• Il Consiglio d’Europa chiede all’Italia di garantire più protezione alle vittime di tratta

    Nel rapporto del Gruppo di esperti sulla lotta alla tratta di esseri umani (Greta) si chiede alle autorità di aumentare le indagini e le condanne, assicurare strumenti efficaci di risarcimento per le vittime e concentrarsi maggiormente sullo sfruttamento lavorativo. Oltre allo stop del memorandum Italia-Libia. Su cui il governo tira dritto.

    Più attenzione alla tratta per sfruttamento lavorativo, maggiori risarcimenti e indennizzi per le vittime e la necessità di aumentare il numero di trafficanti di esseri umani assicurati alla giustizia. Ma anche lo stop del memorandum Italia-Libia e la fine della criminalizzazione dei cosiddetti “scafisti”.

    Sono queste le principali criticità su cui il Gruppo di esperti del Consiglio d’Europa sulla lotta alla tratta di esseri umani (Greta) a fine febbraio ha chiesto al governo italiano di intervenire per assicurare l’applicazione delle normative europee e una tutela efficace per le vittime di tratta degli esseri umani. “Ogni anno in Italia ne vengono individuate tra le 2.100 e le 3.800 -si legge nel report finale pubblicato il 23 febbraio-. Queste cifre non riflettono la reale portata del fenomeno a causa dei persistenti limiti nelle procedure per identificare le vittime, nonché di un basso tasso di autodenuncia da parte delle stesse che temono di essere punite o deportate verso i Paesi di origine”. Una scarsa individuazione dei casi di tratta che riguarderebbe soprattutto alcuni settori “ad alto rischio” come “l’agricoltura, il tessile, i servizi domestici, l’edilizia, il settore alberghiero e la ristorazione”.

    L’oggetto del terzo monitoraggio di attuazione obblighi degli Stati stabiliti dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta degli esseri umani era proprio l’accesso alla giustizia per le vittime. Dal 13 al 17 febbraio 2023, il gruppo di esperti si è recato in Italia incontrando decine di rappresentanti istituzionali e di organizzazioni della società civile. La prima bozza del report adottata nel giugno 2023 è stata poi condivisa con il governo italiano che a ottobre ha inviato le sue risposte prima della pubblicazione finale del rapporto. Quello in cui il Greta, pur sottolineando “alcuni sviluppi positivi” dall’ultima valutazione svolta in Italia nel 2019, esprime “preoccupazione su diverse questioni”.

    Il risarcimento per le vittime della tratta è una di queste. Spesso “reso impossibile dalla mancanza di beni o proprietà degli autori del reato in Italia” ma anche perché “i meccanismi di cooperazione internazionale sono raramente utilizzati per identificare e sequestrare i beni degli stessi all’estero”. Non solo. Il sistema di indennizzo per le vittime -nel caso in cui, appunto, chi ha commesso il reato non abbia disponibilità economica- non funziona. “Serve renderlo effettivamente accessibile e aumentare il suo importo massimo di 1.500 euro”. Come ricostruito anche da Altreconomia, da quando è stato istituito questo strumento solo in un caso la vittima ha avuto accesso al fondo.

    Il Greta rileva poi una “diminuzione del numero di indagini, azioni penali e di condanne” osservando in generale una applicazione ristretta di tratta di esseri umani collegandola “all’esistenza di un elemento transnazionale, al coinvolgimento di un’organizzazione criminale e all’assenza del consenso della vittima”. Tutti elementi non previsti dalla normativa europea e italiana. Così come “desta preoccupazione l’eccessiva durata dei procedimenti giudiziari, in particolare della fase investigativa”.

    Il gruppo di esperti sottolinea poi la persistenza di segnalazioni di presunte vittime di tratta “perseguite e condannate per attività illecite commesse durante la tratta, come il traffico di droga, il possesso di un documento d’identità falso o l’ingresso irregolare”. Un problema che spesso porta la persona in carcere e non nei progetti di accoglienza specializzati. Che in Italia aumentano. Il Greta accoglie infatti con favore “l’aumento dei fondi messi a disposizione per l’assistenza alle vittime e la disponibilità di un maggior numero di posti per le vittime di tratta, anche per uomini e transgender” sottolineando però la necessità di prevedere un “finanziamento più sostenibile”. In questo momento i bandi per i progetti pubblicati dal Dipartimento per le pari opportunità, hanno una durata tra i 17 e i 18 mesi.

    C’è poi la difficoltà nell’accesso all’assistenza legale gratuita che dovrebbe essere garantita alle vittime che invece, spesso, si trovano obbligate a dimostrare di non avere beni di proprietà non solo in Italia ma anche nei loro Paesi d’origine per poter accedere alle forme di consulenza legale gratuita. Problematico è anche l’accesso all’assistenza sanitaria. “I professionisti del Sistema sanitario nazionale -scrive il Greta- non sono formati per assistere le vittime di tratta con gravi traumi e mancano mediatori culturali formati per partecipare alla fornitura di assistenza psicologica”.

    Come detto, il focus degli esperti riguarda la tratta per sfruttamento lavorativo. Su cui l’Italia ha adottato diverse misure di protezione per le vittime ma che però restano insufficienti. “Lo sfruttamento del lavoro continua a essere profondamente radicato in alcuni settori che dipendono fortemente dalla manodopera migrante” ed è necessario “garantire risorse che risorse sufficienti siano messe a disposizione degli ispettori del lavoro, rafforzando il monitoraggio dei settori a rischio e garantendo che le condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori migranti soddisfare i requisiti previsti dalla normativa al fine di prevenire abusi”.

    Infine il Greta bacchetta il governo italiano su diversi aspetti relativi alla nuova normativa sui richiedenti asilo. “Temiamo che le misure restrittive adottate dall’Italia favoriscano un clima di criminalizzazione dei migranti, con il risultato che molte potenziali vittime della tratta non denunciano i loro casi per paura di detenzione e deportazione”, scrivono gli esperti. Sottolineando la preoccupazione rispetto al “rischio di aumento del numero di richiedenti asilo nei centri di detenzione amministrativa” previsto dagli ultimi provvedimenti normativi che aumenterebbe la possibilità anche per le vittime di tratta non ancora identificate di essere recluse. Un rischio riscontrato anche per il Protocollo sottoscritto con l’Albania per gli impatti che avrà “sull’individuazione e la protezione delle persone vulnerabili salvate in mare”.

    Sul punto, nelle risposte inviate al Greta l’8 febbraio 2024, il governo italiano sottolinea che il protocollo siglato con la controparte albanese “non si applicherà alle persone vulnerabili, incluse le vittime di tratta”. Resta il punto della difficoltà di identificazione fatta subito dopo il soccorso, spesso in condizioni precarie dopo una lunga e faticosa traversata.

    Ma nelle dieci pagine di osservazioni inviate da parte dell’Italia, salta all’occhio la puntualizzazione rispetto alla richiesta del Greta di sospendere il memorandum d’intesa tra Italia e Libia che fa sì che “un numero crescente di migranti salvati o intercettati nel Mediterraneo vengano rimpatriati in Libia dove rischiano -scrivono gli esperti- di subire gravi violazioni dei diritti umani, tra cui la schiavitù, il lavoro forzato e lo sfruttamento sessuale”. Nella risposta, infatti, il governo sottolinea che ha scelto di cooperare con le autorità libiche “con l’obiettivo di ridurre i morti in mare, nel pieno rispetto dei diritti umani” e che la collaborazione “permette di combattere più efficacemente le reti di trafficanti di esseri umani e di coloro che contrabbandano i migranti”. Con il rispetto dei diritti umani, del diritti umanitario e internazionale che è “sempre stata una priorità”. Evidentemente non rispettata. Ma c’è un dettaglio in più.

    Quel contrasto al traffico di migranti alla base anche del memorandum con la Libia, sbandierato a più riprese dall’esecutivo italiano (“Andremo a cercare gli ‘scafisti’ lungo tutto il globo terracqueo”, disse la premier Giorgia Meloni a inizio marzo 2023) viene messo in discussione nel rapporto. Dopo aver sottolineato la diminuzione delle indagini sui trafficanti di esseri umani, il Greta scrive che i “capitani” delle navi che arrivano in Italia “potrebbero essere stati costretti tramite minacce, violenza fisica e abuso di una posizione di vulnerabilità nel partecipare all’attività criminali”. Indicatori che li farebbero ricadere nella “categoria” delle vittime di tratta. “Nessuno, però, è stato considerato come tale”, osservano gli esperti. Si scioglie come neve al sole la retorica sulla “guerra” ai trafficanti. I pezzi grossi restano, nel frattempo, impuniti.

    https://altreconomia.it/il-consiglio-deuropa-chiede-allitalia-di-garantire-piu-protezione-alle-

    #traite_d'êtres_humains #Italie #protection #Conseil_de_l'Europe #exploitation #Greta #rapport #agriculture #industrie_textile #hôtelerie #bâtiment #BTS #services_domestiques #restauration #indemnisation #accès_à_la_santé #criminalisation_de_la_migration #Albanie

  • Autour des microplastiques et du sens des priorités de celleux qui nous gouvernent...

    35 % des #microplastiques primaires proviennent du lavage des #vêtements_synthétiques
    28 % des #microplastiques_primaires proviennent du frottement des #pneus lors de la conduite

    Mais on va interdire les paillettes (https://www.lemonde.fr/planete/article/2024/01/07/pourquoi-les-paillettes-sont-en-voie-d-etre-interdites-dans-l-union-europeen). Le sens des priorités...
    https://eldritch.cafe/@ralocycleuse/111713256302292054

    Pourquoi les #paillettes sont en voie d’être interdites dans l’Union européenne

    https://www.lemonde.fr/planete/article/2024/01/07/pourquoi-les-paillettes-sont-en-voie-d-etre-interdites-dans-l-union-europeen

    #transports #industrie_textile #interdiction

    • Microplastiques : sources, impact et solutions

      D’où viennent les microplastiques et quel impact ont-ils ? Apprenez-en plus sur les microplastiques et découvrez les solutions sur lesquelles travaille le Parlement européen.

      Que sont les microplastiques et d’où viennent-ils ?

      Les microplastiques sont de minuscules morceaux de #plastique qui mesurent généralement moins de 5 millimètres. Ils peuvent être divisés en deux catégories en fonction de la source dont ils proviennent.

      Les microplastiques primaires

      - Ils sont directement rejetés dans l’environnement sous forme de petites particules
      - On estime qu’ils représentent entre 15 et 31 % des microplastiques présents dans les océans
      - 35 % des microplastiques primaires proviennent du lavage des #vêtements_synthétiques
      – 28 % des microplastiques primaires proviennent du frottement des pneus lors de la conduite
      – 2 % proviennent des #produits_de_soin dans lesquels ils sont ajoutés volontairement (par exemple dans les #gommages)

      Les #microplastiques_secondaires

      – Proviennent de la #dégradation_d’objets en plastique plus grands tels que les #sacs_en_plastique, les #bouteilles, les filets de pêche
      – Représentent entre 69 et 81 % des microplastiques retrouvés dans les océans

      Microplastiques : quel impact ont-ils ?

      On retrouve de plus en plus de microplastiques dans les océans. Les Nations Unies ont déclaré en 2017 que l’océan contenait 51 trillons de particules, 500 fois plus que le nombre d’étoiles dans la galaxie.

      Les microplastiques présents dans l’océan peuvent être ingérés par les espèces marines et donc, se retrouver dans la chaîne alimentaire. Des microplastiques ont en effet été retrouvés dans des produits alimentaires comme la bière, le miel ou encore l’eau du robinet.

      Leur impact sur la santé humaine n’est pas encore connu mais les plastiques contiennent souvent des additifs tels que des stabilisants ou des agents ignifuges qui peuvent être nuisibles pour les humains ou pour les animaux qui les ingèrent.

      Sur quelles solutions l’Union européenne travaille-t-elle ?

      En septembre, les députés européens ont approuvé la stratégie plastiques qui a pour objectif d’augmenter le taux de recyclage des déchets plastiques dans l’UE. De plus, les députés ont appelé la Commission à introduire une interdiction à l’échelle européenne de tous les microplastiques ajoutés volontairement dans les produits cosmétiques et dans les détergents d’ici 2020 et à prendre des mesures pour minimiser les rejets de microplastiques provenant des textiles, des pneus, des peintures et des filtres à cigarette.

      En octobre, le Parlement a introduit une interdiction des plastiques à usage unique les plus retrouvés dans les océans et pour lesquels des alternatives plus écologiques existent. Les députés ont ajouté les plastiques oxodégradables à la liste des produits à interdire. Ces plastiques oxodégradables sont des plastiques conventionnels qui se brisent facilement en petites particules à cause des additifs qu’ils contiennent et contribuent à la pollution des océans.

      En 2015, le Parlement a voté en faveur de la réduction de l’utilisation des sacs en plastique dans l’Union européenne.

      https://www.europarl.europa.eu/news/fr/headlines/society/20181116STO19217/microplastiques-sources-impact-et-solutions

  • Sulla differenziata dei rifiuti tessili l’Italia è ancora all’anno zero

    Dal primo gennaio 2022 è entrato in vigore l’obbligo di raccolta separata per i vecchi vestiti che vengono gettati. A oggi sono poche le esperienze sui territori: manca una regia a livello nazionale che permetta alla filiera di strutturarsi

    Nonostante l’attenzione maniacale degli abitanti di Capannori (LU) per ridurre la produzione di rifiuti e per differenziare il più possibile le singole frazioni, una quota significativa di vecchie magliette, jeans e giacche dismessi perché troppo stretti o fuori moda continuava a sfuggire alla raccolta. “Già da tempo avevamo i cassonetti dedicati, ma da un’analisi sui materiali presenti nei sacchi ‘grigi’ è emerso che i tessili rappresentavano ancora il 15% della frazione indifferenziata”, spiega ad Altreconomia l’assessore comunale all’Ambiente, Giordano Del Chiaro-. Così abbiamo deciso di togliere i cassonetti e a luglio 2022 abbiamo avviato la raccolta porta a porta”.

