Cooperativa nata per sperimentare nuovi progetti di qualità e innovative metodologie al fine di interpretare e concretizzare percorsi d’aiuto efficaci verso i migranti che vivono nel nostro Paese situazioni di disagio e difficoltà. Esperienze concrete che sappiano diventare buone pratiche riproducibili, per contribuire a migliorare quel sistema di accoglienza e inclusione sociale degli stranieri.

      Le nostre ricerche e le concrete sperimentazioni progettuali mettono al centro la persona, con i suoi peculiari bisogni, aspettative e sogni.

      Mettiamo a disposizione queste esperienze e le nostre metodologie alle altre associazioni, cooperative, Enti pubblici e privati, professionisti e volontari del settore, convinti che nel sociale non possano e non debbano esistere copyright.

      https://www.inmigrazione.it

    • Progetto “Dignità-Joban Singh”, contro la schiavitù dei braccianti

      Una serie di sportelli di accoglienza, ascolto e sostegno, ma anche di assistenza legale, sociale, di formazione e di informazione, in tutta la provincia di Latina. Un progetto per dare voce alle vittime di lavoro schiavo, in memoria del giovane di origini indiane, morto suicida il 6 giugno 2020 a Sabaudia

      Si chiama Dignità-Joban Singh ed è il progetto in corso organizzato dall’associazione Tempi Moderni contro le varie forme di schiavismo e sfruttamento che mortificano e riducono in schiavitù migliaia di persone, immigrati e italiani, indiani e africani, uomini e donne, in questa Italia fondata sul lavoro ma anche su una persistente presenza di razzisti, violenti, mafiosi e di sfruttatori che mortificano la democrazia ed esprimono chiaramente la loro natura predatoria.

      Joban Singh, di appena 25 anni e residente nel residence “Bella Farnia Mare”, nel Comune di Sabaudia, in provincia di Latina, il 6 giugno scorso è stato trovato senza vita all’interno del suo appartamento. Joban decise di impiccarsi dopo essere entrato in Italia mediante un trafficante di esseri umani indiano, essere stato gravemente sfruttato in una delle maggiori aziende agricole dell’Agro Pontino e aver subito il rifiuto da parte del padrone alla sua richiesta di emersione dall’irregolarità mediante art. 103 del Decreto Rilancio (D.L. n. 34/2020) del governo.

      Dedicare questo progetto alla sua memoria, per non dimenticare ciò che significa vivere come uno schiavo in un paese libero, è un impegno che viene sottoscritto da Tempi Moderni ma che può camminare solo sulle gambe di tanti, o meglio di una comunità di persone responsabili e ribelle contro i padroni e i padrini di oggi.

      In questa Italia ci sono, secondo il rapporto Agromafie e caporalato dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil (2020), tra 400 e 450mila lavoratori e lavoratrici che solo in agricoltura risultano esposti allo sfruttamento e al caporalato. Di queste ultime, più di 180mila sono impiegate in condizione di grave vulnerabilità sociale e forte sofferenza occupazionale. Secondo il sesto Rapporto Agromafia dell’Eurispes, il business delle agromafie, che comprendono le forme di grave sfruttamento, vale 24,5 miliardi di euro l’anno, con un balzo, nel corso del 2018, del 12,4%.

      Un fiume di denaro che è espressione di un’ideologia della disuguaglianza penetrata nei processi culturali delle società occidentali e troppo spesso relazione fondamentale del mondo del lavoro, in particolare del lavoro di fatica. È questo un sistema che produce lo schiavismo contemporaneo, come più volte il “Rapporto Italia”, ancora dell’Eurispes, ha messo in luce.

      Ancora nel 2019, ad esempio, l’Eurispes aveva esplicitamente dichiarato che lo sfruttamento è una fattispecie criminale le cui principali vittime sono i migranti provenienti dall’Europa dell’Est, dall’Africa, dall’Asia, dall’America Latina. Lo sfruttamento, infatti, risultava più diffuso nei comparti più esposti alle irregolarità, al sommerso e all’abuso, dove chi fornisce prestazioni lavorative è in condizione di maggiore vulnerabilità.

      Si registrano dunque casi più numerosi, ancora secondo l’Eurispes, nell’agricoltura e pastorizia, a danno di polacchi, bulgari, rumeni, originari dell’ex U.R.S.S., africani e, in misura crescente, pakistani e indiani; nell’edilizia, a danno di europei dell’Est; nel settore tessile e manifatturiero, a danno di cinesi; nel lavoro domestico (soprattutto come badanti), a danno di soggetti provenienti dall’Europa dell’Est, dall’ex U.R.S.S., dall’Asia e dall’America del Sud.

      Insomma, uomini e donne a cui viene violata la dignità ogni giorno, costretti ad eseguire gli ordini del padrone, a sottostare ai suoi interessi e logiche di dominio. Quando questo potere si esercita nei confronti delle donne, lo sfruttamento assume caratteri devastanti. Ci sono infatti anche casi di violenza sessuale, di subordinazione delle lavoratrici immigrate alle logiche di dominio del boss, del padrone, del capo di turno.

      In provincia di Latina e precisamente a Sabaudia, appena poco prima di Natale, un’operazione denominata “Schiavo” e condotta dalla guardia di finanza, ha permesso di liberare dallo sfruttamento 290 lavoratori, soprattutto di origine indiana, che da anni venivano retribuiti con salari mensili inferiori anche del 60% rispetto a quelli previsti dal contratto provinciale, senza il riconoscimento degli straordinari, con l’obbligo di lavorare anche la domenica, impiegati senza le necessarie misure di sicurezza.

