• Assistantes maternelles, crèche, à domicile… Des modes de garde inégaux pour les moins de 3 ans

    Près d’un quart des parents n’ont pas accès à la solution qu’ils souhaitent pour faire garder leur enfant. 230 000 places supplémentaires seraient nécessaires dans les cinq ans à venir.

    https://www.lemonde.fr/societe/article/2019/09/09/assistantes-maternelles-creche-a-domicile-des-modes-de-garde-inegaux-pour-le
    #inégalités #gardes_d'enfants #crèches #France #inégalités_territoriales #cartographie #visualisation #enfants #enfance

  • Se l’operaio alle dipendenze del cinese è pachistano

    Che ci fa un piccolo imprenditore cinese in ginocchio? Perché solleva davanti alle telecamere e ai giornalisti un artigianalissimo cartello che recita “Cobas Comanda #Prato, Aiuto Istituzioni”? Perché alcuni operai pachistani vengono picchiati e finiscono in ospedale insieme a un sindacalista?

    Benvenuti a Prato, città di frontiera, ieri come oggi, città dove il nuovo lavorativo e imprenditoriale si presenta prima che altrove. Nei decenni del “piccolo è bello” era stato il distretto industriale per eccellenza; dagli anni Novanta è stato il distretto che ha prima accolto e poi criminalizzato l’imprenditoria dei migranti cinesi; dal 2014 è stato il luogo dove la Regione ha introdotto controlli serrati sul lavoro in maniera esplicitamente discriminante: solo le ditte cinesi sarebbero state controllate a tappeto; negli ultimi tempi, gli imprenditori cinesi di Prato – adeguandosi a un modello già in uso tra gli italiani – sono stati i primi imprenditori migranti ad impiegare massicciamente manodopera immigrata non cinese.

    Oggi Prato è la nuova frontiera di quello che si sarebbe tentati di considerare un conflitto tutto etnico: la contrapposizione tra datori di lavoro cinesi e operai pachistani nell’industria tessile e dell’abbigliamento.

    Nel distretto di Prato i cinesi erano arrivati in sordina, alla fine degli anni Ottanta, proponendosi come terzisti nell’abbigliamento per ditte finali dislocate in diverse città del Centro Nord Italia. Come operai impiegavano solo connazionali, introducendo quindi un modello di etnicizzazione del lavoro che, anche grazie al laboratorio usato come luogo di vita e di lavoro insieme, ha permesso di ristrutturare gli spazi e i tempi del lavoro: gli operai cinesi pagati a cottimo, infatti, si spostavano da un laboratorio cinese all’altro seguendo le commesse in arrivo e il bisogno di evaderle urgentemente. A poco a poco una parte dei terzisti cinesi è riuscita a fare il grande balzo imprenditoriale e ad aprire le proprie ditte finali nel “pronto moda”. Nel frattempo e con gradualità, i cinesi sono riusciti anche ad acquisire da imprenditori pratesi le tintorie che tingono per il pronto moda, ricavandosi quindi uno spazio crescente anche nel settore tessile, appannaggio tradizionale dell’imprenditoria autoctona. Oggi ci sono a Prato circa 3.700 imprese cinesi nelle confezioni e 400 nel tessile.

    Negli ultimi anni, l’organizzazione del lavoro sta cambiando drasticamente nelle imprese cinesi. Gli operai non sono più solo cinesi, ma anche pachistani, bangladesi e africani, sia nelle tintorie che nei laboratori di confezioni. A spiegare questa evoluzione contribuisce la difficoltà crescente per gli imprenditori cinesi di trovare e trattenere presso di loro operai cinesi. Questo a sua volta scaturisce dalla fine degli arrivi di manodopera a basso costo dalla Cina, e dal fatto che i cinesi che vivono in Italia da decenni, se possono, cercano impiego fuori dal manifatturiero.

    Ma il processo di multi-etnicizzazione del lavoro non è solo una reazione a questo. Scaturisce anche dalla concreta possibilità per gli imprenditori di accrescere i propri profitti, impiegando una manodopera ancor più vantaggiosa di quella cinese. Se poi sono rifugiati – come lo sono buona parte dei migranti arrivati negli ultimi anni – gli operai diventano ancora più interessanti perché maggiormente vulnerabili.

    Già qualche anno fa, nelle fasi iniziali del processo di multietnicizzazione, la stampa locale aveva mostrato come vi fosse una sorta di gerarchia degli stipendi dei diversi gruppi di immigrati: gli operai cinesi erano al top, con stipendi (perlopiù a cottimo) di circa 1.300 euro, quelli pachistani e bangladesi avevano salari più bassi di circa 300-400 euro, e gli africani guadagnavano ancora meno. Invece, i pochi italiani che lavoravano nelle tintorie cinesi – operai specializzati o consulenti, a volte ex proprietari – ricevevano compensi ben diversi. Differenze nei salari di operai cinesi e altri immigrati non cinesi sono emerse anche da uno studio che ha analizzato l’impiego di manodopera immigrata non cinese nei centri ingrosso gestiti da cinesi nel Veneto (G. D’Odorico e D. Sacchetto, Il commercio all’ingrosso cinese in Italia: prospettive storiche e presenti in un’ottica globale, in Cinesi tra le maglie del lavoro).

    La differenza fondamentale tra gli operai cinesi e gli altri operai immigrati non sta però principalmente nei divari salariali, quanto nel fatto che i gli operai cinesi, a differenza degli altri immigrati, godono di benefit tradizionalmente garantiti agli operai cinesi nelle imprese cinesi: vitto e alloggio a costo zero. Nelle interviste che abbiamo raccolto nel corso dell’estate, gli operai pachistani protestavano per questo trattamento differenziato a parità di mansioni e di ore lavorate, e facevano i calcoli su quanto si alzerebbero le loro entrate mensili se come i cinesi non dovessero pagarsi l’appartamento e il cibo.

    Inoltre, dal nostro recente lavoro sul campo, così come da una ricerca sullo sfruttamento lavorativo finanziata dal Comune di Prato (A. Cagione e G. Coccoloni, Forme di sfruttamento lavorativo a Prato), emerge il potere assoluto dei datori di lavoro cinesi che lasciano a casa all’istante gli operai pachistani o africani quando, da mesi privi di un solo giorno libero, decidono di rimanere a casa per un giorno e quando chiedono di avere un contratto di lavoro, indispensabile per ottenere il permesso di soggiorno per lavoro. Non era mai stata registrata prima tanta rigidità nei rapporti lavorativi; al contrario, un vantaggio molto apprezzato dagli operai cinesi negli ultimi anni era la maggior flessibilità dell’orario di lavoro garantita dai datori di lavoro cinesi rispetto a quelli italiani – seppur in un contesto di forte sfruttamento e auto-sfruttamento. Inoltre, mentre i contratti di lavoro degli operai cinesi sono perlopiù a tempo indeterminato o si adeguano alle esigenze dei lavoratori cinesi di rinnovare il permesso di soggiorno per lavoro o di accedere al ricongiungimento con i familiari, i contratti dei lavoratori immigrati non cinesi sono di breve durata, quando ci sono.

    Il processo di etnicizzazione gerarchizzata in atto permette di fare luce su alcuni importanti mutamenti nel mondo del lavoro. L’idea che gli immigranti facciano i lavori che gli italiani non vogliono fare è in un certo senso superata. Oggi, e sempre di più, sono i datori di lavoro stessi a cercare attivamente gli operai immigrati preferendoli ai cosiddetti autoctoni. Detto altrimenti, il processo di etnicizzazione del lavoro scaturisce (anche) da volontà imprenditoriali di sfruttare al meglio il lavoro dipendente, giocando su tutte le forme di vulnerabilità possibili. E secondo molti il processo di precarizzazione intacca prima le categorie più vulnerabili, come i migranti e i giovani, per poi estendersi a fasce sempre più vaste di lavoratori, inclusi quelli cosiddetti “di concetto”. Allo stesso tempo, questo processo di sfruttamento rapace risponde all’esigenza di contenere sempre più il costo del lavoro in settori dove la concorrenza è serrata e i margini di profitto per i terzisti sono in continuo ribasso.

    Oggi, guidati dai sindacalisti autoctoni di Si Cobas – il sindacato di base che ha condotto lotte di successo tra gli immigrati che lavorano nella logistica – i pachistani impiegati in alcune aziende tessili pratesi gestite da cinesi scendono in sciopero e bloccano la produzione. Chiedono di non lavorare 12 ore al giorno 7 giorni su 7; chiedono di non avere contratti da 2, 4 o 6, ore ma contratti adeguati al numero di ore effettivamente svolte. Gli imprenditori cinesi reagiscono male agli scioperi dei lavoratori. I sindacalisti ci raccontano di imprenditori cinesi increduli, che non sanno spiegarsi come mai gli operai possano scendere in sciopero e addirittura possano bloccare la produzione, ostacolando l’entrata e l’uscita delle merci. A fine giugno, alcuni operai pachistani in sciopero sono stati portati in ospedale perché picchiati da cinesi durante un picchetto davanti alla tintoria dove lavoravano.

    Se pensiamo alle repressioni degli scioperi in Cina e all’irregimentazione del lavoro in Asia, viene da chiedersi se questo sia un modello tutto cinese di gestione della conflittualità con gli operai.