    Ai cittadini viene consegnato un apposito sacco trasparente -che viene ritirato ogni due mesi- dove possono mettere indumenti, scarpe, borse, coperte, cuscini, lenzuola e tovaglie senza preoccuparsi delle loro condizioni: è possibile, infatti, conferire anche capi danneggiati o usurati. “La sperimentazione è andata bene, anche per merito dei cittadini di Capannori che sono molto sensibili a questi temi -sottolinea l’assessore-. Nel 2023 il porta a porta è diventato strutturale per questa frazione e si inserisce all’interno di un progetto più ampio: attraverso il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) abbiamo ottenuto un finanziamento da cinque milioni di euro per l’attivazione di centro di selezione con una capacità di trattamento di 6.500 tonnellate l’anno”.

    Qui si svolgeranno le attività di selezione dei capi, separando quelli rovinati da quelli in buone condizioni, i maglioni di lana dai jeans, i vestiti invernali da quelli estivi e così via con l’obiettivo di incanalarli separatamente lungo la filiera più corretta: il riutilizzo (ad esempio la commercializzazione sul mercato second hand), il riciclo (il recupero della fibra per produrre nuovi capi o l’utilizzo del materiale tessile di scarto per realizzare imbottiture) o, in quota residua, per tutto quello che non è possibile utilizzare altrimenti, lo smaltimento.

    Quella di Capannori è una delle poche novità che si sono registrate nel settore da quando, il primo gennaio 2022, è entrato in vigore l’obbligo di raccolta differenziata dei rifiuti tessili in base a quanto previsto dal decreto legislativo 116/2020 con cui l’Italia ha anticipato di tre anni l’attuazione di uno dei decreti contenuti nel “Pacchetto di direttive sull’economia circolare” adottato dall’Unione europea nel 2018. “Non si sta facendo nulla per organizzare la raccolta differenziata a livello nazionale, che però dovrà tassativamente entrare in vigore nel 2025 in base a quanto previsto dalle normative europee -commenta Rossano Ercolini, presidente della Rete Zero Waste Europe-. Da un punto di vista operativo sono stati due anni persi, anche se alcune realtà hanno iniziato a porsi il problema e a sperimentare modelli”.

    “L’assenza di una norma di riferimento pone tutti in una situazione di attesa che non aiuta le aziende e ovviamente neanche l’ambiente” – Giancarlo Dezio

    A fronte dell’obbligo di avvio della raccolta differenziata non sono stati approvati i provvedimenti necessari a strutturare la filiera. Aziende e consorzi sono quindi ancora in fase di attesa: “Abbiamo sollecitato i ministeri interessati a redigere un testo attorno al quale potersi confrontare per rendere a tutti gli effetti operativa la gestione dei prodotti tessili -spiega ad Altreconomia Giancarlo Dezio, direttore generale di Ecotessili, consorzio nato nel 2021 per iniziativa di Federdistribuzione-. L’assenza di una norma di riferimento pone tutti in una situazione di attesa che non aiuta le aziende e ovviamente neanche l’ambiente”. Oltre a Ecotessili, in questi anni hanno preso vita anche altre realtà, tra cui Re.Crea, coordinato dalla Camera nazionale della moda, Cobat Tessile e Retex.Green, lanciato dal Sistema moda Italia (Smi) ed Erion.

    A questo si aggiunge il fatto che solo a inizio luglio 2023 la Commissione europea ha pubblicato la sua proposta per la revisione della Direttiva quadro sui rifiuti (tra cui i tessili) che comprende anche la creazione di sistemi di Responsabilità estesa del produttore (Erp) obbligatori e armonizzati tra tutti i Paesi dell’Unione: sul modello di quanto avviene, ad esempio, per i rifiuti elettrici ed elettronici, i marchi di moda e i produttori tessili saranno tenuti a pagare un contributo per ogni capo immesso sul mercato, che andrà poi a coprire i costi di raccolta, selezione, riutilizzo e riciclo. Una proposta accolta con favore dalla Federazione europea di organizzazioni ambientaliste (European environmental bureau) che invita la Commissione a fissare obiettivi ambiziosi: “L’Ue si è impegnata a fermare la fast fashion. Ora è giunto il momento di una politica veramente trasformativa, che stabilisca contributi adeguati -ha dichiarato Emily Macintosh, senior policy officer della federazione per il settore tessile-. Non possiamo regalare ai brand un lasciapassare per continuare a produrre in eccesso capi di bassa qualità progettati per una breve durata di vita e aspettarci di riciclare quantità sempre maggiori di rifiuti tessili”. I tempi per l’approvazione della direttiva però si prospettano lunghi, anche alla luce delle prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo del giugno 2024.

    Tra chi guarda con attenzione a quello che succede a Bruxelles ci sono anche le tante realtà del mondo della cooperazione sociale cui, da anni, molti Comuni italiani o municipalizzate affidano la raccolta di questa frazione. “Quaranta realtà che aderiscono a Confcooperative Federsolidarietà raccolgono circa 50mila tonnellate di rifiuti tessili, quasi un terzo del totale a livello nazionale. Sono presenti in 11 Regioni e attraverso questa attività creano occupazione per oltre cinquemila lavoratori, di cui 1.500 persone con disabilità o soggetti svantaggiati -spiega ad Altreconomia il presidente Stefano Granata-. Abbiamo preso consapevolezza della nostra forza e delle competenze accumulate in questi anni sui tanti territori in cui siamo presenti: abbiamo una rete capillare e diffusa, ma quello che ci manca è dare una risposta più strutturata alle fasi successive della filiera.

    Sono 50mila le tonnellate di rifiuti tessili che raccolgono le quaranta realtà aderenti a Confcooperative Federsolidarietà, circa un terzo del totale a livello nazionale. Sono presenti in 11 Regioni e attraverso questa attività creano occupazione per oltre cinquemila lavoratori, di cui 1.500 persone con disabilità o soggetti svantaggiati

    Per questo vogliamo crescere ancora, anche per creare più posti di lavoro, e nel corso del 2024 daremo vita a un’associazione per riunire tutte le nostre realtà attive nel settore”. Tra quelle che hanno iniziato a tracciare un percorso virtuoso lungo i passaggi successivi alla raccolta c’è Vestisolidale, una delle nove cooperative della rete Riuse attiva in circa 400 Comuni delle province di Milano, Varese, Monza e Brianza, Bergamo e Brescia che nel corso del 2022 ha raccolto e avviato al recupero circa 13mila tonnellate di rifiuti tessili. “A oggi il sistema è stato incentrato sulla presenza di cassonetti dedicati all’abbigliamento in buone condizioni, mentre tutto il resto spesso finiva nell’indifferenziata -spiega Matteo Lovatti, presidente di Vestisolidale-. In un anno noi mediamente raccogliamo 4,5 chili per abitante, ma le stime parlano di un immesso al consumo di 20 chili all’anno per persona. La sfida è riuscire a intercettare quella differenza”.

    Ma la raccolta non è tutto. Già da alcuni anni, infatti, Vestisolidale gestisce negozi per la vendita diretta di capi second hand e nel 2024 metterà in funzione anche uno stabilimento con sede a Rho, Comune alle porte di Milano, per la selezione e la preparazione del materiale tessile per le successive fasi di lavorazione: “L’impianto è stato autorizzato per trattare 20mila tonnellate di materiale all’anno e a regime contiamo di assumere una trentina di dipendenti”, aggiunge Lovatti. L’occhio esperto dei selezionatori permette di andare a dividere quei capi che possono essere re-immessi in commercio da quelli che invece devono essere destinati al riciclo e, più nel dettaglio, di separare le singole fibre che possono così essere trasformate in “materia prima-seconda” per la produzione di nuovi capi in cotone, lana o cachemire rigenerato.

    “Focalizzarsi sulla gestione dei rifiuti e non su come e quanto si produce significa ignorare il vero problema. La circolarità rischia di essere una scappatoia” – Dario Casalini

    “In Italia è presente una rete molto forte di realtà che hanno una grande esperienza e professionalità in merito al riutilizzo della frazione tessile -sottolinea Raffaele Guzzon, presidente del consorzio Erion, che riunisce realtà come Amazon, Artsana e Save the Duck-. Ma quello su cui vogliamo puntare è garantire la corretta gestione delle frazioni non riutilizzabili e che non possono essere re-immesse sul mercato del second hand: guardiamo ad esempio alle aziende che si stanno specializzando nel riutilizzo degli scarti tessili per produrre imbottiture o materiali fonoassorbenti”.

    Chi invece prova a fare un passo indietro e osservare la questione della gestione dei rifiuti tessili nel suo complesso è Dario Casalini, già docente di Diritto pubblico, oggi amministratore delegato del marchio di maglieria Oscalito 1936 e fondatore della rete Slow Fiber, una realtà che vuole essere un’alternativa al fenomeno dilagante del fast fashion. “Preoccuparsi solo dell’ultima fase di vita dei capi d’abbigliamento è come curare un mal di testa senza intervenire sulle cause -spiega-. Focalizzarsi sulla gestione dei rifiuti tessili e non su come e quanto si produce significa ignorare il vero problema. Tutta l’attenzione che, anche a livello europeo, si sta mettendo sulla circolarità è positiva, ma c’è il rischio che possa essere una scappatoia per consentire al sistema della moda di continuare a operare come sta facendo ora”.

    https://altreconomia.it/sulla-differenziata-dei-rifiuti-tessili-litalia-e-ancora-allanno-zero
    #déchets #déchets_textiles #recyclage #textiles #industrie_textiles #Italie #habits #sélection #tri #ré-usage #loi

  • I grandi marchi della fast fashion non vogliono rinunciare al petrolio russo

    Nel 2023 le due principali società produttrici di poliestere, l’indiana #Reliance industries e la cinese #Hengli group, hanno continuato a utilizzare il greggio di Mosca. La maggior parte dei brand -da #Shein a #H&M, passando per #Benetton- chiude un occhio o promette impegni generici. Il dettagliato report di #Changing_markets.

    Quest’anno i principali produttori globali di poliestere, la fibra tessile di origine sintetica derivata dal petrolio, non solo non hanno interrotto i propri legami con la Russia ma al contrario hanno incrementato gli acquisti della materia prima fondamentale per il loro business. È quanto emerge da “#Crude_Couture”, l’inchiesta realizzata da Changing markets foundation pubblicata il 21 dicembre, a un anno di distanza dalla precedente “Dressed to kill” che aveva svelato i legami segreti tra i principali marchi della moda e il petrolio di Mosca.

    “Quest’indagine -si legge nell’introduzione- evidenzia il ruolo fondamentale svolto dall’industria della moda nel perpetuare la dipendenza dai combustibili fossili e segnala una preoccupante mancanza di azione per rompere i legami con il petrolio russo”. Un’inazione, sottolineano i ricercatori, che sta indirettamente finanziando la guerra in Ucraina. E non si tratta di un contributo di poco conto: le fibre sintetiche, infatti, pesano per il 69% sulla produzione di fibre e il poliestere è di gran lunga il più utilizzato, lo si può trovare infatti nel 55% dei prodotti tessili attualmente in circolazione. Se non ci sarà una netta inversione di tendenza, si stima che entro il 2030 quasi tre quarti di tutti i prodotti tessili verranno realizzati a partire da combustibili fossili.

    Il poliestere è fondamentale per l’esistenza dell’industria del fast fashion, e ancora di più per i marchi di moda ultraveloce come Shein: un’inchiesta pubblicata da Bloomberg ha mostrato che il 95% dei capi prodotti dal marchio di moda cinese conteneva materiali sintetici mentre per brand come #Pretty_Little_Thing, #Misguided e #Boohoo la percentuale era dell’83-89%.

    Al centro delle due inchieste realizzate da Changing markets ci sono due importanti produttori di questo materiale: l’indiana #Reliance_industries (con una capacità produttiva stimata in 2,5 milioni di tonnellate all’anno) e la cinese #Hengli_group. I filati e i tessuti che escono dai loro stabilimenti vengono venduti ai produttori di abbigliamento di tutto il mondo che, a loro volta, li utilizzano per confezionare magliette, pantaloni, cappotti, scarpe e altri accessori per importanti brand. Su 50 marchi presi in esame in “Dressed to kill” 39 erano direttamente o indirettamente collegati alle catene di fornitura di Hengli group or Reliance industries, tra questi figurano #H&M, #Inditex (multinazionale spagnola proprietaria, tra gli altri, di #Bershka e #Zara), #Adidas, #Uniqlo e #Benetton.

    Anche dopo la pubblicazione di “Dressed to kill”, Reliance e Hengli hanno continuato ad acquistare petrolio russo. A marzo 2023 l’India ha acquistato da Mosca la quantità record di 51,5 milioni di barili di greggio: “Insieme a Nayara Energya, la principale compagnia petrolifera indiana, Reliance industries ha rappresentato più della metà (52%) delle importazioni totali”, si legge nell’inchiesta. In crescita anche le importazioni cinesi (+11,7% rispetto all’anno precedente). “Nel maggio 2023, #Hengli_Petrochemical ha ricevuto 6,44 milioni di barili di greggio russo, come riportato dai dati di tracciamento delle navi dell’agenzia Reuters -scrivono gli autori del report-. Queste tendenze rivelano il persistente legame tra le aziende di moda che si riforniscono da questi produttori di poliestere e il petrolio russo”. Oltre alla violazione delle sanzioni imposte a Mosca da diversi governi, compresi quello degli Stati Uniti e dell’Unione europea.

    I ricercatori di Changing markets hanno quindi deciso di tracciare un bilancio e hanno inviato un questionario a 43 brand (compresi i 39 già presi in esame in “Dressed to kill”) per verificare se avessero interrotto i rapporti con Reliance ed Hengli. Appena 18 hanno risposto alle domande e solo due aziende (Esprit e G Star Raw) hanno dichiarato di aver tagliato i ponti con i due produttori. Una terza (Hugo Boss) si è impegnata a eliminare gradualmente il poliestere e il nylon: “Le altre rimangono in silenzio o minimizzano l’urgenza della crisi ucraina con vaghe promesse di cambiamento a diversi anni di distanza o con false soluzioni, come il passaggio al poliestere riciclato, per lo più da bottiglie di plastica”, si legge nel report.

