• Très intéressant car il s’attaque à une notion souvent
      mise en avant par les technophiles, celle comme quoi le numérique
      permettrait de diminuer l’empreinte écologique d’autres
      activités. L’article explique bien les pièges et les limites de ce
      discours. J’ai bien aimé l’exemple des télécoms qui s’attribuent 100 %
      de l’économie environnementale (supposée…) du numérique, alor que les fabricants de matériels pourraient en dire autant. Et il parle
      beaucoup des usages, en notant par exemple que le télé-enseignement, ce n’est pas la même chose que l’enseignement en présentiel et qu’il ne faut donc pas seulement regarder l’économie environnementale (supposée…) mais voir si on a vraiment le même service.

  • « Ce guide présente les principales bonnes pratiques de design pour réaliser des services numériques [en pratique, uniquement Web] à l’empreinte environnementale réduite. Il aborde les questions d’éco-conception en tentant de faire le pont avec l’accessibilité, l’économie de l’attention ou encore la diversité. »

    https://eco-conception.designersethiques.org/guide

    #environnement #green_IT #éco_conception #développement_Web

    • C’est évidemment une bonne idée de faire de tels guides, ne serait-ce que pour servir de « check-list » aux développeurs Web, et pour les sensibiliser au fait que leurs choix ont des conséquences.

      Après, beaucoup des conseils concrets donnés sont très contestables.

      Et pas un mot de la suppression des pisteurs et des pubs sur les sites Web. C’est l’écologie corporate, où il ne faut pas fâcher le marketing.

  • #Esperanto, inventare l’avvenire coltivando un terreno confiscato alla camorra

    In un terreno confiscato alle mafie nella provincia di #Caserta, la cooperativa Esperanto porta avanti un progetto di agricoltura sociale che favorisce l’inserimento lavorativo di vittime del caporalato e altre persone in situazioni di difficoltà che qui hanno trovato il posto giusto per inventare il proprio avvenire.

    Cosa accade quando una persona è sul proprio sentiero? Quando fa quello che ama e lo fa solamente per un suo ideale e senza chiedere un compenso per il tempo investito? Succede l’inaspettato, succede la meraviglia.

    Penso che non ci sia altro modo per iniziare quest’articolo e per presentare #Gennaro_Ferilli, 58 anni, originario di Pozzuoli (NA), per lavoro sociologo e dirigente di un centro per l’impiego per mestiere, per amore presidente di Altro mondo Flegreo e fondatore della Cooperativa Esperanto (https://www.italiachecambia.org/mappa/esperanto).

    Gennaro inizia sette anni fa a creare un progetto di economia sociale. Facendo parte, attivamente, di R.E.S (Reti di Economia Solidale) attua percorsi di “buone pratiche del consumo etico” coinvolgendo #GAS (#Gruppi_di Acquisto_Solidale) e mercati di contadini. Si affianca poi ai Missionari Comboniani di #Castel_Volturno (CE) per offrire un sostegno concreto ai migranti attraverso il progetto agroalimentare #Green_Hope, che consiste nella riqualificazione di un terreno dei Missionari di 3000 metri sul quale attivare borse lavoro, per offrire un’opportunità di riscatto alla terra e ai migranti prevalentemente africani.

    Parliamo di un territorio molto particolare e di difficile gestione. Castel Volturno, provincia di Caserta, ha subito modifiche enormi negli ultimi cinquant’anni e da piccolo paese di contadini è diventato un luogo pregno di illegalità. Qui vi è un numero elevatissimo di migranti che vivono in grave situazione di disagio, la camorra locale è stata affiancata dalla mafia nigeriana ed entrambe si occupano di tratta delle persone, gestione della prostituzione, caporalato, spaccio di droga, appalti e smaltimenti rifiuti.
    Le case sono per lo più abusive e la #Terra_dei_Fuochi ha dato il colpo finale ad una cittadina già martoriata.

    Dopo Green Hope, Gennaro, collaborando con U.E.P.E (Ufficio per l’Esecuzione Penale Esterna), crea il secondo progetto per offrire lavoro ad ex detenuti in esecuzione alternativa e da qui, nasce l’idea di richiedere un terreno confiscato alla camorra. Con “#Effetto_Larsen-Aps”, altra cooperativa ad indirizzo sociale che lavorava già su terreni confiscati, fanno richiesta per avere anche loro un bene. Passano tre anni, prima di ricevere risposta affermativa. Corre l’anno 2018 quando nasce così la Cooperativa Esperanto.

    Il terreno confiscato è di circa 10 ettari nel Comune di #Cancello_ed_Arnone (CE) ed è intitolato alla memoria di #Michele_Landa, vittima innocente della camorra. I figli di Landa ancora chiedono risposte, ancora si domandano perché il padre, guardia giurata che il 6 settembre 2006 si trovava a svolgere il suo lavoro a Pescopagano (PZ) davanti ad un ripetitore telefonico, fu ucciso, poi bruciato nella sua macchina e non trovato prima di tre giorni. Si parlò di agguato della Camorra, la quale aveva scoperto il redditizio cavallo di ritorno delle apparecchiature telefoniche, ma ancora tutto è nell’ombra dell’omertà.

    Su questo terreno parte un progetto di Economia Solidale, “#La_Buona_Terra_Campania”, basato su una filiera Etica e partecipata. Esperanto e altre associazioni del luogo collaborano per combattere le #agromafie.

    Nel 2018/19 firmano il Patto con #DESBRI (#Distretto_dell’economia_solidale_della_Brianza) il quale fa parte della rete RES Lombardia, questo sancisce l’accordo dell’acquisto dei prodotti da parte del Nord, in quei territori così martoriati. Si parla in particolare della “Pummarola” e soprattutto si parla di trasparenza. Prezzi etici , prodotti biologici, garanzie partecipate, rilevazione dei costi di produzione, comunicazione trasparente e fiducia.
    Nel 2020 si aprono le porte ad altre reti: Bari, Pesaro, Bergamo, Varese e Milano attraverso i GAS locali, poi di seguito i circoli di #Libera_Terra in Piemonte.

    Durante gli anni, organizzano tour in tutta Italia per presentare la “#Buona_Terra_Campania” di cui “Esperanto” è il fulcro, fulcro di questa cooperazione territoriale in cui vi sono tre produttori agricoli e cinque trasformatori, ognuno dei quali in zona Campana. Testimonianza attiva del rafforzamento territoriale che questi progetti stanno creando.

    Con il tempo arrivano nuove idee, nuove culture. Nasce la coltivazione del grano “#Senatore_Cappelli” con la sua regale trasformazione in pasta 100% biologica, la quale viene venduta soprattutto nella rete di #Libera_Terra.
    Quest’anno lavorano con “#Co_Energia”, un’ Associazione nazionale di secondo livello, nata per avviare progetti di economia sociale, nella quale fluiscono varie cooperative impegnate in questo settore. Inoltre stanno avviando un nuovo progetto legato all’olio.

    “Esperanto” è composta da due lavoratori stagionali (un migrante e una persona del posto) e da tre soci volontari. Quando a Gennaro chiedo perché lo fa, la sua risposta è senza tentennamenti: «Credo nella sostenibilità ambientale e sociale, credo che praticare questo, migliori e soprattutto dia senso all’esistenza. Sono nato come un consumatore critico, questo mi gratificava ma non bastava. Volevo di più, volevo portare il mio contributo, volevo lottare con armi naturali in un territorio dalla difficile gestione. Volevo creare cooperazione, volevo che le persone si aiutassero, che diventassero solidali le une con le altre, volevo che l’individualismo fosse sostituito dal senso civico della collettività, volevo perseguire i miei ideali in questa realtà così contraddittoria dove la Mafia, la Camorra non ha problemi a farsi vedere e sentire, dove il recupero, il lavoro, l’integrazione e l’abbattimento delle barriere, possono essere l’unica chiave di lettura per il cambiamento».

    «L’agricoltura sociale – continua Gennaro – è un ambito del Welfare in forte sviluppo e io ho deciso di usarla come strumento di svolta. Oggi quando mi guardo intorno e indietro mi stupisco e meraviglio piacevolmente di quanto i miei sogni perseguiti con tenacia, siano diventati realtà. Sicuramente una realtà molto più grande di quello che potessi sperare».

    Gennaro ha da poco presentato un progetto per #Confagricoltura sugli orti sociali: «Se dovessi vincerlo realizzerei un altro sogno nel cassetto».
    Chiediamo a Gennaro se teme ritorsioni. «Alla camorra ancora non do fastidio, sono piccolo, ma non ho paura».

    https://www.italiachecambia.org/2020/11/esperanto-inventare-avvenire-coltivando-terreno-confiscato-camorra
    #coopérative #tomates #cooperativa_esperanto #alternative #coopérative_Esperanto #camorra #confiscation #mafia #Italie #agriculture #agriculture_sociale #caporalato #agromafia #travail

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    Pour la petite histoire... c’est à cette coopérative qu’on a fait un achat groupé ici à Grenoble... Hier soir sont arrivés 2200 bouteilles de coulis de tomates !
     :-)
    Si d’autres personnes en France sont intéressées, je peux vous mettre en contact !
    Leur page FB :
    https://www.facebook.com/coopesperanto

  • L’Invention du colonialisme vert
    http://blog.ecologie-politique.eu/post/L-Invention-du-colonialisme-vert

    Guillaume Blanc fait l’histoire du colonialisme vert, cette manière d’appréhender l’environnement africain en refusant aux paysages un caractère anthropique qui est pourtant compris et reconnu en Europe. Au XIXe siècle, les colons voient l’Afrique comme un Éden… loin d’avoir été modelé par ses habitant·es depuis des milliers d’années, il en aurait été mystérieusement préservé mais désormais les hordes d’humains dégradent irrémédiablement leur milieu. Édénique mais déjà aux dernières limites de la dégradation : Blanc note le paradoxe à plusieurs reprises car cette longue histoire se répète. De fait, lors de la période coloniale, les équilibres écologiques sont perturbés mais ce n’est pas, nous assure l’historien, en raison des pratiques de subsistance des cultivateurs et pasteurs. C’est en raison bien plus sûrement des cultures d’exportation et les colons, dans un intérêt bien compris, refusent de le voir. Ce serait la faute à des habitant·es par ailleurs déconsidéré·es et plus mal traité·es parfois que des bêtes.

    #Guillaume_Blanc #Histoire #colonialisme #Afrique #racisme #écologie #paysage #livre #recension

  • Pourquoi le Green New Deal doit être décolonial
    https://www.cetri.be/Pourquoi-le-Green-New-Deal-doit

    Pour relever le défi de l’urgence écologique, le Green New Deal devra être « #Décolonial ». Il devra rompre avec le modèle dominant et l’occidentalisation du monde, par le démantèlement des structures néocoloniales et des mécanismes d’exploitation des peuples et de leur #Environnement. Il ne sauvera la planète qu’en visant l’égalité sociale, raciale et de genre, la relocalisation de l’économie et de nouveaux rapports à la (...) #Alternatives_Sud_-_extraits

    / Décolonial, Environnement, #Ecologie

  • #Webinars. #COVID-19 Capitalism #Webinar Series

    Since 1 April, #TNI with allies has brought together experts and activists weekly to discuss how this pandemic health crisis exposes the injustices of the global economic order and how it must be a turning point towards creating the systems, structures and policies that can always protect those who are marginalised and allow everyone to live with dignity. Every Wednesday at 4pm CET.

    TNI works closely with allied organisations and partners around the world in organising these webinars. AIDC and Focus on the Global South are co-sponsors for the full series.

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    Les conférences déjà en ligne sont ci-dessous en commentaire.

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    Les prochains webinars:

    On 10 June, TNI will hold a webinar on Taking on the Tech Titans: Reclaiming our Data Commons.

    Upcoming webinars - Wednesdays at 4pm CET

    17 June: Borders and migration
    #frontières #migrations

    24 June: Broken Trade System
    #commerce

    https://www.tni.org/en/webinars
    #capitalisme #vidéo #conférence #coronavirus

    ping @isskein @reka

    • Building an internationalist response to Coronavirus
      https://www.youtube.com/watch?v=t5qN35qeB1w&feature=emb_logo


      Panellists:

      Sonia Shah, award-winning investigative science journalist and author of Pandemic: Tracking contagions from Cholera to Ebola and Beyond (2017).
      Luis Ortiz Hernandez, public health professor in UAM-Xochimilco, Mexico. Expert on social and economic health inequities.
      Benny Kuruvilla, Head of India Office, Focus on the Global South, working closely with Forum For Trade Justice.
      Mazibuko Jara, Deputy Director, Tshisimani Centre for Activist Education, helping to coordinate a national platform of civic organisations in South Africa to confront COVID-19.
      Umyra Ahmad, Advancing Universal Rights and Justice Associate, Association for Women’s Rights in Development (AWID), Malaysia

      #internationalisme

    • The coming global recession: building an internationalist response

      Recording of a TNI-hosted webinar on Wednesday, 8 April with Professor Jayati Ghosh, Quinn Slobodian, Walden Bello and Lebohang Pheko on the likely global impacts of the economic fallout from the Coronavirus and how we might be better prepared than the 2008 economic crisis to put forward progressive solutions.

      The webinar explored what we can expect in terms of a global recession that many predict could have bigger social impacts than the virus itself. How should we prepare? What can social movements learn from our failures to advance alternative progressive policies in the wake of the 2008 economic crisis?

      https://www.youtube.com/watch?v=LiP5qJhHsjw&feature=emb_logo

      Panellists:

      Professor Jayati Ghosh, award-winning economist Jawaharlal Nehru University, India. Author of India and the International Economy (2015) and co-editor of Handbook of Alternative Theories of Economic Development, 2018.
      Quinn Slobodian, associate professor of history, Wellesley College. Author of Globalists: The End of Empire and the Birth of Neoliberalism (2018)
      Walden Bello, author of Paper Dragons: China and the Next Crash (2019) and Capitalism’s Last Stand?: Deglobalization in the Age of Austerity (2013)

      Lebohang Liepollo Pheko, Senior Research Fellow of Trade Collective, a thinktank in South Africa that works on international trade, globalisation, regional integration and feminist economics

      #récession #crise_économique

    • A Recipe for Disaster: Globalised food systems, structural inequality and COVID-19

      A dialogue between Rob Wallace, author of Big Farms Make Big Flu and agrarian justice activists from Myanmar, Palestine, Indonesia and Europe.

      The webinar explored how globalised industrial food systems set the scene for the emergence of COVID-19, the structural connections between the capitalist industrial agriculture, pathogens and the precarious conditions of workers in food systems and society at large. It also touched on the kind of just and resilient food systems we need to transform food and agriculture today?

      https://www.youtube.com/watch?v=m9A6WkeqPss&feature=emb_logo

      Panellists:

      Rob Wallace author of Big Farms Make Big Flu and co-author of Neoliberal Ebola: Modeling Disease Emergence from Finance to Forest and Farm.
      Moayyad Bsharat of Union of Agricultural Work Committees (UAWC), member organization of La Via Campesina in Palestine.
      Arie Kurniawaty of Indonesian feminist organization Solidaritas Perempuan (SP) which works with women in grassroots communities across the urban-rural spectrum.
      Sai Sam Kham of Metta Foundation in Myanmar.
      Paula Gioia, peasant farmer in Germany and member of the Coordination Committee of the European Coordination Via Campesina.

      #inégalités #agriculture #alimentation

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      #livre:
      Big Farms Make Big Flu

      In this collection of dispatches, by turns harrowing and thought-provoking, #Rob_Wallace tracks the ways #influenza and other pathogens emerge from an agriculture controlled by multinational corporations. With a precise and radical wit, Wallace juxtaposes ghastly phenomena such as attempts at producing featherless chickens with microbial time travel and neoliberal Ebola. While many books cover facets of food or outbreaks, Wallace’s collection is the first to explore infectious disease, agriculture, economics, and the nature of science together.


      https://monthlyreview.org/press/new-big-farms-make-big-flu-by-rob-wallace
      #multinationales

    • Taking Health back from Corporations: pandemics, big pharma and privatized health

      This webinar brought together experts in healthcare and activists at the forefront of struggles for equitable universal public healthcare from across the globe. It examined the obstacles to access to medicines, the role of Big Pharma, the struggles against health privatisation, and the required changes in global governance of health to prevent future pandemics and bring about public healthcare for all.

      https://www.youtube.com/watch?v=5KSIRFYF3W8&feature=emb_logo

      Panellists:

      Susan George, Author and President of the Transnational Institute
      Baba Aye, Health Officer, Public Services International
      Mark Heywood, Treatment Action Campaign, Section27 and editor at the Daily Maverick
      Kajal Bhardwaj, Independent lawyer and expert on health, trade and human rights
      David Legge, Peoples Health Movement Moderator: Monica Vargas, Corporate Power Project, Transnational Institute

      #santé #big-pharma #industrie_pharmaceutique #privatisation #système_de_santé

    • States of Control – the dark side of pandemic politics

      In response to an unprecedented global health emergency, many states are rolling out measures from deploying armies and drones to control public space, to expanding digital control through facial recognition technology and tracker apps.