    Ma pensare che si tratti di un modello cinese è una foglia di fico. Oggi a Prato c’è una manciata di imprenditori pachistani nel settore delle confezioni che dà lavoro a connazionali. I loro operai ci raccontano che non c’è differenza tra i datori di lavoro cinesi e quelli pachistani: i livelli di sfruttamento sono gli stessi. Inoltre, i laboratori terzisti pachistani cuciono vestiti per ditte finali cinesi e italiane. Questo permette di capire che quello che è in atto non è uno scontro etnico, ma un’evoluzione nello sfruttamento del lavoro dove ogni imprenditore sfrutta ogni occasione per massimizzare il profitto. Pensare che si tratti di un modello cinese, inoltre, serve solo a non vedere come nel nostro Paese, da anni ormai, la difesa dei diritti dei lavoratori abbia finito per essere inusuale, inaspettata e perfino demonizzata. Diverse ricerche hanno mostrato come un costante processo di normalizzazione del lavoro precario – con la giustificazione che avrebbe favorito la ripresa dell’occupazione – ha portato a una proliferazione del lavoro povero e sfruttato. Contratti finti, che dichiarano orari di lavoro ridicoli rispetto a quelli effettivi non sono tipicamente cinesi. Paghe sempre più basse, lontane da quelle contrattuali sono la regola anche tra i giovani e meno giovani autoctoni, e ferie, malattia, e maternità sono diventati vocaboli sempre più desueti nel nostro Paese in generale, e non solo tra i lavoratori migranti.

    I cinesi hanno imparato cosa si può fare in questo Paese, lo hanno imparato così bene da dire oggi a chiare lettere – con quel cartello “Istituzioni aiuto!” – che si aspettano che il governo (locale) faccia rispettare il patto (nazionale) secondo cui i sindacati devono restare immobili e gli operai devono essere grati per avere il lavoro, non importa quanto grave sia lo sfruttamento. La cartina tornasole di questo stato di cose sta in un’azione istituzionale preoccupante: il foglio di via che la questura di Prato ha presentato ai due sindacalisti di Si Cobas che mobilitano i lavoratori pachistani in sciopero per avere un lavoro (più) dignitoso.

    https://www.rivistailmulino.it/news/newsitem/index/Item/News:NEWS_ITEM:4847
    #guerre_entre_pauvres #travail #exploitation #Italie #migrations #pakistanais #chinois #industrie_textile #ethnicisation_du_travail #textile #vulnérabilité #inégalités #salaire #ouvriers #précarisation #permis_de_séjour #etnicizzazione_gerarchizzata (#ethnicisation_hiéarchisée) #ethnicisation_du_travail #capitalisme #modèle_chinois #droits_des_travailleurs #working_poors #déportabilité

    ping @albertocampiphoto @wizo

  • Bernard Lahire : « Les enseignants n’arriveront jamais tout seuls à réduire les inégalités »
    https://www.mediapart.fr/journal/france/050919/bernard-lahire-les-enseignants-n-arriveront-jamais-tout-seuls-reduire-les-

    Dans « Enfances de classe – De l’inégalité parmi les enfants »(éditions du Seuil), le sociologue Bernard Lahire raconte avec précision ce qui se joue dès le berceau. Grâce à de longs entretiens, dans toute la pyramide sociale, on découvre à quel point les déterminismes en tout genre conditionnent la réussite scolaire des petits et combien l’école ne peut pas tout.

    #éducation #inégalités_scolaires,_Sociologie,_déterminismes_sociaux,_Bernard_Lahire

  • « L’#inégalité est #idéologique et #politique » : les extraits exclusifs du nouveau livre de Thomas Piketty
    https://www.lemonde.fr/economie/article/2019/09/04/l-inegalite-est-ideologique-et-politique-les-extraits-exclusifs-du-nouveau-l

    « L’inégalité est idéologique et politique » : les extraits exclusifs du nouveau livre de Thomas Piketty
    L’économiste français publie, jeudi 12 septembre, « Capital et Idéologie » aux éditions du Seuil, un livre qui enquête sur la formation et la justification des inégalités. En exclusivité, « Le Monde » en publie les bonnes feuilles.

    Par Thomas Piketty Publié aujourd’hui à 14h00, mis à jour à 14h03

    Thomas #Piketty dans son bureau, à Paris, le 11 octobre 2016. ERIC PIERMONT / AFP
    Bonnes feuilles. [Après Le Capital au XXIe siècle, publié en 2013 et vendu à 2,5 millions d’exemplaires dans le monde, Thomas Piketty, directeur d’études à l’Ecole des hautes études en sciences sociales et professeur à l’Ecole d’économie de Paris, par ailleurs chroniqueur au Monde, publie, jeudi 12 septembre, Capital et Idéologie (Seuil), un livre d’enquête sur la formation et la justification des inégalités. En exclusivité, Le Monde publie des extraits de cet ouvrage de plus de 1 200 pages.]

    Prendre l’idéologie au sérieux
    L’inégalité n’est pas économique ou technologique : elle est idéologique et politique. Telle est sans doute la conclusion la plus évidente de l’enquête historique présentée dans ce livre. Autrement dit, le marché et la concurrence, le profit et le salaire, le capital et la dette, les travailleurs qualifiés et non qualifiés, les nationaux et les étrangers, les paradis fiscaux et la compétitivité, n’existent pas en tant que tels. Ce sont des constructions sociales et historiques qui dépendent entièrement du système légal, fiscal, éducatif et politique que l’on choisit de mettre en place et des catégories que l’on se donne. Ces choix renvoient avant tout aux représentations que chaque société se fait de la justice sociale et de l’économie juste, et des rapports de force politico-idéologiques entre les différents groupes et discours en présence. Le point important est que ces rapports de force ne sont pas seulement matériels : ils sont aussi et surtout intellectuels et idéologiques. Autrement dit, les idées et les idéologies comptent dans l’histoire. Elles permettent en permanence d’imaginer et de structurer des mondes nouveaux et des sociétés différentes. De multiples trajectoires sont toujours possibles.

    Les élites des différentes sociétés, à toutes les époques et sous toutes les latitudes, ont souvent tendance à « naturaliser » les inégalités

    Cette approche se distingue des nombreux discours conservateurs visant à expliquer qu’il existe des fondements « naturels » aux inégalités. De façon peu surprenante, les élites des différentes sociétés, à toutes les époques et sous toutes les latitudes, ont souvent tendance à « naturaliser » les inégalités, c’est-à-dire à tenter de leur donner des fondements naturels et objectifs, à expliquer que les disparités sociales en place sont (comme il se doit) dans l’intérêt des plus pauvres et de la société dans son ensemble, et qu’en tout état de cause leur structure présente est la seule envisageable, et ne saurait être substantiellement modifiée sans causer d’immenses malheurs.

    L’expérience historique démontre le contraire : les inégalités varient fortement dans le temps et dans l’espace, dans leur ampleur comme dans leur structure, et dans des conditions et avec une rapidité que les contemporains auraient souvent peiné à anticiper quelques décennies plus tôt. Il en a parfois résulté des malheurs. Mais dans leur ensemble, les diverses ruptures et processus révolutionnaires et politiques qui ont permis de réduire et de transformer les inégalités du passé ont été un immense succès, et sont à l’origine de nos institutions les plus précieuses, celles précisément qui ont permis que l’idée de progrès humain devienne une réalité (le suffrage universel, l’école gratuite et obligatoire, l’assurance-maladie universelle, l’impôt progressif). Il est très probable qu’il en aille de même à l’avenir. Les inégalités actuelles et les institutions présentes ne sont pas les seules possibles, quoique puissent en penser les conservateurs, et elles seront appelées elles aussi à se transformer et à se réinventer en permanence.

    Article réservé à nos abonnés Lire aussi « Capital et Idéologie », le nouveau livre de Thomas Piketty, ouvre l’éventail des possibles
    Mais cette approche centrée sur les idéologies, les institutions et la diversité des trajectoires possibles se différencie également de certaines doctrines parfois qualifiées de « marxistes », selon lesquelles l’état des forces économiques et des rapports de production déterminerait presque mécaniquement la « superstructure » idéologique d’une société. J’insiste au contraire sur le fait qu’il existe une véritable autonomie de la sphère des idées, c’est-à-dire de la sphère idéologico-politique. Pour un même état de développement de l’économie et des forces productives (dans la mesure où ces mots ont un sens, ce qui n’est pas certain), il existe toujours une multiplicité de régimes idéologiques, politiques et inégalitaires possibles.

    Par exemple, la théorie du passage mécanique du « féodalisme » au « capitalisme » à la suite de la révolution industrielle ne permet pas de rendre compte de la complexité et de la diversité des trajectoires historiques et politico-idéologiques observées dans les différents pays et régions du monde, en particulier entre régions colonisatrices et colonisées, comme d’ailleurs au sein de chaque ensemble, et surtout ne permet pas de tirer les leçons les plus utiles pour les étapes suivantes.

    En reprenant le fil de cette histoire, on constate qu’il a toujours existé et qu’il existera toujours des alternatives. A tous les niveaux de développement, il existe de multiples façons de structurer un système économique, social et politique, de définir les relations de propriété, d’organiser un régime fiscal ou éducatif, de traiter un problème de dette publique ou privée, de réguler les relations entre les différentes communautés humaines, et ainsi de suite. Il existe toujours plusieurs voies possibles permettant d’organiser une société et les rapports de pouvoir et de propriété en son sein, et ces différences ne portent pas que sur des détails, tant s’en faut. En particulier, il existe plusieurs façons d’organiser les rapports de propriété au XXIe siècle, et certaines peuvent constituer un dépassement du capitalisme bien plus réel que la voie consistant à promettre sa destruction sans se soucier de ce qui suivra.

