Nel foggiano lo sfruttamento lavorativo alimenta l’insediamento informale, vera e propria cittadella che ospita fino a quattromila persone nei periodi di picco. Intanto i 53 milioni di euro del Pnrr destinati all’area sono andati perduti.
Il sole batte forte sulla pista di Borgo Mezzanone ma nonostante gli oltre 40 gradi un gruppetto di persone gioca a pallone tra container, baracche e casette in mattoni. Autocostruzioni, sorte a partire dal 2019, quando l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini pensò bene di risolvere “il problema ghetti” a colpi di ruspa, demolendo quasi un quarto delle baracche. L’effetto è stato l’opposto e questo insediamento informale, nato intorno a un aeroporto militare dismesso e adibito nel 2005 a Centro di accoglienza per richiedenti asilo (Cara) ha vissuto una nuova stagione, segnando sempre più il passo verso una cittadella stabile: una specie di periferia senza servizi del vicino Borgo Mezzanone, borghetto agricolo frazione di Manfredonia ma a soli dieci chilometri da Foggia.
Durante il picco della raccolta del pomodoro si arriva a una presenza stimata di tre-quattromila persone, ma i numeri durante il resto dell’anno non sono molto inferiori anche grazie alla continuità che offre il lavoro in agricoltura. Bas è stanco di giocare a pallone, si allontana dagli altri per prendere un po’ d’ombra sotto la lamiera di una delle botteghe del ghetto. In questo caso la parola “ghetto” sembra appropriata. Da una parte non esistono leggi specifiche che confinano e costringono a vivere in questi luoghi, allo stesso tempo però appare evidente che la mancanza di documenti o l’impossibilità di affittare una casa in città in qualche modo limita la scelta a posti come questo, dove abitare e trovare lavoro passando spesso per le maglie del caporalato.
“Volevo una vita migliore di questa, un posto in cui stare bene, lavarmi, essere pulito. Non è quello che speravo, ma l’ho costruito io”, racconta Bas, che vive qui da oltre dieci anni, dopo aver lavorato inizialmente alle giostre per poi scegliere l’agricoltura. Prima di arrivare dal Senegal ai campi della Capitanata (la pianura intorno a Foggia) ha fatto l’Università, e ci tiene a precisarlo. “La vita è una curva, sali lentamente ma quando arrivi sopra basta un attimo e cadi di nuovo in basso. L’importante è non perdersi mai d’animo. Conosci Victor Hugo e ‘Les misérables’? Quanti anni ha fatto in prigione Jean Valjean prima di uscire e diventare l’uomo più ricco di tutti? Non esiste niente di impossibile”.
Tra una parola e l’altra prende una bibita. È estate e con l’energia elettrica che arriva ogni giorno è più facile avere a disposizione qualcosa di fresco da bere, mentre d’inverno l’elettricità arriva solo a zone alterne. Per l’acqua invece bisogna sempre aspettare che vengano a riempire le cisterne all’ingresso, oppure prendere l’automobile e farsi un chilometro per arrivare alla fontanella di Piazza Madonna del Grano, di fronte alla chiesa del paese. Malgrado la vicinanza al paesino non ci sono servizi a Borgo Mezzanone, come non c’è un medico, tolta la presenza sporadica di volontari e organizzazioni internazionali.
La discussione viene interrotta da un ragazzo intento a portare la sua motoretta da uno dei meccanici del campo. Qui si ripara tutto o lo si riconverte in altro, cosa abbastanza nota anche ai tanti italiani che ci lasciano le auto da rottamare. È solo una delle diverse attività di “economia della sopravvivenza” del ghetto, insieme a negozi di alimentari o vestiti, localini e ristoranti. Ci passa anche qualche venditore ambulante che si occupa di vendita di pentolame e oggettistica. “Il legame quasi indissolubile e naturale tra gli insediamenti informali e lo sfruttamento lavorativo è il vero nodo da sciogliere -spiega l’avvocato Stefano Campese, specialista in diritto dell’immigrazione, per anni coordinatore pugliese del progetto Presidio della Caritas-. In questa zona la particolarità del caporalato è di essere fortemente collegato alla questione della presenza degli insediamenti informali, in cui c’è necessariamente manodopera a basso costo”. Spesso questi sono degli hub nei quali si va a finire anche quando il proprio percorso è iniziato da altre parti, durante la stagione ci sono sempre opportunità di lavoro e si arriva grazie alla propria rete di riferimento già presente nel campo. Ma trovare un’occupazione non è l’unico criterio.