      This webinar explored the political dimension of state responses, particularly the securitisation of COVID-19 through the expansion of powers for military, police, and security forces. It examined the impact of such repression on certain groups who are unable to socially distance, as well as how digital surveillance is being rolled out with little, if any democratic oversight.

      https://www.youtube.com/watch?v=4KI515hJud8&feature=emb_logo

      Panellists:

      Fionnuala Ni Aolain, UN Special Rapporteur on the Protection and Promotion of Human Rights while Countering Terrorism, University of Minnesota
      Arun Kundnani, New York University, author of The Muslims are Coming! Islamophobia, extremism, and the domestic War on Terror and The End of Tolerance: racism in 21st century Britain
      Anuradha Chenoy, School of International Studies in Jawaharlal Nehru University (retired), and author of Militarisation and Women in South Asia
      María Paz Canales, Derechos Digitales (Digital Rights campaign), Chile

      #contrôle #surveillance #drones #reconnaissance_faciale #démocratie

      ping @etraces

    • A Global Green New Deal

      This sixth webinar in our COVID Capitalism series asked what a truly global #Green_New_Deal would look like. It featured Richard Kozul-Wright (UNCTAD), and leading activists from across the globe leading the struggle for a just transition in the wake of the Coronavirus pandemic.

      https://www.youtube.com/watch?v=JbNhmPXpSAA&feature=emb_logo

      Panellists:

      Richard Kozul-Wright, Director of the Division on Globalization and Development Strategies at the United Nations Conference on Trade and Development, author of Transforming Economies: Making Industrial Policy Work for Growth, Jobs and Development
      Karin Nansen, chair of Friends of the Earth International, founding member of REDES – Friends of the Earth Uruguay
      Sandra van Niekerk, Researcher for the One Million Climate Jobs campaign, South Africa

      #transition

    • Proposals for a democratic just economy

      Outgoing UN rapporteur, #Philip_Alston in conversation with trade unionists and activists in Italy, Nigeria and India share analysis on the impacts of privatisation in a time of COVID-19 and the strategies for resistance and also constructing participatory public alternatives.

      https://www.youtube.com/watch?v=6-IvJq9QJnI&feature=emb_logo

      Panellists:

      Philip Alston, outgoing UN Special Rapporteur on extreme poverty and human rights
      Rosa Pavanelli, General Secretary of the global union federation Public Services International (PSI)
      Aderonke Ige, Our Water, Our Rights Campaign in Lagos / Environmental Rights Action /Friends of The Earth Nigeria
      Sulakshana Nandi, Co-chair, People’s Health Movement Global (PHM Global)

      #privatisation #participation #participation_publique #résistance

    • Feminist Realities – Transforming democracy in times of crisis

      An inspiring global panel of feminist thinkers and activists reflect and discuss how we can collectively reorganise, shift power and pivot towards building transformative feminist realities that can get us out of the worsening health, climate and capitalist crises.

      https://www.youtube.com/watch?v=XFEBlNxZUAQ&feature=emb_logo

      Panellists:

      Tithi Bhattacharya, Associate Professor of History and the Director of Global Studies at Purdue University and co-author of the manifesto Feminism for the 99%.
      Laura Roth, Lecturer of legal and political philosophy at Universitat Oberta de Catalunya, Barcelona, member of Minim Municipalist Observatory and co-author of the practice-oriented report Feminise Politics Now!
      Awino Okech, Lecturer at the Centre for Gender Studies at School of Oriental and African Studies (SOAS), University of London who brings over twelve years of social justice transformation work in Eastern Africa, the Great Lakes region, and South Africa to her teaching, research and movement support work.
      Khara Jabola-Carolus, Executive Director of the Hawaii State Commission on the Status of Women, co-founder of AF3IRM Hawaii (the Association of Feminists Fighting Fascism, Imperialism, Re-feudalization, and Marginalization) and author of Hawaii’s Feminist Economic Recovery Plan for COVID-19.
      Felogene Anumo, Building Feminist Economies, AWID presenting the #feministbailout campaign

      #féminisme

    • COVID-19 and the global fight against mass incarceration

      November 3rd, 2015, Bernard Harcourt (Columbia Law School) and Naomi Murakawa (Princeton) present rival narratives about mass incarceration in America. In The Illusion of Free Markets: Punishment and the Myth of Natural Order , Harcourt shows the interdependence of contract enforcements in global markets and punitive authority. InThe First Civil Right: How Liberals Built Prison America, by contrast, Murakawa traces prison growth to liberal campaigns and progressive legislation. Together, Murakawa and Harcourt offer fresh ideas about into the political, economic and ethical dimensions of mass incarceration.

      https://www.youtube.com/watch?v=BLeXbi4aIno&feature=emb_rel_pause

      Olivia Rope, Director of Policy and International Advocacy, Penal Reform International
      Isabel Pereira, Principal investigator at the Center for the Study of Law, Justice & Society (Dejusticia), Colombia
      Sabrina Mahtani, Advocaid Sierra Leone
      Maidina Rahmawati, Institute of Criminal Justice Reform (ICJR), Indonesia
      Andrea James, Founder and Exec Director, and Justine Moore, Director of Training, National Council For Incarcerated and Formerly Incarcerated Women and Girls, USA

      #prisons #emprisonnement_de_masse #USA #Etats-Unis

  • Rouen : un campus « écotechnologique » veut détruire 60ha de forêts | Augustin Langlade
    https://lareleveetlapeste.fr/rouen-un-campus-ecotechnologique-veut-detruire-60ha-de-forets

    Depuis une quinzaine d’années, 200 hectares de cette forêt ont été rasés et bétonnés au nom de l’innovation éco-responsable. Et récemment, la métropole a donné son feu vert pour en éradiquer 60 hectares de plus. Comme lors de la violente expulsion de la ZAD de la Dune, à la mi-avril, des coupes massives ont eu lieu en plein confinement dans la forêt du Madrillet, tandis que bien évidemment, personne n’était là pour la défendre. Source : La Relève et La Peste

  • Emmanuel Macron’s Weak Pandemic Response Is a Bad Omen for His Promises on Climate Action
    https://jacobinmag.com/2020/05/emmanuel-macron-covid-coronavirus-environment-climate-change

    The strict quarantine to slow the spread of the virus is rubbing salt into the wounds of a France that has recently experienced an exceptionally long period of social unrest. From the start of the gilets jaunes uprising almost a year and a half ago to the mass movement against a proposed pension reform, France’s streets have seen huge mobilizations, with the question of climate change and solidarity at the core of those popular movements.

    The parallels that can already be drawn between the coronavirus pandemic and the climate crisis will be crucial for approaching climate politics going forward. Central to this comparison are the blatant inequalities in terms of who is most affected and the call for broad restructuring of economies and societies. Moreover, in this comparison, we can find the material bases for reimagining political responses to both COVID-19 and the climate crisis.

    It seems reasonable to believe that Emmanuel Macron had planned to focus the last portion of his five-year term on climate and environmental concerns, in what can be understood as the third step in his reelection strategy:

    Accelerate the process of desegregating the rigidity of the French social system and labor law. Liberalize the economy and ensure that social security is reduced to a safety net while creating an economic environment favorable to investors, in what the economic orthodoxy would call a “modernization” effort.
    Construct an image of himself as a European leader and visionary, profiting from the unwillingness of Angela Merkel and Germany to take up this role.
    Turn to issues of environment and climate change to consolidate the “progressive” and even planetary aspects of this visionary profile, thus ensuring he would be viewed as responsive to the “progressive” wing of his electoral coalition.

    This April 11 the convention — brought together via video conference — produced a list of fifty proposals to the government. While this list has not yet been made public, enough of the text has been leaked to reveal that, particularly in light of the ongoing COVID-19 crisis, the proposals are already outdated. Some of the proposals do go in the right direction — “building renovations, limitation of urban expansion, support for biking options in urban and rural areas, etc.” — but as a whole, they are tainted with the sort of “sustainable development thinking” dear to the United Nations and other international institutions. This approach was already clearly insufficient before the current crisis, and the convention’s proposals are now that much further from responding to the clarion call for massive social change brought forward by the pandemic.

    Upon analyzing the crisis and its possible consequences, it seems that perceptions of risk, collective danger, and preparedness will remain unsettled among the general public, at least for a while. For people in power, giving the impression that everything will be done in the same way, and at the same scale, that it was before could prove a poor strategy, risking them to be perceived as out of touch. And this seems to be something that Macron has acknowledged and understood. This is why he has declared himself opening the door to “outside the box” thinking, claiming that he “feels the profound need to reinvent something new.”

    If Macron is sincere about the need for change, we must ask if this will translate into a moratorium on investment by French companies in fossil fuels, particularly those gas-related investments responsible for half the increase in CO2 emissions since 2012. In a time when the price of oil has dramatically plummeted — reaching even the nonsensical depths of negative value — will there be a redefinition of the fossil-fuel sector, organized by the state and involving concrete support for workers?

    Bailing out the fossil fuel or aviation industries without restructuring them, reskilling their workers, and reframing their management would represent a total denial of the climate emergency — and, indeed, of the essence of what it is to “govern” the crisis.

    Les subventions à Air France et Renault sont de mauvais signes !

  • La désillusion d’une start-up de l’économie circulaire | LinkedIn
    https://www.linkedin.com/pulse/la-d%25C3%25A9sillusion-dune-start-up-de-l%25C3%25A9conomie-circulaire-cha

    Fin 2019, nous avons fait le choix de retirer l’intégralité de nos collecteurs munis d’emplacements publicitaires pour jouer notre dernière carte, celle du service de collecte payant. En l’espace de 3 ans, les mentalités avaient bien changé, nous étions reconnus à Toulouse et avions l’espoir que ce modèle plus simple fonctionne. Nous nous sommes alors mis à proposer des services de collecte multi déchets à tous types de clients en centre-ville. Malheureusement, après 4 mois d’essai, nous en sommes revenus à l’un de nos premiers constats qui était que la majorité des structures étaient prêtes à payer pour un service de collecte que si elles en étaient contraintes par un marché réglementaire. Après tant de tentatives, nous étions à bout de force, démotivés et à cours de trésorerie. Mais surtout, nous avions perdu foi en ce que nous faisions, nous ne nous retrouvions plus dans nos envies de départ. Même si nous sommes parvenus à collecter des centaines de milliers de canettes, nous étions principalement devenus des vendeurs de publicité. Et ces deux mondes sont tellement antinomiques, que nous avons perdu intérêt dans le projet. Et le pire (ou le mieux) dans tout ça, c’est que nous avons également perdu confiance dans le secteur tout entier du recyclage et dans cette idée de croissance « verte ». La Boucle Verte mourut.

    #décroissance #économie #illusion #recyclage #green_washing #modèle #capitalisme

    • Annonce d’arrêt d’activité et bilan - La Boucle Verte

      En ce début février 2020, nous avons fait le choix de cesser définitivement notre activité d’économie circulaire portant sur la collecte innovante d’emballages. Après plus de 3 ans, nous n’avons pas su rendre notre entreprise pérenne et surtout, nous avons perdu beaucoup d’intérêt pour notre projet.

      L’objet de cet article est de vous faire part des raisons de notre échec mais aussi de nos désillusions. Par ce retour d’expérience critique, nous souhaitons expliquer en quoi nous nous sommes trompés et éviter à de jeunes porteurs de projets de reproduire les mêmes erreurs que nous, tant sur le plan entrepreneurial qu’environnemental. Nous souhaitons également faire part au grand public des conclusions que nous avons tirées quant à la durabilité de notre modèle de société, notamment en ce qui concerne le recyclage et l’idée de croissance verte. Enfin, nous vous donnerons notre vision actualisée de ce que devrait être un avenir souhaitable et du changement de mentalité que cela implique pour y parvenir de bon cœur.
      1) La naissance du projet, son développement, sa mort

      L’aventure La Boucle Verte débute en Octobre 2016 à Toulouse. Tout juste diplômés d’une école de commerce, sensibilisés à l’entrepreneuriat et un peu rêveurs, nous voulions créer notre entreprise. Notre idée de départ pouvait se résumer ainsi :

      La croissance et la consommation sont les moteurs de notre économie. Cependant, les ressources de la planète sont limitées. « Et si on créait une entreprise capable de collecter tout objet, reste ou résidu pour le recycler, pour transformer tout déchet en une matière première qui a de la valeur. Une entreprise capable de réconcilier croissance économique et développement durable. »

      Ça y est, nous sommes gonflés à bloc, il nous reste maintenant à savoir par quel bout commencer. Un seul problème, nous n’avons ni argent, ni expérience, ni réseau, ni crédibilité. Il fallait commencer par quelque chose de très simple et cette bonne vieille canette métallique nous a séduit ! Soi-disant composée à 100% de métal et recyclable à l’infini, nous pensions pouvoir créer une logistique bien rodée afin de les collecter dans les fast-foods pour les revendre à des grossistes en métaux et qu’elles soient recyclées. Après avoir ruiné le coffre de la Seat Ibiza et s’être attiré les foudres des voisins pour avoir stocké les canettes dégoulinantes dans la cave de notre immeuble, il était temps d’apporter notre butin chez le ferrailleur grâce à la camionnette d’un ami. Une fois arrivés sur cette étrange planète boueuse et peuplée de centaines de carcasses de bagnoles, les canettes alu et acier préalablement triées sont pesées. Après s’être fait enregistrés, nous dégotons notre premier chèque. Et quel choc ! Il n’y avait pas d’erreur de zéro, nous avions bel et bien gagné 38€, même pas de quoi payer l’essence de ce mois de collecte et tout juste de quoi rentabiliser les sacs poubelles. A ce moment-là nous avons fait un grand pas dans notre compréhension du secteur du recyclage : la majorité des déchets ne valent pas le prix de l’effort qu’il faut faire pour les collecter, et, sans obligation réglementaire ou volonté de leur propriétaire de les trier, ces derniers n’ont aucune chance d’être recyclés.

      Pas question pour autant de baisser les bras, en tant que dignes start-upers very smart and very agile, nous devions simplement pivoter pour trouver notre business model et notre value proposition en disruptant le marché. OKAYYY !! Sinon en Français, il fallait trouver une nouvelle idée pour rentabiliser la collecte. Près de 5 mois s’écoulèrent pendant lesquels nous expérimentions tous types de solutions jusqu’à ce que le Can’ivor voie le jour : un collecteur de canettes mis gratuitement à disposition des fast-foods et qui sert de support publicitaire. Plus besoin de gagner des sous avec la vente des canettes, il suffisait de vendre de la pub sur le collecteur pour financer le service de collecte et dégager une marge. Une idée à première vue géniale que nous avons rapidement concrétisée en bricolant des bidons d’huile dans notre garage.

      Mais, après 6 mois de démarchage commercial à gogo, pas le moindre client pour nous acheter nos espaces publicitaires ! Sans doute n’étions-nous pas assez sexy pour les annonceurs, il fallait que ça ait plus de gueule et qu’on transforme l’image de la poubelle pour que le tri sélectif devienne un truc stylé et que la pub devienne responsable ! Notre ami Steve Jobs nous a enseigné que le design et le marketing étaient la clé pour pousser un nouveau produit sur un nouveau marché… Après avoir changé le look du Can’ivor, de logo, de slogan, de site internet, de plaquette commerciale, gagné quelques concours, chopé quelques articles, s’être payé les services de super graphistes, avoir créé toute une série de mots nouveaux, s’être familiarisés avec le jargon de la pub, avoir lancé la mode du « cool recycling », et réalisé une vidéo cumulant 3,3 millions de vues sur Facebook, nous commencions à peser dans le start-up game ! Et… les emplacements publicitaires se vendaient ! On parlait de nous dans les médias, nous passions sur BFM business, la success story voyait enfin le jour. Plus motivés que jamais, nous rêvions d’inonder la France avec nos collecteurs et faisions du repérage à Paris et Bordeaux…

      Le problème, c’est que nos clients étaient en réalité plus intéressés par le fait de nous filer un coup de pouce et de s’associer à notre image écolo que par notre service d’affichage en lui-même. Une fois le buzz terminé, les ventes s’essoufflèrent… Après s’être débattus pendant plus d’un an à tout repenser, il fallait se rendre à l’évidence, il n’y avait pas de marché pour notre service. Et nous avons pris en pleine poire la seule leçon importante qu’il fallait retenir en cours d’entrepreneuriat : se focaliser sur le besoin client. A vouloir absolument trouver un modèle économique pour collecter nos canettes, nous avons complètement oublié que pour vendre quelque chose il faut répondre au besoin propre à un individu ou une entreprise et qu’un besoin « sociétal » comme l’écologie ne suffit pas.

      Fin 2019, nous avons fait le choix de retirer l’intégralité de nos collecteurs munis d’emplacements publicitaires pour jouer notre dernière carte, celle du service de collecte payant. En l’espace de 3 ans, les mentalités avaient bien changé, nous étions reconnus à Toulouse et avions l’espoir que ce modèle plus simple fonctionne. Nous nous sommes alors mis à proposer des services de collecte multi déchets à tous types de clients en centre-ville. Malheureusement, après 4 mois d’essai, nous en sommes revenus à l’un de nos premiers constats qui était que la majorité des structures étaient prêtes à payer pour un service de collecte que si elles en étaient contraintes par un marché réglementaire. Après tant de tentatives, nous étions à bout de force, démotivés et à cours de trésorerie. Mais surtout, nous avions perdu foi en ce que nous faisions, nous ne nous retrouvions plus dans nos envies de départ. Même si nous sommes parvenus à collecter des centaines de milliers de canettes, nous étions principalement devenus des vendeurs de publicité. Et ces deux mondes sont tellement antinomiques, que nous avons perdu intérêt dans le projet. Et le pire (ou le mieux) dans tout ça, c’est que nous avons également perdu confiance dans le secteur tout entier du recyclage et dans cette idée de croissance « verte ». La Boucle Verte mourut.

      2) Les réalités de la filière emballages et du recyclage

      Lorsque nous nous sommes lancés dans le projet, notre premier réflexe a été de nous renseigner sur les emballages de notre quotidien pour en apprendre plus sur leur prix, leur recyclabilité, leur taux de recyclage et l’accessibilité des filières de valorisation. A l’issue de cela, la canette nous paraissait être un emballage idéal. De nombreux sites internet lui attribuaient le mérite d’être l’emballage le plus léger qui soit entièrement recyclable et à l’infini. On pouvait lire qu’une canette triée redonnait naissance à une canette neuve en 60 jours et que cet emballage était bien recyclé en France (60% d’entre elles). Persuadés de participer à une œuvre écologique et de pouvoir encore améliorer ce taux de recyclage, nous avons foncé tête baissée pour collecter nos canettes ! Mais, la suite de nos aventures et notre longue immersion dans les coulisses du secteur nous a montré une vérité tout autre. Nous ne parlerons pas de mensonges organisés, mais disons que bon nombre d’informations que l’on trouve sur internet sont très superficielles, enjolivées et se passent d’explications approfondies concernant le devenir des déchets. La manière dont sont rédigés ces documents nous laisse penser que la filière est très aboutie et s’inscrit dans une logique parfaite d’économie circulaire mais en réalité, les auteurs de ces documents semblent se complaire dans l’atteinte d’objectifs écologiques médiocres. Et pour cause, ces documents sont en majorité rédigés par les acteurs économiques du secteur ou les géants du soda eux-mêmes qui n’ont pour autre but que de défendre leurs intérêts en faisant la promotion des emballages. La filière boisson préfère vendre son soda dans des emballages jetables (c’est bien plus rentable), la filière canette promeut son emballage comme étant le meilleur et la filière en charge de la collecte ne peut gagner sa croûte que si des emballages sont mis sur le marché : principe de l’éco-contribution. Il est cependant un peu facile de leur dresser un procès quand nous sommes nous-mêmes consommateurs de ces boissons, mais il est grand temps de réformer ce modèle qui ne peut pas conduire à une réduction de la production d’emballages.