      Dunque, cosa fare? Avere il coraggio di capire, organizzarsi e agire collettivamente. Non si hanno alternative. La povertà, lo sfruttamento, la schiavitù, la violenza, non si abrogano per decreto. Non basta una legge. Serve un’azione collettiva espressione di una volontà radicale di contrasto di questo fenomeno mediante innanzitutto l’accoglienza e l’ascolto delle sue vittime, la costruzione di una relazione orizzontale con loro, dialettica, professionale e anche in questo coraggiosa, perché si deve prevedere l’azione di denuncia dei padroni insieme a quella della tutela.

      Ed è questa la sintesi perfetta del progetto Dignità–Joban Singh che ha organizzato e avviato una serie di sportelli di accoglienza, ascolto, sostegno e anche di assistenza legale, sociale, di formazione e di informazione, in tutta la provincia di Latina. Si tratta di sportelli che hanno il compito di accogliere e di fornire assistenza legale gratuita alle donne e agli uomini gravemente sfruttati, di qualunque nazionalità, vittime di tratta e caporalato, di violenze, anche sessuali, obbligati al silenzio o alla subordinazione.

      Insomma, un progetto realizzato grazie all’ausilio di avvocati di grande esperienza e con mediatori culturali affidabili e professionali, fondato sulla pedagogia degli oppressi di Freire e gli insegnamenti di Don Milani, Don Primo Mazzolari e Don Sardelli. Un progetto che vuole anche contrastare le strategie (razziste) mediatiche, politiche e sociali di stigmatizzazione, stereotipizzazione ed esclusione di coloro che sono considerati antropologicamente diversi.

      Un progetto che però ha bisogno del sostegno della maggioranza di questo paese, donne e uomini che non vogliono vivere sotto il ricatto delle mafie, dei violenti, degli sfruttatori, dei neoschiavisti, dei razzisti, in favore di un’Italia che merita un futuro diverso, migliore.

      https://www.nigrizia.it/notizia/progetto-dignita-joban-singh-contro-la-schiavitu-dei-braccianti

    • Marco Omizzolo

      Marco Omizzolo is a sociologist, researcher and journalist, who has been documenting and denoucing human rights violations against Sikh migrant workers exploited in the fields in the province of Latina (central Italy). In a context where “agrimafia” is rampant and many farms are controlled by criminal organisations, migrants have to work for up to 13 hours a day in inhumane conditions and under the orders of “caporali” (gangmasters), they earn well below the minimum wage and they have to live in cramped accommodation. To document their situation, Marco has worked undercover in the fields and he also went to Punjab (India) to follow an Indian human trafficker, where he investigated the connections between human trafficking and the system of agrimafia. Marco is also one of the founders of InMigrazione, an organisation that supports migrant workers informing them about their rights, helping them organise and fight for labour rights, and giving them the legal support they might need. In 2016, Marco and some Sikh activists managed to organise the first mass strike in Latina, joined by over 4000 workers.

      Because of his work - and particularly because of his investigations denouncing the criminal organisations involved in the agribusiness and the local food industry - Marco Omizzolo has been receiving serious threats. His car has been repeatedly damaged, he is often under surveillance and he has been forced to relocate because of the threats received.

      https://www.frontlinedefenders.org/en/profile/marco-omizzolo

    • The Indian migrants lured into forced labor on Mussolini’s farmland

      Gurinder Dhillon still remembers the day he realized he had been tricked. It was 2009, and he had just taken out a $16,000 loan to start a new life. Originally from Punjab, India, Dhillon had met an agent in his home village who promised him the world.

      “He sold me this dream,” Dhillon, 45, said. A new life in Europe. Good money — enough to send back to his family in India. Clothes, a house, plenty of work. He’d work on a farm, picking fruits and vegetables, in a place called the Pontine Marshes, a vast area of farmland in the Lazio region, south of Rome, Italy.

      He took out a sizable loan from the Indian agents, who in return organized his visa, ticket and travel to Italy. The real cost of this is around $2,000 — the agents were making an enormous profit.

      “The thing is, when I got here, the whole situation changed. They played me,” Dhillon said. “They brought me here like a slave.”

      On his first day out in the fields, Dhillon climbed into a trailer with about 60 other people and was then dropped off in his assigned hoop house. That day, he was on the detail for zucchini, tomatoes and eggplant. It was June, and under the plastic, it was infernally hot. It felt like at least 100 degrees, Dhillon remembers. He sweated so much that his socks were soaked. He had to wring them out halfway through the day and then put them back on — there was no time to change his clothes. As they worked, an Italian boss yelled at them constantly to work faster and pick more.

      Within a few hours of that first shift, it dawned on Dhillon that he had been duped. “I didn’t think I had been tricked — I knew I had,” he said. This wasn’t the life or the work he had been promised.

      What he got instead was 3.40 euros (about $3.65) an hour, for a workday of up to 14 hours. The workers weren’t allowed bathroom breaks.

      On these wages, he couldn’t see how he would ever repay the enormous loan he had taken out. He was working alongside some other men, also from India, who had been there for years. ”Will it be like this forever?” he asked them. “Yes,” they said. “It will be like this forever.”