    L’étude des différentes trajectoires historiques et des multiples bifurcations inachevées du passé est le meilleur antidote tout à la fois au conservatisme élitiste et à l’attentisme révolutionnaire du grand soir

    L’étude des différentes trajectoires historiques et des multiples bifurcations inachevées du passé est le meilleur antidote tout à la fois au conservatisme élitiste et à l’attentisme révolutionnaire du grand soir. Un tel attentisme dispense souvent de réfléchir au régime institutionnel et politique réellement émancipateur à appliquer au lendemain du grand soir, et conduit généralement à s’en remettre à un pouvoir étatique tout à la fois hypertrophié et indéfini, ce qui peut s’avérer tout aussi dangereux que la sacralisation propriétariste à laquelle on prétend s’opposer. Cette attitude a causé au XXe siècle des dégâts humains et politiques considérables, dont nous n’avons pas fini de payer le prix. Le fait que le postcommunisme (dans sa variante russe comme dans sa version chinoise, ainsi, dans une certaine mesure, que dans sa variante est-européenne, en dépit de tout ce qui différencie ces trois trajectoires) est devenu en ce début de XXIe siècle le meilleur allié de l’hyper-capitalisme est la conséquence directe des désastres communistes staliniens et maoïstes, et de l’abandon de toute ambition égalitaire et internationaliste qui en a découlé. Le désastre communiste a même réussi à faire passer au second plan les dégâts causés par les idéologies esclavagistes, colonialistes et racialistes, ainsi que les liens profonds qui les rattachent à l’idéologie propriétariste et hypercapitaliste, ce qui n’est pas un mince exploit.

    (…)

    Le progrès humain, le retour des inégalités, la diversité du monde
    Entrons maintenant dans le vif du sujet. Le progrès humain existe, mais il est fragile, et il peut à tout moment se fracasser sur les dérives inégalitaires et identitaires du monde. Le progrès humain existe : il suffit pour s’en convaincre d’observer l’évolution de la santé et de l’éducation dans le monde au cours des deux derniers siècles (...). L’espérance de vie à la naissance est passée d’environ 26 ans dans le monde en moyenne en 1820 à 72 ans en 2020. Au début du XIXe siècle, la mortalité infantile frappait autour de 20 % des nouveau-nés de la planète au cours de leur première année, contre moins de 1 % aujourd’hui. Si l’on se concentre sur les personnes atteignant l’âge de 1 an, l’espérance de vie à la naissance est passée d’environ 32 ans en 1820 à 73 ans en 2020.

    On pourrait multiplier les indicateurs : la probabilité pour un nouveau-né d’atteindre l’âge de 10 ans, celle pour un adulte d’atteindre l’âge de 60 ans, celle pour une personne âgée de passer cinq ou dix ans de retraite en bonne santé. Sur tous ces indicateurs, l’amélioration de long terme est impressionnante. On peut certes trouver des pays et des époques où l’espérance de vie décline, y compris en temps de paix, comme l’Union soviétique dans les années 1970 ou les Etats-Unis dans les années 2010, ce qui en général n’est pas bon signe pour les régimes concernés. Mais sur la longue durée la tendance à l’amélioration est incontestable, dans toutes les parties du monde, quelles que soient par ailleurs les limites des sources démographiques disponibles.

    Les réels progrès réalisés en termes de santé, d’éducation et de pouvoir d’achat masquent d’immenses inégalités et fragilités

    L’humanité vit aujourd’hui en meilleure santé qu’elle n’a jamais vécu ; elle a également davantage accès à l’éducation et à la culture qu’elle ne l’a jamais eu. L’Unesco n’existait pas au début du XIXe siècle pour définir l’alphabétisation comme elle le fait depuis 1958, c’est-à-dire la capacité d’une personne « à lire et écrire, en le comprenant, un énoncé simple et bref se rapportant à sa vie quotidienne ». Les informations recueillies dans de multiples enquêtes et recensements permettent toutefois d’estimer qu’à peine 10 % de la population mondiale âgée de plus de 15 ans était alphabétisée au début du XIXe siècle, contre plus de 85 % aujourd’hui. Là encore, des indicateurs plus fins, comme le nombre moyen d’années de scolarisation qui serait passé d’à peine une année il y a deux siècles à plus de huit années dans le monde aujourd’hui, et plus de douze années dans les pays les plus avancés, confirmeraient le diagnostic. A l’époque d’Austen et de Balzac, moins de 10 % de la population mondiale accédait à l’école primaire ; à celle d’Adichie et de Fuentes, plus de la moitié des jeunes générations des pays riches accèdent à l’université : ce qui était depuis toujours un privilège de classe devient ouvert à la majorité.

    Pour prendre conscience de l’ampleur des transformations en jeu, il convient également de rappeler que la population humaine tout comme le revenu moyen ont été multipliés par plus de 10 depuis le XVIIIe siècle. La première est passée d’environ 600 millions en 1700 à plus de 7 milliards en 2020, alors que le second, autant que l’on puisse le mesurer, est passé d’un pouvoir d’achat moyen (exprimé en euros de 2020) d’à peine 80 euros par mois et par habitant de la planète autour de 1700 à environ 1 000 euros par mois en 2020. Il n’est pas certain toutefois que ces progressions quantitatives considérables, dont il est utile de rappeler qu’elles correspondent toutes deux à des rythmes de croissance annuelle moyenne d’à peine 0,8 %, cumulés il est vrai sur plus de trois siècles (preuve s’il en est qu’il n’est peut-être pas indispensable de viser une croissance de 5 % par an pour atteindre le bonheur terrestre), représentent des « progrès » en un sens aussi incontestables que ceux réalisés en termes de santé et d’éducation.

    Dans les deux cas, l’interprétation de ces évolutions est ambiguë, et ouvre des débats complexes pour l’avenir. La croissance démographique reflète certes pour partie la chute de la mortalité infantile et le fait qu’un nombre croissant de parents a pu grandir avec des enfants en vie, ce qui n’est pas rien. Il reste qu’une telle hausse de la population, si elle se poursuivait au même rythme, nous conduirait à plus de 70 milliards d’humains dans trois siècles, ce qui ne semble ni souhaitable ni supportable par la planète. La croissance du revenu moyen reflète pour partie une amélioration bien réelle des conditions de vie (les trois quarts des habitants de la planète vivaient proches du seuil de subsistance au XVIIIe siècle, contre moins d’un cinquième aujourd’hui), ainsi que des possibilités nouvelles de voyages, de loisirs, de rencontres et d’émancipation.

    Il reste que les comptes nationaux mobilisés ici pour décrire l’évolution de long terme du revenu moyen, et qui depuis leur invention à la fin du XVIIe et au début du XVIIIe siècle au Royaume-Uni et en France tentent de mesurer le revenu national, le produit intérieur brut et parfois le capital national des pays, posent de multiples problèmes. Outre leur focalisation sur les moyennes et les agrégats et leur absence totale de prise en compte des inégalités, ils ne commencent que trop lentement à intégrer la question de la soutenabilité et du capital humain et naturel. Par ailleurs, leur capacité à résumer en un indicateur unique les transformations multidimensionnelles des conditions de vie et du pouvoir d’achat sur des périodes aussi longues ne doit pas être surestimée.

    S’il y a bien une leçon à retenir de l’histoire mondiale des trois derniers siècles, c’est que le progrès humain n’est pas linéaire

    De façon générale, les réels progrès réalisés en termes de santé, d’éducation et de pouvoir d’achat masquent d’immenses inégalités et fragilités. En 2018, le taux de mortalité infantile avant 1 an était inférieur à 0,1 % dans les pays européens, nord-américains et asiatiques les plus riches, mais ils atteignaient quasiment 10 % dans les pays africains les plus pauvres. Le revenu moyen mondial atteignait certes 1 000 euros par mois et par habitant, mais il était d’à peine 100-200 euros par mois dans les pays les plus pauvres, et dépassait les 3 000-4 000 euros par mois dans les pays les plus riches, voire davantage dans quelques micro-paradis fiscaux que d’aucuns soupçonnent (non sans raison) de voler le reste de la planète, quand il ne s’agit pas de pays dont la prospérité s’appuie sur les émissions carbone et le réchauffement à venir. Certains progrès ont bien eu lieu, mais cela ne change rien au fait qu’il est toujours possible de mieux faire, ou en tout état de cause de s’interroger sérieusement à ce sujet, plutôt que de se complaire dans un sentiment de béatitude face aux succès du monde.

    Surtout, ce progrès humain moyen incontestable, si l’on compare les conditions de vie en vigueur au XVIIIe siècle et au début du XXIe, ne doit pas faire oublier que cette évolution de très long terme s’est accompagnée de phases terribles de régression inégalitaire et civilisationnelle. Les « Lumières » euro-américaines et la révolution industrielle se sont appuyées sur des systèmes extrêmement violents de dominations propriétaristes, esclavagistes et coloniales, qui ont pris une ampleur historique sans précédent au cours des XVIIIe, XIXe et XXe siècles, avant que les puissances européennes sombrent elles-mêmes dans une phase d’autodestruction génocidaire entre 1914 et 1945. Ces mêmes puissances se sont ensuite vu imposer les décolonisations dans les années 1950-1960, au moment où les autorités étatsuniennes finissaient par étendre les droits civiques aux descendants d’esclaves.