      Pour revenir aux fameux documents, on peut lire qu’en France, « 60% des canettes aluminium sont recyclées ». L’idée qui vient à l’esprit de toute personne lisant ceci, est que ces 60% proviennent de la collecte sélective, mais en réalité pas du tout. Seulement 20% des canettes sont captées par le tri sélectif à la source, le reste se retrouve avec le « tout venant » et est enfoui ou incinéré. Les 40% recyclés restant ne proviennent donc pas des centres de tri mais des résidus de combustion des incinérateurs (les mâchefers) qui contiennent également des dizaines d’éléments différents mélangés et carbonisés dont des métaux lourds. De cette part ci, 45% de l’aluminium (qui a grandement perdu en qualité) est extrait et parvient à rejoindre la filière classique (les fonderies) tandis que les 55% restants sont irrécupérables et utilisés avec les autres résidus dans le BTP comme sous couche pour les routes. Par ruissellement, les particules polluantes de ces déchets se retrouvent ainsi dans les nappes phréatiques…

      En bref, voici grossièrement ce qui devrait être écrit sur ces documents : « En France, 38% des canettes sont recyclées comme matière première secondaire, 22% sont valorisées en sous-couche routière, et 40% sont directement enfouies en décharge ». C’est tout de suite moins sexy.

      D’autre part, quiconque a déjà visité un centre de tri (ce pourrait être intéressant à l’école), est en mesure de comprendre qu’il est impossible de séparer parfaitement les milliers de modèles d’emballages différents, de toutes tailles, qui sont souvent des assemblages (carton + plastique), qui sont souillés et qui défilent à toute vitesse sur les tapis roulants. Et puis il y’a les erreurs de tri, qui sont en réalité la norme car même après avoir baigné 3 ans dans le milieu, nous-mêmes avons parfois des doutes pour certains emballages peu courants… C’est dingue, mais absolument personne ne sait faire le tri parfaitement et ce sont souvent les gens les plus soucieux de l’environnement qui ont tendance à trop en mettre dans leur bac ! Sur 5 camions qui arrivent au centre de tri, 2 repartent en direction de l’incinérateur : il y’a 40% d’erreurs ! Et cette infime part de nos déchets, qui parvient à sortir en vie des centres de tri devient alors une précieuse ressource comme le voudrait l’économie circulaire ! Mais non, même pas. Lorsque ces emballages ne trouvent pas de repreneurs (notamment quand les asiatiques ne veulent plus de nos déchets), certains matériaux comme le carton voient leur valeur devenir négative ! Oui, il faut payer pour s’en débarrasser… Et ce n’est pas fini, après la collecte et le tri, il faut passer au recyclage !

      Fin mai 2019, nous avons été invités par la filière aluminium à une réunion de travail et une visite du plus grand site de recyclage français de Constellium dans le Haut-Rhin. Alors que nous étions persuadés que nos bonnes vieilles canettes redonneraient un jour vie à de nouvelles canettes, nous avons eu la stupéfaction d’apprendre par les ingénieurs qui y travaillaient que les balles d’aluminium provenant des centres de tri français étaient inexploitables. Leur qualité était médiocre et il était par conséquent impossible de les utiliser comme matière première car la fabrication de canettes utilise des technologies très pointues et ne peut s’opérer qu’à partir de métaux d’une grande pureté… C’était le comble ! Depuis le début, aucune de nos canettes n’avait redonné vie à d’autres canettes. Quand on sait que les emballages métalliques sont considérés parmi les plus durables et facilement recyclables, on n’ose même pas imaginer le devenir de nos bouteilles plastiques et encore moins de tous ces nouveaux emballages qui font désormais partie de « l’extension de la consigne de tri ». Et même dans un monde idéal, très connecté et intelligent comme le voudraient certains, une canette ne pourrait être recyclable à 100% puisqu’elle n’est pas 100% métallique. En effet, sa paroi extérieure est recouverte de vernis et sa paroi intérieure est couverte d’une fine couche de plastique qui évite que le liquide ne soit en contact avec le métal. De plus, à chaque fois qu’un métal est fondu, une portion de celui-ci disparaît, on appelle cela « la perte au feu ». Quelque que soit donc la performance de notre système de collecte et de tri, il sera impossible de continuer d’en produire pour les siècles des siècles sans continuer d’extraire de la bauxite en Amérique Latine. Vous l’avez compris, le recyclage ce n’est pas la panacée ! Il devrait n’intervenir qu’en dernier recours et non pour récupérer la matière d’objets n’ayant servis que quelques minutes.

      La conclusion que nous avons tiré de cette histoire est que ce secteur, en très lente évolution, ne répondra pas aux enjeux de la crise écologique et qu’il promeut malgré lui la production d’objets peu durables et donc le gaspillage de ressources. Comme se plaisent à le répéter bon nombre d’associations « le meilleur déchet est celui qu’on ne produit pas » et dans un monde idéal, le seul déchet que nous devrions produire est celui d’origine naturelle, celui qui peut retourner à la terre n’importe où pour l’enrichir. La vision de La Boucle Verte était de créer des modèles d’économie circulaire qui fonctionnent comme la nature, mais quelle arrogance ! Lorsqu’une feuille tombe d’un arbre, elle ne part pas en camion au centre de tri. Et lorsqu’un animal meurt dans un bois, il n’est pas incinéré. La vraie économie circulaire, ce n’est pas celle qui tente d’imiter la nature, c’est celle qui tente d’en faire partie.

      3) L’illusion de la croissance verte

      Mais ne soyons pas trop durs avec le secteur du tri et du recyclage à qui l’on demande l’impossible. Nos problèmes sont bien plus profonds, ils émanent principalement de notre culture et sont accentués par un système économique globalisé et débridé. Avançant peu à peu dans ce monde de start-ups à la recherche de croissance rapide, nous avons fini par ouvrir les yeux sur plusieurs points.

      Tout d’abord sur l’innovation, innovation au sens du progrès technique et des nouvelles technologies. Cette formidable capacité humaine à innover a trouvé son lieu de prédilection en entreprise là où tout « jeune cadre dynamique » ne jure que par elle. Cette innovation permet de trouver des solutions aux problèmes que l’entreprise essaye de résoudre, tout en permettant de gagner un avantage compétitif. Globalement, ce que cette recherche constante d’innovation a apporté, c’est une complexification extrême de notre société, rendant au passage le travail de nos dirigeants infernal. Et dans un même temps, ces innovations technologiques successives ont eu un autre effet néfaste, nous pousser à consommer.

      Par exemple, internet était censé nous emmener vers une économie dématérialisée, nous pensions réduire drastiquement notre consommation de papier en nous orientant vers le numérique. Pourtant, entre 2000 et 2020, notre consommation de papier est restée quasiment la même et à côté de cela, l’ère du numérique a créé une infinité de nouveaux besoins et de nouvelles pratiques générant des consommations faramineuses d’énergie, la création de milliards de terminaux composés de métaux rares, et la fabrication d’infrastructures climatisées pour héberger des serveurs. Et bien qu’à première vue immatériel, envoyer un email émet autant de CO2 que de laisser une ampoule allumée pendant 1h… De plus, bon nombre d’innovations parfaitement inutiles voire nuisibles ont vu le jour. C’est le cas du Bit Coin dont la consommation électrique annuelle dépasse celle de la Suisse. Ces innovations participent de plus en plus à aggraver les inégalités et quand on sait qu’un avatar de jeu vidéo consomme plus d’électricité qu’un Ethiopien, il n’y pas de quoi se réjouir. Bien sûr, tout n’est pas à jeter à la poubelle (sans faire le tri) et nous sommes tous contents d’aller chez le médecin du 21ème siècle.

      Ces constats nous amènent tout droit à l’idée de croissance et plus particulièrement de croissance verte, en laquelle nous avions cru, et qui est actuellement plébiscitée par la majorité des pays qui voudraient que l’innovation technologique soit un remède aux problèmes écologiques (eux même engendrés par l’innovation technologique). Bon nombre d’entreprises et de start-ups s’attaquent alors aux grands défis à base de Green Tech, de Green Finance et de Green Energy… Le problème, c’est que la logique fondamentale reste inchangée : complexifier le système, corriger inlassablement les dégâts causés par les innovations précédentes et se trouver une excuse pour continuer de consommer autant qu’avant voire plus ! Pire encore, ces initiatives ont même un effet inverse délétère dans la mesure où elles ralentissent la transition en laissant penser aux gens qu’un avenir durable sans concessions et sans modification de nos comportements est possible grâce à l’innovation. Et cela nous l’avons vécu ! Au cours de notre aventure, nous avons été très surpris de constater à quel point une partie de la population pouvait avoir confiance en notre projet. Nous savions que notre impact environnemental positif n’était que limité à côté du désastre en cours, mais quelques personnes nous considéraient comme la génération de « sauveurs » ou alors déculpabilisaient d’acheter une canette, puisqu’après tout elle serait parfaitement recyclée.

      Et puis allez, soyons fous, gardons espoir dans la croissance. De la même manière que certains déclarent la guerre pour rétablir la paix, nous pourrions accélérer, croître encore plus vite pour passer un cap technologique et rétablir le climat ? Qu’en est-il vraiment ?

      A en croire les chiffres et les études de nombreux scientifiques, depuis 50 ans, la croissance du PIB a été parfaitement couplée à la consommation d’énergie (notamment fossile).

      Cela peut se comprendre de manière assez simple : plus nous produisons d’énergie, plus nos industries et nos machines tournent, plus nous produisons de nouveaux produits, plus nous croissons. Si l’on en croit ce couplage et cette logique simple, quoi que nous fassions, nous serons contraints pour continuer à croitre, de consommer toujours plus d’énergie !

      Faisons un petit calcul : Nous sommes en 2020 et nous partons du principe que nous consommons 100 unités d’énergie et que la consommation d’énergie continue d’être parfaitement couplée à la croissance du PIB. Si nous voulons 2% de croissance par an, quelle sera notre consommation d’énergie dans 50 ans ? Et dans 1000 ans ?

      Dans 50 ans : 100 x 1,02^50 = 269 unités

      Dans 1000 ans : 100 x 1,02^1000 = 39 826 465 165 unités

      Aussi incroyable que cela puisse paraitre, en 50 ans, on multiplierait notre consommation d’énergie par 2,69 et en 1000 ans par presque 400 millions ! Le problème de la croissance en math, c’est qu’elle suit une courbe exponentielle. Que nous fassions donc que 0,5% de croissance par an, que ce couplage finisse par se découpler un peu ou pas, que nous soyons 1 milliard sur terre ou 10 milliards, la croissance perpétuelle restera toujours insoutenable à long terme, alors pourquoi la continuer un an de plus ?

      Et là certains nous dirons : « C’est faux, on peut croitre sans consommer grâce à l’économie de la connaissance » ; « On peut produire de l’énergie qui ne pollue pas grâce aux énergie renouvelables ». Mais en fait non ! Nous sommes en 2020, et malgré une économie tertiarisée depuis longtemps, nous n’avons toujours pas perçu de découplage entre croissance du PIB et consommation d’énergie. Comme nous l’avons décrit à propos de l’ère du numérique, un service en apparence immatériel cache toujours une consommation d’une ressource matérielle. L’économie de la connaissance aura forcément besoin de supports physiques (ordinateurs, serveurs etc…) et nous serons toujours incapable de recycler tout parfaitement et sans pertes s’il ne s’agit pas de matière organique.

      Et pour ce qui est des énergies renouvelables, aucune à ce jour, n’est complètement satisfaisante sur le plan environnemental. Les éoliennes sont des monstres d’acier, sont composées de terres rares et produisent de l’énergies seulement quand il y’a du vent. Stocker l’énergie de ces épisodes venteux pour la restituer plus tard n’est pas viable à grande échelle ou pas performant (batteries au Lithium, barrages réversibles). Les panneaux photovoltaïques ont un mauvais bilan environnemental (faible recyclabilité et durée de vie). Il n’y a pas de région montagneuse partout sur la planète pour fabriquer des barrages hydroélectriques et ces derniers perturbent la faune aquatique et la circulation des sédiments… Cette incapacité à produire et stocker de l’énergie proprement rend donc notre fameuse voiture électrique aussi nuisible que la voiture thermique. Sa seule différence est qu’elle pollue de manière délocalisée : là où est produite l’électricité qui la fait rouler. Que cela soit clair, dans un monde limité où PIB et consommations de ressources sont liées, nous devrons décroître, de gré ou de force.

      Et même si cela était possible, et que nous devenions des humains augmentés, bourrés d’intelligence artificielle, capables de créer une sorte de nouvel écosystème technologique stable permettant d’assouvir notre besoin insatiable de croissance en colonisant d’autres planètes… Ne rigolez pas, pour certains ce n’est pas de la science-fiction ! Le milliardaire Elon Musk, véritable gourou des Startups, se penche déjà sur la question… Mais avons-nous vraiment envie de cela ?

      Alors après tout, est-ce que la croissance est indispensable ? Dans le modèle économique que nous avons créé, il semblerait… que oui ! (Sinon, le chômage augmente et on perd en qualité de vie). Et pourtant dans la vraie vie, quand une population est stable, il ne devrait pas y avoir besoin de voir ses revenus augmenter en permanence pour continuer de vivre de la même manière et que chacun ait sa place dans la société. En fait, il ne s’agit que d’un modèle économique, d’une convention humaine et en aucun cas de quelque chose d’immuable. Jusqu’à présent, on ne s’en plaignait pas parce qu’il y avait probablement plus d’avantages que d’inconvénients à croître, mais maintenant nous avons atteint les limites alors il faut changer de modèle, c’est aussi simple que ça ! Nous ne devrions pas pleurer comme un enfant qui apprend qu’il va déménager, le changement ça ne fait que du bien et quand on repense au passé on se dit parfois : comment ai-je pu accepter cela !?

      4) Une décroissance choisie et non subie

      Bon, on ne va non plus cracher sur l’ancien monde et revenir au Moyen Age. Cette croissance a permis des trucs plutôt cools il faut le dire : globalement il y’a plus d’obèses mais nous vivons en meilleure santé, il y’a moins d’esclaves et plus d’égalité homme femme, il y’a moins d’analphabètes et plus d’accès à la culture… Mais les faits sont là et comme le préconise le GIEC, nous devons en gros diviser par 3 notre consommation d’ici 2050. Du coup ça reviendrait à peu près au même que d’avoir le train de vie qu’avaient nos grands-parents quand ils étaient jeunes.

      Mais après tout, ne pourrait-on pas garder certaines bonnes choses et supprimer les moins bonnes. Et comment définir les bonnes et les moins bonnes ? Au lieu de faire notre sélection sur des critères économiques, on pourrait privilégier des axes assez simples comme l’intérêt pour la société et l’impact sur l’environnement.

      Alalala vous le sentez venir le débat infernal ! Déjà que les choses ne bougent pas vite mais alors là, avec un système où on doit débattre de tout ce qu’il faut garder et supprimer on n’est pas sortis de l’auberge ! Il y’aura toujours une bonne raison de justifier un produit polluant par sa dimension sociale ou culturelle et d’ici qu’on se soit mis d’accord, Français fous que nous sommes, il sera trop tard.

      A vrai dire, pour parvenir à nos objectifs dans la joie et la bonne humeur, tout se résume en quelques mots : il faut simplement changer de culture, changer d’idéal de vie, réaliser qu’acheter un nouvel Iphone ou des écouteurs sans fils n’est absolument pas nécessaire pour être heureux, se convaincre que la valeur d’une personne n’est pas définie par son salaire ou son job. En gros il faut tuer l’américain qui sommeille en nous et réveiller le poète. Et le mieux dans tout ça, c’est qu’on finit par y prendre gout. On se désintoxique de ce monde consumériste et on apprend à créer de nouveaux plaisirs, de nouvelles tendances ! La mode c’est vraiment quelque chose de rigolo, il suffit que des gens connus s’y mettent pour qu’on veuille tous s’y mettre comme des moutons. Si tous les chanteurs et joueurs de foot se trimbalaient avec des fringues de chez Emaus et des Nokia 3310, on vous garantit qu’on ferait cette transition écologique en moonwalk (mais en marche avant) ! D’accord, là on s’emballe un peu mais c’est pourtant bien la réalité. Une des seules craintes de l’être humain est de ne pas être accepté par la communauté. C’est encore difficile pour la majorité d’entre nous de s’imaginer vivre comme des « partisans de la décroissance » mais plus de gens s’y mettront, plus les autres suivront. Et pour ça, il suffit de changer de disque ! Certaines personnes arrivent à changer de religion, il y’a 400 ans, les rois portaient des perruques sur la tête et encore aujourd’hui sur cette planète, il y’a des tribus de gens avec des plumes plantées dans le derrière qui chassent à la sarbacane. Est-ce si absurde que ça de décroître ? Nous les Homos Sapiens (Hommes Sages parait-il) sommes très malins mais aussi très bêtes, parfois rationnel, parfois pas du tout. Nous sommes capables de nous empêtrer dans une situation pendant des siècles pour finalement en changer brusquement. Alors, dans cette dernière partie, on ne va pas vous bassiner avec des conseils éco-responsables bidons du type : « pensez à débrancher votre frigo quand vous partez en vacances pour économiser 10% d’énergie ». En fait, si la transition écologique doit se passer comme ça, elle va être chiante à mourir et en plus de ça on va échouer ! Alors oui, il faut drastiquement réduire notre consommation et aller acheter des carottes bio en vélo le samedi matin ne suffira pas. Il faut arrêter de prendre la voiture tous les jours, ne plus prendre l’avion et arrêter d’acheter des engins téléguidés au petit Mathéo pour son anniversaire. Mais honnêtement, est-ce vraiment grave !? La transition écologique ne doit pas être une punition mais une fête, elle doit être une volonté commune de changer de vie, un départ en vacances prolongé et bien mérité. Nous ne sommes pas des machines ! Il faut que la génération du « burn out » se transforme en génération du « go out ». Il faut qu’on arrête de bosser toute la semaine en ne pensant qu’au shopping qu’on va faire le weekend, il faut qu’on arrête de vouloir gagner la super cagnotte de 130 millions d’€ du vendredi 13, il faut qu’on arrête de s’entasser dans des métros tous les matins pour finalement avoir besoin de partir faire un break en Thaïlande pour déconnecter. Nous ne prenons même pas le temps d’apprécier la beauté de la nature au pied de notre porte alors pourquoi irions-nous faire un safari en Afrique ? Mais d’ailleurs, apprécions-nous réellement ces voyages quand nous passons les ¾ de notre temps derrière l’écran de notre appareil photo, que nous sommes regroupés avec d’autres occidentaux aussi inintéressants que nous et que nous continuons d’acheter du CocaCola à l’autre bout du monde ? Pour une fois, peut être que regarder un reportage animalier depuis notre canapé nous aurait fait plus rêver que de voir ces lions domestiqués se gratter contre la roue de notre 4x4 !