“C’è gente che sta qui da anni, magari perché non è mai uscita oppure ha un interesse ulteriore a rimanerci essendo coinvolta nella dinamica dello sfruttamento lavorativo oppure, ad esempio, gestisce il mercatino all’interno dell’insediamento informale”. La maggior parte delle persone che vivono qui sono lavoratori agricoli, non solo stagionali, ma la situazione è fluida. In una cittadella serve di tutto, anche un posto dove sedersi e parlare, come i tavolini del ristorante di Hasan, uno dei vecchi del campo.
“Quando sono arrivato io, qui non c’era quasi nulla, solo qualche baracca”, racconta dopo aver preparato il caffè. Era il 2007 quando “sbarcava” a Milano dal Togo e in due settimane era a Borgo Mezzanone per fare richiesta d’asilo presso il Cara. Da allora è ancora qui e vive grazie alla sua piccola attività che con tenacia ha tirato su pezzo dopo pezzo. “Ho aperto nel 2016, ho dovuto ricostruire due volte dopo gli incendi, ma oggi ho cinquanta persone a mangiare. È tutta roba che ho recuperato, tranne il frigo che ho comprato. Anche se guadagno qualche centesimo, ringraziando dio va bene, qui ho tutti i miei fratelli e tanti amici italiani ed europei che mi vengono a trovare”. È ora di andare a riempire le taniche per innaffiare i due alberi che si trovano dietro la moschea e la chiesa pentecostale, operazione di cui si occupa lui. Piccoli tentativi di rendere più vivibile un posto a tratti infernale ma pur sempre la casa di qualche migliaio di persone, tra cui quegli abitanti del ghetto che c’entrano poco con l’agricoltura ma sono essenziali al funzionamento di questa comunità.
Mentre il ristorante di Hasan continua per la sua strada, il Cara è passato attraverso il Protocollo d’intesa per la riconversione di Borgo Mezzanone in foresteria regionale, promosso nel 2021 dalla prefettura di Foggia, dalla Regione Puglia e dal ministero dell’Interno. Un finanziamento di circa 3,5 milioni di euro che ha portato finora alla realizzazione di 100 container per 400 posti, mentre l’obiettivo era quello di ospitare fino a 1.300 persone. Un intervento in fieri che ha solo spostato alcuni abitanti del ghetto di qualche centinaio di metri in una zona recintata e maggiormente controllata. La Regione Puglia ha cercato a più riprese di dare vita a delle progettualità di lungo periodo in tutta la zona.
In questa cornice gli oltre 53 milioni di euro di fondi Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), destinati al Comune di Manfredonia e ora irrimediabilmente perduti, a meno di giravolte istituzionali al momento non previste, sono solo l’ultimo tassello. ll progetto presenta infatti problematiche tecnico-gestionali di governance e non garantisce il rispetto della nuova scadenza della Commissione europea di giugno/agosto 2026. Prevedeva il recupero e la realizzazione di opere di urbanizzazione, la ristrutturazione e costruzione di edifici residenziali e di strutture abitative leggere e rimovibili. Ma senza affrontare le cause, che vanno dallo stretto legame tra caporalato e insediamenti informali, così come tra impellenza di rinnovare il permesso di soggiorno e necessità di avere una qualche forma di contratto, l’insediamento informale si autoriproduce. Alla fine appare evidente come non vi sia una soluzione buona per tutti, il ghetto è un caleidoscopio di vite e problemi diversi, una lente attraverso cui leggere questa società.
“Io sto qui perché è comodo per il lavoro, conosco tante aziende e vengo pagato bene -racconta Dolo, un uomo burkinabé che vive ormai da tanti anni a Borgo Mezzanone-. Oggi mi sono svegliato alle quattro del mattino per andare a lavorare alle cinque, sono tornato dopo le sette di sera. Non mi lamento, se domani non voglio andare a lavorare nessuno mi obbliga. Posso restare qui, ci sono bar, ristoranti, negozi, ho gli amici, se sto male qualcuno mi può aiutare. Al Cara invece che cosa hanno fatto? Belli i container nuovi, ma quando hai finito di lavorare intorno a te non c’è niente. Qua posso avere una vita. Manca l’acqua, per la corrente bisogna arrangiarsi e non passa mai la polizia. Mi chiedo: è un pezzo d’Italia oppure no? Questo è quello che critico di più, se già venisse la polizia staremmo tutti più tranquilli”.
Per trovare una soluzione al dilemma, fuoriuscita dal ghetto per combattere il caporalato o combattere il caporalato per uscire dal ghetto, bisognerebbe partire dall’ascolto dei problemi di chi ci vive. Le idee non mancano.