    Tre società (H&M, C&A e Inditex) hanno risposto al questionario “distogliendo l’attenzione” dal legame con il petrolio russo per enfatizzare future strategie di transizione dal poliestere vergine a quello riciclato (da bottiglie di plastica) o verso materiali di nuova generazione. H&M ad esempio ha dichiarato la propria intenzione di non approvvigionarsi più di poliestere vergine entro il 2025 “tuttavia non ha chiarito le sue attuali pratiche per quanto riguarda i fornitori di poliestere legati al petrolio russo”. Analogamente, la catena olandese C&A afferma di volersi concentrare su materiali riciclati e di nuova generazione senza fornire informazioni sui legami con i fornitori oggetto dell’inchiesta. Nemmeno la spagnola Inditex ha risposto alle domande in merito a Reliance ed Hengli. Anche l’italiana Benetton avrebbe fornito risposte insufficienti o generiche: “Si è impegnata vagamente a una transizione verso materiali ‘preferiti’ -scrivono gli autori dell’inchiesta-, senza specificare però l’approccio ai materiali sintetici”.

    Tra quanti non hanno risposto al questionario c’è proprio Shein ma i suoi legami con il produttore indiano di poliestere sono evidenti: a maggio 2023 infatti le due società hanno sottoscritto un accordo in base al quale il colosso può utilizzare le capacità di approvvigionamento, l’infrastruttura logistica e l’ampia rete di negozi fisici e online di Reliance Retail, segnando così il ritorno di Shein in India dopo una pausa di tre anni. “Poiché il poliestere rappresenta il 64% del mix di materiali del brand e il 95,2% dell’abbigliamento di contiene plastica vergine, l’imminente collaborazione con Reliance suggerisce che una parte significativa delle circa 10mila novità giornaliere di Shein potrebbe in futuro essere derivata da prodotti di plastica vergine prodotti grazie a petrolio russo”, conclude il report.

    https://altreconomia.it/i-grandi-marchi-della-fast-fashion-non-vogliono-rinunciare-al-petrolio-

    #Russie #pétrole #fast-fashion #mode #polyester #rapport #textile #industrie_textile #industrie_de_la_mode

    • Fossil Fashion

      Today’s fashion industry has become synonymous with overconsumption, a snowballing waste crisis, widespread pollution and the exploitation of workers in global supply chains. What is less well known is that the insatiable fast fashion business model is enabled by cheap synthetic fibres, which are produced from fossil fuels, mostly oil and gas. Polyester, the darling of the fast fashion industry, is found in over half of all textiles and production is projected to skyrocket in the future. Our campaign exposes the clear correlation between the growth of synthetic fibres and the fast fashion industry – one cannot exist without the other. The campaign calls for prompt, radical legislative action to slow-down the fashion industry and decouple it from fossil fuels.

      Crude Couture: Fashion brands’ continued links to Russian oil

      December 2023

      Last year, our groundbreaking ‘Dressed to Kill’ investigation delved deep into polyester supply chains, unveiling hidden ties between major global fashion brands and Russian oil. We exposed Russia’s pivotal role as a primary oil supplier for key polyester producers India’s Reliance Industries and China’s Hengli Group, which were found to be supplying fibre for the apparel production of numerous fashion brands.

      Now, a year later, we returned to the fashion companies to evaluate if they have severed ties with these suppliers. Shockingly, our latest report reveals an alarming trend: the two leading polyester producers are increasingly reliant on war-tainted Russian oil in 2023. Despite prior warnings about these ties, major fashion brands continue to turn a blind eye, profiting from cheap synthetics, while Ukraine suffers. Only two companies – Esprit and G Star Raw – said they cut ties with the two polyester producers, while Hugo Boss committed to phase out polyester and nylon. The others remain silent or downplay the urgency of the Ukrainian crisis with vague promises of change several years ahead or with false solutions, such as switching to recycled polyester – mostly from plastic bottles. This investigation sheds light on the fashion industry’s persistent dependance on fossil fuel and their lack of action when it comes to climate change and fossil fuel phase out.

      https://changingmarkets.org/portfolio/fossil-fashion

  • Marine pollution, a Tunisian scourge: Jeans industries destroy the marine ecosystem in the #Ksibet_El-Mediouni Bay

    The Made in Tunisia clothes industry for the European market consumes large amounts of water and pollutes Tunisia’s coastline. In Ksibet El Mediouni, the population is paying the price of the environmental cost of #fast_fashion.

    Behind the downtown promontory, blue-and-white tourist villas and monuments celebrating former Tunisian President Habib Bourguiba, born in Monastir, give way to gray warehouses. Made in Tunisia clothes for export are cut, sewn, and packed inside these hangars and garages, many undeclared, by a labor force mostly of women, who are paid an average of 600 dinars, as confirmed by the latest social agreement signed with the main trade union, the Tunisian General Labour Union (UGTT), obtained by inkyfada.

    The triangle of death”

    The clothes are then shipped to the European Union, the primary export market. While most Tunisians can afford to buy second-hand clothes on the so-called “fripes” markets, 82% of Tunisian textile production leaves the country, according to the latest figures published in a report by the NGO Avocats Sans Frontières. Tunisia, like Morocco and Egypt, are attractive destinations for textile manufacturing multinationals due to their geographical proximity to the European market.

    Here, the tourist beaches quickly become a long, muddy marine expanse. The road that leads to the working-class neighborhoods south of Monastir, known as a hub of the textile industry - Khniss, Ksibet, Lamta, Ksar Hellal, Moknine - is paradoxically called Boulevard de l’Environnement (Environment Boulevard).

    This street name can be found in every major city in the country as a symbol of the ’authoritarian environmentalism of Ben Ali’s 1990s Tunisia’ - as researcher Jamie Furniss called it - redeeming the image of dictatorship ’by appealing to strategic hot-button issues in the eyes of the “West.”’

    After rolling up his pants, he dips his feet into the dirty water and climbs into a small wooden boat. ’Nowadays, to find even a tiny fish, we must move away from the coast.’

    ’Sadok is one of the last small fishermen who still dares to enter these waters,’ confirms Yassine, a history professor in the city’s public school, watching him from the main road to cope with the strong smell.

    Passers-by of Boulevard de l’Environnement agree: the Ksibet El-Mediouni Bay died ‘because of an abnormal concentration of textile companies in a few kilometers’, they say, polluting the seawater where the population used to bathe in summer.

    The region is home to five factory clusters. ’Officially, there are 45 in all, but there are illegal ones that we cannot count or even notice. They are often garages or warehouses without signs,’ confirms Mounir Hassine, head of Monastir’s Tunisian Forum for Economic and Social Rights.

    This is how the relocation of textile industries works: the big brands found in French, Italian, Spanish, and German shops relocate to Tunisia to cut costs. ’Then some local companies outsource production to other smaller, often undeclared companies to reduce costs and be more competitive,’ explains Habib Hazemi, President of the General Federation of Textiles, Clothing, Footwear, and Leather in the offices of the trade union UGTT.

    According to Hassine from the Tunisian Forum for Economic and Social Rights (FTDES), ‘undeclared factories often dig wells to access groundwater and end up polluting the Bay by discharging wastewater directly into the sea’.

    The public office responsible for water treatment (Office National de l’Assainissement, ONAS) ’fails to treat all this wastewater,’ he adds, so State and private parties bounce responsibilities off each other’. ’The result is that nothing natural is left here,’ Yassine keeps repeating.

    The unheard call of civil society

    Fatma Ben Amor, 28, has learned the meaning of pollution by looking at it through her window and listening to the stories of her grandparents, born and raised in the small town of Ksibet El Mediouni. ’ They often tell me that people used to bathe and go fishing here. I never knew the ’living’ beach,’ says this local activist.

    After the revolution, her city became the center of a wave of protests in 2013 by the population against ’an ecological and health disaster,’ it was written on the protesters’ placards. Nevertheless, the protests yielded no results, and marine pollution has continued.

    Founded in 2014, the Association for the Protection of the Environment in Ksibet el Mediouni (APEK) monitors the level of marine pollution in the so-called ’triangle of death.’ Fatma tries to raise awareness in the local community: ’We began with a common reflection on resource management in the region and the idea of reclaiming our bay. Here, youth are used to the smells, the waste, the dirty sea.’

    Under one of the bridges on Boulevard de l’Environnement runs one of the few rivers where there is still water. That water, however, ‘gathers effluent from the area’s industries’, the activists complain. ’The water coming from Oued el-Melah, where all the factories unload, pollutes the sea,’ she explains by pointing to the oued.

    According to the latest report by Avocats Sans Frontières (ASF) and FTDES in August 2023, one of the leading causes of marine pollution in Monastir governorate would be the denim washing process, a practice used in the dyeing of jeans.

    The ASF research explains that the jeans sector is characterized by technical processes involving chemicals - such as acetic acid used for washing, several chemical detergents and bleaching products, or hydrogen peroxide - and massive water consumption in a country suffering from water stress.

    During the period of 2011-2022, Tunisia has ratified important international texts that will strengthen and enrich Tunisian national law in terms of pollution control, environmental security, and sustainable development. ’ Although the regulations governing environmental protection and the use of water resources are strict, the authorities in charge of controls and prosecutions are outdated and unable to deal with the infringements,’ the ASF report confirms.

    According to both civil society organizations, there are mainly two sources of pollution in Ksibet Bay: polluting industries discharging chemicals directly into the seawater and the Office de l’Assainissement (ONAS) , ’which should be responsible for treating household wastewater, but mainly manages wastewater from factories discharging, and then throw them into the sea,’ Fatma Ben Amor explains.

    ’Take, for example, the ONAS plant at Ouad Souk, in Ksibet Bay. Created in 1992, it has a treatment capacity of 1,680 cubic meters per day, with a population more or less adapted to this capacity. It receives more than 9,000 cubic meters daily on average,’ Mounir Hassine confirms.

    ONAS did not respond to our interview requests. The Tunisian Textile and Clothing Federation (FTTH), representing part of the sector’s employers, assures that ‘the large companies in the region have all the necessary certifications and now use a closed cycle that allows water to be reused.’ The FTTH adds that the sector is taking steps towards the energy transition and respect for the environment.

    UTICA Monastir, the other branch of the employers’ association, has also confirmed this information. While a system of certifications and environmental audits has been put in place to monitor the work of large companies, ‘the underground part of the production chain escapes the rules,’ admits one entrepreneur anonymously.

    This pair of jeans is water’

    ONAS finds itself treating more water than the treatment stations’ capacities because, within a few decades, the Monastir region has radically changed its economic and resource management model. A few kilometers from the towns on the coast, roads run through olive groves that recall the region’s agricultural past.

    But today, agriculture and fishing are also industrialized: the governorate of Monastir produced almost 20,000 tonnes of olive oil by 2020. With 14 aquaculture projects far from the coast, the region ranks first in fish production, with an estimated output of between 17,000 and 18,000 tonnes by 2022.

    A wave of drought in the 1990s intensified the rural exodus from inland Tunisia to the coast. ’This coastal explosion has been accompanied by a development model that looked to globalization rather than domestic needs,’ Mounir Hassine from FTDES explains. ’Our region has been at the heart of so-called vulnerable investments, which bring in cheap labor without considering environmental needs and rights.’

    This sudden increase in residents has put greater pressure on the region’s natural water resources, ‘which supply only 50% of our water needs,’ he adds. The remaining 50 percent comes from the increasingly empty northern Oued Nebhana and Oued Medjerda dams. However, much of the water resources are not used for household needs but for industrial purposes.

    According to the ASF report, export companies draw their water partly from the public drinking water network (SONEDE). But the primary source is wells that draw water directly from the water table: ’Although the water code regulates the use of wells, 70% of the water used by the textile industry comes from the region’s unauthorized groundwater’. ’Most wells are dug inside the factories,’ Mounir Hassine from FTDES confirms.

    Due to the current drought wave and mismanagement of resources, Tunisia is now in water poverty, with an average use of 450 cubic meters of water per citizen (the poverty line is 500), according to 2021 data. Moreover, the Regional Agricultural Commission figures show that the water level in Monastir’s aquifers falls between three and four meters yearly.

    Water mismanagement is not just a problem in the textile industry. This type of production, however, is highly water-hungry, especially when it comes to the denim washing process.

    Even if the big brands are at the top of the production chain that ends on the coast of Ksibet El Medeiouni, ‘ they will rarely be held accountable for the social and environmental damage they leave behind,’ admits an entrepreneur in the sector working in subcontracting. Tunisian companies all work for several brands at the same time, and they don’t carry the same name as the big brands, which outsource production.

    ‘Tracing the chain of responsibility is complicated, if not impossible,’ confirms Adel Tekaya, President of UTICA #Monastir.

    The EU wants to produce more green but continues to relocate South

    Once taken directly from the aquifer or from the public drinking water company, SONEDE, a part of the waters polluted by chemical processes, thus ends up in the sea without being filtered. According to scholars, textile dyeing is responsible for the presence of 72 toxic chemicals in water, 30 of which cannot be eliminated.

    According to the World Bank, between 17% and 20% of industrial water pollution worldwide is due to the dyeing and finishing processes used in the textile industry. A figure confirmed by the European Parliament states:

    “Textile production is estimated to be responsible for around 20% of global clean water pollution from dyeing and finishing products".

    The EU has set itself the target of achieving good environmental status in the marine environment by 2025 by applying the Marine Strategy Framework Directive. Still, several polluting sectors continue to relocate their production to the Southern countries, where ‘there are fewer controls and costs,’ explains the entrepreneur requesting anonymity for fear of consequences for criticizing a ’central sector’ in the country.

    But pollution knows no borders in the Mediterranean. 87% of the Mediterranean Sea remains contaminated by chemical pollutants, according to the first map published by the European Environment Agency (EEA), based on samples taken from 1,541 sites.