      Alors pour commencer, répartissons-nous sur le territoire, retournons vivre dans les villages au lieu de s’agglutiner en ville et redevenons des paysans, ce sera bien plus dépaysant ! Ces changements, ils sont déjà en train de se produire et tout va aller de plus en plus vite ! Il y’a 6 ans, pleins de potes de l’école rêvaient de devenir trader, parce que c’était un métier stylé où on gagne plein d’oseille. Mais aujourd’hui c’est devenu carrément la honte et les gens stylés sont des artisans, des artistes ou des agriculteurs. Et ça tombe bien parce que ce nouveau monde sera nécessairement un monde agricole. Pas avec des grosses moissonneuses batteuses, mais avec des milliers de petites mains qui travaillent la terre, qui produisent de la vraie nourriture, qui comprennent la nature, qui vivent de petites récoltes mieux valorisées et en circuits courts.

      Les entreprises aussi auront un rôle à jouer, mais en innovant pour simplifier la société et non pour la complexifier, en relocalisant les productions au plus près de consommateurs moins voraces, en préférant les produits durables à l’obsolescence programmée, en favorisant le réemploi plutôt que le recyclage, et en préférant les bonnes vieilles astuces de grand-mères aux artifices technologiques.

      Alors bien sûr, on se trouvera toujours des excuses pour passer à l’acte : « Je vais d’abord travailler dans le marketing à Paris histoire de mettre un peu d’argent de côté et que mes parents ne m’aient pas payé cette école pour rien », « Avec mon mari, on va attendre que la petite Lucie passe en CM2, il ne faudrait pas que ça la perturbe ». « Mais ! Comment vais-je trouver un travail à la campagne, je n’ai pas la formation qu’il faut ? ». Des excuses on s’en trouvera toujours et nous les premiers avons eu vraiment du mal à s’avouer vaincus et à lâcher La Boucle Verte. C’est difficile de construire quelque chose pendant longtemps, de dépenser beaucoup d’énergie pour finalement devoir repartir à zéro. Et pourtant c’est bel et bien ce que nous devons faire collectivement et dès maintenant. Bien que tragique, cette crise du Coronavirus est une chance inouïe, c’est une aubaine. Elle aura cassé notre lente routine destructrice, elle nous aura libéré de la consommation excessive, nous aura fait ralentir et vivre une récession. Alors saisissons cette chance et ne reprenons pas tout comme avant le 11 mai.

      Un grand merci à tous ceux qui nous ont soutenu et ont participé à l’aventure La Boucle Verte. Nous souhaitons beaucoup de succès à nos compères toulousains Les Alchimistes Occiterra et En boîte le plat qui de par leurs projets sont respectivement dans une logique de valorisation naturelle des biodéchets et de réduction des emballages à la source. Pour ce qui nous concerne, nous allons profiter de cette période pour prendre un peu de repos à la campagne. Et quand nous reviendrons, il est fort probable que ce soit à base de low tech ou d’agriculture. On essaiera de vous donner des nouvelles sur les réseaux sociaux La Boucle Verte et de vous partager des articles qui nous inspirent !

      Bonne santé et bon courage à tous pour affronter cette crise.

      L’équipe La Boucle Verte

    • Une nouvelle définition politique du soin (ici pour une trad viteuf)

      For many of us, the last few weeks have marked a new phase of our corona-lives—a dark and lonely corridor that stretches before us, no end in sight. Earlier, we counted this crisis in days and weeks. Now we are coming to see that this virus will in all likelihood be with us for months and years. We can’t stand social distancing any longer, but we also can’t stop, because there is no infrastructure in place to safely allow us to go back to school and work.

      A Community Health Corps is one place to start to build a new movement that heals us and our body politic, and that will allow us—all of us—to survive a pandemic, and then, to thrive.
      Our federal leadership remains ruinous. President Trump, obsessed with ratings, still cannot seem to think beyond the twenty-four-hour news cycle. In the last week he first insisted he would reopen things in May, then abandoned the idea, perhaps having learned that he lacked the necessary power. He then cast around for others to blame, taking to Twitter to cheer on tiny and malevolent groups of protesters calling for a reopening the economy, damn the consequences. Tragically, in the wake of the president’s remarks, Governor Brian Kemp of Georgia announced he would let many businesses resume operations, though the state is flush with new cases, and there is no viable plan for containment going forward. Trump tried to walk back his remarks, saying he disagreed with Kemp, but the damage was done, and Georgia is proceeding full-steam ahead. The press to return to school and work will only intensify, for all of us—while Georgia, and other states that are making similar rumblings, have nothing to offer their citizens but decimation.

      What other way forward is there, over these coming months? As in the early phase, leadership and vision is going to come from elsewhere. It’ll come from reality-based local leaders, perhaps from Congress, and from us. As the timescale of our response to COVID-19 shifts to months and years, it’s time to ask: The day after all this is over, what do we want the world we share to look like? What are we willing to fight for? And how do we connect a long-term vision of that world worth fighting for with the things we need to do to mitigate the damage now?

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      Any response to the moment has to address two, twinned crises: the threat of a virus run out of control, and the carnage being visited on working people and families by the measures we need to undertake to contain the virus. While COVID-19 cuts its deadly swath from coast to coast, the disease follows the same patterns of inequality we’ve always seen embedded in the U.S. landscape, where the death rate for predominantly African American counties is six-fold higher than in predominantly white counties across the country, and where this crisis is just heaped upon others, which have been plaguing these communities for generations.

      Meanwhile, as millions of Americans stay at home in solidarity with their neighbors to protect them from infection, the economic contraction has come at great cost to families and individuals, dragging them to the brink in the most spectacular economic collapse since the 1930s. We are in the middle of a disaster scene today, aided and abetted by a political culture that has rushed to give corporations billions in bailouts but has largely hung ordinary people out to dry. Food pantries are running empty as farmers—themselves facing bankruptcy—plow their crops into the soil. Last week, the number of people who filed for unemployment benefits surged to more than twenty-six million. Poorer families and school districts don’t have the resources for online learning, meaning that we are leaving millions of kids behind. Rent strikes are popping up from coast to coast.

      We must build for a better future, not just climb out of the rubble of this pandemic, brush ourselves off, and start up in the same place we found ourselves in January 2020.
      With a disruption looming that may be as severe as the Great Depression, our ambition to confront it should be at the same scale. But our answer to these twin immediate crises must connect to a broader politics and vision that addresses the deep structural roots of the problems we face in America. We must build for a better future, not just climb out of the rubble of this pandemic, brush ourselves off, and start up in the same place we found ourselves in January 2020. In our earlier pieces in these pages, we’ve argued for a new politics of care, one organized around a commitment to universal provision for human needs; countervailing power for workers, people of color, and the vulnerable; and a rejection of carceral approaches to social problems. The question now is how to connect that vision to programmatic responses that address the needs of the moment and beyond. We need to aim at “non-reformist reforms”—reforms that embody a vision of the different world we want, and that work from a theory of power-building that recognizes that real change requires changing who has a say in our political process.

      Here’s one such reform: a massive new jobs program. Call it the Community Health Corps. Funded federally and organized locally, it would put millions of Americans to work caring for one another, and with far more sweeping goals than just turning around the sky-rocketing unemployment figures we see today. It would serve our needs for a vast force that can track and trace the virus, but add to it workers who can support those in need, all while securing our health and building real solidarity among us. Such a program, operating all around the country, in rural and urban areas alike, could help us get through this pandemic and mitigate the cataclysmic employment dislocation of the coming months and years.

      In truth, this is just a new form of an old idea—a Works Progress Administration (WPA) for an age of pandemics. But the aim is larger, to bring us through the crisis by calling into being government as we wish it to be—caring for us, bringing us together, while also enabling us to live our different lives. It would go beyond providing care to communities by stitching back together the personal connections among us torn asunder by our self-enforced isolation and by building power together, as workers and patients are tied to each other through the act of caregiving. It wouldn’t just create jobs to fill a hole during the crisis—it would develop skills and foster solidarity that will form the basis of the post-crisis economy, too.

      What jobs are needed? Start with contact tracing. The need here is straightforward and urgent. We cannot shelter in place forever, but reopening without measures to track the virus and sequester those exposed runs the same risk of swamping the health care system—infections and deaths will just come roaring back. Beyond the medical tragedy, such an outcome would also make a mockery of the sacrifices that millions of Americans have made over the past few months. That’s why every serious plan for reopening requires a massive scale-up in testing and contact tracing. The better we are at catching cases, notifying contacts, and supporting people who are sick or sequestered, the better control we will have over the virus, and the more “normal” life can be for those unexposed.

      Think of the people hired for contact tracing as virus detectives, who also have the under-appreciated skill of being able to talk to others with ease and empathy. They will engage people infected with SARS-CoV-2 (the virus that causes COVID19) in a process of recalling everyone they’ve seen and everywhere they’ve been for days, while recording all this information in detail. They will then reach out to these contacts, advise them on testing and quarantine, refer them for testing, and link them to necessary resources to help them through their quarantine, from start to finish. Despite all the talk about technological shortcuts, this old-fashioned shoe-leather epidemiology is going to be the mainstay of our next phase of attempts to control COVID-19. Contact tracing in its most basic form has been around since the smallpox outbreaks in Leicester in the United Kingdom in the 1870s. We know how to do it, and it can be scaled up locally.

      Shoring up the foundations of U.S. health care by valuing care itself isn’t just the first step towards a more rapid, effective response to health threats in the future. It will also move us toward a new politics of care, that starts from the ground up.
      Technology can help supplement these human tasks but cannot replace them. The idea that apps alone will solve the problem of contact tracing is the product of the technological “solutionism” that writers such as Evgeny Morozov have rightly argued is endemic to our culture today: the notion that no matter the problem, an app can efficiently solve it. Why won’t apps be a silver bullet? For one thing, they raise serious privacy issues, especially if they are not voluntary. There are technical issues too. It will be difficult for some technologies, like those that rely on GPS, to distinguish true contacts from false ones in crowded, dense urban environments. The myriad apps under development now have not been beta-tested, let alone rolled out in the midst of a pandemic at such a scale. It also isn’t clear that app developers have spent time talking to the potential end-users of their products, building their tools to meet the needs of, and benefit from the expertise and experience of, local health departments. Finally, technological solutions almost always leave out many of those who lack full participation rights in a digitally enabled society. For example, in the rush to move our financial transactions online and replace paper money with electronic payments with apps from banks and start-ups such as Venmo, we’ve left out many from low-income communities, particularly from communities of color. Apps can help make contact tracing more effective, but we need to act now, hiring people to do this work that no app can do.

      Spend a moment imagining a day in the life of a contact tracer working in Queens or Sioux Falls and you quickly see why an app alone cannot address the rippling crises that SARS-CoV-2 unleashes in every family. You also see the insufficiency, even, of contact tracing alone. Imagine you reach out to your first contact, who has tested positive and been sent home because they do not require hospitalization. Someone who has just learned that they have been exposed will have a myriad of important questions and needs. A father may wonder how, if he cannot leave his room, he will get food to his kids who are home from school. A shift worker who is wrongly fired for being sick will need help accessing unemployment insurance and legal support. A daughter may need help finding someone to provide essential daily care for a mother with dementia. Someone living alone will need help to walk the dog. We will need another group of workers to help them navigate these kinds of problems, which will require a mix of social work, advocacy, and even perhaps basic legal skills or the ability to make referrals to those who have them real-time.

      Those going out to trace contacts are going to find more than just SARS-CoV-2 in the places they visit. There will be some homes they call where no one has been exposed to the virus, but where families are struggling to make ends meet, having trouble with their landlords or their utility companies, or struggling with lost or unhelpful health insurance. Recent data has shown that during this pandemic domestic abuse has become “more frequent, more severe and more dangerous” and that mental health and substance issue on the rise. We can’t just walk away from these people, our neighbors in crisis. In the narrowest sense, ignoring these needs will make it harder for people to keep social distancing. In a broader sense, if we use our politics at a time of existential need to impose an unlivable life on our fellow citizens—if we fail those for whom staying at home might be more dangerous than the virus—we will tear away at the fabric of solidarity and trust that we need to maintain the shared project that is democracy.

      Right now we’re leaving help with all of this largely to individuals, families, and voluntary support. Most of us know people who are cutting corners with social distancing because they just can’t meet their daily needs any other way. In the next phase of the pandemic, we will need a much more precise and effective system of sequestering people if we are to get and keep the virus under control. While the mutual aid networks springing up around the country can handle a few requests for support, as we scale-up testing, the need of these kinds of social services and economic aid will explode. This can’t be handled simply as a matter of volunteerism even if “conservatives dream of returning to a world where private charity fulfilled all public needs.”

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      What is the alternative to genuine, public support for those who must remain isolated? Doctors Jim Yong Kim and Harvey Fineberg made the case in the New York Times recently that the ill, and their exposed families, should all be moved to facilities where they could be isolated from each other and the wider community, but they didn’t provide much guidance on how to do this humanely. Nor did they grapple with what it might mean to propose this sort of measure in a country with our history of state violence, especially as visited on families of color, who are vastly overrepresented among the sick today. We need to protect families from their sick loved ones, but forcibly warehousing families or the mildly symptomatic is not the way. We need a politics of support and care, not separation and deprivation. It’s clear that following public health advice isn’t as easy as it sounds—and its costs do not fall evenly. So we need support people to undertake this act of solidarity.

      We need a politics of support and care, not separation and deprivation.
      Alongside the test-and-trace brigade, then, we need other brigades too. We need a cadre of social workers who can provide specific help to individuals infected and affected by COVID, to enable them to follow public health and medical advice. We need a vastly scaled up testing workforce. Some will be dressed up in personal protective equipment (PPE), working at drive-through testing sites, visiting apartment buildings and nursing homes, and stationed outside of grocery stores and other businesses that remained highly trafficked even in the midst of the pandemic.

      Others will be working in labs or transporting samples, helping to process the millions of tests we will need each week, possibly each day. If evidence mounts that early intervention and close monitoring is essential to saving lives, we will also need a new brigade of health workers who can make virtual or home visits. We can additionally train local workers to help us gather evidence—for example mapping local health and services needs through surveys, building on successful models of community-based research, and working to better guide local programs. These programs will not only help us understand and respond to the spread of the virus but help us build better health programs when it recedes.

      We also need to address the explosion of infections in the workplace. We’ve seen outbreaks, large and small in meat processing plants across the country, in Amazon warehouses and Walmarts, leading to walkouts and lawsuits. As more and more businesses re-open, employees and employers need help to keep themselves and their customers and clients safe. Areas for employees and customers must be re-configured to maximize social distancing, and new workplace protocols need to be developed. Employers should be held responsible for taking the steps needed to protect their workers and the public, and some of this will likely not come without a stronger role for labor—via labor-management commissions, for example. An infection control brigade could work in cooperation with employees and employers, advising them on best practices in infection control, and assuring that supplies of PPE, from masks to gloves to physical barriers like plexiglass shields for cashiers are available. They can also ensure that early signs of failures in infection control are discovered and addressed immediately.

      We are already seeing small steps in this direction. In Massachusetts, Partners in Health (PiH), which has experience building community health workforces in places hit by disease and disaster around the globe, has been asked by the state to spearhead their new contact-tracing program. In a matter of weeks, they have hired and trained close to a thousand people for these important and complex jobs. Aware of the importance of the work and the demands of the job, PiH is paying them the same rate as U.S. Census takers, $27 an hour, providing them with health insurance and making an emphasis on hiring the unemployed and building a diverse workforce. About 17,000 people have applied for these jobs, showing that there is clearly a deep pool of people willing and able to do this work. That should come as no surprise, given the staggering loss of work in recent weeks and the inadequacy of the current government supports, and the outpouring of support we’ve seen in communities and mutual aid networks. People want to help. We just need to organize them.

      The problem is, while these efforts are admirable, state-level programs are vastly underpowered and underfunded. Before the crisis public health departments employed fewer than 2,000 contact tracers in the country. The best estimate we have projects that we will need to hire as many as 300,000 of them to address this outbreak. We have cohorts to build on for caseworkers and legal support too. One such pool derives from so-called community health worker (CHW) programs, which have a long history both in the United States and around the world.

      The United States is sicker now with COVID-19, but we’ve been sick for long while in many other ways.
      Today, we have about 120,000 community health care workers in cities and towns around the country doing health education and prevention work, collecting data, making links between local residents and the services they need. They are most often from the communities they serve and which have been underserved historically by the patchwork of a health system we have in the United States. In the context of need for testing-tracing-isolating in the age of COVID-19, local CHWs will go a long way to establishing trust and comfort in these troubling times. Contact tracers too should be recruited from local communities. Having a neighbor show up at your door (or on your screen) asking about your health and your personal contacts is more likely to be successful than a phone vibrating in your pocket telling you that you make have come in contact with someone with COVID-19.