    Les craintes d’apocalypse atomique liées au conflit communisme-capitalisme étaient à peine oubliées, après l’effondrement soviétique de 1989-1991, et l’apartheid sud-africain était à peine aboli en 1991-1994, que le monde entrait à partir des années 2000-2010 dans une nouvelle torpeur, celle du réchauffement climatique et d’une tendance générale au repli identitaire et xénophobe, tout cela dans un contexte de remontée inédite des inégalités socio-économiques à l’intérieur des pays depuis les années 1980-1990, dopée par une idéologie néopropriétariste particulièrement radicale. Prétendre que tous ces épisodes observés depuis le XVIIIe siècle jusqu’au XXIe siècle étaient nécessaires et indispensables pour que le progrès humain se réalise n’aurait guère de sens. D’autres trajectoires et régimes inégalitaires étaient possibles, d’autres trajectoires et d’autres régimes plus égalitaires et plus justes sont toujours possibles.

    S’il y a bien une leçon à retenir de l’histoire mondiale des trois derniers siècles, c’est que le progrès humain n’est pas linéaire, et que l’on aurait bien tort de faire l’hypothèse que tout ira toujours pour le mieux, et que la libre compétition des puissances étatiques et des acteurs économiques suffirait à nous conduire comme par miracle à l’harmonie sociale et universelle. Le progrès humain existe, mais il est un combat, et il doit avant tout s’appuyer sur une analyse raisonnée des évolutions historiques passées, avec ce qu’elles comportent de positif et de négatif.

    (…)

    De la justification de l’inégalité dans les sociétés de propriétaires
    Au fond, l’argument formulé par l’idéologie propriétariste, de façon implicite dans les déclarations de droits et les Constitutions, et de façon beaucoup plus explicite dans les débats politiques autour de la propriété qui eurent lieu au cours de la Révolution française et tout au long du XIXe siècle, peut se résumer de la façon suivante. Si l’on commence à remettre en cause les droits de propriété acquis dans le passé et leur inégalité, au nom d’une conception de la justice sociale certes respectable, mais qui inévitablement sera toujours imparfaitement définie et acceptée, et ne pourra jamais faire totalement consensus, ne risque-t-on pas de ne pas savoir où arrêter ce dangereux processus ? Ne risque-t-on pas d’aller tout droit vers l’instabilité politique et le chaos permanent, ce qui finira par se retourner contre les plus modestes ? La réponse propriétariste intransigeante est qu’il ne faut pas courir un tel risque, et que cette boîte de Pandore de la redistribution des propriétés ne doit jamais être ouverte.

    Ce type d’argumentation est présent en permanence lors de la Révolution française, et il explique nombre des ambiguïtés et des hésitations observées, en particulier entre les approches « historiques » et « linguistiques » des droits anciens et de leur retranscription en droits de propriétés nouveaux. Si l’on remet en cause les corvées et les lods, ne risque-t-on pas de remettre aussi en cause les loyers et l’ensemble des droits de propriété ? Nous retrouverons ces arguments dans les sociétés de propriétaires du XIXe siècle et du début du XXIe siècle, et nous verrons qu’ils jouent toujours un rôle fondamental dans le débat politique contemporain, en particulier avec le retour en force d’un discours néopropriétariste depuis la fin du XXe siècle.

    La sacralisation de la propriété privée est au fond une réponse naturelle à la peur du vide

    La sacralisation de la propriété privée est au fond une réponse naturelle à la peur du vide. A partir du moment où l’on abandonne le schéma trifonctionnel, qui proposait des solutions permettant d’équilibrer le pouvoir des guerriers et celui des clercs, et qui reposait dans une large mesure sur une transcendance religieuse (indispensable pour assurer la légitimité des clercs et de leurs sages conseils), il faut trouver des réponses nouvelles permettant de garantir la stabilité de la société. Le respect absolu des droits de propriété acquis dans le passé fournit une transcendance nouvelle permettant d’éviter le chaos généralisé et de remplir le vide laissé par la fin de l’idéologie trifonctionnelle. La sacralisation de la propriété est d’une certaine façon une réponse à la fin de la religion comme idéologie politique explicite.

    Sur la base de l’expérience historique, et de la construction d’un savoir rationnel fondé sur ces expériences, il me semble qu’il est possible de dépasser cette réponse certes naturelle et compréhensible, et en même temps quelque peu nihiliste et paresseuse, et peu optimiste sur la nature humaine. Je vais essayer dans ce livre de convaincre le lecteur que l’on peut s’appuyer sur les leçons de l’histoire pour définir une norme de justice et d’égalité plus exigeante en matière de régulation et de répartition de la propriété que la simple sacralisation des droits issus du passé, une norme qui certes ne peut qu’être évolutive et ouverte à la délibération permanente, mais qui n’en est pas moins plus satisfaisante que l’option commode consistant à prendre comme données les positions acquises et à naturaliser les inégalités ensuite produites par le « marché ». C’est d’ailleurs sur cette base pragmatique, empirique et historique que se sont développées les sociétés sociales-démocrates au XXe siècle (qui, malgré toutes leurs insuffisances, ont démontré que l’inégalité patrimoniale extrême du XIXe siècle n’était aucunement indispensable pour assurer la stabilité et la prospérité, bien au contraire), et que peuvent se construire des idéologies et des mouvements politiques novateurs en ce début de XXIe siècle.

    La grande faiblesse de l’idéologie propriétariste est que les droits de propriété issus du passé posent souvent de sérieux problèmes de légitimité. Nous venons de le voir avec la Révolution française, qui transforma sans coup férir des corvées en loyers, et nous retrouverons cette difficulté à de nombreuses reprises, en particulier avec la question de l’esclavage et de son abolition dans les colonies françaises et britanniques (où l’on décida qu’il était indispensable de dédommager les propriétaires, et non pas les esclaves), ou bien encore avec celle des privatisations postcommunistes et des pillages privés de ressources naturelles. Plus généralement, le problème est qu’indépendamment de la question des origines violentes ou illégitimes des appropriations initiales, des inégalités patrimoniales considérables, durables et largement arbitraires tendent à se reconstituer en permanence, dans les sociétés hypercapitalistes modernes comme d’ailleurs dans les sociétés anciennes.

    L’idéologie propriétariste dure doit être analysée pour ce qu’elle est : un discours sophistiqué et potentiellement convaincant sur certains points

    Il n’en reste pas moins que la construction d’une norme de justice acceptable par le plus grand nombre pose des problèmes considérables, et nous ne pourrons véritablement traiter de cette question complexe qu’à l’issue de notre enquête, après l’examen des différentes expériences historiques disponibles, et en particulier des expériences cruciales du XXe siècle en matière de progressivité fiscale, et plus généralement de redistribution des propriétés, qui ont apporté la démonstration historique matérielle que l’inégalité extrême n’avait rien d’indispensable, ainsi que des connaissances concrètes et opérationnelles sur les niveaux d’égalité et d’inégalité qui pouvaient être envisagés a minima. En tout état de cause, l’argument propriétariste fondé sur le besoin de stabilité institutionnelle doit être pris au sérieux et être évalué précisément, au moins autant que l’argument méritocratique insistant davantage sur le mérite individuel, argument qui joue un rôle sans doute moins central dans l’idéologie propriétariste du XIXe siècle que dans la reformulation néopropriétariste en vigueur depuis la fin du XXe siècle. Nous aurons largement l’occasion de revenir sur ces différents développements politico-idéologiques.

    De façon générale, l’idéologie propriétariste dure doit être analysée pour ce qu’elle est : un discours sophistiqué et potentiellement convaincant sur certains points (car la propriété privée, correctement redéfinie dans ses limites et dans ses droits, fait effectivement partie des dispositifs institutionnels permettant aux différentes aspirations et subjectivités individuelles de s’exprimer et d’interagir de façon constructive), et en même temps une idéologie inégalitaire qui, dans sa forme la plus extrême et la plus dure, vise simplement à justifier une forme particulière de domination sociale, souvent de façon excessive et caricaturale.

    De fait, il s’agit d’une idéologie bien pratique pour ceux qui se trouvent tout en haut de l’échelle, aussi bien en ce qui concerne l’inégalité entre individus que l’inégalité entre nations. Les individus les plus riches y trouvent des arguments pour justifier leur position vis-à-vis des plus pauvres, au nom de leur effort et de leur mérite, mais aussi au nom du besoin de stabilité dont bénéficiera la société tout entière. Les pays les plus riches peuvent également y trouver des raisons pour justifier leur domination sur les plus pauvres, au nom de la supériorité supposée de leurs règles et institutions. Le problème est que ces arguments et les éléments factuels présentés par les uns et les autres pour les étayer ne sont pas toujours très convaincants. Mais avant d’analyser ces développements et ces crises, il importe de commencer par étudier l’évolution des sociétés de propriétaires au XIXe siècle, en France et dans les autres pays européens, à l’issue de ce moment fondateur et ambigu que fut la Révolution française.