    The environmental damage of the textile industry - considered one of ‘the most polluting sectors on the planet’ - was also addressed at Cop27 in Sharm El-Sheikh, where a series of social and climate objectives concerning greater collaboration between the EU and the MENA region were listed.

    One of the main topics was the urgent harmonization of environmental standards in the framework of the installation of digital product passports’, a tool that will track the origin of all materials and components used in the manufacturing process.

    FTTH ensures that large companies on the Monastir coast have invested in a closed water re-use cycle to avoid pollution. ‘All companies must invest in a closed loop that allows water reuse,’ Mounir Hassine reiterates.

    But to invest in expensive and reconversion work requires a long-term vision, which not all companies have. After a period of ten years, companies can no longer benefit from the tax advantages guaranteed by Tunisian investment law. ‘Then they relocate elsewhere or reopen under another name,’ Mounir Hassine adds.
    Environmental and health damages of marine pollution

    Despite the damage, only female workers walking around in white or colored uniforms at the end of the working day prove that the working-class towns south of Monastir constitute the most important manufacturing hub of Made In Tunisia clothes production. The sector employs 170,000 workers in the country.

    Tunisia is the ninth-largest exporter of clothing from the EU, after Cambodia, according to a study by the Textile Technical Centre in 2022. More than 1,530 companies are officially located there, representing 31% of the national fabric. 82% of this production is exported mainly to France, Italy, Belgium, Germany, and Spain.

    Some women sit eating lunch not far from warehouses on which signs ending in -tex. Few dare to speak; one of them mentions health problems from exposure to chemicals. ’We have received complaints about health problems caused by the treatment and coloring of jeans,’ confirms FGTHCC-UGTT (Textile, Clothing, Footwear and Leather Federation) general secretary Habib Hzemi. Studies have also shown that textile workers – particularly in the denim industry – have a greater risk of skin and eye irritation, respiratory diseases, and cancer.

    Pollution, however, affects not only the textile workers but the entire community of Ksibet. ’We do not know what is in the seawater, and many of us prefer not to know. We have tried to get laboratory tests, but they are very expensive,’ explains Fatma Ben Amor of the APEK Association.

    According to an opinion poll by the Association for the Protection of the Environment of Ksibet Mediouni (APEK) in July 2016, the cancer rate is 4.3%. Among the highest rates worldwide,’ explains a study on cancer in Ksibet for the German Heinrich Böll Stiftung. Different carcinogenic diseases have been reported in the local community, but a cancer register has never been set up.

    Pollutants from the textile industry have impacted marine life too. Like all towns on the coast, Monastir is known for fishing bluefish, sea bream, cod, and other Mediterranean species. But artisanal fishing is increasingly complicated in front of the bay of Ksibet El Mediouni, and the sector has become entirely industrialized. Thus, the town’s small port is deserted.

    ’The port of Ksibet is emptying out, while the ports of Sayeda and Teboulba, beyond the bay, are still working. There are only a few small-scale fishermen left. We used to walk into the water to catch octopuses with our hands,’ one of the port laborers explains anonymously, walking on the Bay.

    ’Thirty years ago, this was a nursery for many Mediterranean species due to the shallow waters. Now, nothing is left,’ he adds. As confirmed by several fishermen in the area, the population has witnessed several fish deaths, most recently in 2020.

    ’We sucked up the algae, waste, and chemical waste a few years ago for maintenance work,’ explains the port laborer. ’Once we cleaned it up, the sea breathed again. For a few days, we saw fish again that we had not seen for years. Then the quicksand swallowed them up again.’

    https://inkyfada.com/en/2023/11/03/marine-pollution-jean-industry-tunisia

    #pollution #jeans #mode #Tunisie #mer #textile #industrie_textile #environnement #eau #pollution_marine

  • Quand la #mode surchauffe : #Shein, ou la course destructrice vers toujours plus de #vêtements

    En 2022, Shein enregistrait une croissance de 100 % de son chiffre d’affaires, atteignant 30 milliards de dollars. Alors que les enseignes de prêt-à-porter françaises s’enfoncent dans une crise économique et sociale sans précédent, les marques de #fast-fashion semblent être les seules à sortir leur épingle du jeu.

    https://www.amisdelaterre.org/publication/quand-la-mode-surchauffe-shein-ou-la-course-destructrice-vers-toujour
    #rapport #industrie_textile #textile

    • SHEIN, la marque d’#ultra_fast-fashion qui envahit le monde

      Shein est une marque d’ultra fast fashion chinoise. L’ultra fast fashion propose des vêtements très bas de gamme à un rythme effréné, à des prix défiant toute concurrence, visant particulièrement un public adolescent grâce à un marketing digital agressif.

      La croissance de la marque est exponentielle. Ses méthodes de production et le caractère jetable de ses vêtements sont une menace pour l’environnement, et sont rendues possibles grâce à un système d’exploitation humaine et une stratégie commerciale si agressive qu’elle paraît relever de pratiques anticoncurrentielles. Son modèle est incompatible avec un développement durable de l’industrie de la mode et du vivant en général. Faut-il interdire Shein et l’ultra fast fashion ?

      Cette question simple appelle une réponse épineuse mais a permis de soulever un mouvement citoyen d’indignation. Le 4 mai 2023, un collectif porté par The Good Goods – média et agence de conseil pour une mode fondée sur des preuves – a lancé une pétition pour contrer le modèle économique insoutenable de l’ultra fast fashion. Elle a recueilli plus de 250 000 signatures à date et permis un premier rendez-vous avec Bruno Le Maire, Ministre de L’Economie, des Finances et du Numérique.

      En amont d’un second entretien pour définir les restrictions, la pétition a besoin d’un maximum de signatures et le mouvement d’une sensibilisation du plus grand nombre au sujet de Shein et de l’ultra fast fashion en général.

      https://bonpote.com/shein-la-marque-dultra-fast-fashion-qui-envahit-le-monde

  • Blue jeans: An iconic fashion item that’s costing the planet dearly
    https://news.mongabay.com/2022/11/blue-jeans-an-iconic-fashion-item-thats-costing-the-planet-dearly

    The production of blue jeans, one of the most popular apparel items ever, has for decades left behind a trail of heavy consumption, diminishing Earth’s water and energy resources, causing pollution, and contributing to climate change. The harm done by the fashion industry has intensified, not diminished, in recent years.
    The making of jeans is water intensive, yet much of the world’s cotton crop is grown in semiarid regions requiring irrigation and pesticide use. As climate change intensifies, irrigation-dependent cotton cultivation and ecological catastrophe are on a collision course, with the Aral Sea’s ecological death a prime example and warning.
    While some major fashion companies have made sustainability pledges, and taken some steps to produce greener blue jeans, the industry has yet to make significant strides toward sustainability, with organic cotton, for example, still only 1% of the business.
    A few fashion companies are changing their operations to be more sustainable and investing in technology to reduce the socioenvironmental impacts of jeans production. But much more remains to be done.

    #jean's #coton #industrie_textile

  • #Taïwan, #Ouïghours : les dérives nationalistes de la #Chine de #Xi_Jinping

    Xi Jinping se prépare à un troisième mandat de cinq ans et à une démonstration de force au cours du 20e #congrès_du_Parti_communiste_chinois. Alors que son nationalisme exacerbé se traduit à la fois à l’intérieur des frontières, avec la répression des Ouïghours, et dans son environnement proche, en #Mer_de_Chine_du_sud, avec une pression accrue sur Taïwan, nous analysons les enjeux de ce congrès avec nos invité·es, Laurence Defranoux, journaliste et autrice des Ouïghours, histoire d’un peuple sacrifié, Noé Hirsch, spécialiste de la Chine, Maya Kandel, historienne spécialiste des États-Unis, et Inès Cavalli, chercheuse en études chinoises.

    https://www.youtube.com/watch?v=U4wiIwCaSY8


    #nationalisme #constitution #révision_constitutionnelle #pensée_Xi_Jinping #paternalisme #colonialisme #Xinjiang #colonialisme_Han #déplacements_de_population #exploitation_économique #limitation_des_libertés #enfermement #rééducation_politique #emprisonnement #répression #Nouvelles_Routes_de_la_soie #ressources #ressources_naturelles #Tibet #surveillance #surveillance_de_masse #terreur #camps_de_rééducation #folklore #assimilation #folklorisation #ethnonationalisme #supériorité_de_la_race #Han #culture #camps_de_concentration #réforme_par_le_travail #réforme_par_la_culture #travail_forcé #peuples_autochtones #usines #industrie #industrie_textile #programmes_de_lutte_contre_la_pauvreté #exploitation #paramilitaires #endoctrinement #économie #économie_chinoise #crimes_contre_l'humanité #torture

  • Safilin relance une production de fils de lin en France Matthieu Guinebault
    https://fr.fashionnetwork.com/news/Safilin-relance-une-production-de-fils-de-lin-en-france,1406481.h

    Au milieu des années 2000, le français Safilin avait déplacé sa production de fils de lin en Pologne. Fort du soutien de la filière et de l’appétence pour le Made in France, l’entreprise a relancé ce 17 mai à Béthune (Pas-de-Calais) sa production française de fils en lin, dans un nouveau bâtiment de 6.000 mètres carrés.

    Le projet avait été officialisé en mars 2021. L’objectif n’est pas une relocalisation, mais bien une expansion de la production sur le marché français, expliquait alors à FashionNetwork.com le président de l’entreprise, Olivier Guillaume.

    La nouvelle unité est amenée à produire 400 tonnes de fils à l’année d’ici à 2024, tandis que les effectifs vont progressivement passer d’une trentaine à une cinquantaine d’opérateurs. Ceux-ci peuvent d’ores et déjà compter sur dix machines acheminées depuis la Pologne, qui seront rejointes par des métiers à filer, bobineuses et étireuses.

    « La réimplantation (…) nous permet non seulement d’augmenter nos capacités de production mais aussi de répondre à la demande émergente de consommer plus local et durable de la part des consommateurs », explique Olivier Guillaume.

    « La clé de la réussite réside dans le transfert de savoir-faire avec les équipes polonaises. Depuis plusieurs mois, elles œuvrent aux cotés des mécaniciens et opérateurs français fraîchement embauchés afin de les former et régler les machines. Une filature de lin est un procédé mécanique où l’expertise de l’homme est indispensable pour pouvoir faire un fil de qualité. Sans cet accompagnement humain, le risque aurait été trop important », développe-t-il.

    Il aura fallu 5 millions d’euros d’investissement pour mener à bien ce projet, qui a reçu le soutien de l’Etat dans le cadre du programme Résilience, ainsi que celui de la région Hauts-de-France et de la communauté d’agglomération Béthune-Bruay.

    La filature était la seule étape manquante dans l’Hexagone pour réaliser des vêtements en lin 100% produits en France. Et ceci bien que la France soit de loin le plus gros producteur mondial de cette fibre.

    Important pour le textile-habillement Made in France, ce retour de Safilin sur le territoire national est une nouvelle étape dans la réapparition des filatures de lin, après les filatures successivement lancées par l’alsacien Velcorex et le normand Natup.

    « En parallèle, nous continuons à investir et à recruter en Pologne », indique Olivier Guillaume. Safilin compte deux sites dans le pays, qui totalisent 550 collaborateurs et produisent annuellement 4.000 tonnes de fils, à partir d’un lin à 95% français. Le site de Szczytno, ville au nord-est du pays, est tourné vers une filature « au mouillé » (utilisée principalement pour la confection textile), tandis que celui de Milakowo, au nord-ouest, opère « au sec » (fil plus épais notamment destiné à la décoration, mais aussi à des pièces épaisses).

    L’unité de Bethune jouera quant à elle sur les deux tableaux, mêlant production au mouillé comme au sec. De quoi renforcer la position de Safilin qui, avec son concurrent italien Linificio e Canapificio Nazionale, s’impose comme un leader sur les fils destinés au segment premium/luxe (lire notre dossier « Les Filatures de lin refleurissent en Europe »).

    Peu consommateur d’eau et cultivé sans produits chimiques, le lin profite de la demande croissante de matières naturelles et respectueuses de l’environnement. Pas moins de 80% de la production mondiale de lin teillé se concentre sur une bande de terre allant de la Normandie aux Pays-Bas. Très recherché pour ses capacités respirantes, le lin pèse à ce jour moins de 1% des fibres consommées dans le monde.

    #Lin #filatures #industrie_textile #Travail #ue #union_européene #Pologne # Bethune (Musée du Lin à Courtrai)

    • Images de travailleuses et de travailleurs , ça existe encore.
      La réalité.

      Réalité invisibilisée par nos médias et notre petite bourgeoisie qui croit avoir les mêmes intérêts que la haute bourgeoisie.

  • Le souffle de Martha

    #Martha_Desrumaux est une enfant du Nord à la destinée romanesque. « Petite bonne », puis ouvrière à neuf ans, elle deviendra, à force de révolte et d’engagement, une pionnière dans les combats pour les droits sociaux dans l’entre-deux guerres. Personnage féminin emblématique du Front Populaire, Jean Renoir la met en scène dans le film La vie est à nous en 1936. Instigatrice de la lutte des mineurs contre l’occupant nazi, elle est déportée en 1942 et participe à la résistance au sein même du camp de Ravensbrück. Dès 1945, elle est désignée pour être l’une des premières femmes députées de l’Histoire de France, avant de tomber dans un relatif oubli.

    https://lcp.fr/programmes/le-souffle-de-martha-55887
    #film #film_documentaire #documentaire

    #syndicalisme #femmes_ouvrières #classe_ouvrière #lutte_des_classes #CGTU #CGT #politique #industrie_textile #France #féminisme #communisme #parti_communiste #femmes_syndicalistes_et_progressistes #meneuse_communiste #engagement_public #vierge_rouge #Louis_Manguine #marche_des_chômeurs #militantisme #guerre_civile_espagnole #brigades_internationales #Résistance #sabotage #grève #Ravensbrück #camp_de_concentration #déportation #droits_des_femmes

    Une citation :

    « Je suis Martha Desrumaux et les nazis ne m’ont pas eue »

  • Les géants de l’habillement fragilisés par le confinement prolongé du Vietnam
    https://fr.fashionnetwork.com/news/Les-geants-de-l-habillement-fragilises-par-le-confinement-prolong

    Chaussures de sport, sweat-shirts, pantalons de survêtement : le confinement strict et prolongé du Vietnam en raison du coronavirus a provoqué des pénuries de produits chez des marques internationales telles que #Nike et #Gap, devenues de plus en plus dépendantes des fabricants de ce pays d’Asie du Sud-Est.