      Ninety years ago, a very different harvest was taking place. Benito Mussolini was celebrating the first successful wheat harvest of the Pontine Marshes. It was a new tradition for the area, which for millennia had been nothing but a vast, brackish, barely-inhabited swamp.

      No one managed to tame it — until Mussolini came to power and launched his “Battle for Grain.” The fascist leader had a dream for the area: It would provide food and sustenance for the whole country.

      Determined to make the country self-sufficient as a food producer, Mussolini spoke of “freeing Italy from the slavery of foreign bread” and promoted the virtues of rural land workers. At the center of his policy was a plan to transform wild, uncultivated areas into farmland. He created a national project to drain Italy’s swamps. And the boggy, mosquito-infested Pontine Marshes were his highest priority.

      His regime shipped in thousands of workers from all over Italy to drain the waterlogged land by building a massive system of pumps and canals. Billions of gallons of water were dredged from the marshes, transforming them into fertile farmland.

      The project bore real fruit in 1933. Thousands of black-shirted Fascists gathered to hear a brawny-armed, suntanned Mussolini mark the first wheat harvest of the Pontine Marshes.

      "The Italian people will have the necessary bread to live,” Il Duce told the crowd, declaring how Italy would never again be reliant on other countries for food. “Comrade farmers, the harvest begins.”

      The Pontine Marshes are still one of the most productive areas of Italy, an agricultural powerhouse with miles of plastic-covered hoop houses, growing fruit and vegetables by the ton. They are also home to herds of buffalo that make Italy’s famous buffalo mozzarella. The area provides food not just for Italy but for Europe and beyond. Jars of artichokes packed in oil, cans of Italian plum tomatoes and plump, ripe kiwi fruits often come from this part of the world. But Mussolini’s “comrade farmers” harvesting the land’s bounty are long gone. Tending the fields today are an estimated 30,000 agricultural workers like Dhillon, most hailing from Punjab, India. For many of them — and by U.N. standards — the working conditions are akin to slave labor.

      When Urmila Bhoola, the U.N. special rapporteur on contemporary slavery, visited the area, she found that many working conditions in Italy’s agricultural sector amounted to forced labor due to the amount of hours people work, the low salaries and the gangmasters, or “caporali,” who control them.

      The workers here are at the mercy of the caporali, who are the intermediaries between the farm workers and the owners. Some workers are brought here with residency and permits, while others are brought fully off the books. Regardless, they report making as little as 3-4 euros an hour. Sometimes, though, they’re barely paid at all. When Samrath, 34, arrived in Italy, he was not paid for three months of work on the farms. His boss claimed his pay had gone entirely into taxes — but when he checked with the government office, he found his taxes hadn’t been paid either.

      Samrath is not the worker’s real name. Some names in this story have been changed to protect the subjects’ safety.

      “I worked for him for all these months, and he didn’t pay me. Nothing. I worked for free for at least three months,” Samrath told me. “I felt so ashamed and sad. I cried so much.” He could hardly bring himself to tell his family at home what had happened.

      I met Samrath and several other workers on a Sunday on the marshes. For the Indian Sikh workers from Punjab, this is usually the only day off for the week. They all gather at the temple, where they pray together and share a meal of pakoras, vegetable curry and rice. The women sit on one side, the men on the other. It’s been a long working week — for the men, out in the fields or tending the buffaloes, while the women mostly work in the enormous packing centers, boxing up fruits and vegetables to be sent out all over Europe.

      Another worker, Ramneet, told me how he waited for his monthly check — usually around 1,300 euros (about $1,280) per month, for six days’ work a week at 12-14 hours per day. But when the check came, the number on it was just 125 euros (about $250).

      “We were just in shock,” Ramneet said. “We panicked — our monthly rent here is 600 euros.” His boss claimed, again, that the money had gone to taxes. It meant he had worked almost for free the entire month. Other workers explained to me that even when they did have papers, they could risk being pushed out of the system and becoming undocumented if their bosses refused to issue them payslips.

      Ramneet described how Italian workers on the farms are treated differently from Indian workers. Italian workers, he said, get to take an hour for lunch. Indian workers are called back after just 20 minutes — despite having their pay cut for their lunch hour.

      “When Meloni gives her speeches, she talks about getting more for the Italians,” Ramneet’s wife Ishleen said, referring to Italy’s new prime minister and her motto, “Italy and Italians first.” “She doesn’t care about us, even though we’re paying taxes. When we’re working, we can’t even take a five-minute pause, while the Italian workers can take an hour.”

      Today, Italy is entering a new era — or, some people argue, returning to an old one. In September, Italians voted in a new prime minister, Giorgia Meloni. As well as being the country’s first-ever female prime minister, she is also Italy’s most far-right leader since Mussolini. Her supporters — and even some leaders of her party, Brothers of Italy — show a distinct reverence for Mussolini’s National Fascist Party.

      In the first weeks of Meloni’s premiership, thousands of Mussolini admirers made a pilgrimage to Il Duce’s birthplace of Predappio to pay homage to the fascist leader, making the Roman salute and hailing Meloni as a leader who might resurrect the days of fascism. In Latina, the largest city in the marshes, locals interviewed by national newspapers talked of being excited about Meloni’s victory — filled with hopes that she might be true to her word and bring the area back to its glory days in the time of Benito Mussolini. One of Meloni’s undersecretaries has run a campaign calling for a park in Latina to return to its original name: Mussolini Park.