      There are also models for the caseworker and legal support component in the medical-legal partnerships (MLPs) that have emerged all around the U.S. in recent years. Driven by the recognition that illness—and healthcare costs—are shaped by factors that doctors alone cannot control (like access to safe housing and benefits), hospitals and non-profits around the country have hired legal professionals to assist clinicians, social workers, and case managers address larger structural issues affecting patients’ health and well-being. As of early 2019 there were MLPs active in about 330 hospitals and health centers in 46 states with evidence that MLPs can improve patient health outcomes and well-being, improve mental health, remove barriers to health care for low-income families, increase access to stable housing and other social support.

      The idea is to build on these successes, which operate in small and disjointed ways, by integrating them into a federally funded Works Progress Administration for the age of COVID-19 and its aftermath. It will require significant federal funding, especially as states are forced into austerity by plummeting tax revenues and balanced budget requirements. But the cost will be small compared to the recent $2 trillion stimulus. Reports show that we can scale up contact tracing for just a few billion dollars—a fraction of the bailout we’ve handed over to big businesses. Some in Congress have already seen the need, and a federal bill awaiting the president’s signature provides some funds that could go towards such jobs, along with the massive scale up in testing that we need—though not nearly enough. Even a vastly larger program, hiring five million Americans for the duration of the crisis, would still cost less than the corporate bailout. This is a deal, if we consider what it can do to help not only save lives but also help employ people and buffer us against economic depression.

      We could also mold the program to help shore up the present and future of those who are at grave risk, but not of dying from COVID-19. Many young people today are facing down a terrifying future. With more than twenty-six million unemployed and more to come, who will hire someone just out of high school? How will students get that first job to pay off their college loans?

      By whatever accident of grace, young people are least at risk of developing serious complications of COVID-19, making them an obvious priority for a jobs program. The staggering health disparities of the pandemic make another priority clear. We need care workers who are from, and trusted, in local communities, both to reach those most in need, and to help build resources and power in those same communities. We also should demand a program that can hire those who are hardest hit by this downturn, and who we’ve cast aside for too long.

      This means not focusing only on workers who are already highly skilled (much less volunteers, who will always skew toward those who need not worry about their daily bread). Some of these new recruits will need significant training, but we should not think of that as a problem—these are the same jobs we will need after COVID-19, and we have chronic shortages of exactly those skills nursing care and home health care workers that we will need to address this pandemic. And many of these jobs will use skills that come far more quickly: contact tracers can be trained in days, as can those who they will deliver food, masks, and hand sanitizer to families.

      We know from the work of those who study the impact of jobs guarantees—including programs that have been running for many years in other countries—that such programs can be scaled up quickly, and provide essential counter-cyclical stability, as well discipline the private labor market. Especially now, creating alternatives to exploitative jobs is urgent, the only right thing to do. Many “essential jobs”—in janitorial positions, as cashiers in grocery stores, delivery workers—look a lot like forced labor today. With few exceptions, if you quit, you aren’t eligible for unemployment, and other forms of support like those elusive $1200 checks are too small, and not available to many. A Community Health Corps could provide better jobs, driving up the pay of those workers that we call essential, but do not pay that way. If these Corps jobs stick around (folded in, perhaps, to a Medicare for All program), they can help not only address our needs for care, but also our needs for decent work—and our needs to benefit collectively from the talents of so many who are now relegated to the margins, locked up or tossed away. We can also build the Corps as a springboard for further training, where those who have served their country can be funneled into higher education, in a new GI Bill for the age of COVID-19.

      Getting back to normal was never going to be a solace for many in our country. Business as usual is precisely what has made us all more vulnerable to disasters like the one we are currently experiencing.
      The United States may have the most technologically advanced health care system in the world, but we’re leading the number of worldwide coronavirus cases because we’ve badly trailed other industrialized nations in health outcomes for years. Many of the hardest-hit communities in the COVID-19 pandemic have been reeling from long-term health crises, from the opioid epidemic and deaths of despair in Appalachia to the burden of maternal deaths and the ongoing HIV epidemic in the South, to an explosion of obesity across the country with its downstream effects: type 2 diabetes, hyperlipidemia, high blood pressure, cardiovascular disease, and cancer. The United States is sicker now with COVID-19, but we’ve been sick for long while in many other ways.

      Beyond helping to manage the current crisis, then, a Community Health Corps would help to improve the health of people historically left out of the circle of care. For too long we’ve focused at the top, spending on expensive, technologically advanced specialty care, while neglecting primary and community care and underpaying caregivers themselves. Even in the midst of the pandemic, community health centers, which should be the core of our health approach, have teetered on financial ruin. Meanwhile, the domestic workers and home health aides who perform the essential act of care have been underpaid and left out of federal labor protections. Not to mention that much of the work of caring is still done at home, falling disproportionately on women and people of color.

      Shoring up the foundations of U.S. health care by valuing care itself isn’t just the first step towards a more rapid, effective response to health threats in the future. It will also move us toward a new politics of care, that starts from the ground up, in the places, we live, work and socialize. A politics that builds power among the caregivers, as the act of caring becomes publicly recognized and compensated for the productive work it is. Done right—and without the racialized and gendered exclusions that characterized the WPA—these new jobs can be a source of power for those who have never been fully allowed a voice in our democracy.

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      To scale this up quickly, we will need to bring together organizations like Partners in Health, who are experienced at mobilizing in a community though largely in the global South, and who are trusted and effective in their work on health, with local organizations, working on civil, social and economic rights such as national groups like the Center for Popular Democracy and Community Change, and their diverse roster of local community organizations.

      Will it be easy to get our creaking, divided democracy to funnel resources into these programs? Probably not. But COVID-19 is conspiring to show us, all at once and in a way that no one can ignore, how central care is to a healthy society.
      Over the past four decades we’ve seen the erosion of government as a force for good in people’s lives, most often by design as conservatives have looked to shrink the state, weaken its effectiveness, and privatize its functions. Liberals have gone along and lost their faith in the kind of government that built their political base while helping millions in the modern era, starting with the New Deal, and the civil rights, social and economic programs that were the hallmark of the Great Society period in the 1960s. The U.S. state is so weak and untrusted right now that banks have had to take over as the vehicle for the provision of many of the billions just released under the emergency appropriations by Congress, as many Americans cursed the IRS because of delays in the small checks they were promised in COVID-19 relief.

      A Community Health Corps could be part of the remedy—in terms of the direct services and employment it could offer millions of Americans, in the ways in which this effort could lift up the health and well-being of so many, and also in terms of renewing faith in the power of government to help. The Corps would also be a prophylaxis—a first line in the response to the next challenges we face, whether it’s a seasonal return of COVID-19 or another pandemic, or the monumental troubles that climate change will rain down on our communities.

      It would also serve as a model, a test of one essential component of a Green New Deal: the creation of millions of good green jobs. Green jobs, after all, are not just in construction, and many directly benefit health. That is why the most compelling versions of such a proposal prioritize new care work jobs, as well as jobs restoring our trails and parks, and even making a place for the artists and writers whose work is some of the greatest legacy of the WPA. Some of these jobs might even be initiated as part of the Community Health Corps. With so little traffic on the roads, there is no better time to build bike lanes—and green housing too, if the safety of workers can be assured. Greening our cities and improving housing for low-income communities are an essential component of a healthier society, as well as a healthier planet. Climate change is the largest foreseeable threat to our health; we can start to address this looming crisis right now, as we combat this pandemic.

      We need more than a jobs program at this moment of national crisis, to be sure. We also need more SARS-COV-2 tests, more basic income, and better data about the pandemic, to name just a few. But rising up from under the cruel weight of this pandemic, we should also aim for something lasting and better. Getting back to normal was never going to be a solace for many in our country. Business as usual is precisely what has made us all more vulnerable to disasters like the one we are currently experiencing.

      Will it be easy to get our creaking, divided democracy to funnel resources into these programs? Probably not. But COVID-19 is conspiring to show us, all at once and in a way that no one can ignore, how central care—writ large, broadly conceived—is to a healthy society. Rudolf Virchow, the father of social medicine, once said: “Medicine is a social science and politics is nothing else but medicine on a large scale. Medicine as a social science, as the science of human beings, has the obligation to point out problems and to attempt their theoretical solution; the politician . . . must find the means for their actual solution.” A Community Health Corps is one actual solution, one place to start to build a new movement that heals us and our body politic, and that will allow us—all of us—to survive a pandemic, and then, to thrive.

      GREGG GONSALVES, AMY KAPCZYNSKI

      #soin #santé #politique_du_soin #santé_communautaire #pandémie #recherche_des_contacts #emploi #agents_de_santé_communautaire #aptitude_à_parler #médecine_sociale vs #solutionnisme_technologique #green_new_deal

  • Les multinationales françaises à l’offensive contre la transition écologique - Basta !
    https://www.bastamag.net/CAC-40-Transition-ecologique-monde-d-apres-dividendes-lobbying

    par Maxime Combes

    Un document révèle le lobbying mené actuellement par les grandes entreprises françaises auprès de la Commission, notamment du secteur automobile, pour reporter ou annuler toute régulation européenne en matière climatique ou écologique. Bien loin de l’image verte qu’elles tentent de se donner dans les médias.

    Au même moment, ces mêmes entreprises multinationales, et de nombreuses autres, regroupées au sein de l’Association française des entreprises privées (AFEP) [1], font du lobbying auprès de la Commission européenne pour obtenir le report ou l’annulation de nombreuses initiatives de transition écologique que la Commission envisageait de mettre en œuvre dans le cadre du Pacte vert européen. Ce « Green deal européen » a pour ambition d’orienter l’ensemble des politiques publiques européennes vers la lutte contre le réchauffement climatique. Il est d’ailleurs présenté par les auteurs de la tribune comme ayant « le potentiel pour reconstruire notre économie sur la base d’un nouveau modèle de prospérité ».
    Aides publiques aux gros pollueurs jugées « indispensables »

    Rendu public par le média Contexte, le document de l’AFEP est pourtant très clair : au nom de l’urgence économique, les dirigeants des multinationales françaises proposent tout simplement de reporter de plusieurs mois ou années toute nouvelle régulation européenne en matière écologique ou climatique.

    Bien moins connue que le Medef, l’AFEP est pourtant le grand lobby des grandes entreprises françaises. Elle réunit presque tous les patrons du CAC 40 et de grandes entreprises étrangères ayant une présence importante en France. En 2018, elle a déclaré à la Haute autorité pour la transparence de la vie publique dépenser plus d’un million et demi d’euros et disposer de 12 personnes pour faire du lobbying en France.

    Tout récemment, elle a obtenu de Bruno Le Maire et de l’exécutif français qu’ils ne légifèrent pas sur l’interdiction des dividendes comme cela avait été évoqué par le gouvernement. Plusieurs de ses membres éminents, notamment le groupe L’Oréal dont le PDG Jean-Paul Agon est signataire de la tribune initiée par Pascal Canfin, et Plastic Omnium dont le PDG Laurent Burelle préside l’AFEP, prévoient toujours de verser de jolis pactoles à leurs actionnaires. A l’intérêt général, les membres de l’AFEP semblent décidément préférer choyer leurs actionnaires.

    #Lobbying #Multinationales #Green_deal #Saboteurs

  • Gaël Giraud : « Il est temps de relocaliser et de lancer une réindustrialisation verte de l’économie française »
    Par Eugénie Bastié | 10 avril 2020 à 13:53,
    https://www.lefigaro.fr/vox/economie/gael-giraud-il-est-temps-de-relocaliser-et-de-lancer-une-reindustrialisatio

    FIGAROVOX/GRAND ENTRETIEN - L’économiste et ancien directeur de l’Agence française de développement (AFD) nous donne ses pistes pour sortir après le confinement de la plus grave crise économique depuis 1945. Il plaide pour un retour massif de l’Etat dans l’économie et l’annulation d’une partie de notre dette.

    • Gaël GIRAUD.- Le discours du 12 mars dernier du président de la République reprenait un thème présent depuis longtemps dans ses allocutions —la mise “hors marché” des biens communs, et la santé en est un — et semblait faire un réquisitoire contre sa propre politique. Le sens qu’il convient de donner à une parole est inséparable des actes qui l’accompagnent. Attendons les actes.

      On accuse volontiers les « dogmes néolibéraux » ou l’austérité budgétaire d’avoir ruiné les systèmes de santé des pays occidentaux. Cependant on voit aussi que les pays qui s’en sortent le mieux tels la Corée du sud, Taïwan, Singapour ou l’Allemagne sont aussi ceux qui disposent d’un Etat moderne, de finances publiques saines, d’une industrie puissante. Par railleurs, la France semble dépenser plus que la moyenne des pays de l’UE dans le système de santé. Faut-il vraiment accuser l’austérité ?

      Un peu de comptabilité nationale ne fait jamais de mal : la contribution des administrations publiques à la valeur ajoutée, et donc au PIB, est de l’ordre de 18,2% en France. Elle n’augmente quasiment pas depuis 1983. Les fameux 56,6% brandis trop souvent proviennent d’une erreur consistant à confondre la valeur ajoutée avec les dépenses de fonctionnement : les dépenses des ménages et des entreprises non financières représentent 150% du PIB mais cela n’inquiète personne, à juste titre, car tout le monde sait que ce ratio n’a pas de sens. Quant à nos dépenses publiques de santé, près des deux tiers alimentent la dépense privée : ce sont des revenus des professionnels de santé libéraux, des cliniques privées et des laboratoires pharmaceutiques.

      La Corée du sud, Taïwan et le Vietnam (dans une version non-démocratique) démontrent qu’un secteur public puissant étroitement articulé à un secteur industriel qui ne rêve pas de se délocaliser en Chine ou en Europe de l’Est sont les clefs du succès économique et sanitaire.

      Notre fiasco sanitaire me paraît d’abord dû à une culture comptable qui confond toujours la gestion de “bon père de famille” avec celle d’une Nation
      Alors quelles sont les raisons de notre fiasco sanitaire ?

      Notre fiasco sanitaire me paraît d’abord dû à une culture comptable qui confond toujours la gestion de “bon père de famille” avec celle d’une Nation : non, la macro-économie n’est pas de la micro-économie élargie car les dépenses des uns y font les revenus des autres (ce qui n’est pas vrai pour un ménage ou une entreprise). Et qui confond gestion intelligente avec réduction toujours et partout de la dépense publique à (très) court terme. Le stock (de masques), la réserve (d’enzymes) ne sont pas des immobilisations inutiles, de l’argent public dormant. Le budget de l’Etablissement de Préparation et de Réponse aux Urgences Sanitaires (EPRUS) créé en 2007 a été, depuis lors, divisé par dix. Résultat : par delà les morts, nous allons prendre au moins dix points supplémentaires de ratio dette publique sur PIB (un autre ratio qui n’a pas de sens) et cela fera hélas la démonstration que, jugé à l’aune de ses propres critères, cet “esprit comptable” conduit à sa propre défaite face au réel : la nécessaire explosion de la dépense publique et la destruction partielle de notre appareil productif pour sauver des vies. Mais ce n’est pas aujourd’hui l’heure des comptes. L’urgence est à la solidarité nationale avec nos compatriotes qui meurent chez eux, dans nos hôpitaux ou nos Ehpads et avec tous ceux qui souffriront de séquelles à vie. Cela doit passer par la réquisition des cliniques privées (comme en Espagne), la production de ventilateurs pour sauver des vies (comme aux Etats-Unis), de masques et matériel de dépistage sans lesquels aucun déconfinement ordonné n’est possible. (...)

      Le plus urgent, à la sortie du confinement, sera de remettre au #travail le plus grand nombre de nos compatriotes : en pratiquant des tests de dépistage aléatoires groupés pour circonscrire les risques de reprise de la contagion, en généralisant le port du masque pour tous et partout, en renforçant de toute urgence notre système sanitaire. Encore faut-il que les salariés d’hier retrouvent un travail. Le chômage partiel permet de freiner l’hémorragie mais nous n’avons pas encore les chiffres de la débâcle en matière d’emplois. Par ailleurs, le COVID19 peut malheureusement devenir une épidémie saisonnière (comme la grippe) et le réchauffement climatique risque de multiplier les pandémies tropicales. Reconduire le « monde d’hier », fondé sur la thermo-industrie et des économies de court terme faites sur le dos des services publics serait irrationnel. Il faut donc profiter du déconfinement pour inaugurer le « monde de demain ».

      #esprit_comptable #déconfinement #réindustrialisation_verte #marché_intérieur

  • What happens to freedom of movement during a pandemic ?

    Restrictions are particularly problematic for those who need to move in order to find safety, but whose elementary freedom to move had been curtailed long before the Covid-19 outbreak.

    The severe consequences of the Covid-19 pandemic dominate headlines around the globe and have drawn the public’s attention unlike any other issue or event. All over the world, societies struggle to respond and adapt to rapidly changing scenarios and levels of threat. Emergency measures have come to disrupt everyday life, international travel has largely been suspended, and many state borders have been closed. State leaders liken the fight against the virus to engaging in warfare – although it is clear that the parallel is misleading and that those involved in the “war” are not soldiers but simply citizens. The situation is grim, and it would be a serious mistake to underestimate the obvious danger of infection, loss of life, the collapse of health services and the economy. Nonetheless, there is a need to stress that this phase of uncertainty entails also the risk of normalising ‘exceptional’ policies that restrict freedoms and rights in the name of crisis and public safety - and not only in the short term.

    “Of all the specific liberties which may come into mind when we hear the word “freedom””, philosopher Hannah Arendt once wrote, the “freedom of movement is historically the oldest and also the most elementary.” However, in times of a pandemic, human movements turn increasingly into a problem. The elementary freedom to move is said to be curtailed for the greater good, particularly for the elderly and others in high-risk groups. (Self-)confinement appears key – “inessential” movements and contact with others are to be avoided. In China, Italy and elsewhere, hard measures have been introduced and their violation can entail severe penalties. Movements from A to B need (state) authorisation and unsanctioned movements can be punished. There are good reasons for that, no doubt. Nevertheless, there is a need to take stock of the wider implications of our current predicament.