    Dans son usine de tissus à l’est de Hanoï, Claudia Anselmi, la directrice de Hung Yen Knitting & Dyeing, sous-traitant pour plusieurs géants européens et américains de l’habillement, se demande chaque jour si les machines vont devoir s’arrêter.

    Lorsque la dernière vague de #Covid-19 a frappé le pays au printemps, la production a chuté de 50%, et l’Italienne est confrontée à des problèmes d’approvisionnement.

    « Les restrictions de voyage ont mis en péril toute la logistique d’entrée et de sortie... cela a créé de longs, longs retards » dans la livraison du fil utilisé dans des maillots de bain et des vêtements de sport pour des clients tels que #Nike, #Adidas et Gap, a-t-elle déclaré à l’AFP.

"Nous ne survivons que si nous avons du #stock".

    Ajouter à cela des mesures de #confinement contrôlées de manière stricte qui ont empêché de nombreux vietnamiens de se rendre au travail ou de circuler pendant de longues périodes.

    

Plusieurs chauffeurs du delta du Mékong ont dû attendre trois jours et trois nuits dans leur véhicule avant d’entrer dans Can Tho (sud), a raconté Hamza Harti, le responsable de l’entreprise de logistique FM Logistic lors d’une table ronde à la chambre de commerce française de Hanoï. « Ils étaient sans nourriture, sans rien ».

 

    Accélérées par la guerre commerciale entre Washington et Pékin, les relocalisations d’usines de la #Chine vers l’Asie du Sud-Est se sont amplifiées ces dernières années, particulièrement au bénéfice du Vietnam.


    Risques de rupture d’approvisionnement
    Mais les mesures sanitaires exposent désormais les #multinationales à des risques de rupture d’#approvisionnement.



    L’équipementier Nike, qui produit la moitié de ses chaussures dans le pays communiste, a annoncé des pénuries et a revu ses prévisions de vente à la baisse, déclarant que 80% de ses usines dans le sud du pays ont dû fermer.



    Le japonais Fast Retailing, propriétaire de la marque #Uniqlo, a également mis sur le compte du blocage du Vietnam des retards dans la production de ses vêtements.

    #Adidas a de son côté estimé que la baisse de ses ventes pourrait atteindre jusqu’à 500 millions d’euros d’ici à la fin de l’année.

    

Plusieurs marques dont Nike et Adidas ont annoncé qu’elles envisageaient de produire temporairement ailleurs qu’au Vietnam.


    Dans une lettre adressée au Premier ministre Pham Minh Chinh, plusieurs associations d’entreprises américaines, européennes, sud-coréenne et du sud-est asiatique ont tiré la sonnette d’alarme, avertissant que 20% de leurs membres fabricants avaient déjà quitté le pays.

"Une fois la production déplacée, il est difficile d’y revenir", ont-ils écrit.

    Nguyen Thi Anh Tuyet, directrice générale adjointe de Maxport Vietnam, dont les 6.000 employés fabriquent des vêtements de sport pour des entreprises comme #Lululemon, #Asics et Nike, a déclaré à l’AFP que l’entreprise était « très inquiète » de voir ses clients retirer leurs commandes, même si elle est l’une des rares à avoir traversé ces derniers mois pratiquement indemne.



    Sans clients étrangers, « nos travailleurs se retrouveraient sans emploi », a-t-elle ajouté. La pandémie n’a pas seulement frappé l’industrie textile du pays, elle menace également le café, le Vietnam étant le premier producteur mondial de robusta.


    Les constructeurs automobiles n’y ont pas échappé non plus : #Toyota a réduit sa production pour septembre et octobre, en partie à cause du virus, et a déclaré à l’AFP que « l’impact a été important au Vietnam », ainsi qu’en Malaisie.

    

Les pénuries ont été aggravées par un regain de la demande en Occident, après un effondrement au plus fort de la crise du Covid-19.

Dans son usine textile près de Hanoï, Mme Anselmi pense que les entreprises resteront au Vietnam si le pays parvient à retrouver une certaine normalité en octobre :

    « Si nous pouvons permettre aux usines de travailler, je pense que la confiance (dans le Vietnam) est toujours là ».

    #Textile #Vietnam #Italie #café #vêtements #industrie_textile #conditions_de_travail #exploitation #mode #coronavirus #capitalisme #chaîne_d'approvisionnement #mondialisation #pénuries

  • #7_minuti

    À Yssingeaux (France), en 2012, une dizaine d’ouvrières sont appelées à se décider sur l’avenir de leur #fabrique, qui vient d’être cédée à une #multinationale du textile. Afin de conserver leur #emploi, elles doivent renoncer à #sept_minutes (sur les quinze normalement accordées) de #pause_déjeuner tous les jours : la décision est soumise au vote.

    https://www.youtube.com/watch?v=cUjopyHP_WU

    #film #femmes #femmes_ouvrières #travail #industrie_textile #rachat #résistance #chômage #pause

  • Travail forcé des #Ouïgours : une enquête ouverte en France contre des géants du textile, dont Uniqlo et Zara
    https://www.nouvelobs.com/justice/20210701.OBS46003/travail-force-des-ouigours-une-enquete-ouverte-en-france-contre-des-geant

    Le parquet national antiterroriste (PNAT) a ouvert fin juin une enquête pour « recel de crimes contre l’humanité » visant quatre géants du textile, dont Inditex et Uniqlo, accusés d’avoir profité du travail forcé d’Ouïgours en Chine, a indiqué une source judiciaire ce jeudi 1er juillet à l’AFP, confirmant une information de Mediapart.

    • Ouïghours : une enquête ouverte en France contre Uniqlo et des géants du textile pour recel de crimes contre l’humanité
      1 juillet 2021 Par François Bougon
      https://www.mediapart.fr/journal/international/010721/ouighours-une-enquete-ouverte-en-france-contre-uniqlo-et-des-geants-du-tex

      Une enquête pour recel de crimes contre l’humanité a été ouverte fin juin à Paris à la suite d’une plainte déposée deux mois auparavant contre Uniqlo et trois autres géants du textile par trois ONG (le collectif Éthique sur l’étiquette, l’association Sherpa et l’Institut ouïghour d’Europe) et une rescapée ouïghoure.

      Pour la première fois, la justice française se saisit d’un dossier lié à la répression impitoyable des minorités ethniques turcophones, notamment les Ouïghours, au Xinjiang, dans le nord-ouest de la Chine, par le régime chinois. Une enquête a été ouverte fin juin à Paris pour recel de crimes contre l’humanité à la suite d’une plainte déposée deux mois auparavant par trois ONG (le collectif Éthique sur l’étiquette, l’association Sherpa et l’Institut ouïghour d’Europe) et une rescapée ouïghoure, a-t-on appris de source judiciaire.

      Cette action ne vise pas directement les autorités de la République populaire de Chine – « Il semble actuellement peu probable que les dirigeants chinois puissent être renvoyés devant une juridiction répression pour répondre de leurs actes », reconnaît le texte de la plainte –, mais les multinationales aux marques connues qui sont accusées de profiter du système de répression mis en place par Pékin dans cette région stratégique proche de l’Asie centrale : en l’occurrence trois géants du textile – le groupe espagnol Inditex, propriétaire de la marque Zara, le japonais Uniqlo et le français SMCP (Sandro, Maje, Claudie Pierlot et De Fursac) – et le fabricant américain de chaussures de sport Skechers.

      Pour les plaignants, ces grandes entreprises, qui se sont pourtant dotées ces dernières années de comités d’éthique chargés de veiller aux bonnes pratiques parmi leurs sous-traitants, profitent malgré tout du travail forcé des Ouïghours et des autres minorités turcophones (kazakhes et kirghizes) en commercialisant des produits dans des usines y ayant recours.

      Manifestation de solidarité avec les Ouïghours devant l’ambassade de Chine à Paris en juillet 2020. © Noémie Coissac/Hans Lucas/AFP Manifestation de solidarité avec les Ouïghours devant l’ambassade de Chine à Paris en juillet 2020. © Noémie Coissac/Hans Lucas/AFP

      Ils avaient porté plainte à la fois pour recel du crime de réduction en servitude aggravée, recel du crime de traite des êtres humains en bande organisée, recel du crime de génocide et recel de crime contre l’humanité, mais seul ce dernier chef a été retenu par le parquet. L’enquête a été confiée au pôle spécialisé du tribunal de Paris dans la lutte contre les crimes contre l’humanité qui dépend du Parquet national antiterroriste (PNAT) et a une compétence universelle.

      « C’est une très bonne nouvelle, d’autant plus que le collectif parlementaire de solidarité avec les Ouïghours vient de déposer une proposition de résolution pour la reconnaissance du génocide au Xinjiang par la France. Cela ne peut que renforcer nos demandes et nos démarches », a déclaré à Mediapart Dilnur Reyhan, présidente de l’Institut Ouïghour d’Europe.
      « Un moment historique »

      Interrogé par Mediapart, l’avocat William Bourdon, à l’origine de la plainte, estime que « l’ouverture de cette enquête va faire tomber les masques sur le cynisme des grandes enseignes de textiles qui communiquent à tour de bras sur leurs engagements éthiques et s’accommodent de s’enrichir, en connaissance de cause, au prix des pires crimes commis à l’encontre des communautés ouïghoures ».

      « L’ouverture d’une enquête pour recel de crime contre l’humanité est une première, elle ouvre une porte pour l’avenir essentielle afin de mettre un terme à une culture de duplicité qui reste encore trop familière pour les grandes entreprises multinationales », a-t-il poursuivi.

      Pour sa part, Sherpa, par la voix de sa directrice Sandra Cossart, « se réjouit de l’ouverture d’une enquête préliminaire pour recel de crime contre l’humanité, qui témoigne de l’implication potentielle des acteurs économiques dans la commission des crimes les plus graves afin d’augmenter leurs marges bénéficiaires ».

      « Cela démontre que le travail innovant de Sherpa, qui aboutit ici pour la première fois à l’ouverture d’une enquête pour “recel de crimes contre l’humanité” contre des multinationales, permet de faire bouger les lignes du droit afin de lutter contre l’impunité des acteurs économiques, poursuit-elle. Il importe néanmoins de ne pas se limiter aux quelques acteurs ciblés ici : un système de dispositions légales rend possible chaque jour ces pratiques, c’est ce système qu’il faut combattre. »

      De son côté, l’eurodéputé Raphaël Glucksmann, au premier rang dans le combat pour la reconnaissance du génocide au Xinjiang, tout en évoquant « un moment historique », juge qu’il s’agit d’« un message extrêmement puissant envoyé à ces multinationales ».
      Tensions à venir

      Récemment, en dévoilant un rapport de son organisation sur les crimes exercés au Xinjiang, la secrétaire générale d’Amnesty International, Agnès Callamard, avait dénoncé l’apathie de la communauté internationale et des instances des Nations unies. Elle avait appelé la communauté internationale à « s’exprimer et agir à l’unisson pour que cessent ces atrocités, une fois pour toutes » et à une enquête indépendante des Nations unies.

      Des ONG dénoncent l’internement par Pékin depuis 2017 de plus d’un million de personnes au Xinjiang dans des centres de rééducation politique. Le régime communiste dément ce chiffre, évoque des « centres de formation professionnelle » aux fins de déradicalisation.

      Alors que la Chine célèbre avec faste le centenaire du Parti communiste (voir ici le spectacle donné lundi soir dans le Stade olympique en présence du secrétaire général Xi Jinping et là le grand rassemblement jeudi sur la place Tiananmen), l’annonce de l’ouverture de cette enquête ne manquera pas de provoquer de nouvelles tensions avec Pékin, qui réfute en particulier les accusations de génocide, portées par exemple par Washington et d’autres capitales occidentales (pas par Paris).

      En mars, la Chine avait imposé des sanctions à dix responsables politiques européens – dont cinq eurodéputés, dont Raphaël Glucksmann –, ainsi qu’à l’encontre de centres de réflexion et d’organes diplomatiques, en représailles à celles imposées par les Occidentaux aux hauts dirigeants chinois accusés de violations des droits de l’homme au Xinjiang.
      Lire aussi

      Amnesty dénonce des crimes contre l’humanité contre les musulmans du nord-ouest de la Chine Par François Bougon
      Gulbahar Jalilova, rescapée ouïghoure : « Nous ne sommes pas des êtres humains pour eux » Par Rachida El Azzouzi

      Par la suite, le Parlement européen avait voté une résolution suspendant la ratification d’un accord encadrant les investissements avec la Chine conclu en décembre tant que Pékin n’aura pas levé ces mesures de rétorsion.

      Une cinquantaine de députés français, parmi lesquels Frédérique Dumas et Aurélien Taché, ont déposé le 17 juin une proposition de résolution afin que la France reconnaisse le génocide au Xinjiang, comme l’ont fait le gouvernement des États‑Unis, les Parlements britannique, néerlandais et canadien.

      « Des procédures similaires sont en cours dans d’autres États (Belgique, Allemagne, Lituanie et Nouvelle‑Zélande). Quant à elle, la France a dénoncé un “système de répression institutionnalisé” en février 2021 et a engagé des réflexions sur l’emploi du terme de “génocide”, sans toutefois reconnaître ni condamner ce crime en tant que tel », expliquent-ils. Lors d’une conférence de presse mardi, Alain David, du groupe socialiste et membre de la commission des affaires étrangères, a espéré pouvoir la présenter au vote à l’automne.
      Devoir de vigilance

      Parallèlement au combat des ONG, des députés européens ont poussé pour l’adoption d’un cadre législatif plus sévère pour encadrer les pratiques des multinationales et de leurs sous-traitants, en particulier dans le secteur textile. Une loi a été adoptée en 2017 en France mais son champ d’action reste limité.