    Capital et idéologie, de Thomas Piketty (Seuil, 1 232 pages, 25 euros).

    et une vidéo (fr2)
    https://www.facebook.com/IZap4u/videos/1807866602590350

  • Je viens de signaler à @sombre cette vidéo, très pédagogique à mon avis, de la prof #Tanya_Golash_Boza sur l’#intersectionnalité :
    https://seenthis.net/messages/796554#message799547

    La prof. Boza a produit d’autres #vidéos sur la question du racisme. Vous pouvez voir la collection sur son canal vimeo :
    https://vimeo.com/tanyaboza

    Je vais ici en mettre quelques-uns qui me paraissent particulièrement intéressants :
    Racism and Capitalism : What’s the relationship ?
    https://vimeo.com/320992010


    #racisme #capitalisme

    Racial Segregation and Health Disparities
    https://vimeo.com/320987233


    #ségrégation_raciale #santé #inégalités

    Controlling #Images
    https://vimeo.com/295025400


    #image #médias #préjugés

    What is race ? What is Ethnicity ? What is the difference ?
    https://vimeo.com/286520524

    #White_Privilege
    https://vimeo.com/296299925

    #ressources_pédagogiques

    ping @karine4 @isskein

  • Revenus. Les quatre visages de la Bretagne - Richesse et fiscalité en Bretagne - LeTelegramme.fr
    https://www.letelegramme.fr/dossiers/richesse-et-fiscalite-en-bretagne/richesse-et-fiscalite-les-quatre-visages-de-la-bretagne-23-08-2019-1236

    (les cartes, à l’exception de la première, sont restées derrière le #paywall, on en entrevoit 2 des 3 autres sur l’illustration de l’article)

    Les retraités aisés le long des côtes, les actifs rassemblés autour des bassins d’emplois et un Centre-Bretagne en déclin, c’est ce que soulignent les déclarations de revenus faites en 2018 par les ménages bretons.

    Les retraités aisés vivent sur le littoral
    Le succès des côtes bretonnes ne se dément pas. Pour couler une retraite paisible au bord de la mer, de nombreux anciens actifs ont choisi les communes du littoral, où la part des pensions dans le revenu total est plus importante que la moyenne. De Cancale (35) à Crozon (29), et de Loctudy (29) au Golfe du Morbihan (56), les petites villes et villages peuplés en grande partie de retraités dessinent une frange côtière presque continue, surtout au sud de la Bretagne.
    Les chiffres sont particulièrement significatifs dans le Golfe du Morbihan et la Côte d’Émeraude. Dans les communes qui bordent le golfe, la part des retraites dans le revenu total dépasse les 60 % et grimpe même à 71 % à Arzon, à 70 % à Saint-Gildas-de-Rhuys et à Damgan, à laquelle s’ajoute un revenu annuel moyen par foyer fiscal plus élevé que la moyenne (au-delà de 30 000 euros). Dans certaines communes près de Dinard (22), cette part dépasse aussi les 60 %, comme à Saint-Jacut-de-la-Mer (64 %) et Saint-Cast-le-Guildo (63 %). Les principales zones touristiques de Bretagne sont donc aussi celles où la richesse est élevée et où les retraités aisés sont les plus nombreux.

    Les classes moyennes supérieures s’installent autour des grandes villes
    C’est la carte des bassins d’emploi bretons, ceux de Rennes, Brest, Saint-Brieuc, Quimper, Lorient et Vannes. Les communes autour de ces villes drainent une majorité d’actifs aux revenus plus élevés que la moyenne, ceux qui ont choisi de travailler dans les centres urbains et de vivre dans les communes périphériques, attirés par des offres immobilières et un cadre de vie correspondant à leurs attentes.
    Par exemple, dans le bassin d’emploi brestois, la commune de Locmaria-Plouzané se démarque avec 70 % du revenu total assurés par les actifs et un revenu moyen par foyer fiscal atteignant 39 000 euros, le plus important de la zone. À Saint-Thonan, situé entre Brest et Landerneau, la part des salaires atteint 81 %, avec un revenu moyen de 32 000 euros. Dans la région lorientaise, le revenu moyen s’élève à 31 000 euros à Kervignac, où 73 % du revenu global sont assurés par les salaires. Les chiffres sont à peu près semblables dans les autres bassins d’emploi bretons, à l’exception de Rennes, où les revenus sont plus élevés. À Saint-Grégoire, il grimpe ainsi à 46 000 euros.

    Les travailleurs modestes contraints à l’éloignement
    C’est le deuxième cercle périurbain, avec des communes plus éloignées des bassins d’emploi, moins densément peuplées et absentes de la frange littorale. La part des salaires dans le revenu global est au moins supérieure à 60 %, mais le revenu moyen par foyer fiscal est moins important que dans les communes en périphérie des grandes villes. Autre constat, ces communes se situent pour une grande partie le long des deux principaux axes routiers bretons, la RN12 au nord et la RN165 au sud, garantissant aux actifs un accès relativement rapide aux bassins d’emploi.
    Parmi ces communes modestes, où les actifs pèsent plus que les retraités, figurent également quelques-unes des villes importantes de la région, comme Brest, Quimper, Lorient et Saint-Brieuc. À Brest, la part des salaires dans le revenu global s’élève à 68 %, avec un revenu moyen de 22 000 euros seulement, le plus faible de son bassin d’emploi. Tout comme à Saint-Brieuc, où la part des salaires est encore moins importante (61 %). Les richesses créées par les actifs ont quitté les centres, où la paupérisation de certains quartiers s’accentue.

    Les retraités modestes concentrés dans le Centre-Bretagne
    Population vieillissante, faible activité économique et enclavement, c’est le portrait d’une Bretagne en retrait. Les communes mises en évidence dans cette carte, au revenu moyen inférieur à 20 000 euros et à la part des retraites souvent supérieure à 50 %, montrent un Centre-Bretagne éloigné des bassins d’emploi et des principaux axes routiers, malgré la RN164 qui coupe cette zone en deux. D’autres territoires en difficulté apparaissent, notamment le Cap Sizun (29), l’intérieur du Trégor (22), le nord de l’Ille-et-Vilaine (35) et certaines îles (Ouessant, Molène, Groix).

    À l’exception de la périphérie carhaisienne et de quelques poches d’activité à Loudéac (22), Ploërmel (56) et Pontivy (56) notamment, tout le Centre-Bretagne est composé de communes modestes et peu actives. À Plouray par exemple, bourg d’à peine plus de 1 000 habitants dans le Morbihan, la part des retraites dans le revenu global atteint 52 % et le revenu annuel moyen s’établit à 18 000 euros. À Lanrivain, au cœur des Côtes-d’Armor, la part des retraites est plus élevée (53 %) et le revenu plus faible encore (17 000 euros).

    Méthodologie Pour établir ces quatre cartes, nous avons traité les données départementales et communales de l’impôt sur le revenu, mises à jour et disponibles sur le site du ministère des Finances. Nous avons choisi de retenir les revenus déclarés (revenus d’activité et pensions de retraite), et de les corréler au revenu moyen par foyer, qui s’établit à 24 500 euros en Bretagne. Nous avons relevé le seuil de la part des retraites dans le revenu global à 40 % pour plus de représentativité, sachant que la moyenne bretonne est de 35,8 %. Nous avons choisi de restreindre notre étude de ces données à la Bretagne administrative, sans prendre en compte la Loire-Atlantique, malgré l’influence de l’agglomération nantaise sur l’économie et la géographie bretonne.

  • Opinion | Blame Economists for the Mess We’re In - The New York Times
    https://www.nytimes.com/2019/08/24/opinion/sunday/economics-milton-friedman.html

    Why did America listen to the people who thought we needed “more millionaires and more bankrupts?”

    [...] Perhaps the starkest measure of the failure of our economic policies is that the average American’s life expectancy is in decline, as inequalities of wealth have become inequalities of health. Life expectancy rose for the wealthiest 20 percent of Americans between 1980 and 2010. Over the same three decades, life expectancy declined for the poorest 20 percent of Americans. Shockingly, the difference in average life expectancy between poor and wealthy women widened from 3.9 years to 13.6 years.

    #etats-unis #esperance_de_vie #capitalisme #inégalités

  • American Capitalism Is Brutal. You Can Trace That to the Plantation. - The New York Times
    https://www.nytimes.com/interactive/2019/08/14/magazine/slavery-capitalism.html

    This is a capitalist society. It’s a fatalistic mantra that seems to get repeated to anyone who questions why America can’t be more fair or equal. But around the world, there are many types of capitalist societies, ranging from liberating to exploitative, protective to abusive, democratic to unregulated. When Americans declare that “we live in a capitalist society” — as a real estate mogul told The Miami Herald last year when explaining his feelings about small-business owners being evicted from their Little Haiti storefronts — what they’re often defending is our nation’s peculiarly brutal economy. “#Low-road_capitalism,” the University of Wisconsin-Madison sociologist Joel Rogers has called it. In a capitalist society that goes low, wages are depressed as businesses compete over the price, not the quality, of goods; so-called unskilled workers are typically incentivized through punishments, not promotions; inequality reigns and poverty spreads. In the United States, the richest 1 percent of Americans own 40 percent of the country’s wealth, while a larger share of working-age people (18-65) live in poverty than in any other nation belonging to the Organization for Economic Cooperation and Development (O.E.C.D.).

    #capitalisme #etats-unis #inégalités #esclavage #exploitation

  • Oxfam s’est trompé, les #inégalités sont un bienfait pour l’humanité - Télévision - Télérama.fr

    https://www.telerama.fr/television/oxfam-sest-trompe,-les-inegalites-sont-un-bienfait-pour-lhumanite,n6102388.

    Lundi dernier, les meilleurs économistes de LCI et de BFMTV décryptaient les rapports publiés par Oxfam et Attac, deux officines d’extrême gauche notoirement altermondialistes et anticapitalistes. Ils en ont brillamment démontré l’inanité. Car l’extrême fortune des plus riches milliardaires est naturellement proportionnelle à leur incommensurable génie. En outre, elle bénéficie à (presque) toute l’humanité.