    In this general picture, current restrictions on movement are problematic for people who do not have a home and for whom self-quarantine is hardly an option, for people with disability who remain without care, and for people, mostly women, whose home is not a safe haven but the site of insecurity and domestic abuse. Restrictions are also particularly problematic for those whose elementary freedom to move had been curtailed long before the Covid-19 outbreak but who need to move in order to find safety. Migrants embody in the harshest way the contradictions and tensions surrounding the freedom of movement and its denial today. It is not surprising that in the current climate, they tend to become one of the first targets of the most restrictive measures.
    Migrant populations who moved, or still seek to move, across borders without authorisation in order to escape danger are subjected to confinement and deterrence measures that are legitimized by often spurious references to public safety and global health. Discriminatory practices that segregate in the name of safety turn those at risk into a risk. “We are fighting a two-front war”, Hungary’s Prime Minister Viktor Orban declared, “one front is called migration, and the other one belongs to the coronavirus, there is a logical connection between the two, as both spread with movement.” The danger of conflating the declared war on the pandemic with a war on migration is great, and the human costs are high. Restrictive border measures endanger the lives of vulnerable populations for whom movement is a means of survival.

    About two weeks ago, it was documented that the Greek coastguard opened fire on migrants trying to escape via the Aegean Sea and the land border between Turkey and Greece. Some people died while many were injured in a hyperbolic deployment of border violence. The European reaction, as embodied in the person of European Commission president Ursula von der Leyen, was to refer to Greece as Europe’s “shield”. About a week ago, it was uncovered that a migrant boat with 49 people on board which had already reached a European search and rescue zone was returned to Libya through coordinated measures taken by the EU border agency Frontex, the Armed Forces of Malta, and Libyan authorities. In breach of international law and of the principle of non-refoulement, the people were returned to horrid migrant camps in Libya, a country still at war. With no NGO rescuers currently active in the Mediterranean due to the effects of the Coronavirus, more than 400 people were intercepted at sea and forcibly returned to Libya over the past weekend alone, over 2,500 this year.

    Such drastic migration deterrence and containment measures endanger the lives of those ‘on the move’ and exacerbate the risk of spreading the virus. In Libyan camps, in conditions that German diplomats once referred to as “concentration-camp-like”, those imprisoned often have extremely weakened immune systems, often suffering from illnesses like tuberculosis. A Coronavirus outbreak here would be devastating. Doctors without Borders have called for the immediate evacuation of the hotspot camps on the Greek Islands, highlighting that the cramped and unhygienic conditions there would “provide the perfect storm for a COVID-19 outbreak”. This is a more general situation in detention camps for migrants throughout Europe and elsewhere, as it is in ‘regular’ prisons worldwide.

    Together with the virus, a politics of fear spreads across the world and prompts ever-more restrictive measures. Besides the detrimental consequences of curtailing the freedom to move already experienced by the most vulnerable, the worry is that many of these measures will continue to undermine rights and freedoms even long after the pandemic has been halted. And yet, while, as Naomi Klein notes, “a pandemic shock doctrine” may allow for the enactment of “all the most dangerous ideas lying around, from privatizing Social Security to locking down borders to caging even more migrants”, we agree with her that “the end of this story hasn’t been written yet.”

    The situation is volatile – how it ends depends also on us and how we collectively mobilize against the now rampant authoritarian tendencies. All around us, we see other reactions to the current predicament with new forms of solidarity emerging and creative ways of taking care of “the common”. The arguments are on our side. The pandemic shows that a global health crisis cannot be solved through nationalistic measures but only through international solidarity and cooperation – the virus does not respect borders.

    Its devastating effects strengthen the call to universal health care and the value of care work, which continues to be disproportionately women’s work. The pandemic gives impetus to those who demand the right to shelter and affordable housing for all and provides ammunition to those who have long struggled against migrant detention camps and mass accommodations, as well as against migrant deportations. It exposes the ways that the predatory capitalist model, often portrayed as commonsensical and without alternatives, provides no answers to a global health crisis while socialist models do. It shows that resources can be mobilized if the political will exists and that ambitious policies such the Green New Deal are far from being ‘unrealistic’. And, the Coronavirus highlights how important the elementary freedom of movement continues to be.
    The freedom of movement, of course, also means having the freedom not to move. And, at times, even having the freedom to self-confine. For many, often the most vulnerable and disenfranchised, this elementary freedom is not given. This means that even during a pandemic, we need to stand in solidarity with those who take this freedom to move, who can no longer remain in inhumane camps within Europe or at its external borders and who try to escape to find safety. Safety from war and persecution, safety from poverty and hunger, safety from the virus. In this period in which borders multiply, the struggle around the elementary freedom of movement will continue to be both a crucial stake and a tool in the fight against global injustice, even, or particularly, during a global health crisis.


    https://www.opendemocracy.net/en/can-europe-make-it/what-happens-freedom-movement-during-pandemic

    #liberté_de_circulation #liberté_de_mouvement #coronavirus #épidémie #pandémie #frontières #virus #mobilité #mobilité_humaine #migrations #confinement #autorisation #restrictions_de_mouvement #guerre #guerre_aux_migrants #guerre_au_virus #danger #fermeture_des_frontières #pandemic_shock_doctrine #stratégie_du_choc #autoritarisme #solidarité #solidarité_internationale #soins_de_santé_universels #universalisme #nationalisme #capitalisme #socialisme #Green_New_Deal #immobilité #vulnérabilité #justice #Sandro_Mezzadra #Maurice_Stierl

    via @isskein
    ping @karine4

  • #Pierre_Charbonnier : « Mon principal espoir est que le zadiste, le jacobin écolo et le #technocrate_radicalisé pactisent »
    https://lvsl.fr/pierre-charbonnier-mon-principal-espoir-est-que-le-zadiste-le-jacobin-ecolo-et-


    #polanyi

    Les arrangements #techno-politiques des Trente Glorieuses ont permis une amélioration de la condition sociale pour beaucoup de gens mais aujourd’hui, outre le fait qu’à l’échelle globale ils ont été très injustes, ce sont précisément les idéologies anti-démocratiques voire proto-fascistes qui renaissent pour prolonger l’utopie de la croissance infinie. On peut difficilement trouver un paradoxe historique plus parlant : ce qui a été mis en place pour nous protéger des grandes explosions politiques est en train d’en provoquer une nouvelle.

    « Les arrangements techno-politiques des #Trente_Glorieuses ont permis une amélioration de la condition sociale pour beaucoup de gens mais aujourd’hui, outre le fait qu’à l’échelle globale ils ont été très injustes, ce sont précisément les idéologies anti-démocratiques voire proto-fascistes qui renaissent pour prolonger l’utopie de la #croissance_infinie. On peut difficilement trouver un paradoxe historique plus parlant : ce qui a été mis en place pour nous protéger des grandes explosions politiques est en train d’en provoquer une nouvelle.« 

  • Les agricultures urbaines se développent rapidement et agissent sur la construction d’une ville jardinée, durable, résiliente
    #agriculture #environnement #écologie #ville #jardins #durabilité

    https://sms.hypotheses.org/20744

    Ces dernières années, les villes sont soumises à de nouveaux défis. Elles doivent combattre les épisodes de canicule, les risques d’inondation et rechercher une autosuffisance alimentaire : c’est ce que l’on nomme la ville durable. Pour y parvenir, les municipalités prennent en considération les différents enjeux, qu’ils soient sociaux, économiques ou environnementaux et les intègrent dans leur urbanité. Dans ce contexte, les agricultures urbaines se développent et agissent sur la fabrication d’une ville jardinée, durable voire résiliente. Elles réactivent ainsi l’utopie d’une autosuffisance alimentaire en se saisissant des terres fertiles épargnées par l’artificialisation des sols ou en s’emparant de nouveaux espaces comme les sous-sols ou sur les toits.

    Un exemple à analyser : en 2013 la Clinique Pasteur de Toulouse installe sur son toit le plus grand jardin potager suspendu français. 200 jardinières occupent ainsi une surface potagère de 500 m2 et recouvrent la toiture de cet établissement de santé. Ce jardin potager permet de récolter chaque année plus de 400 kilos de légumes et de fruits dont profitent les personnels et les patients. Mais la production n’est pas l’unique objectif de l’action potagère : les objectifs sont aussi sociaux, thérapeutiques, environnementaux et paysagers (...)

    • Raaa, je me suis fadée cette #communication_institutionnelle et ce #green_washing pour voir un film ennuyeux qui ne fait rien avancer et ne comporte aucune critique. Mais c’est tout le problème de ces films publicitaires.

      J’ai été durant plus de 6 mois dans cette clinique Pasteur, avec 2 opérations chirurgicales en juillet et aout 2017 donc en plein été avec 12 jours allités, puis un traitement quotidien de 6 semaines de radiothérapie à l’automne et quelques jours de kiné (j’ai abandonné vu le manque de considération) dans ses batiments.
      Pourtant, malgré la plaquette prometteuse qui m’a été donnée et mon intérêt comme mes demandes pour ce potager si bien vanté, je n’ai jamais mangé un seul légume poussé là-haut.
      Le toit sur lequel est fait le potager n’est pas l’hôpital qui est à côté mais l’Atrium, batiment qui accueille les patient·es pour leur traitement anti cancéreux, chimio ou radiothérapie. L’accueil y est glacial, je ne vais pas m’étendre sur les maltraitances perçues mais il convient de savoir que les patients passent à la chaine pour que le traitement de tous puisse être assuré. Pour accéder à l’Atrium en voiture, il faut payer pour y stationner, même si c’est le temps d’un soin, sinon les chauffeurs de taxis se garent en bas. La clinique Pasteur est en pleine ville, avec une avenue en bas qui est une entrée dans Toulouse et donc assez polluée par les bagnoles.

      A 40:00 le film montre la préparation de 8 entrées par 2 personnes avec quelques tomates poussées sur le toit. Je me demandais quel genre de tirage au sort ils font pour attribuer ces assiettes à 8 heureux patients.

      Bon, c’est gentil tout plein de faire des potagers pollués sur le toit du service d’oncologie, mais je me demande à qui et à quoi ça sert, à part pour lustrer le blason de la clinique.

    • #greenwashing et pendant ce temps rien pour sauver les ceintures maraîchères et empêcher les métropoles de s’étendre sur les terres agricoles (sachant que les bassins de population urbains sont sur les terres les plus fertiles du monde, il n’y a pas de mystère). Moi aussi, ça me gonfle, cet enthousiasme pour l’agriculture urbaine et je ne sauve que la culture de champignons sur déchets urbains (le marc de café).

    • Pour appuyer ce que tu dis @antonin1 à Toulouse le quartier du Mirail et ses tours HLM, comme la fac du Mirail, ont été implantés sur les terres limoneuses de la Garonne.
      Il y a 60 ans, des paysans maraichers y vivaient et fournissaient aux citadins les meilleurs fruits et légumes.
      Dixit le père Noël (véridique), papy du Mirail chez qui je faisais le potager dans l’ancienne ferme de ses parents et qui disait atterré : « Mes parents et tous les paysans d’ici ont tamisé cette terre pour en retirer les petits galets et ils ont construits des tours dessus. »

      @mondes ce serait sympa de répondre à la critique qu’ouvre @vraiment sur ce problème

  • La nouvelle phase « verte » du capitalisme et son avant-garde
    "écologique et citoyenne"...

    Miquel Amorós est un intellectuel écolibertaire espagnol connu entre
    autres pour ses analyses mettant en lumière les contradictions et la
    fausse radicalité parmi les militants écologistes et d’extrème gauche
    (y compris anarchistes).

    Un très grand nombre de listes candidates aux élections municipales se
    disent "écologistes et citoyennes".

    Leurs candidat(e)s ainsi que leurs supporters (et trices) devraient lire ce texte ;-)

    https://lepasdecote.video.blog/2020/01/31/les-nouveaux-habits-du-developpementalisme-capitaliste

    • Le texte est bien écrit mais c’est une opposition somme toute classique entre réforme et révolution avec un côté assez (de façon caricaturale) marxiste : la révolution viendra toute seule suite aux contradictions du capitalisme qui le feront s’écrouler.

    • Encore une lecture de travers, que ce soit du courant anti-industriel ou de la critique de la valeur etc : à aucun moment ni les uns ni les autres ne disent que la révolution viendra toute seule, mais que les insurrections, le bordel, etc, va arriver tellement ce sera dur de continuer à vivre sous ce mode de vie (et c’est déjà largement le cas, un peu partout dans le monde, ce n’est pas du tout « dans le futur »).

      Mais cela n’implique en rien du tout que ça va être mieux ensuite, puisque ça peut parfaitement aboutir à un monde plus barbare, ou à mettre au pouvoir une autre caste de sauveurs à la place de l’ancienne, plutôt que de chercher à vivre plus libres, plus autonomes, aussi bien matériellement que politiquement.

      Et pour ce texte précisément, la conclusion est très claire : « Si la société civile parvient à s’organiser en dehors des institutions et des bureaucraties ». Sinon non. Donc aucune super révolution obligatoire mécaniquement.

    • #Green_New_Deal
      Voir peut-être aussi : https://seenthis.net/messages/814673

      [edit]
      A propos de « XR », un collectif appelé « the Wretched of the Earth » (les Damné·es de la Terre) avait publié une lettre ouverte adressée à la soit disant « rebellion » :

      https://www.redpepper.org.uk/an-open-letter-to-extinction-rebellion

      @val_k en avait fait une traduction écrite et audio en français et l’avait publiée sur archive.org. Mais comme je suis infoutu d’en retrouver le lien, je pose son texte ici :

      Lettre ouverte à Extinction Rebellion
      "La lutte pour la justice climatique est le combat de nos vies, et nous devons le faire correctement."

      Lettre des collectifs formant Les Damnés de la Terre (Wretched of The Earth) publié sur le site du magazine Red Pepper le 3 mai 2019.
      Wretched of The Earth est un collectif communautaire anglais pour les groupes et les peuples indigènes, noirs, métisses et de la diaspora qui réclament la justice climatique et qui agissent en solidarité, tant au Royaume-Uni que dans le Sud.
      Cette lettre a été écrite en collaboration avec des dizaines de groupes alliés. Alors que s’achevaient les semaines d’action appelées par Extinction Rebellion, nos groupes se sont réunis pour réfléchir sur le récit, les stratégies, les tactiques et les revendications d’un mouvement climatique revigoré au Royaume-Uni. Dans cette lettre, nous formulons un ensemble de principes et de demandes fondamentaux enracinés dans la justice et nous considérons comme crucial que le mouvement tout entier en tienne compte alors que nous continuons à élaborer une réponse à "l’urgence climatique".

      Cher Extinction Rebellion,

      L’émergence d’un mouvement de masse comme Extinction Rebellion (XR) est le signe encourageant que nous avons atteint un moment propice dans lequel il existe à la fois une conscience collective de l’immense danger qui nous attend et une volonté collective de le combattre. Une masse critique est d’accord avec la lettre ouverte qui lance XR quand elle déclare : « Si nous continuons sur notre voie, l’avenir de notre espèce est sombre. »

      Dans le même temps, pour construire un avenir différent, voire même pour l’imaginer, nous devons comprendre ce qu’est cette « voie » et comment nous en sommes arrivés a un monde tel que nous le connaissons maintenant. « La Vérité » de la crise écologique est que nous ne sommes pas arrivés ici par une série de petites erreurs, mais que nous avons été poussés par des forces puissantes qui ont conduit la répartition des ressources de la planète entière et la structuration de nos sociétés. Les structures économiques qui nous dominent ont été créées par des projets coloniaux dont le seul but est la poursuite de la domination et du profit. Pendant des siècles, le racisme, le sexisme et le classisme ont été nécessaires pour que ce système soit maintenu et ont façonné les conditions dans lesquelles nous nous trouvons.

      Une autre vérité est que pour beaucoup, l’austérité n’appartient pas à « l’avenir ». Pour ceux d’entre nous qui sont indigènes, de la classe ouvrière, noirs, métisses, queer, trans ou handicapés, l’expérience de la violence structurelle est une partie intégrante de notre droit de naissance. Greta Thunberg appelle les dirigeants mondiaux à agir en leur rappelant que « notre maison est en feu ». Pour beaucoup d’entre nous, la maison est en feu depuis longtemps : chaque fois que la vague de violence écologique monte, nos communautés, en particulier dans les pays du Sud, sont toujours les premières touchées. Nous sommes les premiers à faire face à une mauvaise qualité de l’air, à la faim, aux crises de santé publique, à la sécheresse, aux inondations et aux déplacements.

      XR déclare que « la science est claire : il est entendu que nous sommes confrontés à une urgence mondiale sans précédent. Nous nous trouvons dans une situation de vie ou de mort. Nous devons agir maintenant. » Vous ne réaliserez peut-être pas que lorsque vous vous concentrez sur la science, vous passez souvent à côté du feu et de nous - vous passez à côté de nos histoires de lutte, de dignité, de victoire et de résilience. Et vous passez à côté de la vaste connaissance intergénérationnelle de l’unité avec la nature qu’ont nos peuples. Les communautés indigènes nous rappellent que nous ne sommes pas séparés de la nature et que protéger l’environnement, c’est aussi nous protéger. Pour survivre, les communautés des pays du Sud continuent à projeter la vision et la construction de nouveaux mondes libres de la violence du capitalisme. Nous devons à la fois nous concentrer sur ces expériences et reconnaître ces savoirs là.

      Nos communautés sont en feu depuis longtemps et ces flammes sont attisées par notre exclusion et notre silenciation. Sans intégration de nos expériences, toute réponse à cette catastrophe ne changera pas la manière complexe dont les systèmes sociaux, économiques et politiques façonnent nos vies - offrant à certains un passage facile dans la vie en en faisant supporter le coût à d’autres. Pour envisager un avenir dans lequel nous serons tous libérés des causes profondes de la crise climatique - capitalisme, extractivisme, racisme, sexisme, classisme, capacitisme et autres systèmes d’oppression - le mouvement pour le climat doit refléter les réalités complexes de la vie de chacun dans leur narration.