      En mars a été adopté par le Parlement européen à une très large majorité un projet d’initiative sur le devoir de vigilance, qui pourrait servir de base à une proposition de directive que la Commission doit présenter à l’automne.

      Les eurodéputés souhaitent contraindre les entreprises à « identifier, traiter et corriger » toutes les opérations, y compris dans leurs filières, qui pourraient porter préjudice aux droits humains, à l’environnement ou encore à la « bonne gouvernance » (corruption, pots-de-vin). Ils proposent aussi l’interdiction dans l’UE de produits liés à de graves violations des droits humains, comme le travail forcé ou des enfants.

      « L’ouverture de l’enquête [par la justice française – ndlr] est dans le droit-fil du combat que l’on mène au Parlement européen sur le devoir de vigilance », a souligné Raphaël Glucksmann auprès de Mediapart.

      Cependant, Total, Bayer ou des géants du textile à l’instar d’Inditex (Zara) ne manquent pas d’investir à fond dans le lobbying à Bruxelles, dans l’espoir d’assouplir le texte (lire ici). Business first…

  • La bataille de Hlaing Thar Yar a été un tournant du mouvement de résistance en Birmanie
    https://justpaste.it/66sp3

    Le fragile équilibre qui prévalait entre ouvriers birmans et entreprises chinoises de textile a volé en éclats dans la banlieue de Rangoun.

    De la fumée s’échappe encore des cendres des barricades marquant l’entrée de Hlaing Thar Yar, la zone industrielle la plus dense de Birmanie, au nord-ouest de Rangoun. Des soldats bloquent les routes principales. La loi martiale y a été décrétée le 15 mars, le lendemain d’une journée sanglante, faisant au moins 50 morts rien que dans cette banlieue, soit le bilan le plus meurtrier depuis le début du coup d’Etat.

    (...)Le 14 mars, après plus d’un mois de grève générale, des centaines d’habitants du quartier et d’ouvrières s’étaient réunis pour manifester au milieu des usines, comme ils l’avaient déjà fait à plusieurs reprises. Certains étaient armés de sabres, de cocktails Molotov et de lance-pierres, prêts à en découdre avec les militaires.

    « Même si c’est un piège de l’armée, nous n’avons plus d’autre choix que de nous battre. Ils nous tirent dessus lorsque nous manifestons pacifiquement. Si nous ne gagnons pas, ceux qui sont morts l’auront été en vain » , nous avait dit, la veille du défilé, Su Nwe, 25 ans, serveuse dans un restaurant chinois du quartier. Ce jour-là, Mahn Win Khaing Than, le vice-président du gouvernement en exil formé par les parlementaires de la Ligue nationale pour la démocratie (NLD), avait déclaré sur Facebook que « le peuple birman a le droit à l’autodéfense ». A la mi-journée, le 14, les manifestants ont été accueillis par des tirs de sniper et d’armes automatiques.

    « Pour chaque manifestant tué nous brûlerons une usine » (...) En février, des messages avaient largement circulé sur les réseaux sociaux, évoquant un sabotage des pipelines chinois (un oléoduc et un gazoduc, reliant le golfe du Bengale au Yunnan) si la Chine soutenait les généraux, selon une menace sous forme de boutade « If the military coup is an internal affair, then this pipeline is also our internal affair » (« Si le coup d’Etat est une affaire interne, alors l’explosion du pipeline sera notre affaire interne »), que Pékin a prise très au sérieux.

    #Birmanie #ouvriers #ouvrières #industrie_textile

  • Enquête vidéo : ce que les réseaux sociaux chinois révèlent des camps d’internement et du travail forcé des Ouïgours
    https://www.lemonde.fr/international/video/2021/01/06/enquete-video-ce-que-les-reseaux-sociaux-chinois-revelent-des-camps-d-intern

    Malgré la censure et les dénégations de Pékin, l’analyse des réseaux sociaux chinois par « Le Monde » expose la politique de répression menée contre les musulmans ouïgours, au Xinjiang. Près de 400 camps d’internement, plus d’un million de détenus et des centaines de milliers de travailleurs forcés… Depuis 2018, l’ampleur de la persécution des Ouïgours en Chine émerge progressivement. Mais selon le gouvernement chinois, ces camps d’internement seraient des « centres de formation professionnelle » et les (...)

    #Nike #Amazon #domination #religion #Islam #prison #SocialNetwork #surveillance #travail (...)

    ##Zara

  • #En_découdre - paroles ouvrières en roannais

    Après la deuxième guerre mondiale, l’industrie textile emploie des milliers d’ouvrières sur le territoire Roannais. Elles produisent des vêtements de luxe dont la qualité est reconnue dans la France entière. A travers une série d’entretiens, ce film retrace l’histoire de ces femmes rentrant souvent jeunes à l’usine. Elles y découvrent des conditions de travail difficiles, le paternalisme patronal, mais également la solidarité ouvrière. Relatant les inégalités qui se jouent entre ouvriers et ouvrières, elles décrivent surtout la rencontre avec la culture syndicale et leur volonté d’en découdre avec l’exploitation. Des promesses d’émancipation de « mai 1968 » jusqu’aux combats contre la fermeture des usines et les destructions de leurs emplois à partir des années 1980, ces paroles ouvrières livrent une mémoire à la fois personnelle et politique des grandes mutations du monde contemporain.

    https://vimeo.com/330751537


    #ouvrières #femmes #industrie #femmes_ouvrières #France #industrie #histoire #industrie_textile #textile #témoignages #histoire_ouvrière #CGT #syndicat #syndicalisme #usines #bruit #paternalisme
    #film #film_documentaire #salaires #sainte_Catherine #cadeaux #droit_de_cuissage #inégalités_salariales #émancipation #premier_salaire #désindustrialisation #métallurgie #conditions_de_travail #horaire #horaire_libre #grève #occupation #Rhônes-Alpes #délocalisation #toilettes #incendies #chantage #treizième_salaire #plans_sociaux #outils_de_travail #Comité_national_de_la_Résistance (#CNR) #chronométrage #maladie_du_travail #prêt-à-porter #minutage #primes #prime_au_rendement #solidarité #compétition #rendement_personnel #esprit_de_camaraderie #luttes #mai_68 #1968 #licenciement #ARCT #financiarisation #industrie_textile

  • #IMMIGRATION ENQUÊTE
    Dans l’enfer des grands bourgeois du Nord : des femmes de ménage portugaises témoignent
    15 AOÛT 2020 PAR MICKAËL CORREIA

    Pour la haute bourgeoisie française, les #femmes_de_ménage portugaises sont les plus intégrées, des « perles qu’il faut à tout prix conserver ». Derrière les murs de leur propriété se livre pourtant une lutte des classes au quotidien.

    Les mains crevassées de Rosa* tournent minutieusement les pages d’un cahier spiralé. Sur petits carreaux et avec une écriture scolaire, elle y a consigné toute une vie de #travail_domestique. « Voilà, je l’ai noté ici : 7,15 euros net de l’heure. C’était mon salaire de femme de ménage fin 2017, après trente ans d’ancienneté. Ils me déclaraient mais ils me payaient aussi pas mal d’heures au noir », soupire la petite femme de 63 ans.

    « Ils » désignent une richissime famille installée dans le #Nord depuis la fin du XIXe siècle. Elle y a investi dans les filatures avant d’être un des piliers de l’industrie textile de la région. Son digne représentant, Édouard M., a incarné une figure du patronat paternaliste local (voir Boîte noire). Dans les années 1970, il régnait sur des usines lainières à Tourcoing, au nord de #Lille, ainsi qu’en Afrique du Sud ou aux États-Unis. Depuis, le groupe s’est diversifié, mais les fils et petits-fils M. dirigent encore des entreprises textiles de pointe dans le département.

    Rosa habite une de ses maisons étroites en brique typiques des quartiers populaires de #Roubaix et de #Tourcoing. Assise dans son salon tout en similicuir, elle revient sur son parcours jusqu’à son embauche comme femme de ménage chez les M. : « Je viens de Covilhã, une ville industrielle textile du #Portugal. Je suis arrivée en France en avril 1968, à l’âge de 11 ans. Mon père avait passé clandestinement et à pied la frontière un an plus tôt. Il a travaillé comme ouvrier chez Tiberghien, une énorme filature de Tourcoing. » À 18 ans, la jeune immigrée portugaise devient ouvrière à la Lainière de Roubaix puis à l’usine textile Desurmont.

    Dès le début du XXe siècle, l’agglomération de Roubaix-Tourcoing, qualifiée de « Manchester française », est une capitale mondiale du textile, avec plus de 110 000 salariés employés dans le secteur. Le patronat du Nord esquive les crises successives de la filière en misant sur la vente par correspondance – en créant des groupes comme La Redoute et Les 3 Suisses – et en faisant appel à une main-d’œuvre immigrée portugaise ou maghrébine. Mais dès le début des années 1980, la désindustrialisation lamine la région. Roubaix sombre dans le chômage de masse.

    « L’usine Desurmont a mis la clé sous la porte. Ma mère était déjà servante pour une famille de la grande bourgeoisie du Nord. J’avais une tante qui était la domestique de Édouard M. Un de ses enfants avait besoin d’une femme de ménage. Ils m’ont prise en 1986 et j’ai bossé deux ans au noir avant qu’ils me contractualisent pour venir habiter sur leur propriété », enchaîne Rosa.

    Du jour au lendemain, l’ouvrière au chômage quitte Roubaix pour Marcq-en-Barœul, la banlieue huppée de Lille.

    « Le contrat était abusif, mais j’avais vraiment besoin d’argent. Il y était par exemple stipulé qu’un an sur deux, je n’avais pas le droit de partir en vacances : j’étais obligée de rester mes quatre semaines de congé dans la propriété », indique l’ex-employée de maison.

    Manoir et maisons de maître, piscine, écuries, fermette et prairies : le domaine des M. est immense, à l’image du patrimoine des habitants de Marcq-en-Barœul. La commune fait partie des municipalités françaises qui possèdent le plus d’habitants redevables de l’impôt sur la fortune immobilière.

    À moins de six kilomètres de là, Roubaix est considérée comme la ville la plus pauvre de l’Hexagone – 45 % de sa population vit sous le seuil de pauvreté.

    Marcq-en-Barœul et les bourgades voisines de Bondues, Mouvaux et Wasquehal – un triangle que d’aucuns surnomment « BMW » – regorgent de demeures cossues aux noms bucoliques comme La Cerisaie, La Prairie ou La Hêtraie. Les grandes familles bourgeoises du Nord y vivent en toute discrétion. Mais derrière les haies de cyprès impeccablement taillées qui ceignent ces propriétés se cache un violent enfer domestique.

    « Je faisais tout : le ménage, la lessive, le repassage, les repas, détaille Rosa. Sans compter que j’ai élevé leurs quatre enfants payée au black : le soir, je devais parfois revenir à 19 heures rien que pour donner le bain à un de leurs petits… »

    Durant les trois décennies où elle a travaillé au cœur de l’intimité des M., la distanciation de classe était de rigueur. Au quotidien, la femme de ménage portugaise n’était pas autorisée à utiliser les mêmes toilettes qu’eux, à boire leur eau minérale ou à s’asseoir sur une de leurs chaises pour se reposer.

    « Un jour, leur fille âgée d’à peine 7 ans était agitée alors que je m’occupais d’elle. Je lui ai demandé d’être plus calme et elle m’a lancé : “Tu es la bonne, tu dois m’obéir” », rapporte avec tristesse Rosa. Dans la propriété, les enfants de la domestique n’ont pas à fréquenter ceux de l’employeur. « Ces derniers m’affirmaient que je n’avais pas à jouer avec eux, car leurs parents leur avaient dit que j’étais un pauvre », témoigne un des deux fils de Rosa.

    « Un samedi soir sur deux, à chaque Noël et à quasi chaque jour férié, j’étais obligée de faire le service pour leurs réceptions familiales, relate l’ancienne employée. Ils m’obligeaient à porter une jupe noire avec un petit tablier blanc. J’avais horreur de ça, je me sentais ridicule. »

    Ces dîners s’organisent dans des conditions de travail déplorables. Rosa n’a ni le temps de manger, ni l’autorisation de se garder une part de ce qu’elle avait passé toute la journée à cuisiner. « C’était exténuant physiquement et moralement. Mon dos était en miettes à force de servir individuellement chaque convive dans des plats très lourds, et ce durant des heures. J’étais en même temps stressée car les repas s’éternisaient : comme j’avais obtenu qu’ils me paient plus après minuit, ils m’imposaient de tout nettoyer avant cette heure fatidique », précise-t-elle.

    Les congés légaux dont bénéficient la femme de ménage et les absences pour cause familiale ou médicale sont quant à eux une source permanente de tensions avec l’employeur.

    Face à leurs discours culpabilisants, Rosa doit sans cesse faire valoir ses droits les plus élémentaires. « Ma patronne ne supportait pas que je prenne mes quatre semaines de vacances, assure-t-elle. À chaque retour au travail, elle martelait avec ironie : “Alors on s’est bien amusée ? Une semaine ne vous suffit pas pour vous reposer ?”. Après un de mes rares arrêts maladie, j’ai eu l’indécence de parler de dates de congés. Elle m’a répliqué : “Mais n’y pensez même pas, vous rentrez à peine de vacances là !” »

    Quand, en 2005, son plus jeune fils est emmené d’urgence à l’hôpital à la suite d’une agression, Rosa se voit rétorquer, après avoir osé demander l’autorisation de quitter la maison : « Vous ne pouvez pas partir comme ça, il faut d’abord que vous finissiez la salle de bains. »

    Exploitation domestique
    À la fin des années 1960, l’#immigration_portugaise s’intensifie en France. Rien qu’entre 1969 et 1971, 350 000 Portugais s’installent dans l’Hexagone.