    #pauvreté #richesse #oxfam

  • Et si la #ménopause n’était qu’une construction sociale, un enjeu de #pouvoir ? - j’ai piscine avec Simone
    https://www.jaipiscineavecsimone.com/et-si-la-menopause-netait-quune-construction-sociale-un-enjeu-

    C’est le fait que bien avant d’être physiologiquement stérile, les femmes arrêtent de faire des enfants. A partir de 40/45 ans la norme pour une femme c’est de continuer d’être féconde mais de ne plus avoir d’enfants. C’est une norme qui est tout a fait construite dans les discours médicaux, qui appellent les grossesses à partir de 40 ans, les grossesses “à risque”, “tardives”. Il existe une rhétorique du risque qui les cataloguent comme indésirables. Une norme qui enjoint les femmes à se déprendre de la fécondité bien avant d’être physiologiquement stériles. Cette #norme est intéressante car elle ne concerne pas les hommes, les paternités qu’elles aient 45 ans ou 60 ans ne sont pas étiquetées comme tardive, à risque, déviantes ou à éviter.

  • Une IA capable de détecter le cancer du sein
    https://usbeketrica.com/article/ia-capable-detecter-cancer-sein

    Une équipe de chercheurs du MIT a mis au point une intelligence artificielle capable de détecter un cancer du sein jusqu’à cinq ans avant sa formation, quelle que soit la couleur de peau de la patiente.

    Chaque année, on compte 54 000 nouvelles personnes touchées par le cancer du sein en France, ce qui en fait le cancer le plus répandu chez les femmes. Malgré des campagnes de dépistage importantes, de nombreux cas sont repérés trop tard pour être soignés efficacement. Face à cet enjeu, des chercheurs du Massachusetts Institute of Technology (MIT) essaient d’intégrer l’intelligence artificielle à leurs recherches afin de dépister le cancer plus tôt. Les résultats de leurs travaux ont été publiés, mardi 7 mai, dans la revue Radiology.

    L’intelligence artificielle sur laquelle travaille le MIT permettrait de prédire un cancer du sein jusqu’à cinq ans avant son apparition, à travers l’analyse d’une simple mammographie. Pour arriver à ce résultat, les chercheurs ont analysé les données de plus de 60 000 patientes issues de l’Hôpital général du Massachusetts, précise le site du MIT. Comme les images utilisées avaient été prises plusieurs années auparavant, les chercheurs ont été en mesure d’apprendre à la machine quelles mammographies correspondaient à des femmes ayant développé le cancer du sein et lesquelles ne présentaient aucun signe de cancer.
    Une IA (un peu) plus inclusive

    Pour rendre leur intelligence artificielle plus équitable, les scientifiques lui ont montré des données représentatives de différentes couleurs de peau (l’enjeu étant de permettre à l’IA de repérer les signes avant-coureurs d’un cancer aussi bien sur des personnes blanches que non blanches). Verdict des chercheurs : « Cela fonctionne aussi bien sur des patientes noires que sur des personnes blanches ».

    Données issues d’une étude publiée en 2014 sur le site Wiley Online Library

    La diversité des données reste toutefois très faible, puisque seulement 5 % d’entre elles concernent des femmes noires et 4 % des femmes asiatiques, alors que 81 % proviennent de patientes à la peau blanche. Les chercheurs du MIT cherchent à inclure encore davantage les minorités dans leurs recherches, comme ils l’expliquent au site Engadget : « Nous continuons activement les collaborations avec d’autres hôpitaux pour faire en sorte que notre modèle soit équitable et qu’il fonctionne sur des populations diverses. »
    Un enjeu d’avenir

    Ces enjeux deviennent de plus en plus importants à mesure que l’intelligence artificielle fait son entrée dans le domaine de la santé et de la médecine prédictive. Aujourd’hui, aux États-Unis, les femmes noires ont 42% plus de risques de mourir d’un cancer du sein que les femmes blanches, précise le MIT. Parallèlement, les femmes noires, hispaniques et asiatiques développent le cancer du sein plus tôt en moyenne que les femmes blanches. Et avec le recours à l’intelligence artificielle, ces inégalités risquent encore s’amplifier si les données fournies aux IA ne sont pas plus représentatives.

    Pour gommer ces biais, il s’agit donc de renouveler et diversifier les données médicales. Et il y a fort à faire en la matière puisque, depuis vingt ans, les inégalités liées à la couleur de peau face au cancer n’ont pas diminué, comme le montre une étude publiée en 2014. Elles auraient même augmenté dans le cas du cancer du sein.

    #inégalités #cancer_du_sein #MIT #IA #prédictions_médicales

    • L’intelligence artificielle sur laquelle travaille le MIT permettrait de prédire un cancer du sein jusqu’à cinq ans avant son apparition, à travers l’analyse d’une simple mammographie. Pour arriver à ce résultat, les chercheurs ont analysé les données de plus de 60 000 patientes issues de l’Hôpital général du Massachusetts, précise le site du MIT. Comme les images utilisées avaient été prises plusieurs années auparavant, les chercheurs ont été en mesure d’apprendre à la machine quelles mammographies correspondaient à des femmes ayant développé le cancer du sein et lesquelles ne présentaient aucun signe de cancer.

      A noter : utilisation du conditionnel et sauf erreur de ma part on est bien sur des bases de travail statistiques et on détecte donc des corrélations et des probabilités, pas des causalités...

    • oui @suske tout cela est au conditionnel, on est d’accord que ce n’est pas très scientifique. Mais ça signifie aussi qu’un cancer du sein peut débuter 5 ans avant et non pas seulement 2 ans comme les médecins le disent souvent.
      Quand j’ai présenté une mammographie de plus de 20 ans avec des annotations au même endroit de cellules bizarres à Curie on m’a répondu que « la médecine n’est pas une science exacte ». Et il y a 10 ans, consultant en urgence, je me suis fait insulter par une gynéco parce que « madame ce sont vos glandes mammaires, c’est normal vous avez des seins, vous êtes une femme ».
      J’estime que les études techniques ça fait surtout plaisir aux techniciens de la santé et à ceux qui espèrent un retour sur investissement à force de #fichage.
      Et que tant que le corps médical refusera d’écouter les patient·es, les médecin·es continueront d’accumuler les erreurs médicales et les diagnostics d’ignares dangereux.
      Donc, chères sœurs, faites vous confiance, changez de médecin si il ou elle refuse de vous entendre.
      #santé #médecine #ecouter_les_femmes

    • L’étude originale :
      A Deep Learning Mammography-based Model for Improved Breast Cancer Risk Prediction | Radiology
      https://pubs.rsna.org/doi/abs/10.1148/radiol.2019182716

      Abstract
      Background
      Mammographic density improves the accuracy of breast cancer risk models. However, the use of breast density is limited by subjective assessment, variation across radiologists, and restricted data. A mammography-based deep learning (DL) model may provide more accurate risk prediction.

      Purpose
      To develop a mammography-based DL breast cancer risk model that is more accurate than established clinical breast cancer risk models.
      […]
      Conclusion
      Deep learning models that use full-field mammograms yield substantially improved risk discrimination compared with the Tyrer-Cuzick (version 8) model.

      Et, en effet, il s’agit de comparer des méthodes de détection. Le résultat principal se lit sur ce graphique (dit #courbe_ROC)


      Figure 2 : Receiver operating characteristic curve of all models on the test set. All P values are comparisons with Tyrer-Cuzick version 8 (TCv8). DL = deep learning, hybrid DL = DL model that uses both imaging and the traditional risk factors in risk factor logistic regression, RF-LR = risk factor logistic regression.

      Il montre que la courbe (en rouge) correspondant à l’utilisation de l’IA sur l’image et les facteurs de risque classiques produit toujours un plus faible nombre de faux positifs que les méthodes sans IA.

      La courbe verte (IA sur l’image seule) n’est pas aussi performante que la rouge ; elle est moins bonne que la méthode traditionnelle dans le bas de la courbe.

      La « détection parfaite » correspondrait à deux segments de droite longeant les bords gauche et supérieur du carré.

    • Comme tu le soulignes, @vraiment, l’étude ne porte que sur les éléments médicaux. Aucune trace des déclarations des patientes, en effet.

      Mais ça signifie aussi qu’un cancer du sein peut débuter 5 ans avant

      Je reformulerais en précisant que l’étude montre que le cancer était détectable (par ces méthodes) dans les 5 ans qui précèdent sa détection effective. L’étude a porté sur 40000 mammographies effectuées dans un intervalle de 4 ans (2009 à 2012) dans un grand centre médical et en recoupant d’une part avec le registre des tumeurs déclarées dans les 5 ans suivant de 5 hôpitaux, mais aussi avec des mammographies post-traitement.

      Le délai de détection ainsi gagné par l’utilisation de ces techniques n’est pas indiqué. Ni, à mon avis, aisément déterminable.

    • 100% d’accord sur l’écoute.

      Une des difficultés est aussi de s’exprimer face au médecin... Ici on est clairement dans une idée du type : une mammo, une AI et le tour est joué. L’écoute de l’expression des patientes est limite inutile dans ce paradigme. Pour cela je n’ai pas apprécié cet article dont la structure me semble conforter ce défaut :
      1. titre factuel favorable à l’AI
      2. rappel de « l’importance de la détection précoce »
      3. conditionnel : possibilité de prédire jusqu’à 5 ans
      4. le tout sur base de dossiers d’imagerie...

      Il ressort une impression de « on va pouvoir détecter tout à temps » alors que ce que je comprends c’est que l’AI réduit (logiquement) un peu la subjectivité de l’interprétation. C’est déjà bien, pas besoin d’en rajouter en parlant de capacité de l’AI et de prédictibilité...