      Et cette complexité doit également être répercutée dans les stratégies. Beaucoup d’entre nous sont exposés au risque d’arrestation et de criminalisation. Nous devons peser avec soin les coûts qui peuvent être infligés à nous et à nos communautés par un État qui est déterminé à cibler ceux qui sont racialisés avant ceux qui sont blancs. La stratégie de XR, avec comme tactique première d’être arrêté, est valable - mais elle doit être soutendue par une analyse continue de son privilège ainsi que de la réalité de la violence de la police et de l’État. Les participants XR devraient utiliser leur privilège de pouvoir risquer une arrestation tout en soulignant la nature racialisée du maintien de l’ordre. Bien qu’une partie de cette analyse ait commencé à être réalisée, tant qu’elle n’est pas au cœur de l’organisation de XR, ce n’est pas suffisant. Pour faire face au changement climatique et à ses racines dans les inégalités et la domination, il faudra une diversité et une pluralité de tactiques et de communautés afin de co-créer le changement transformateur nécessaire.

      Nous saluons l’énergie et l’enthousiasme que XR a apporté au mouvement écologiste, et cela nous donne l’espoir de voir autant de personnes prêtes à agir. Mais comme nous l’avons souligné ici, nous estimons que certains aspects essentiels de leur approche doivent évoluer. Cette lettre appelle XR à faire davantage dans l’esprit de ses principes, qui disent qu’ils « travaillent à la construction d’un mouvement participatif, décentralisé et inclusif ». Nous savons que XR a déjà organisé divers exercices d’écoute et a reconnu certaines des lacunes de son approche. Nous espérons donc que XR et ses membres apprécieront notre contribution.

      Alors que XR achève cette période d’actions, nous espérons que notre lettre propose quelques réflexions utiles pour la suite des choses. La liste des demandes que nous présentons ci-dessous ne prétend pas être exhaustive, mais offrir un point de départ qui souligne les conversations dont nous avons un besoin urgent.

      Les Damnés de la Terre (Wretched of the Earth) ainsi que de nombreux autres groupes, considèrent les revendications suivantes comme cruciales pour la rébellion de justice climatique :

       Mettre en œuvre une transition axée sur la justice afin de réduire à zéro les émissions de carbone du Royaume-Uni d’ici 2030, dans le cadre de sa juste part pour maintenir le réchauffement en dessous de 1,5 ° C ; cela comprend l’arrêt de tous les projets de fracturation, la gratuité des solutions de transport et du logement décent, la réglementation et la démocratisation des entreprises et la restauration des écosystèmes.

       Passer un Nouveau Pacte Vert Mondial pour assurer le financement et la technologie des pays du Sud grâce à la coopération internationale. La justice climatique doit inclure les réparations et la redistribution ; une économie plus verte en Grande-Bretagne obtiendra très peu de résultats si le gouvernement continue d’empêcher les pays vulnérables de faire de même avec une dette écrasante, des accords commerciaux inéquitables et l’exportation de ses propres industries extractivistes mortelles. Ce "Green New Deal" inclurait également la fin du commerce des armes. Les guerres ont été créées pour servir les intérêts des entreprises - les plus grandes transactions d’armes ont livré du pétrole ; tandis que les plus grandes armées du monde sont les plus grandes consommatrices d’essence.

       Tenir les sociétés transnationales pour responsables de leurs actes en créant un système qui les réglemente et les empêche de pratiquer la destruction mondiale. Cela impliquerait de se débarrasser de nombreux accords de commerce et d’investissement existants qui consacrent la volonté de ces sociétés transnationales.

       Retirer la planète des marchés boursiers en restructurant le secteur financier pour le rendre transparent, démocratisé et durable, tout en décourageant les investissements dans les industries extractives et en subventionnant les programmes relatifs aux énergies renouvelables, la justice écologique et les programmes de régénération.

       Mettre fin à l’environnement hostile des murs et des clôtures, des centres de détention et des prisons utilisés contre les communautés racialisées, migrantes et réfugiées. Au lieu de cela, le Royaume-Uni devrait reconnaître ses responsabilités historiques et actuelles dans la conduite du déplacement des peuples et des communautés et honorer ses obligations à leur égard.

       Garantir des communautés florissantes dans les pays du Nord et du Sud dans lesquelles tout le monde a droit à une éducation gratuite, à un revenu suffisant, qu’il soit au travail ou non, à des soins de santé universels, y compris un soutien au bien-être mental, des transports abordables, une alimentation saine à prix abordable, un emploi et logement digne, une participation politique significative, un système de justice transformatrice, les libertés liées au genre et à la sexualité et, pour les personnes handicapées et les personnes âgées, de vivre de manière autonome dans la communauté.

      La lutte pour la justice climatique est la lutte de nos vies et nous devons la mener correctement. Nous partageons cette réflexion d’un lieu d’amour et de solidarité, de groupes et de réseaux travaillant avec des communautés en première ligne, unis dans l’esprit de construire un mouvement pour la justice climatique qui ne fasse pas payer les plus pauvres des pays riches pour faire face à la crise climatique, et refuse de sacrifier les peuples du Sud pour protéger les citoyens du Nord. Il est essentiel que nous restions responsables devant nos communautés et envers tous ceux qui n’ont pas accès aux centres de pouvoir.
      Sans cette responsabilité, l’appel à la justice climatique est vide.

      Les Damnés de la Terre (Wretched of the Earth).

    • @rastapopoulos
      Tu cites la dernière phrase qui effectivement commence par un conditionnel précautionneux mais juste avant voilà ce qui est écrit :

      Le jour où le système techno-industriel — géré par les marchés ou par l’État —, cessera de répondre aux besoins d’une partie importante de la population ou, en d’autres termes, lorsque les conditions météorologiques ou quelque autre facteur enrayera l’approvisionnement, viendra le temps des insurrections. Un système défaillant, qui entrave la mobilité de ses sujets et les menace de mort par inanition n’a pas d’avenir. Il est probable que, dans le feu de l’action, des structures communautaires — fondamentales pour assurer l’autonomie des révoltes — seront reconstruites.

      Si c’est pas du messianisme révolutionnaire ça, alors c’est que je ne sais vraiment pas lire. Ce qui me frappe vraiment dans ce genre de littérature, c’est qu’à part conchier les trucs réformistes (certes souvent avec des raisons valables) rien n’est vraiment construit ce qui fait qu’au final on a juste l’impression que l’unique but est donc vraiment de conchier les trucs réformistes (et pour se justifier on dit qu’un jour y aura l’insurrection... et voilà). La présentation de l’auteur et du texte fait par @marclaime ne dit pas autre chose. On a déjà vu ça dans le militantisme trotskiste (et sûrement d’autres courants) qui passait son temps à décrier les autres sectes du même acabit qu’eux même, ce serait bien de ne pas recommencer (ou continuer)...

    • J’insiste : si tu confonds « insurrection » et « révolution », ya clairement un problème de lecture important… :)

      Il n’y a aucun messianisme dans ta citation, c’est un fait établi qu’il y a déjà des insurrections un peu partout, dès que les gens ont faim, n’arrivent plus à joindre les deux bouts, n’arrivent plus à vivre la vie que nous fait mener le capitalisme. La question c’est une fois qu’on s’est insurgé, qu’est-ce qui advient ? Et là il n’y a aucune assurance que ça aboutisse à quelque chose de positif, d’émancipateur, et cela dépend de la condition que j’ai cité plus haut.

      1) Vie tellement pourrie qu’on n’arrive même plus à subvenir aux besoins de base (manger, habiter, etc) => insurrection.
      2) Si on parvient à s’organiser de manière autonome (aussi bien politiquement : anarchisme, que matériellement : sans être dépendants d’industries énormes) => révolution.

      L’un est totalement sûr et déjà le cas un peu partout dans le monde, l’autre est totalement incertain et ça peut parfaitement aboutir à plus de barbarie (daesh, régimes autoritaires, etc).

    • C’est sûrement une question de vocabulaire mais cela dit je ne déclarerais pas que c’est « totalement sûr » que les insurrections adviendront de façon systématique. Pour parler de ce qui se passe chez nous, cela dépend par exemple si on considère que le mouvement des gilets jaunes est une insurrection ou une simple révolte d’une petite fraction de la population. Je dis ça car je travaille dans une petite entreprise et c’est tout simplement incroyable de constater la veulerie dont peuvent faire preuve la plupart de mes collègues (tous méprisants envers les gilets jaunes, ricanant quand les manifestations contre la réforme des retraites passent devant l’entreprise... Et j’ai vu ça dans d’autres emplois, généralement au mieux on a le droit à de l’indifférence). Bref, on peut très bien passer directement à la case dictature sans passer par la case insurrection/révolution, c’était le sens de mon commentaire précédent.

  • « Green New Deal » : comment transposer les propositions d’AOC en Europe - Page 1 | Mediapart
    https://www.mediapart.fr/journal/international/210120/green-new-deal-comment-transposer-les-propositions-d-aoc-en-europe?onglet=

    Ce dernier élément est clé. La garantie de l’emploi est l’articulation nécessaire entre l’ambition environnementale et l’exigence sociale qui est au cœur du projet. De quoi s’agit-il ? Comme cela a déjà été expliqué sur Mediapart, il s’agit de fournir un emploi rémunéré à un salaire « décent » à tous ceux qui désirent travailler. Dans l’esprit du « Green New Deal », ces emplois sont financés par le gouvernement, mais déterminés par les collectivités locales en fonction de leurs besoins. C’est, au reste, un des éléments les plus importants de ce projet : la proposition d’emploi garanti s’accompagne d’une définition des besoins, notamment en matière écologique, mais pas seulement. Or, cette réflexion est indispensable au combat commun contre le réchauffement climatique et les inégalités.

    #green_new_deal #mmt #CGT #ATTAC #Greenpeace #OCS

  • Main basse sur l’#eau | ARTE
    https://www.arte.tv/fr/videos/082810-000-A/main-basse-sur-l-eau

    Le prometteur marché de l’eau s’annonce comme le prochain casino mondial. Les géants de la finance se battent déjà pour s’emparer de ce nouvel « or bleu ». Enquête glaçante sur la prochaine bulle spéculative.

    Réchauffement climatique, pollution, pression démographique, extension des surfaces agricoles : partout dans le monde, la demande en eau explose et l’offre se raréfie. En 2050, une personne sur quatre vivra dans un pays affecté par des pénuries. Après l’or et le pétrole, l’"or bleu", ressource la plus convoitée de la planète, attise les appétits des géants de la #finance, qui parient sur sa valeur en hausse, source de #profits mirobolants. Aujourd’hui, des #banques et fonds de placements – Goldman Sachs, HSBC, UBS, Allianz, la Deutsche Bank ou la BNP – s’emploient à créer des #marchés porteurs dans ce secteur et à spéculer, avec, étrangement, l’appui d’ONG écologistes. Lesquelles achètent de l’eau « pour la restituer à la nature », voyant dans ce nouvel ordre libéral un moyen de protéger l’environnement.

    En Australie, continent le plus chaud de la planète, cette #marchandisation de l’eau a pourtant déjà acculé des fermiers à la faillite, au profit de l’#agriculture_industrielle, et la Californie imite ce modèle. Face à cette redoutable offensive, amorcée en Grande-Bretagne dès #Thatcher, la résistance citoyenne s’organise pour défendre le droit à l’eau pour tous et sanctuariser cette ressource vitale limitée, dont dépendront 10 milliards d’habitants sur Terre à l’horizon 2050.

    De l’Australie à l’Europe en passant par les États-Unis, cette investigation décrypte pour la première fois les menaces de la glaçante révolution en cours pour les populations et la planète. Nourri de témoignages de terrain, le film montre aussi le combat, à la fois politique, économique et environnemental, que se livrent les apôtres de la #financiarisation de l’eau douce et ceux, simples citoyens ou villes européennes, qui résistent à cette dérive, considérant son accès comme un droit universel, d’ailleurs reconnu par l’#ONU en 2010. Alors que la bataille de la #gratuité est déjà perdue, le cynisme des joueurs de ce nouveau #casino mondial, au sourire carnassier, fait frémir, l’un d’eux lâchant : « Ce n’est pas parce que l’eau est la vie qu’elle ne doit pas avoir un prix. »

  • Attention ! Ce blog « carbure » au #nihilisme.

    Où l’on déconstruit l’idéologie du #green_new_deal en égratignant au passage son égérie suédoise en laissant les lecteur·rices sur leurs « fins ». Le communisme pourra-t-il mieux faire ? Pas si sûr ...
    (Je vous en propose ci-dessous le passage émotionnellement le plus neutre).

    Le vert est la couleur du dollar. A propos de Greta et de la transition technologique – carbure
    https://carbureblog.com/2019/11/01/le-vert-est-la-couleur-du-dollar-a-propos-de-greta-et-de-la-transition-

    Le capitalisme n’est pas une technostructure qui finirait par devenir obsolète et par s’arrêter faute de matières premières, mais un rapport social d’exploitation, c’est-à-dire une domination de classe fondée sur l’extraction de plus-value qui veut se maintenir pour elle-même, quelles que soient les conditions et l’arrière-plan catastrophique ou non de cette domination. La catastrophe écologique et les perturbations sociales qu’elle risque d’entraîner ne constituent pas une remise en cause de ce rapport en tant que tel, à moins de considérer que l’essence du capital repose dans une bonne vie bien organisée : elle vient simplement s’ajouter aux conditions de crise. Dans ces circonstances, que quelques personnes possédant du terrain parviennent à pratiquer la permaculture entre elles ou à mettre des revenus en commun n’a rien d’impossible, tant qu’elles ont les moyens de payer et que l’Etat ne les considère pas comme une menace (ce qui inscrit leur absolue marginalité dans la liste de leurs conditions nécessaires d’existence). Et outre la question de la possibilité de ces expériences, on peut aussi se demander si elles sont bien désirables : l’importance du patrimoine foncier dans ce genre d’alternatives, telles qu’elles peuvent déjà exister, et l’exploitation des plus précaires par de petits propriétaires peuvent nous donner une idée de la structure de classe qui s’y dessine. La classe moyenne n’a jamais rien fait d’autre que tenter de s’extraire, même précairement, de la condition commune : qu’elle vote ou qu’elle plante des choux, cela n’a jamais rien changé à quelque catastrophe que ce soit. Il n’y a rien d’étonnant à ce que même à la dernière extrémité, en une ultime robinsonnade, elle ne parvienne pas à imaginer autre chose que ce qu’elle connaît, et préfère considérer que la catastrophe est inévitable qu’envisager le dépassement des rapports sociaux qui la constituent comme classe.

    #critique_de_la_valeur #marchandisation #communisme #communisation #capitalisme #lutte_des_classes

  • Council of Ministers amendments on the green line code in violation of the EC Regulation

    On 27.11.2019, the Council of Ministers decided, without any consultation with either the stakeholders concerned in Cyprus or with the European Union/ Commission, to proceed to the amendment of the Code for the implementation of the Regulation of the European Council (866/2004/ΕC) on the Green Line. According to this decision:

    All people passing through the line (including Cypriot citizens, hitherto not checked) will be checked.
    Unaccompanied minors not escorted by parents will not be allowed to cross unless they have written authorisation by their parents.
    No third-country nationals (TCN) with temporary residence permit, except family members of Cypriot or other European citizens, and with long-term residence permit, will be allowed to pass through the line.
    The passage of people will be permitted for humanitarian grounds, medical reasons, etc
    In addition, the Council of Ministers has decided to submit bills to the House of Representatives for imposing administrative fines (in monetary terms) to people using ports and airports in the areas not under the control of the government, without clarifying as to whether these fines will be imposed on everyone or only on TCN.

    KISA is of the opinion that the government should have informed both Cypriot society as well as the EC for the proposed amendments to the Code for the implementation of the green line Regulation. It is not coincidental that the EC has already expressed the need for its approval of any amendments.

    KISA believes that the decision to restrict and/or prohibit the crossing of legally residing migrants through the green line constitutes prohibited discrimination and is not permitted by the Council Regulation, which renders it a direct violation of the Regulation itself.

    From a legal point of view, the government does have the right to impose universal checks of identity verification of persons passing through the line. However, as it has decided to apply the Regulation strictly 15 years later, it should do so after the setting up of the necessary infrastructe and required staff increases at the checkpoints so as to ensure people’s smooth movement. The immediate implementation of the above checks, without all the above, constitutes disproportionate restrictions and obstacles to the free movement of people through the line.

    KISA also condemns the government’s attempt to connect, by using misleading and populist rhetoric, the amendments with the management of the rising number of asylum applications, irregular migration and security for domestic audience and impressing the public as, according to point 2 (d) of the decision, «third-country nationals … are not permitted to pass through the line … unless they apply for asylum». The proposed measures that the government has connected with the increasing refugee flows to Cyprus, due to the continuing wars in the area, cannot objectively speaking bring about the objectives pursued by the government (reduction of the refugee flows), as no one can restrict the right to asylum, which is a fundamental right according to the EU Charter of Fundamental Rights.

    Instead of the government asking for EU’s assistance and support to enable it to meet the severe pressures on the asylum system and the reception of asylum seekers in Cyprus, it will waste European and national resources on the green line checks and undue hassle of legally residing migrants as well as Cypriots at the checkpoints.

    KISA is of the opinion that the new policy entails serious risks to the Cyprus question as, on the one hand, it hinders communication and contact between the areas controlled and not under the control of the government and, on the other, it turns the green line into a hard border, which leads to deepening the division of our country, when the objective of the Regulation is to facilitate free movement of people and cooperation between the two communities.

    Finally, KISA points out that the inclusion of the Ministry of Defence in the Ministerial Committee for migration and asylum formalises the securitisation policy on migration and asylum, a policy that has contributed substantially to harbouring racism and the rise of extreme right and neo-nazi organisations in Europe.