    « La stratégie des immigrés portugais est alors de faire rapidement un maximum d’argent : on se prolétarise en France pour pouvoir sortir du prolétariat de retour au pays, rappelle Victor Pereira, historien spécialiste de l’émigration portugaise et maître de conférences à l’université de Pau. Mais le projet évolue au fil du temps : les enfants naissent, on les scolarise ici et le retour au Portugal s’avère plus compliqué car après la chute de la dictature en 1974, les autorités portugaises se concentrent sur le rapatriement des retornados, les Portugais installés dans les anciennes colonies africaines. »

    Et l’historien d’ajouter : « Pour les #Portugais de Roubaix-Tourcoing, il est difficile de distinguer immigration économique et politique. Nombre d’entre eux viennent de la région de Covilhã, au centre du pays, qui a été un foyer industriel textile agité par des grèves ouvrières et réprimé par la dictature fasciste de Salazar. À cela s’ajoute la guerre coloniale portugaise : beaucoup de jeunes hommes immigraient en France pour fuir le service militaire qui les obligeait à combattre durant quatre ans en Angola, au Mozambique ou en Guinée-Bissau. »

    Comme Rosa, Sandra, 75 ans, est issue du centre du Portugal et a immigré dans le Nord en 1968. Ouvrière piqûrière dans une usine textile, elle est licenciée en 1985 à la suite de la fermeture de l’établissement industriel. Elle devient alors femme de ménage à Mouvaux pour deux grandes familles : les V. et les T.

    Nom incontournable de l’#industrie_textile locale, le groupe V. possédait dans les années 1960 pas moins d’une trentaine de manufactures entre Roubaix et Tourcoing. La puissante famille compte de tentaculaires ramifications économiques et politiques. Les T. sont quant à eux intimement associés au développement de l’industrie textile du Nord. Ils ont fondé au XIXe siècle une prestigieuse banque, qui a appuyé les riches entrepreneurs du territoire.

    Tout en bêchant les salades de son petit potager, Sandra glisse : « Honnêtement, je n’ai jamais vu des gens comme ça. » Pendant plus de trente ans, elle a nettoyé, récuré, aspiré, repassé et cuisiné pour ces deux grands noms du capitalisme familial nordiste. Mais son emploi en tant que femme de ménage n’a été qu’une longue traversée du désert en termes du droit du travail. « J’ai beaucoup bossé pour eux au noir et je n’ai jamais eu de contrat de travail », souligne Sandra.

    À l’instar de Rosa, elle doit être à leur entière disponibilité, notamment pour les agapes familiales. « Chaque dimanche soir, j’étais épuisée et morte de faim : il m’était interdit de me servir dans les plats. Je devais manger en cachette », confie-t-elle.

    L’employée de maison est par ailleurs étroitement contrôlée. Au début des années 2000, alors que les V. étaient partis en voyage un mois, elle est accusée à leur retour d’avoir débuté tard une journée de travail. « J’étais terrifiée car effectivement j’avais commencé ma matinée avec une demi-heure de retard. J’étais chez le médecin, il y avait une longue file d’attente… J’ai appris plus tard qu’ils avaient demandé au voisin de me surveiller. Après vingt ans de service, me faire ce coup-là ! », s’indigne-t-elle.

    Lors du décès de son mari en 2013, Sandra, alors âgée de 68 ans, officie toujours chez les V. et les T. Absente une semaine pour cause d’enterrement, ces derniers ne feront preuve d’aucune clémence malgré ses 28 ans à leur service : ces sept jours seront froidement décomptés de sa fiche de paie.

    Après deux décennies de dévouement domestique et d’épargne consciencieuse, Sandra parvient à s’acheter enfin sa propre maison, un modeste pavillon. Dès lors, les remontrances patronales sont fréquentes et son salaire horaire ne sera plus jamais augmenté en dépit de son ancienneté. « Ils me répétaient en boucle : “Vous achetez une sacrée propriété grâce à l’argent de la France !” Ce qui me tue, c’est qu’ils n’arrêtent pas de dire que nous les Portugaises, nous sommes de bonnes travailleuses, bien intégrées, propres et sérieuses mais ils n’acceptent pas que nous ayons les mêmes droits qu’eux », dénonce-t-elle.

    Sandra s’effondre alors en larmes : « Il y a 20 ans, j’ai dû ramener ma petite-fille chez les V. car sa mère était absente. C’était juste l’affaire de quelques heures. Je l’ai mise dans la salle de jeux, elle s’est assise sagement sur une petite chaise et la mère de ma patronne lui a hurlé dessus, comme à un chien : “Assieds-toi par terre tout de suite !” » Et de conclure : « J’étais fière de lui présenter ma petite-fille de 7 ans, mais ça a été une humiliation terrible. »

    Chez les M., Rosa est pour sa part sans cesse comparée aux Maghrébins, appréhendés comme moins serviles et moins intégrés que les Portugais. « Ils me ressassaient que nous étions catholiques comme les Français, que nous avions la même culture et que nous étions un peuple courageux », se souvient Rosa. Lors des gros travaux annuels d’entretiens de la propriété, elle est tenue de faire entrer les ouvriers noirs ou maghrébins par une porte de service. « Ma nièce, qui me remplaçait habituellement lors de mes congés, ne s’est plus fait appeler à partir de 2018 par les M. le jour où ils ont appris que sa fille fréquentait un Arabe », déplore-t-elle.

    Après l’indépendance de l’Algérie en 1962, la France craint d’être submergée par une vague d’immigration nord-africaine. En avril 1964, sous pression du patronat déjà friand de la main-d’œuvre portugaise bon marché, le premier ministre Georges Pompidou autorise la libre entrée en France de tout Portugais démuni de papiers. « Pour légitimer le racisme envers les Algériens, les autorités françaises ont à l’époque produit tout un discours sur le Portugais qui est bon travailleur, peu revendicatif, mais aussi représentant de la dernière immigration européenne (après les Italiens et les Espagnols) et par là même, assimilable, avance Victor Pereira. C’est absurde, car personne ne connaissait les Portugais – et on ne les connaît toujours pas aujourd’hui : ce sont de célèbres inconnus. »

    Pour l’universitaire, les stéréotypes assignés aux femmes de ménages portugaises, tels que leur servilité innée ou le fait d’être des travailleuses de confiance, sont des constructions sociales, fruits de mises à l’épreuve et d’humiliations. « Beaucoup tentaient par exemple de piéger leurs employées de maison en cachant des billets sous le canapé, appuie Victor Pereira. Il y avait tout un capital réputationnel à gagner auprès de leur employeur pour pouvoir ensuite bénéficier d’autres ménages – “Ma Maria, vous pouvez lui faire confiance.” » Des stratagèmes sournois que confirment Rosa et Sandra, qui trouvaient au début de leur carrière de l’argent posé négligemment sous les lits ou dans les chemises à repasser.
     « Les Portugais ont été l’objet d’un processus de racialisation en France, en contrepoint à l’immigration algérienne. Des stigmates essentialisants leur ont été accolés, comme le fait qu’ils soient naturellement “dociles”, “durs à la tâche”, représentant de “braves gens” aux ambitions limitées et qui “s’intègrent très bien”, commente Margot Delon, chargée de recherche CNRS au Centre nantais de sociologie. Ils ont un statut supérieur à celui des minorités coloniales et post-coloniales plus dominées mais inférieur à celui des “Blancs”. Les Portugais représentent ainsi une catégorie intermédiaire, qu’on qualifie dans les sciences sociales de “Blancs honoraires”. »

    Selon la sociologue, cette « blanchité vide » se traduit notamment par le fait qu’une forte proportion de femmes portugaises occupent des positions dominées et ségrégées sur le marché de l’emploi, comme employée de maison ou concierge. « Leurs employeurs recréent des frontières physiques et sociales à l’intérieur des foyers, réagit Margot Delon au parcours de Rosa et Sandra. Une fois qu’on n’a plus besoin d’elles, elles perdent rapidement leur utilité et on les jette. »

    Démission forcée
    Depuis le salon, la télévision publique portugaise balance le nouveau tube de l’été. Impassible, Ana, 65 ans, demeure les bras croisés sous la verrière du toit de sa cuisine. « Mon père, mon frère et moi avons tous été embauchés dans les usines tourquennoises des Tiberghien. Le paysage était triste, rempli de cheminées, quel choc par rapport à Covilhã !, se remémore-t-elle. Puis, toutes les filatures ont fait faillite. J’étais enceinte de mon premier garçon et j’ai trouvé facilement quelques petits ménages. Les Portugaises avaient déjà bonne réputation. »

    Après avoir travaillé au noir pour un couple de grands industriels de renom, Ana rentre chez les D. en 1991. La famille est à l’origine d’une entreprise florissante qui compte aujourd’hui parmi ses clients Louis Vuitton, Areva ou Total.
    Dans leur manoir du nord de Lille avec piscine, sauna et terrain de tennis, Ana a sué sang et eau, rémunérée en chèques emploi-service et sans contrat de travail. « Je n’arrivais jamais à faire tout le ménage, car leur propriété était gigantesque, un vrai labyrinthe d’escaliers, explique-t-elle. Il y régnait un désordre monstrueux, ils jetaient toujours leurs vêtements à terre, et puis je devais m’occuper de leurs trois enfants, auxquels je m’étais très attachée. »

    Les D. cultivent une lubie : celle des gros chiens de race, de type saint-bernard ou bergers allemands. « Ils en possédaient cinq. C’était horrible, car je passais des matinées entières à nettoyer leurs excréments, l’urine, leurs traces de terre dans toute la maison, se rappelle Ana. Ils se battaient souvent entre eux. Et puis un jour, l’accident. »

    Un matin de mars 2015, la femme de ménage, en arrivant à la propriété, se fait attaquer par l’un des molosses : « Il voulait mordre un chien avec qui il ne s’entendait pas. Toute ma main a été déchiquetée dans sa gueule. Il y avait du sang partout, on voyait mes os. » Elle est recousue en urgence à l’hôpital de Tourcoing avec une vingtaine de points de suture mais la blessure, très grave, s’infecte. Ana bénéficie alors d’un arrêt pour accident du travail que le médecin lui renouvelle chaque mois, le temps de son rétablissement et de sa rééducation par des spécialistes.

    « Ma patronne m’a pendant tout ce temps harcelée pour savoir quand je reprenais le boulot. Mon médecin m’a affirmé que vu mon état de santé, c’était tout bonnement impossible, révèle Ana. Elle m’a tellement mis sous pression que dès que la sonnerie du téléphone retentissait, tout mon corps tremblait. En novembre, j’ai craqué. J’avais peur de perdre mon boulot, j’y suis retournée. »

    La reprise du travail se mue en cauchemar. Alors que les D. font habituellement appel à une entreprise spécialisée pour nettoyer une fois par an les vitres du manoir, son employeuse exige qu’Ana, alors âgée de 60 ans, exécute ces travaux périlleux malgré sa main blessée.

    « Je n’ai pas retrouvé la même personne. Elle voulait me pousser à bout pour que je démissionne de mon poste : comme j’étais à cinq ans de ma retraite et victime d’un accident du travail, elle devait me verser des indemnités plus importantes. Mais pour eux ça ne représente rien, tellement ils sont fortunés… », signale la sexagénaire.

    Après trois jours de ménage, son médecin tape du poing sur la table pour qu’Ana ne se rende plus au travail. Terrifiée par les D., elle est accompagnée par un médiateur afin que ses employeurs signent les documents qui stipulent l’inaptitude médicale de la salariée à la suite d’un accident du travail. Lui remettant son chèque pour solde de tout compte, la patronne d’Ana objecte alors : « Je ne m’attendais pas à ça de vous. » Cette même année, l’entreprise familiale D. engrangeait un chiffre d’affaires de plus de 100 millions d’euros.

    « Nous sommes de plus en plus sollicités par des Portugaises qui ont travaillé comme femmes de ménage, concierges ou gardiennes d’immeuble. Elles ont des anciennetés assez conséquentes et les employeurs se rendent compte qu’ils vont devoir payer des indemnités de départ à la retraite importantes à leurs yeux, assure Eloy Fernandez, militant CGT à la section Salariés des services à la personne (SAP). Ils font tout alors pour les évincer. Cela se traduit par du harcèlement moral à travers des remarques désobligeantes, de la surcharge de travail ou des tâches dégradantes à effectuer. »

    À partir de 2015, Rosa souffre d’une maladie pulmonaire chronique avant de contracter une grave hépatite à l’été 2016. Dès lors, l’ambiance chez les M. est délétère. Éreintée physiquement et à l’approche de la retraite, la femme de ménage est l’objet de pressions et d’humiliations quotidiennes afin qu’elle quitte son poste. Début 2017, Rosa demande à son employeur le rachat d’un balai-raclette. Le lendemain, elle trouve une simple lavette avec un mot manuscrit : « Pour nettoyer les sols à genoux. » « J’allais au boulot la peur au ventre, en me demandant bien ce qui allait me tomber dessus. Le pire, c’est que je me sentais coupable car ils me disaient : “Nous comptons vraiment sur vous” ou “Ne nous laissez pas tomber” », raconte la femme de ménage.
    « Ils ne voulaient ni me licencier ni attendre mon départ à la retraite afin de ne pas avoir à verser d’indemnités, s’insurge Rosa. C’est leur méthode : harceler pour que l’on parte de son propre chef. C’est ce qui est arrivé avec ma prédécesseure, ainsi que ma tante qui trimait pour Édouard M. » Fin 2017, son opiniâtreté conduit à ce qu’elle soit finalement licenciée. Un an avant sa retraite.