    • Moi je me questionne du coup sur ce qui change sur une mammographie en fonction de la couleur de peau ; le contraste de l’image résultante n’est pas le même ? (a priori c’est pas ça) Ou c’est que les cancers du sein ne se développent pas forcément de la même façon suivant le milieu social, la couleur ?

      The majority of existing risk models were developed on predominantly white populations (1,3,4) and have known limitations in predicting risk for other racial groups (17–20)

    • Relativement à la mammographie, le facteur #densité_mammaire (#breast_density) est régulièrement mis en avant.

      cf. les explications de la Clinique Mayo où l’on voit clairement l’impact sur la lecture de l’image.

      Après, le lien entre l’ethnicité, la densité mammaire et le niveau de risque relatif est discuté. Deux exemples, après recherche rapide,…

      • ici une étude de 2007, Mammographic breast density and race qui conclut que le lien densité/race existe mais qu’il disparait lorsqu’on prend en compte les facteur âge et IMC (Indice de Masse Corporel) … sauf pour les Asiatiques
      https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/17377060

      • là, en Nouvelle-Zélande en 2013, c’est le contraire…
      Age and Ethnic Differences in Volumetric Breast Density in New Zealand Women : A Cross-Sectional Study
      https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3729838

      As well as expected age differences, we found differential patterns of breast density by ethnicity consistent with ethnic differences seen in breast cancer risk. Breast density may be a contributing factor to NZ’s well-known, but poorly explained, inequalities in breast cancer incidence.

      Comme l’indique la conclusion de cette dernière étude, on ne sait pas pourquoi…

      Les quatre références citées en note (17 à 20) par l’étude sur l’IA se contentent de constater les différences, comparent la sous-estimation des risques obtenus par différentes méthodes et, éventuellement, proposent des étalonnages (anglais : calibration) différents pour les différentes races.

  • Libérées ! Le combat féministe se gagne devant le panier de linge sale
    Titiou Lecoq, Fayard (2017)
    https://www.babelio.com/livres/Lecoq-Liberees-Le-combat-feministe-se-gagne-devant-le-/992095

    Un jour, je me suis demandée : pourquoi est-ce moi qui ramasse les affaires qui traînent ? Je n’ai trouvé qu’une seule réponse. Parce que je suis une femme qui vit avec un homme et deux enfants et que, conséquemment, les corvées, c’est pour ma gueule.
    Être une femme, ce n’est pas seulement l’idéal de minceur et de cheveux qui brillent, c’est le souci permanent des autres et du foyer, c’est être sans cesse ramenée à la saleté, aux taches, à la morve. L’égalité serait déjà là, mais les femmes conservent la conviction intérieure qu’elles doivent s’occuper de tout et tout le monde, et d’elles en dernier, s’il reste cinq minutes à la fin de leur triple journée.
    Cette féminisation de la sphère privée implique une autre conséquence : l’espace public est toujours masculin. Peut-on se dire égaux quand la moitié de la population adapte ses vêtements en fonction des transports et fait attention à ne pas être seule la nuit dans la rue ? Et si le combat féministe devait encore et toujours se jouer dans la vie quotidienne de chacune et chacun, chez soi, dans sa propre maison, devant le panier de linge sale ?

    Dans un essai très drôle, Titiou Lecoq dénonce la répartition inégale des tâches ménagères
    Margot Cherrid, Cheek Magazine, le 4 octobre 2017
    http://cheekmagazine.fr/culture/titiou-lecoq-liberees-feminisme-taches-menageres

    La plupart des hommes se retrouvent face à un terrible obstacle qui les empêche de s’approprier le balai à chiottes, une espèce de ‘sol de verre’.

    À cette époque, mon fils a un an et demi et c’est un ‘enfant à otites’. C’est moi qui m’occupe de tous les rendez-vous médicaux et je veux que ça change. Un jour, il se met à pleurer et je dis à mon mec : ‘Tu t’en occupes, je ne veux pas y penser, tu appelles le médecin et tu l’emmènes.’ Il a accepté, mais les jours passaient, mon fils hurlait de douleur et mon conjoint repoussait, prétextant le manque de temps. J’ai failli craquer, c’était une espèce de billard à trois bandes avec mon gamin au milieu en train de souffrir. Cette histoire s’est terminée avec un appel de la crèche, qui m’annonçait -évidement à moi, la maman- que mon fils avait le tympan percé à cause d’une otite non traitée et qu’il était exclu. Et là, j’ai eu super honte et je me suis dit ‘comment tu fais pour mener ton combat à la maison ?’ Il y a une chose très claire : les enfants sont une justification à déroger au principe d’égalité.

    Je me suis rendu compte que, quoi qu’il en soit, le modèle d’identification de mes garçons, c’est leur père. Je peux leur dire de faire le ménage et de ranger, mais si ce n’est pas associé à l’identité masculine, ça ne servira à rien. Et c’est terrible parce que là-dessus je n’ai aucune prise. C’est une des raisons qui font que la répartition égale des tâches est si importante.

    Titiou Lecoq : "Laisser moisir le linge sale, c’est aussi un acte politique"
    Alice Maruani, Rue89, le 4 octobre 2017
    https://www.nouvelobs.com/rue89/nos-vies-intimes/20170929.OBS5341/titiou-lecoq-laisser-moisir-le-linge-sale-c-est-aussi-un-acte-politique.h

    Titiou Lecoq : "En voyant des chaussettes sales par terre, j’ai pété les plombs"
    L’Obs, Youtube, le 26 mars 2018
    https://www.youtube.com/watch?v=40dEig6KldI

    Ca me rappelle beaucoup ce texte qu’adore @mad_meg :

    Le partage des tâches, enjeu féministe primordial : « Et toi, concrètement, comment tu fais ? » Ben je fais comme ça. Comme un mec, oui »
    Vilaine, Comment peut-on être féministe ?, le 5 juillet 2015
    https://seenthis.net/messages/488915
    https://seenthis.net/messages/791086

    A tel point que je me demande si "Vilaine" ce n’est pas Titiou Lecoq ?

    #femmes #féminisme #éducation #partage_des_tâches #linge #chaussettes #inégalités #mauvaise_mère #cesser_de_dire_merci #j’en_ai_rien_à_foutre #Titiou_Lecoq #Vilaine

  • Le grand retour de la question sociale | Alternatives Economiques
    https://www.alternatives-economiques.fr/grand-retour-de-question-sociale/00089577

    « La vague de #populisme qui submerge le monde occidental est soulevée par un vent de #mépris. » La troisième édition du rapport sur les #inégalités en #France, publiée hier, a une saveur particulière. Un goût amer, quand on la met en regard du résultat des élections européennes. Le mépris dont parle Louis Maurin, directeur de l’Observatoire des inégalités, c’est le dédain de la France qui gagne à l’encontre de la France qui « fume des clopes et roule au diesel », brocardée en son temps par l’ancien porte-parole du gouvernement Benjamin Griveaux. C’est la morgue avec laquelle une certaine #gauche embourgeoisée stigmatise la « France moche », celle qui arpente les rayons des supermarchés et reste scotchée à la télé. C’est l’arrogance d’une #élite qui s’arc-boute sur ses #privilèges et refuse d’entendre parler de ceux qui galèrent.

  • Le ministre renvoie sa directrice de cabinet pour avoir conservé son HLM
    https://www.mediapart.fr/journal/france/110719/le-ministre-renvoie-sa-directrice-de-cabinet-pour-avoir-conserve-son-hlm

    Suite aux révélations de Mediapart, François de Rugy a demandé à sa directrice de cabinet de présenter sa démission. Elle « occupait » un logement HLM depuis 2001 à Paris. Et l’avait même conservé de 2006 à 2018, alors qu’elle n’habitait plus la capitale.

    #INÉGALITÉS #François_de_Rugy,_logement_social,_HLM,_Nicole_Klein,_A_la_Une

  • La directrice de cabinet de Rugy a conservé douze ans son HLM sans y habiter
    https://www.mediapart.fr/journal/france/100719/la-directrice-de-cabinet-de-rugy-conserve-douze-ans-son-hlm-sans-y-habiter

    La directrice de cabinet de François de Rugy au ministère de la transition écologique, la préfète Nicole Klein, « occupe » un logement HLM depuis 2001 à Paris, selon une enquête de Mediapart. Elle a conservé ce logement, de 2006 à 2018, alors qu’elle n’habitait plus la capitale.

    #INÉGALITÉS #Nicole_Klein,_logement_social,_François_de_Rugy,_HLM,_A_la_Une

  • « Protégez-les ! » : un rassemblement à Paris contre les #féminicides
    https://www.mediapart.fr/journal/france/060719/protegez-les-un-rassemblement-paris-contre-les-feminicides

    Un collectif de proches et de familles de victimes appelait ce samedi à la mobilisation contre les féminicides, alors qu’on dénombre soixante-quatorze femmes tuées par leur compagnon ou ex-compagnon depuis le 1er janvier dernier. Le mot d’ordre ? « Protégez-les ! »

    #INÉGALITÉS

  • Le partage des tâches, enjeu féministe primordial : « Et toi, concrètement, comment tu fais ? » Ben je fais comme ça. Comme un mec, oui » | Comment peut-on être féministe ?
    http://www.commentpeutonetrefeministe.net/2015/07/05/partage-des-taches-feminisme

    En fait, ce qui m’a facilité la tâche, c’est que j’ai toujours pensé que je méritais ce qu’il y a de mieux pour moi, et je te prie de croire que je ne me prends pas pour de la merde, ce qui est assez culotté de ma part car je ne vaux pas mieux que n’importe qui d’autre. Mais je vaux autant qu’un homme et puisque notre société n’a pas encore amorcé le renoncement volontaire des hommes à leurs propres privilèges, je considère que j’ai droit aux mêmes privilèges qu’eux.