      During her campaign, a video emerged of Meloni discussing Mussolini as a 19-year-old activist. “I think Mussolini was a good politician. Everything he did, he did for Italy,” she told journalists. Meloni has since worked to distance herself from such associations with fascism. In December, she visited Rome’s Jewish ghetto as a way of acknowledging Mussolini’s crimes against humanity. “The racial laws were a disgrace,” she told the crowd.

      A century on from Italy’s fascist takeover, Meloni’s victory has led to a moment of widespread collective reckoning, as a national conversation takes place about how Mussolini should be remembered and whether Meloni’s premiership means Italy is reconnecting with its fascist past.

      Unlike in Germany, which tore down — and outlawed — symbols of Nazi terror, reminders of Mussolini’s rule remain all over Italy. There was no moment of national reckoning after the war ended and Mussolini was executed. Hundreds of fascist monuments and statues dot the country. Slogans left over from the dictatorship can be seen on post offices, municipal buildings and street signs. Collectively, when Italians discuss Mussolini, they do remember his legacy of terror — his alliance with Adolf Hitler, anti-Semitic race laws and the thousands of Italian Jews he sent to the death camps. But across the generations, Italians also talk about other legacies of his regime — they talk of the infrastructure and architecture built during the period and of how he drained the Pontine Marshes and rid them of malaria, making the land into an agricultural haven.

      Today in the Pontine Marshes, which some see as a place brought into existence by Il Duce — and where the slogans on one town tower praise “the land that Mussolini redeemed from deadly sterility” — the past is bristling with the present.

      “The legend that has come back to haunt this town, again and again, is that it’s a fascist city. Of course, it was created in the fascist era, but here we’re not fascists — we’re dismissed as fascists and politically sidelined as a result,” Emilio Andreoli, an author who was born in Latina and has written books about the city’s history, said. Politicians used to target the area as a key campaigning territory, he said, but it has since fallen off most leaders’ agendas. And indeed, in some ways, Latina is a place that feels forgotten. Although it remains a top agricultural producer, other kinds of industry and infrastructure have faltered. Factories that once bustled here lie empty. New, faster roads and railways that were promised to the city by previous governments never materialized.

      Meloni did visit Latina on her campaign trail and gave speeches about reinvigorating the area with its old strength. “This is a land where you can breathe patriotism. Where you breathe the fundamental and traditional values that we continue to defend — despite being considered politically incorrect,” she told the crowd.

      But the people working this land are entirely absent from Meloni’s rhetorical vision. Marco Omizzolo, a professor of sociology at the University of Sapienza in Rome, has for years studied and engaged with the largely Sikh community of laborers from India who work on the marshes.

      Omizzolo explained to me how agricultural production in Italy has systematically relied on the exploitation of migrant workers for decades.

      “Many people are in this,” he told me, when we met for coffee in Rome. “The owners of companies who employ the workers. The people who run the laborers’ daily work. Local and national politicians. Several mafia clans.”

      “Exploitation in the agricultural sector has been going on for centuries in Italy,” Giulia Tranchina, a researcher at Human Rights Watch focusing on migration, said. She described that the Italian peasantry was always exploited but that the system was further entrenched with the arrival of migrant workers. “The system has always treated migrants as manpower — as laborers to exploit, and never as persons carrying equal rights as Italian workers.” From where she’s sitting, Italy’s immigration laws appear to have been designed to leave migrants “dependent on the whims and the wills of their abusive employers,” Tranchina said.

      The system of bringing the workers to Italy — and keeping them there — begins in Punjab, India. Omizzolo described how a group of traffickers recruits prospective workers with promises of lucrative work abroad and often helps to arrange high-interest loans like the one that Gurinder took out. Omizzolo estimates that about a fifth of the Indian workers in the Pontine Marshes come via irregular routes, with some arriving from Libya, while many others are smuggled into Italy from Serbia across land and sea, aided by traffickers. Their situation is more perilous than those who arrived with visas and work permits, as they’re forced to work under the table without contracts, benefits or employment rights.

      Omizzolo knows it all firsthand. A Latina native, he grew up playing football by the vegetable and fruit fields and watching as migrant workers, first from North Africa, then from India, came to the area to work the land. He began studying the forces at play as a sociologist during his doctorate and even traveled undercover to Punjab to understand how workers are picked up and trafficked to Italy.

      As a scholar and advocate for stronger labor protections, he has drawn considerable attention to the exploitative systems that dominate the area. In 2016, he worked alongside Sikh laborers to organize a mass strike in Latina, in which 4,000 people participated. All this has made Omizzolo a target of local mafia forces, Indian traffickers and corrupt farm bosses. He has been surveilled and chased in the street and has had his car tires slashed. Death threats are nothing unusual. These days, he does not travel to Latina without police protection.

      The entire system could become even further entrenched — and more dangerous for anyone speaking out about it — under Meloni’s administration. The prime minister has an aggressively anti-migrant agenda, promising to stop people arriving on Italy’s shores in small boats. Her government has sent out a new fleet of patrol boats to the Libyan Coast Guard to try to block the crossings, while making it harder for NGOs to carry out rescue operations.

      At the end of February, at least 86 migrants drowned off the coast of Calabria in a shipwreck. When Meloni visited Calabria a few weeks later, she did not go to the beach where the migrants’ bodies were found or to the funeral home that took care of their remains. Instead, she announced a new policy: scrapping special protection residency permits for migrants.