    KISA in cooperation with other civil society organisations intends to do all it can, including through reports/complaints to European and international organisations and agencies, against these new measures.

    https://kisa.org.cy/ministerial-amendments-on-the-green-line-code-in-violation-of-the-ec-regula
    #Chypre #green_line #fermeture_des_frontières #frontières #contrôles_systématiques #libre_circulation #Chypre_du_Nord

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    Traduction en français:

    Une décision du conseil des ministres de la République prise de manière unilatérale sans consulter les institutions européennes visant à amender la manière dont les contrôles sont exercées aux points de passage officiels de la Ligne Verte entre la République de Chypre et la république auto-proclamée turque de Chypre Nord selon un règlement européen adopté en 2004 au moment de l’entrée du pays dans l’Union européenne.

    Jusqu’à présent les citoyen.nes européen.nes et les Chypriotes pouvaient franchir la #ligne_verte et exercer leur droit à la libre circulation, ainsi que les ressortissant.es de pays non-membres de l’UE disposant d’un droit au séjour y compris touristes en court séjour) délivré par la République de Chypre.

    Désormais toutes les personnes passant par la ligne (y compris les citoyens chypriotes, jusqu’à présent non contrôlés) seront contrôlées. Le passage de personnes sera autorisé pour des raisons humanitaires, médicales, etc.

    De plus,

    Les #mineurs_non_accompagnés qui ne sont pas escortés par leurs parents ne seront pas autorisés à traverser sans l’autorisation écrite de leurs parents
    Aucun ressortissant de pays tiers (RTC) titulaire d’un permis de séjour temporaire, à l’exception des membres de la famille de Chypriotes ou d’autres citoyens européens, et titulaire d’un permis de séjour de longue durée, ne sera autorisé à franchir cette ligne.

    « En outre, le Conseil des ministres a décidé de soumettre à la Chambre des représentants des projets de loi visant à imposer des amendes administratives (en termes monétaires) aux usagers des ports et aéroports dans les zones non contrôlées par le gouvernement, sans préciser si ces amendes seront imposées à tous ou seulement aux resortissant.es d’Etats non-membres de l’UE ».

    Selon le gouvernement, ces interdictions de passage par la ligne verte n’affecteront pas les demandeurs d’asile ainsi que le rapporte cet article du Cyprus Mail. Le parti communiste AKEL a dénoncé la mise en place d’une frontière dure (hard border).

    KISA souligne que, juridiquement, de tels contrôles systématiques et sans discrimination aucune sont légaux. L’ONG poursuit en critiquant l’absence d’infrastructure et de personnel pour ce faire, alors que le règlement autorise de tels contrôles depuis son édiction, il y a 15 ans de cela, et interprète ceci comme une décision qui restreint la mobilité de manière disproportionnée qui met en danger la liberté de circulation. KISA condamne le lien fait explicitement par le gouvernement entre l’augmentation du nombre de demandeurs d’asile, de personnes migrantes en situation irrégulière, de préoccupations sécuritaires à Chypre et la nécessité de cette décision. L’association constate que demander du soutien à l’UE pour mieux accueillir ces personnes auraient été plus judicieux que de renforcer des contrôles sur la ligne verte, une démarche coûteuse, populiste et qui met à mal les efforts de coopération entre les deux communautés de chaque côté de la ligne entamés ces dernières années.

    Pour rappel, les points de passage de la ligne verte ont été ouverts en 2004 au moment de l’entrée de l’île dans l’UE. La République de Chypre n’exerce sa souveraineté que sur une partie de l’île, mais tou.tes les Chypriotes, qu’ils/elles soient Chypriotes turcs ou grecs, sont des citoyen.nes européen.nes.
    Cette décision unilatérale donne un signal peut prometteur aux (énièmes) négociations de paix en vue d’une solution engagées sous l’égide de l’ONU et relancées à Berlin le mois dernier.

    ping @reka

  • Bernie Sanders and AOC Want to Commit $180 Billion to Turn Public Housing Green – Mother Jones
    https://www.motherjones.com/environment/2019/11/bernie-sanders-and-aoc-just-unveiled-a-green-new-deal-for-public-housin

    On Thursday, New York Representative Alexandria Ocasio-Cortez and Vermont Senator Bernie Sanders introduced a new bill that would dedicate billions of dollars to energy retrofits for America’s dilapidated public housing stock. The Green New Deal for Public Housing Act would commit up to $180 billion over 10 years to upgrading 1.2 million federally owned homes.

    At a press conference outside the Capitol on Thursday, Ocasio-Cortez said a bill focused on public housing reflects the larger aim of the Green New Deal to prioritize “frontline communities”—those that are most likely to be harmed by the climate crisis. “In the Bronx alone, 2,400 public housing residents may be going without heat tonight. That is inhumane,” she said. “That is environmental injustice.”

    The bill is an effort to bag two birds with one stone. America’s public housing portfolio is in a shambles, with deferred maintenance costs nationwide running into the billions. The bill introduced by AOC and Sanders would bring that backlog up to date while also reducing the energy consumption from this aging housing stock.

    Overall, buildings are responsible for about 39 percent of global carbon emissions, and about one-third of emissions in the U.S. That puts energy retrofits front and center in debates about how to arrest climate change.

    “If we have to do all of this work anyway, what would it cost to take this a step further and do deep energy retrofits that get the nation’s entire public housing stock at or near a net-zero standard?” Fleming said.

    The bill, which is cosponsored by Oregon Senator Jeff Merkley and Massachusetts Senator Elizabeth Warren, would create some 250,000 jobs—including high-paying jobs and union jobs, as the proposal’s backers are quick to point out. Some of these would benefit public housing residents themselves. A bill that would actually put severely delayed federal upgrades into motion would not only spur new opportunities, it would promote economies of scale to boost industries in weatherization and energy retrofits, its backers say.

    “Policies such as this which protect the needs of workers, taxpayers and community should be implemented wherever public funds are spent,” said Mike Prohaska, business manager for New York’s Construction & General Building Laborers Local 79, in a statement.

    The bill would have a seismic impact in New York City, where the nation’s largest public housing agency faces deferred maintenance costs of nearly $32 billion. Federal prosecutors accused the New York City Housing Authority of “systematic misconduct, indifference and outright lies” following an investigation into elevated blood lead levels among public housing residents. A local solution to the city’s public housing crisis looks impossible. In fact, earlier this year, HUD Secretary Ben Carson named a federal monitor to oversee the the New York City Housing Authority.

    The AOC–Sanders bill also promotes public housing as a goal in itself. A provision of the bill would repeal the Faircloth Amendment, a federal rule that caps the construction of new public housing units. Data for Progress has outlined a vision for a progressive housing agenda that leans heavily on public housing and other goals that current federal law (and federal funding levels) make difficult or impossible. People’s Action, a grassroots group, introduced a policy platform called the Homes Guarantee that outlines many of the same goals.

    Housing has emerged as a high-profile issue in the Democratic primary, with numerous candidates touting a range of plans and reforms. In the fall, Ocasio-Cortez produced her own suite of protections for tenants, immigrants, children, and others, most notably a proposal for a national rent control policy. The left has found a policy arena in which they have common ground with establishment Democrats—at least in terms of big-sky proposals.

    #Green_New_Deal#Logement #Alexandria_Ocasio_Cortez #Bernie_Sanders #Ecologie #Economie #Logement_social

  • La jet-set des escrologistes, par Nicolas Casaux
    https://www.facebook.com/nicolas.casaux/posts/10156947033822523

    Dans le monde anglophone (et parfois aussi dans le monde francophone, pour certains, dont le travail est traduit en français) : George Monbiot, Naomi Klein, Bill McKibben. Dans le monde francophone : Nicolas Hulot, Cyril Dion, Aurélien Barrau, Yann Arthus-Bertrand, Isabelle Delannoy, Maxime De Rostolan. Il y en a d’autres.

    Habitués des #médias de masse, ils tiennent des #discours qui, malgré quelques différences ou nuances, forment une même et unique perspective, correspondant à la définition grand public de l’écologisme.

    Ladite perspective s’appuie sur une évaluation très partielle de la situation. Sur le plan écologique, elle tend à réduire les nombreux aspects de la #catastrophe en cours à un problème de taux de #carbone dans l’atmosphère (réchauffement climatique), et de « ressources naturelles » que la civilisation (industrielle) doit — condition sine qua non de sa perpétuation, leur ambition principale — s’efforcer de mieux gérer. Que les autres êtres vivants, les autres espèces et les communautés biotiques qu’elles forment possèdent une valeur intrinsèque, ne se réduisent pas à de simples « ressources », est rarement évoqué.

    Sur le plan social, lorsqu’ils soulignent des problèmes, nos #escrologistes pointent du doigt les #inégalités économiques ou le chômage. Certains vont jusqu’à dire du mal du capitalisme, mais ne critiquent en réalité que certains excès du système économique dominant. D’autres fois, ils dénoncent, plus honnêtement, quelque « #capitalisme dérégulé » ou « débridé » (Naomi Klein dans "Tout peut changer"). Mais ils ne parlent que très rarement, voire pas du tout, des injustices fondamentales que constituent la #propriété privée, la division hiérarchique du travail, le #travail en tant que concept capitaliste, des rapports de #domination qu’implique une organisation technique de la #société — la bureaucratie, l’État. Ils n’expliquent jamais, ou très rarement et très timidement, sans rien en tirer, qu’à l’instar de l’État en tant que forme d’organisation sociale, les régimes électoraux modernes n’ont rien de démocratique, qu’ils relèvent plutôt de l’#aristocratie élective, et que leur fonctionnement est clairement verrouillé, garanti et gardé par divers mécanismes coercitifs, y compris par la #violence physique.

    Ils se contentent d’en appeler à une sorte de nouvelle révolution verte, au moyen d’un new deal vert (Green New Deal) qu’agenceraient les gouvernants. Car aux yeux de nos escrologistes, il s’agit toujours de compter, pour sauver la situation — pardon, la #civilisation, mais aussi la planète, prétendument, puisqu’il est possible et souhaitable, d’après eux, de tout avoir — sur les dirigeants étatiques ou d’entreprise. New deal vert censé permettre de créer des tas d’emplois verts, au sein d’entreprises vertes, dirigées par des patrons verts — une exploitation verte, une #servitude verte —, de donner forme à une civilisation industrielle verte dotée de commodités technologiques vertes, smartphones verts, voitures vertes, etc., alimentés par des énergies vertes, et ainsi de suite (on parle désormais, de plus en plus, d’énergies "non-carbonées" plutôt que d’énergies "vertes", ce qui permet, à l’aide d’un autre #mensonge, de faire rentrer le #nucléaire dans le lot ; partout, vous pouvez remplacer "vert" par "non-carboné" ou "zéro carbone", ou "carboneutre", l’absurdité est la même).

    Au bout du compte, leur #réformisme à la noix vise uniquement à repeindre en vert le désastre en cours : repeindre en vert les oppressions, les dominations, les injustices. À faire croire qu’il est possible de rendre verte, durable, la civilisation technologique moderne — une rassurance dont on comprend aisément pourquoi elle est la bienvenue dans les médias de masse, pourquoi elle plait à tous ceux dont c’est la principale ambition. Un mensonge grossier : rien de ce qu’ils qualifient de vert ne l’est réellement. Une promesse creuse et, au point où nous en sommes rendus, criminelle. Affirmer, en 2019, comme le fait Aurélien Barrau dans son livre de promotion de l’écologie, pardon, de l’#escrologie, que ce qu’il faut, c’est "que nous nous engagions solennellement à ne plus élire quiconque ne mettrait pas en œuvre des mesures fermes" (pour tout repeindre en vert), "que les citoyens n’envisagent même plus de choisir pour représentant quiconque ne s’engagerait pas" (à tout repeindre en vert), zut alors.

    On peut croire à tout ça. C’est très con, mais on peut y croire. Surtout lorsqu’on fait partie des puissants, de ceux qui tirent leur épingle du désastre actuel — mais pas seulement, puisque, conditionnement aidant (c’est à ça que servent nos escrologistes) c’est même la religion dominante.

    Mais comment font certains pour continuer à dire que nous voulons tous la même chose, que nous devrions cesser de critiquer ces #éco-charlatans parce que nous voulons comme eux au bout du compte, que nous sommes tous pareils, etc. ?!

    #greenwashing

  • KLM Has a Surprising Request for Passengers: Don’t Fly

    It sounds noble, but what’s the real motive?

    If your company is in business to make money (as pretty much all companies are), how likely are you to launch a huge marketing campaign begging people not to use your product? Probably not very likely. Unless you’re #KLM Royal Dutch Airlines, in which case you’ve already done it.

    That’s right. KLM, the Netherlands’ national airline, just launched a campaign called “#Fly_Responsibly” in which it makes a surprising request of its customers: Fly less. “Do you always have to meet face-to-face?” the promotional video asks. “Could you take the train instead?”

    Wait, what? An airline is asking its passengers not to fly? Yes. Because, as KLM explains in an accompanying statement, air travel accounts for 2 to 3 percent of manmade CO2 emissions worldwide and that number is growing, as more people in more countries are climbing out of poverty and hankering to see the world. The 100-year-old airline says it’s been doing its part. In an accompanying statement, KLM says it has been replacing its fleet with more fuel-efficient planes, using sustainable fuel, and has even created a sustainable fuel plant in the Netherlands. “We work hard to get things right, but all parties involved need to join forces to create a sustainable future.”

    Some critics say this amounts to nothing more than “greenwashing.” After all, the airline still offers special deals and its website invites people to “Book a flight with KLM and visit the most incredible destinations around the world.” And indeed, in the accompanying statement, the airline explains that it won’t stop promoting air travel—after all it wants to stay in business “for our customers and for our 33,000 employees.”
    No carbon tax, please.

    Interestingly, the airline also notes in its statement that it’s opposed to a national carbon tax in the Netherlands since, it claims, passengers would simply drive to Germany or Belgium and fly from there instead. Therefore, KLM says, a carbon tax on aviation should only be imposed if it can be imposed globally—which is pretty disingenuous, because of course that’ll never happen. It also claims that a tax that isn’t invested back into the aviation industry to make it more sustainable “won’t do anything to combat climate change.” This, again, is untrue because the main point of a carbon tax is to make polluting more expensive, which causes people and companies to do less of it.

    All this talk about a carbon tax can give you a big clue as to KLM’s true motivation here. A carbon tax or cap-and-trade law seems like a non-starter in the U.S.—even in the very blue state of Washington, one was roundly defeated last election. But in Europe, the idea is very much alive. France’s huge “yellow vest” demonstrations began as opposition to a planned carbon tax that working people felt they couldn’t afford. (It was withdrawn.) But in the Netherlands, a carbon tax which would increase the price of airline tickets among many other things is in the works. My guess is that KLM hopes that by getting out ahead on this issue, it can push the government toward letting companies take voluntary action rather than writing new laws.

    KLM also says that as part of its sustainability effort it’s sharing information about sustainability with other airlines, beginning in September with a webinar with its sustainable fuel supplier, SkyNRG. Which sounds good, but since SkyNRG is in the business of selling its fuel, the webinar may amount to a big sales pitch. Perhaps more useful, though, KLM says it’s exploring connections with trains. That’s a great idea, because for a lot of passengers, transferring to a train rather than a connecting flight to go a relatively short distance will be appealing, and environmentalists believe short airplane trips in particular can and should be replaced with other forms of transportation. KLM has also been inviting passengers to pay a small extra fee that the airline will use to offset their flight and make their travel carbon neutral. It will share that system with other airlines as well.

    KLM’s motivations may not be as pure as it claims but the fact remains that the airline is taking some positive steps toward reducing its own environmental impact. For that, we should all applaud. And then do what the airline suggested and fly a little bit less.

    https://www.inc.com/minda-zetlin/klm-fly-responsibly-sustainability-environment-carbon-tax.html
    #fly_shaming #vol #avions #transport_aérien #honte #honte_de_voler #greenwashing #green_washing #taxe_carbone

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    KLM Fly Responsibly
    https://www.youtube.com/watch?v=L4htp2xxhto&feature=youtu.be

    ping @reka

  • Comment le gouvernement Macron prépare discrètement la privatisation des grandes infrastructures gazières
    https://www.bastamag.net/privatisations-ADP-Francaise-des-jeux-Engie-GRTgaz-loi-Pacte-gazoducs-port

    Dans la loi Pacte promulguée en mai 2019, il n’y a pas que la privatisation d’Aéroports de Paris et de la Française des jeux. Il y a aussi la sortie programmée de l’État du capital d’Engie et son désengagement de GRTgaz, qui exploite les gazoducs et les terminaux méthaniers français. Qu’en attendre, dans un contexte où les infrastructures gazières sont devenues une affaire de gros sous, dominée par une poignée de géants européens peu connus mais très influents ? Dans la série des privatisations à venir, (...) #Décrypter

    / A la une, #Enquêtes, #Capitalisme, #Multinationales, #Finance

    https://www.bastamag.net/IMG/pdf/3_french_tso_web.pdf

    • Collectivement, Snam, Fluxys, Enagás et GRTgaz ont dépensé 900 000 euros en lobbying à Bruxelles en 2018, et rencontré 47 fois les commissaires européens et leurs adjoints entre 2014 et 2019. À quoi s’ajoutent les structures de lobbying qu’ils ont créé conjointement comme l’alliance « Gas for Climate », Gas Infrastructure Europe, le groupe European Network of Transmission System Operators – Gas (ENTSO-G) et quelques autres. Au total, une puissance de feu cumulée de 2,2 millions d’euros. Leurs discours présentant le gaz naturel fossile comme une énergie de « transition » étant de moins en moins crédibles, ils ont tendance aujourd’hui à insister davantage sur les perspectives du « gaz vert ». Le terme est utilisé pour désigner un ensemble de technologies pas toutes très écologiques et qui, en tout état de cause, ne représentent aujourd’hui qu’une fraction infime du gaz que transportent leurs tuyaux. En attendant, le gaz fossile venu de Russie, du Texas, d’Algérie ou du Nigeria continuera de couler à flots, avec les émissions de gaz à effet de serre massives que cela implique.

      #privatisation #gaz #lobbying #green_washing #gazoduc #GRTgaz #Engie