    J’estime donc, comme un homme, que certaines choses doivent aller d’elles-mêmes, et ce sans mesquinerie aucune : je sais bien que la plupart des hommes n’estiment pas consciemment que certaines choses leur sont dues, mais ils ont tout simplement, pour beaucoup d’entre eux, été éduqués dans un schéma les amenant à considérer, en totale bonne foi, que les choses sont « ainsi ».

    Alors moi, je fais pareil, et je me comporte comme si ma bite me conférait le droit à n’avoir qu’une seule journée de travail par tranche de 24 heures. Et toute ma famille s’en porte très bien, car l’égalité n’est pas un péril pour l’équilibre familial, contrairement à ce que les réacs de toutes obédiences tentent de nous faire croire.

    Autre critère à prendre en compte : il se trouve que j’ai une grande affection pour moi-même et pour l’homme que je suis, affection qui me pousse à penser que tout autant que mes enfants et mon mari, je mérite à tour de rôle le blanc du poulet, le cœur de la salade, des draps qui sentent le frais mais que je n’ai pas eu à laver moi-même, un bain avec beaucoup de mousse, le coussin le plus moelleux du canapé, les repas partagés assise avec ma famille et non debout devant l’évier, des grasses matinées, de la vaisselle propre et non lavée par moi, du linge que je trouve plié et rangé dans mon armoire sans avoir plié et rangé le linge de trois autres personnes en plus du mien, des packs de lait en réserve sans que ce soit forcément moi qui pense à en racheter, de beaux enfants avec des cheveux bien coupés sans que je ne sois obligée de prendre moi-même rendez-vous pour eux chez le coiffeur, du café chaud le matin que je n’ai pas eu besoin de faire, des professeurs rassurés de pouvoir joindre les parents de mes gosses sans que je ne sois systématiquement obligée d’écourter ma journée de travail pour me rendre aux entretiens, et du temps pour mes loisirs.

    Spéciale dédicace à @mad_meg qui a déjà référencé ce texte plein de fois !

  • Cocorico : Les milliardaires français s’enrichissent plus vite que les autres Charles Gautier - 1 er Juillet 2019 - Le figaro
    http://www.lefigaro.fr/conjoncture/les-milliardaires-francais-s-enrichissent-plus-vite-que-les-autres-20190701

    Le patrimoine cumulé par les 14 milliardaires français a progressé de 78 milliards de dollars depuis le 31 décembre 2018, selon le dernier classement Bloomberg.

    Un record : la richesse cumulée des 14 milliardaires français figurant dans le Top 500 mondial de Bloomberg s’est accrue de 34,8 % depuis le 31 décembre 2018, a révélé lundi l’agence financière. Ces « premiers de cordée » ont cumulé une croissance de leur patrimoine de 78 milliards de dollars (68,8 milliards d’euros).

    Une hausse bien plus forte que celle enregistrée dans tous les autres pays. Elle est même légèrement supérieure à celle des grandes fortunes thaïlandaises (+ 32,7 %) et singapourienne (+ 30,8 %). Avec 23 %, le Danemark clôt le Top 5 mondial de la croissance derrière le Japon (+ 24,2 %).

    Cette croissance française est deux fois plus importante que celle des plus riches des Chinois (+ 17 %). Quant aux Américains, ils feraient presque pâle figure avec seulement 15 % de hausse. . . . . . . . .

     #milliardaires #france #riches #inégalités #enMarche #richesse #fortune #capitalisme #enrichissement #en_vedette #pauvreté #économie #politique #corruption #violence #ruissellement

  • François Ruffin

    Vous vous préoccupez des femmes de ménage, @MarleneSchiappa. Tant mieux ! On se bagarre depuis un an pour celles de l’Assemblée, face aux questeurs. Alors, si on commençait par donner l’exemple dans les Palais de la République ? On y bosse ensemble ?

    Marlène Schiappa : « Je veux défendre les femmes de chambre »
    La secrétaire d’Etat s’engage pour l’amélioration des conditions de travail de ces salariées du secteur de la propreté, souvent en situation de précarité. . . . .

    http://www.leparisien.fr/economie/marlene-schiappa-je-veux-defendre-les-femmes-de-chambre-22-06-2019-810039

    Source : https://twitter.com/Francois_Ruffin/status/1143803160768786434

    #Twitter#Marlène_Schiappa de l’ #oligarchie #france #enMarche en pleine #hypocrisie assume sa #guerre_aux_pauvres comme les #Femmes_de_ménage du #Palais.
    Elle assume aussi son #racisme envers les #femmes qui #travail , les #inégalités leur #précarité 

    • UN expert condemns failure to address impact of climate change on poverty

      Climate change will have the greatest impact on those living in poverty, but also threatens democracy and human rights, according to a UN expert.

      “Even if current targets are met, tens of millions will be impoverished, leading to widespread displacement and hunger,” said the UN Special Rapporteur on extreme poverty and human rights, Philip Alston, in a report released today.

      “Climate change threatens to undo the last 50 years of progress in development, global health, and poverty reduction,” Alston said. “It could push more than 120 million more people into poverty by 2030 and will have the most severe impact in poor countries, regions, and the places poor people live and work.”

      Even the unrealistic best-case scenario of 1.5°C of warming by 2100 will see extreme temperatures in many regions and leave disadvantaged populations with food insecurity, lost incomes, and worse health. Many will have to choose between starvation and migration.

      “Perversely, while people in poverty are responsible for just a fraction of global emissions, they will bear the brunt of climate change, and have the least capacity to protect themselves,” Alston said. “We risk a ‘climate apartheid’ scenario where the wealthy pay to escape overheating, hunger, and conflict while the rest of the world is left to suffer.”

      Climate change has immense, but largely neglected, implications for human rights. The rights to life, food, housing, and water will be dramatically affected. But equally importantly will be the impact on democracy, as governments struggle to cope with the consequences and to persuade their people to accept the major social and economic transformations required. “In such a setting, civil and political rights will be highly vulnerable,” the Special Rapporteur said.

      “Most human rights bodies have barely begun to grapple with what climate change portends for human rights, and it remains one on a long laundry list of ‘issues’, despite the extraordinarily short time to avoid catastrophic consequences,” Alston said. “As a full-blown crisis that threatens the human rights of vast numbers of people bears down, the usual piecemeal, issue-by-issue human rights methodology is woefully insufficient.”

      Sombre speeches by government officials at regular conferences are not leading to meaningful action. “States have marched past every scientific warning and threshold, and what was once considered catastrophic warming now seems like a best-case scenario,” Alston said. “Even today, too many countries are taking short-sighted steps in the wrong direction.”

      States are failing to meet even their current inadequate commitments to reduce carbon emissions and provide climate financing, while continuing to subsidise the fossil fuel industry with $5.2 trillion per year.

      “Maintaining the current course is a recipe for economic catastrophe,” Alston said. “Economic prosperity and environmental sustainability are fully compatible but require decoupling economic well-being and poverty reduction from fossil fuel emissions.”

      This transition will require robust policies at the local level to support displaced workers and ensure quality jobs. “A robust social safety net will be the best response to the unavoidable harms that climate change will bring,” Alston said. “This crisis should be a catalyst for states to fulfil long ignored and overlooked economic and social rights, including to social security and access to food, healthcare, shelter, and decent work.”

      Although some have turned to the private sector for solutions, an overreliance on for-profit efforts would nearly guarantee massive human rights violations, with the wealthy catered to and the poorest left behind. “If climate change is used to justify business-friendly policies and widespread privatisation, exploitation of natural resources and global warming may be accelerated rather than prevented,” Alston said.

      “There is no shortage of alarm bells ringing over climate change, and an increase in biblical-level extreme weather events appear to be finally piercing through the noise, misinformation, and complacency, but these positive signs are no reason for contentment,” Alston said. “A reckoning with the scale of the change that is needed is just the first step.”

      https://www.ohchr.org/EN/NewsEvents/Pages/DisplayNews.aspx?NewsID=24735&LangID=E

      #pauvreté

      #Rapport:

      Climate change and poverty

      Climate change will have devastating consequences for people in poverty. Even under the best-case scenario, hundreds of millions will face food insecurity, forced migration, disease, and death. Climate change threatens the future of human rights and risks undoing the last fifty years of progress in development, global health, and poverty reduction.
      Staying the course will be disastrous for the global economy and pull vast numbers into poverty. Addressing climate change will require a fundamental shift in the global economy, decoupling improvements in economic well-being from fossil fuel emissions. It is imperative this is done in a way that provides necessary support, protects workers, and creates decent work.
      Governments, and too many in the human rights community, have failed to seriously address climate change for decades. Somber speeches by government officials have not led to meaningful action and too many countries continue taking short-sighted steps in the wrong direction. States are giving only marginal attention to human rights in the conversation on climate change.
      Although climate change has been on the human rights agenda for well over a decade, it remains a marginal concern for most actors. Yet it represents an emergency without precedent and requires bold and creative thinking from the human rights community, and a radically more robust, detailed, and coordinated approach.

      https://www.ohchr.org/EN/HRBodies/HRC/RegularSessions/Session41/Documents/A_HRC_41_39.docx
      #pauvreté
      ping @reka