      Tranchina, from Human Rights Watch, explained that getting rid of the “special protection” permits will leave many migrant workers in Italy, including those in the Pontine Marshes, effectively undocumented.

      “The situation is worsening significantly under the current government,” she said. “An army of people, who are currently working, paying taxes, renting houses, will now be forced to accept very exploitative working conditions — at times akin to slavery — out of desperation.”

      Omizzolo agreed. Meloni’s hostile environment campaign against arriving migrants is making people in the marshes feel “more fragile and blackmailable,” he told me.

      “Meloni is entrenching the current system in place in the Pontine Marshes,” Omizzolo said. “Her policies are interested in keeping things in their current state. Because the people who exploit the workers here are among her voter base.”

      And then there’s the matter of money and how people are paid. A few months into her administration, Meloni introduced a proposal to raise the ceiling for cash transactions from 2,000 euros (about $2,110) to 5,000 euros ($5,280), a move that critics saw as an attempt to better insulate black market and organized crime networks from state scrutiny.

      Workers describe that they were often paid in cash and that their bosses were always looking for ways to take them off the books. “We have to push them to pay us the official way and keep our contracts,” Rajvinder, 24, said. “They prefer to give us cash.” Being taken off a contract and paid under the table is a constant source of anxiety. “If I don’t have a work contract, my papers will expire after three months,” Samrath explained, describing how he would then become undocumented in Italy.

      Omizzolo says Meloni’s cash laws will continue to preserve the corruption and sustain a shadow economy that grips the workers coming to the Pontine Marshes. Even for people who once worked above the table, the new government’s laissez-faire attitude towards the shadow economy is pushing them back into obscurity. “That law is directly contributing to the black market — people who used to be on the books, and have proper contracts, are now re-entering the shadow economy,” he said.

      Tranchina, from Human Rights Watch, explained that getting rid of the “special protection” permits will leave many migrant workers in Italy, including those in the Pontine Marshes, effectively undocumented.

      “The situation is worsening significantly under the current government,” she said. “An army of people, who are currently working, paying taxes, renting houses, will now be forced to accept very exploitative working conditions — at times akin to slavery — out of desperation.”

      Omizzolo agreed. Meloni’s hostile environment campaign against arriving migrants is making people in the marshes feel “more fragile and blackmailable,” he told me.

      “Meloni is entrenching the current system in place in the Pontine Marshes,” Omizzolo said. “Her policies are interested in keeping things in their current state. Because the people who exploit the workers here are among her voter base.”

      And then there’s the matter of money and how people are paid. A few months into her administration, Meloni introduced a proposal to raise the ceiling for cash transactions from 2,000 euros (about $2,110) to 5,000 euros ($5,280), a move that critics saw as an attempt to better insulate black market and organized crime networks from state scrutiny.

      Workers describe that they were often paid in cash and that their bosses were always looking for ways to take them off the books. “We have to push them to pay us the official way and keep our contracts,” Rajvinder, 24, said. “They prefer to give us cash.” Being taken off a contract and paid under the table is a constant source of anxiety. “If I don’t have a work contract, my papers will expire after three months,” Samrath explained, describing how he would then become undocumented in Italy.

      Omizzolo says Meloni’s cash laws will continue to preserve the corruption and sustain a shadow economy that grips the workers coming to the Pontine Marshes. Even for people who once worked above the table, the new government’s laissez-faire attitude towards the shadow economy is pushing them back into obscurity. “That law is directly contributing to the black market — people who used to be on the books, and have proper contracts, are now re-entering the shadow economy,” he said.

      The idealistic image of the harvest was powerful propaganda at the time. Not shown were the workers, brought in from all over the country, who died of malaria while digging the trenches and canals to drain the marsh. It also stands in contrast to today’s reality. Workers are brought here from the other side of the world, on false pretenses, and find themselves trapped in a system with no escape from the brutal work schedule and the resulting physical and mental health risks. In October, a 24-year-old Punjabi farm worker in the town of Sabaudia killed himself. It’s not the first time a worker has died by suicide — depression and opioid addiction are common among the workforce.

      “We are all guilty, without exception. We have decided to lose this battle for democracy. Dear Jaspreet, forgive us. Or perhaps, better, haunt our consciences forever,” Omizzolo wrote on his Facebook page.

      Talwinder, 28, arrived on the marsh last year. “I had no hopes in India. I had no dreams, I had nothing. It is difficult here — in India, it was difficult in a different way. But at least [in India] I was working for myself.” His busiest months of the year are coming up — he’ll work without a day off. And although the mosquitoes no longer carry malaria, they still plague the workers. “They’re fatter than the ones in India,” he laughs. “I heard it’s because this place used to be a jungle.”

      Mussolini’s vision for the marsh was to turn it into an agricultural center for the whole of Italy, giving work to thousands of Italians and building up a strong working peasantry. Today, vegetables, olives and cheeses from the area are shipped to the United States and sold in upmarket stores to shoppers seeking authentic, artisan foods from the heart of the old world. But it comes at an enormous price to those who produce it. And under Meloni’s premiership, they only expect that cost to rise.

      “These days, if my family ask me if they should come here, like my nephew or relatives, I tell them no,” said Samrath. “Don’t come here. Stay where you are.”

      https://www.codastory.com/rewriting-history/indian-migrants-italy-pontine-marshes

  • Sicilia, ucciso per aver difeso i #braccianti dai caporali: la storia di Adnan

    #Adnan_Siddique, pakistano di 32 anni è stato ucciso la sera del 3 giugno scorso a #Caltanissetta, nella sua abitazione di via San Cataldo. La sua colpa? Quella di essersi fatto portavoce di alcuni braccianti vittime di caporalato. Secondo la ricostruzione dei carabinieri, la vittima qualche mese fa aveva accompagnato un suo connazionale a sporgere denuncia, perché quest’ultimo non era stato pagato per il lavoro prestato e alla richiesta di chiarimenti sarebbe stato aggredito. Da allora aveva iniziato a ricevere minacce, tutte denunciate. Fino alla sera dell’omicidio. Adesso sta prendendo piede l’ipotesi che gli aggressori operassero una mediazione tra datori di lavoro e connazionali, per procacciare manodopera nel settore agricolo. In cambio avrebbero trattenuto una percentuale sulla loro paga.

    Ieri è stata eseguita l’autopsia su cadavere dal medico legale. Cinque i fendenti: due alle gambe, uno alla schiena, alla spalla e al costato. Quest’ultimo è risultato quello fatale. Trovata poche ore dopo il delitto, dai carabinieri anche l’arma utilizzata, un coltello di circa 30 centimetri. Il gip Gigi Omar Modica ha interrogato ieri i quattro fermati per l’omicidio: Muhammad Shoaib, 27 anni, Alì Shujaat, 32 anni, Muhammed Bilal, 21 anni, e Imrad Muhammad Cheema, 40 anni e il connazionale Muhammad Mehdi, 48 anni, arrestato per favoreggiamento. Restano in carcere i primi quattro, il quinto è stato rimesso in libertà con l’obbligo di firma. Secondo la ricostruzione dei carabinieri la vittima, che per lavoro si occupava di riparazione e manutenzione di macchine tessili, aveva presentato denuncia per minaccia nei confronti dei suoi carnefici. Intanto, dall’autopsia è emerso che la vittima è stata colpita con cinque coltellate in diverse parti del corpo: due alle gambe, uno alla schiena, alla spalla e al costato. Quest’ultimo è risultato quello fatale. I carabinieri, poche ore dopo il delitto, hanno trovato anche il coltello, lungo 30 centimetri, utilizzato dai presunti assassini.

    Adnan Siddique era arrivato in Italia dal Pakistan cinque anni fa con la speranza di costruirsi un futuro. A Lahore, metropoli pakistana di oltre 11 milioni di abitanti, viveva con il padre e la madre e altri 9 fratelli. Una famiglia povera che riponeva in Adnan tante aspettative. A Caltanissetta lavorava come manutentore di macchine tessili e si era fatto degli amici.

    “Quasi ogni giorno Adnan passava dal bar Lumiere nel centro storico, ordinava un caffè o una coca cola. E con il suo carattere limpido, educato, gentile, si era fatto subito amare dai proprietari: Giampiero Di Giugno, la moglie Piera e il figlio Erik. Tanto che a volte lo avevano anche invitato a pranzo da loro. In quelle ore insieme, Adnan aveva raccontato dei suoi sogni ma anche delle sue preoccupazioni per via di un gruppo di connazionali che lo tormentavano”, riporta l’Ansa. Adnan si era confidato con il cugino, che vive in Pakistan. “Aveva difeso una persona e lo minacciavano per questo motivo – riferisce Ahmed Raheel – Voleva tornare in Pakistan per la prima volta dopo tanti anni per una breve vacanza ma non lo rivedremo mai più. Adesso non sappiamo neanche come fare tornare la salma in Pakistan. Noi siamo gente povera, chiediamo solo che venga fatta giustizia”.

    https://www.tpi.it/cronaca/sicilila-ucciso-difeso-braccianti-caporali-20200608616384
    #caporalato #décès #meurtre #assassinat #agriculture #Italie #Sicile

  • Tiro al bersaglio senza pietà : ucciso #Sacko_Soumaila, 29 anni

    A #San_Calogero, in provincia di Vibo Valentia, nel pomeriggio di sabato 2 giugno, intorno alle sei, ignoti hanno ucciso un uomo di 29 anni originario del Mali con una fucilata alla tempia. Sacko Soumaila è morto dopo essere stato soccorso da un’ambulanza e trasportato prima all’ospedale di Polistena, e poi nel reparto di neurochirurgia dell’ospedale di Reggio Calabria.

    Il giovane, titolare di un regolare permesso di soggiorno (cosa che la stampa mainstream tiene a sottolineare come un mantra, ndr), viveva nella vicina #tendopoli di #San_Ferdinando (sulle condizioni di vita dei braccianti all’interno di questo “#ghetto” si veda il recente rapporto MEDU) e lavorava come bracciante nei campi della piana di #Gioia_Tauro per pochi euro al giorno ed era sindacalista dell’#Unione_Sindacale_di_Base.

    Lo scorso 27 gennaio nella baraccopoli c’era stato un devastante incendio in cui era morta una giovane donna di origini nigeriane, Becky Moses. Dopo quell’episodio, i migranti avevano iniziato a utilizzare le lamiere per ricostruire le baracche al posto di altri materiali di recupero più facilmente infiammabili (cartoni, teli di plastica, aste di legno e così via).

    Sacko Soumalia, insieme a due suoi connazionali, Drame Madiheri, 39 anni, e Madoufoune Fofana, 27 anni, stava cercando proprio delle lamiere per costruire altri ripari nella tendopoli. I tre si trovavano in una ex fabbrica di mattoni, la Fornace, in contrada Calimera di San Calogero, lungo la Statale 18, vicino Rosarno, al confine tra la provincia di Vibo quella di Reggio Calabria, chiusa ormai da dieci anni, e in completo abbandono, per disposizione della magistratura perché ci avevano trovato «oltre 135mila tonnellate di rifiuti pericolosi e tossici, inclusi fanghi altamente inquinanti» (precisa il quotidiano La Repubblica).

    Stando al racconto di uno dei due sopravvissuti, a sparare sarebbe stato un uomo piuttosto anziano, di carnagione chiara, sceso da una Panda bianca che ha preso la mira da oltre 60 metri e ha sparato, senza alcuna esitazione, numerosi colpi di fucile. Come spesso è successo in casi analoghi, la notizia dell’omicidio è stata proposta in modo fuorviante. La “storia” dei migranti che “rubano” e poi muoiono barbaramente “giustiziati”, ci fa risalire alla memoria il lontano 2008, quando un giovane italiano, Abdul William Guibre detto Abba, 19 anni, originario del Burkina Faso, veniva ucciso da due italiani, padre e figlio, a sprangate per il presunto furto di una piccola scatola di biscotti a Milano (vedi nel primo libro bianco sul razzismo in Italia, G. Faso, L’uccisione di Abdul Guibre, pag. 72). O la più recente morte di Mamoudou Sare, 37enne del Burkina Faso, ucciso a colpi di fucile nelle campagne di Lucera, nell’estate 2015, sempre da padre e figlio, per un presunto furto di meloni marci (vedi nel quarto libro bianco sul razzismo in Italia, P. Andrisani, La vita per un melone marcio. L’assurdo omicidio
    di Sare Mamadou a Lucera, pag. 165).

    Oggi, qualcuno ha ucciso con un obiettivo preciso per quattro pezzi di lamiera abbandonata. Fra i tanti giornali calabresi online, i primi a diffondere la notizia dell’omicidio del migrante, StrettoWeb la correda di una foto che allude ai furti in appartamento (un ladro che scavalca un balcone per svaligiare un appartamento) con il titolo “Far West in Calabria, immigrati tentano un furto ma uno finisce ucciso a colpi di fucile”. Ovviamente questo ha inevitabilmente scatenato centinaia di commenti razzisti irripetibili, distillando un concentrato d’odio devastante. Molti commenti al post con cui è stato diffuso l’articolo esaltano la possibilità di “farsi giustizia da soli” e incitano ad “ammazzarli tutti”. Triste e sconfortante constatare che nei commenti (o non-commenti) all’accaduto, da una parte, c’è il silenzio assordante della politica e del Governo, e dall’altra, vi è un gran numero di commenti che giustificano l’accaduto dicendo che “stavano rubando”.

    Ricordiamo che esattamente un anno fa, la Camera ha completato l’esame della proposta di legge sulla riforma della cosiddetta “legittima difesa”, approvando alcune modifiche alla legge vigente. La proposta di legge iniziale riguardava solo l’articolo 59 del codice penale (quindi non quello sulla legittima difesa, ma quello sulle circostanze del reato), aumentando la tutela per chi si difenda da un’aggressione in casa con un’arma legittimamente posseduta, eliminando la colpa di “chi si difende in modo eccessivo”, se si trova in uno stato di “grave turbamento psichico causato dalla persona contro la quale è diretta la reazione”. Il fatto è che, nella zona, si sono già verificati diversi episodi di violenza, anche brutale, contro i migranti, per cui lo scorso ottobre i carabinieri avevano arrestato quattro ragazzi italiani per aggressioni «con l’aggravante di aver commesso il fatto per finalità di discriminazione e odio razziale» (si sporgevano dai finestrini della loro auto, colpendo con delle mazzate i migranti in bicicletta, “come dei birilli”). Una ragione in più per presidiare. Una ragione in più per porre maggiore attenzione ad un problema che purtroppo, va ben al di là della morte terribile del giovane bracciante maliano.

    Oggi, lunedì 4 giugno, il sindacato di cui faceva parte Soumaila, l’USB, ha indetto uno sciopero generale (condiviso anche in altri luoghi simbolo dello sfruttamento dei braccianti stranieri, come a Foggia e dintorni, e a Lecce) e un’assemblea per decidere il da farsi.

    http://www.cronachediordinariorazzismo.org/tiro-al-bersaglio-senza-pieta-ucciso-sacko-soumaila-29-
    #racisme #xénophobie #Italie #assassinat #meurtre #travail #bracciante #braccianti #exploitation #tomates #Soumaila_Sacko #Sacko

    • Se Tocchi Uno Tocchi Tutti/e
      Texte en lien avec une manifestation qui sera organisée le 7 juin 2018 à Palerme :

      SE TOCCHI UNO TOCCHI TUTTI - IL RAZZISMO UCCIDE. SOUMAILA SACKO VIVE

      Soumaila Sacko era un giovane uomo del Mali, un padre, un bracciante agricolo, un sindacalista.

      Soumaila Sacko lavorava nella Piana di Gioia Tauro, dove migliaia di persone, non differentemente dalle campagne siciliane, vengono sfruttate per due euro l’ora da caporali senza scrupoli, ma anche da italianissimi imprenditori agricoli, la cui azione è favorita da politiche che relegano sempre più persone nella clandestinità.

      Soumaila Sacko era un sindacalista che combatteva con coraggio per affermare i diritti di chi non ha voce ed è sfruttato nell’invisibilità.

      E’ stato ucciso a colpi di lupara, a sangue freddo, mentre con due connazionali tentava di portar via delle lamiere da una fabbrica dismessa, al solo fine di riparare i rifugi precari in cui i migranti sfruttati sono costretti a vivere.

      Troviamo agghiacciante il silenzio istituzionale successivo alla sua morte.

      Troviamo agghiacciante che una parte rilevante del sistema mediatico abbia quasi attenuato la gravità dell’omicidio adducendo la scusa che lui stesse rubando delle vecchie ferraglie, come se questo fatto - rivelatosi falso - potesse in qualche modo giustificare l’assassino.

      Noi vogliamo gridare forte che se toccano Soumaila toccano ciascuno di noi, che il suo esempio di vita, di lotta, ci guida già nell’alzare la testa, denunciando le reali cause delle disuguaglianze sociali, contro chi invece costruisce odio creando capri espiatori nelle persone più indifese e criminalizzando chi le aiuta.

      L’unica invasione in atto oggi in Italia è l’invasione razzista, frutto della speculazione politica di tanti e del silenzio imbarazzato di altri, che in questi anni hanno preferito non vedere o, peggio, hanno sdoganato politiche securitarie ed escludenti che iniziano col colpire i/le migranti, ma ben presto si abbatteranno su tutta la popolazione, a partire dai più poveri e da chi costruisce solidarietà e difende l’universalità dei diritti.

      Non possiamo più tollerare queste false narrazioni, questi silenzi; non possiamo più tollerare che migliaia di persone siano descritte come criminali mentre vengono sfruttate ed utilizzate dal sistema economico come schiavi, quando non uccise. Rifiutiamo e combattiamo questo vergognoso tentativo - in atto in gran parte del mondo - di addossare le colpe delle disuguaglianze del mondo a chi ha di meno piuttosto che a chi ha di più.

      Nel nome di Soumaila quindi ci vediamo GIOVEDÌ 7 alle 17.00 a Piazza Verdi - Teatro Massimo- perché sia fatta giustizia, per lui e per tutte le persone che oggi nell’ Italia di oggi vengono umiliate e offese, sfruttate e criminalizzate, per il diritto di tutti e tutte ad una società pacifica, solidale, inclusiva, fondata sulla sicurezza dei diritti.

      La lotta è all’inizio!!

      https://www.facebook.com/events/1891765344196609

    • Qui dove rovistare tra i rifiuti è chiamato “rubare”. E si spara

      Colpi di fucile. Mirato, puntato come un tirassegno solo che qui è ancora più divertente perché a cercare di non farsi ammazzare c’è un uomo vero, in più “negro”. Sacko Soumayla è morto come si muore nelle zone di guerra, con un colpo ficcato dentro alla testa e le gambe che crollano. Sacko era entrato con i due suoi compagni Madiheri Drame, 30 anni, e Madoufoune Fofana, 27 anni, la vittima era entrata all’ex Fornace, una fabbrica abbandonata nella zona di San Calogero, vicino a Gioia Tauro e alcuni bianchi e puri scesi da un Panda hanno cominciato a prenderli a fucilate.

      Cercavano lamiere per costruire una baracca da aggiungere alla baraccopoli di San Ferdinando, una zona di pacchia, come direbbe il ministro dell’Interno Matteo Salvini, dove non troppo tempo fa un incendio ha ucciso Becky Moses. Non è solo un omicidio a sfondo razziale, è una tentata strage se non fosse che gli altri due sono riusciti a mettersi al riparo.

      Ma la decadenza di un Paese che assomiglia sempre di più all’odore dei conati salviniani sta soprattutto nei commenti all’accaduto: da una parte c’è la politica che tace quasi tutta perché con il governo giallo verde i “negri” possono morire e dall’altra ci sono quelli che giustificano l’accaduto dicendo che quelli stavano rubando.

      Se rovistare tra i rifiuti e le macerie diventa un furto allora il degrado è compiuto: siamo nel tempo in cui avere vistosamente bisogno di aiuto, essere pubblicamente disperati e essere oscenamente poveri è insopportabile. Lo chiamano decoro, ordine, sicurezza e pulizia ma ha l’odore dell’intolleranza verso ciò che vorremmo nascondere dalla vista.

      Fate così: stamattina gridate “ladro” a qualcuno che cerca di recuperare spizzichi di cibo dalla spazzatura. Guardatelo bene in faccia, come non reagisce. Quella è la fotografia di un’epoca.

      Buon lunedì.

      https://left.it/2018/06/04/qui-dove-rovistare-tra-i-rifiuti-e-chiamato-rubare-e-si-spara

    • Nemmeno un’ora di sciopero per Soumalya Sacko, sindacalista

      Il bracciante maliano ucciso a fucilate era rappresentante sindacale di base. Eppure né i sindacati agricoli né le confederazioni nazionali hanno ritenuto opportuno dedicargli anche solo un’ora di sciopero

      http://www.linkiesta.it/it/article/2018/06/06/nemmeno-unora-di-sciopero-per-soumalya-sacko-sindacalista/38352