    Au bout de trente ans d’exploitation domestique, elle part avec 7 482,59 euros, indemnité de licenciement et solde de tout compte inclus, sans un seul mot de remerciement ni un cadeau de départ. « J’ai ouvert l’enveloppe contenant le chèque : j’en ai pleuré de rage. Ils n’ont même pas arrondi la somme, disant se conformer au strict minimum légal, s’emporte Rosa. En faire appel au Code du travail alors qu’ils m’ont régulièrement payée au noir, c’est un comble ! »

    Corps usés, esprits brisés

    Permanent à la CGT-SAP, Stéphane Fustec observe : « Nous avons depuis peu affaire à des Portugaises fragilisées, isolées professionnellement, qui ont parfois quarante ans de travail domestique et qui renoncent à leur droit de par l’attachement affectif qu’elles ont avec leur employeur. La convention collective du particulier employeur est très dérogatoire du Code du travail : c’est vraiment le service minimum. »
    En 2017, Sandra, se casse grièvement le haut du bras en tombant chez elle. Elle propose alors à sa belle-fille de la remplacer chez les V. et les T., le temps qu’elle se remette de sa blessure. À son retour, ses employeurs lui font comprendre qu’avec son bras accidenté, elle ne pourra plus être aussi performante qu’auparavant et lui propose de ne l’embaucher que deux journées par mois pour faire l’argenterie et le repassage.

    « Ma belle-fille était jeune, effectuait des tâches plus lourdes comme nettoyer les plafonds, alors pourquoi s’embarrasser d’une vieille de plus de 70 ans ?, concède Sandra. Je n’ai pas accepté leur proposition. Malgré mes trente ans d’ancienneté, j’ai décidé de partir moi-même, sans aucune indemnité. J’ai voulu garder ma dignité. »

    Aujourd’hui encore, la belle-fille de Sandra effectue le ménage chez les V. et les T. Comme elle n’a ni autre emploi ni permis, son mari la conduit en voiture depuis Orchies, soit 70 km aller-retour par jour, pour un salaire de misère.

    Il suffit de s’attarder sur leur démarche laborieuse, leurs épaules voûtées ou leurs mains tout en anfractuosités. Rosa, Ana et Sandra ont leurs corps brisés. « J’ai perdu plus de 50 % de ma capacité respiratoire, à cause de l’eau de Javel, de la soude caustique et des bombes aérosols que je devais utiliser tous les jours », développe l’employée des M.
    Ana souffre d’algodystrophie, une maladie des articulations osseuses fort douloureuse. Quant à Sandra, elle a déjà subi deux opérations chirurgicales des genoux. Toutes les trois témoignent de leur dos ruiné, à force de tâches ménagères répétitives – transporter les courses et les paniers de kilos de linges dans les escaliers, récurer les salles de bains le corps courbé.

    « Les femmes de ménage arrivent à la retraite physiquement très abîmées. Les dernières statistiques du ministère du travail montrent que les taux d’accident du travail et de maladies professionnelles sont en train d’augmenter trois fois plus que la moyenne chez les salariés des services à la personne, analyse Stéphane Fustec de la CGT-SAP. Les employées de maison n’ont pas à effectuer de visite médicale pendant leur carrière. Par ailleurs, le travail domestique est très accidentogène, à cause de la répétition des mouvements et de la pluralité des tâches à faire. »

    Au-delà des corps usés, la violence d’être mises brutalement à la porte après des dizaines d’années de labeur pour des employeurs avec qui de forts liens d’intimité se sont noués laisse des traces psychologiques. « La nuit, je fais régulièrement des cauchemars : je suis toujours là bas, chez les D., à faire le ménage », lâche Ana.

    Depuis cinq ans, elle est suivie par une psychologue pour soigner une lourde dépression. Rosa se remet aussi à peine d’une dépression après ses deux dernières années de travail mentalement éprouvantes : « Je pleurais tout le temps. J’avais peur de ne plus pouvoir joindre les deux bouts : tout cela a eu un impact sur mes relations avec ma famille et mes amies. »
    « Désormais, à cause de toutes ces années sous-payées et du travail au noir, je touche moins de 900 euros par mois de retraite avec ma complémentaire, alors que j’ai commencé à bosser à 16 ans », se désole Ana. Son mari a été récemment mis à l’arrêt à cause d’une hernie discale, après quarante ans d’usine textile et de missions intérim.

    Toutes les deux veuves et vivant seules, Sandra et Rosa perçoivent également une retraite modique, aux alentours des 800 euros mensuels. Pour survivre, ces dernières sont aujourd’hui contraintes de refaire quelques heures de ménages. Toujours pour d’illustres familles bourgeoises du Nord. Et toujours au noir. Des Portugaises bien intégrées, pour sûr.

    Si vous avez des informations à nous communiquer, vous pouvez nous contacter à l’adresse enquete@mediapart.fr. Si vous souhaitez adresser des documents en passant par une plateforme hautement sécurisée, vous pouvez vous connecter au site frenchleaks.fr.

    *À la demande des intéressées, les témoignages des femmes de ménage interviewées ont été anonymisés.

    Contrairement aux règles que nous nous sommes fixées à Mediapart, nous avons volontairement choisi d’anonymiser les noms de ces grandes familles pour lesquelles elles ont travaillé afin de ne pas exposer ces femmes de ménage qui ont accepté de témoigner. Il nous était impossible en effet de publier les noms de leurs employeurs sans leur poser des questions et assurer le contradictoire, comme le veut la loi. Mais les contacter et leur demander de réagir aurait inévitablement conduit à désigner ces femmes courageuses qui ont accepté de raconter leur quotidien dégradant et les humiliations qu’elles ont eu à subir.

    https://www.mediapart.fr/journal/france/150820/dans-l-enfer-des-grands-bourgeois-du-nord-des-femmes-de-menage-portugaises

    #bourgoisie #domesticité

  • Le passé nauséabond de l’industrie textile suisse

    Bien qu’elle n’ait pas eu de colonies, la Suisse a profité du colonialisme. C’est ce que montre l’histoire des #indiennes_de_coton imprimé. Le commerce de ces #tissus colorés avait des liens avec l’#exploitation_coloniale, le #prosélytisme_religieux et le #commerce_des_esclaves.

    Au 17e siècle, le #coton imprimé venait d’#Inde – la seule région possédant le savoir-faire nécessaire. Mais bientôt, cette technique de production d’étoffes imprimées de couleurs vives fut copiée par les Britanniques et les Néerlandais qui, grâce à la mécanisation, les produisaient à meilleur prix. Ils supplantèrent l’industrie textile indienne. Les « indiennes » claires et abordables produites en Europe connurent une telle vogue que, sous la pression des producteurs de laine, de soie et de lin, Louis XIV, le Roi-Soleil, dut interdire leur production et leur importation.

    Cette interdiction fut une aubaine pour la Suisse du 17e siècle. Des #huguenots français qui s’étaient réfugiés en Suisse pour fuir les persécutions religieuses dans leur pays fondèrent des #usines_textiles à #Genève et à #Neuchâtel, d’où ils pouvaient écouler les indiennes en France par #contrebande. La demande atteignait alors un sommet : en 1785, la #Fabrique-Neuve de #Cortaillod, près de Neuchâtel, devint la plus grande manufacture d’indiennes d’Europe, produisant cette année-là 160’000 pièces de #coton_imprimé.

    Le boom en Suisse et le commerce des esclaves

    Le commerce des indiennes a apporté une énorme prospérité en Suisse, mais il avait une face obscure : à l’époque, ces étoffes étaient utilisées en Afrique comme monnaie d’échange pour acheter les #esclaves qui étaient ensuite envoyés en Amérique. En 1789 par exemple, sur le #Necker, un navire en route pour l’Angola, les étoffes suisses représentaient les trois quarts de la valeur des marchandises destinées à être échangées contre des esclaves.

    Les entreprises textiles suisses investissaient aussi directement leurs fortunes dans la #traite des noirs. Des documents montrent qu’entre 1783 et 1792, la société textile bâloise #Christoph_Burckardt & Cie a participé au financement de 21 #expéditions_maritimes qui ont transporté au total 7350 Africains jusqu’en Amérique. Une grande partie de la prospérité des centres suisses du textile était liée au commerce des esclaves, que ce soit à Genève, Neuchâtel, #Aarau, #Zurich ou #Bâle.

    Un projet colonial

    Au milieu du 19e siècle, la Suisse était devenue un des plus importants centres du commerce des #matières_premières. Des marchands suisses achetaient et revendaient dans le monde entier des produits tels que le coton indien, la #soie japonaise ou le #cacao d’Afrique de l’Ouest. Bien que ces marchandises n’aient jamais touché le sol helvétique, les profits étaient réalisés en Suisse.

    L’abolition de l’esclavage aux États-Unis à la suite de la guerre de Sécession a conduit à une crise des matières premières, en particulier de la production du coton qui était largement basée sur une économie esclavagiste. Le marché indien prit encore plus d’importance. L’entreprise suisse #Volkart, active aux Indes depuis 1851, se spécialisa alors dans le commerce du #coton_brut. Afin d’étendre ses activités dans ce pays, elle collabora étroitement avec le régime colonial britannique.

    Les Britanniques dirigeaient la production et, sous leur joug, les paysans indiens étaient contraints de cultiver du coton plutôt que des plantes alimentaires et devaient payer un impôt foncier qui allait directement dans les caisses du gouvernement colonial. Combinée avec l’extension du réseau de chemins de fer à l’intérieur du sous-continent indien, cette politique oppressive permit bientôt à Volkart de prendre en charge un dixième de l’ensemble des exportations de coton vers les manufactures textiles d’Europe. Volkart avait son siège à #Winterthour et occupait ainsi une situation centrale sur le continent européen d’où elle pouvait approvisionner les #filatures installées en Italie, dans le nord de la France, en Belgique, dans la Ruhr allemande ou dans toute la Suisse.

    Les collaborateurs de Volkart devaient éviter les comportements racistes, mais cela ne les empêcha pas d’adopter en Inde certains usages de l’occupant colonial britannique : les Indiens n’avaient pas accès aux salles de détente des employés européens.

    Ardeur missionnaire

    Une autre entreprise prospère à l’époque coloniale fut la #Société_évangélique_des_missions_de_Bâle, ou #Mission_bâloise. Fondée en 1815 par des protestants suisses et des luthériens allemands, son but était de convertir les « païens » au #christianisme. Elle a connu un certain succès au sud de l’Inde dans les territoires des États actuels du #Kerala et du #Karnataka, en particulier auprès des Indiens des couches sociales inférieures qui accédaient ainsi pour la première fois à la formation et à la culture.

    Toutefois, en se convertissant à une autre religion, les autochtones prenaient le risque d’être exclus de leur communauté et de perdre ainsi leur gagne-pain. La Mission de Bâle a réagi en créant des filatures afin de donner des emplois aux réprouvés. Elle résolvait ainsi un problème qu’elle avait elle-même créé et en tirait encore des bénéfices : dans les années 1860, la Mission exploitait quatre filatures et exportait des textiles aux quatre coins de l’#Empire_britannique, de l’Afrique au Proche-Orient en passant par l’Australie.

    L’industrie textile a largement contribué à la prospérité de la Suisse mais de nombreux déshérités l’ont payé au prix fort dans les pays lointains. La Suisse n’était peut-être pas une puissance coloniale indépendante, mais elle a énormément profité du colonialisme.

    https://www.swissinfo.ch/fre/indiennes_le-pass%C3%A9-naus%C3%A9abond-de-l-industrie-textile-suisse/45862606

    #histoire #histoire_suisse #industrie_textile #textile #colonialisme #colonisation #Suisse

    –—

    Ajouté à la métaliste sur la Suisse coloniale :
    https://seenthis.net/messages/868109

  • Le temps des ouvriers. Le temps de l’#usine (1/4)

    Du début du XVIIIe siècle à nos jours, Stan Neumann déroule sur plus de trois siècles l’histoire du monde ouvrier européen, rappelant en une synthèse éblouissante ce que nos sociétés doivent aux luttes des « damnés de la terre ».

    Dès le début du XVIIIe siècle, en Grande-Bretagne, une nouvelle économie « industrielle et commerciale », portée par le textile, chasse des campagnes les petits paysans et les tisserands indépendants. Pour survivre, ils doivent désormais travailler contre salaire dans des fabriques (factories) qui rassemblent plusieurs milliers d’ouvriers, sur des métiers appartenant à des marchands devenus industriels. C’est la naissance de la classe ouvrière anglaise. Le travail en usine, le Factory System, où seul compte le profit, impose aux déracinés une discipline et une conception du temps radicalement nouvelles. Avec la révolution industrielle de la fin du XVIIIe siècle, ils subissent un dressage plus violent encore, sous la loi de machines qui réduisent l’ouvrier à un simple rouage.
    Surexploitée et inorganisée, cette classe ouvrière primitive, qui oppose à la main de fer de l’industrie naissante des révoltes spontanées et sporadiques, va mettre plusieurs générations à inventer ses propres formes de lutte, dans une alliance parfois malaisée avec les républicains anglais, inspirés par la Révolution française de 1789. Ses revendications sont sociales et politiques : réglementation du travail des enfants, salaires, durée du temps de travail, liberté syndicale, droit de grève, suffrage universel... Dans les années 1820, après des décennies de combats perdus, une classe ouvrière anglaise puissante et combative semble en mesure de faire la révolution.

    Temps complet
    La classe ouvrière a-t-elle disparu, ou simplement changé de forme, de nom, de rêve ? Conciliant l’audace et la rigueur historique, l’humour et l’émotion, le détail signifiant et le souffle épique, Stan Neumann (Austerlitz, Lénine, Gorki – La révolution à contre-temps) livre une éblouissante relecture de trois cents ans d’histoire. Faisant vibrer la mémoire des lieux et la beauté des archives, célébrissimes ou méconnues, il parvient à synthétiser avec fluidité une étonnante quantité d’informations. Les séquences d’animation, ludiques et inventives, et un commentaire dit par la voix à la fois présente et discrète de Bernard Lavilliers permettent de passer sans se perdre d’un temps à l’autre : celui du travail, compté hier comme aujourd’hui minute par minute, celui des grands événements historiques, et celui, enfin, des changements sociaux ou techniques étalés parfois sur plusieurs décennies, comme le processus de légalisation des syndicats ou du travail à la chaîne. En parallèle, le réalisateur donne la parole à des ouvriers et ouvrières d’aujourd’hui et à une douzaine d’historiens et philosophes, hommes et femmes, « personnages » à part entière dont la passion communicative rythme le récit. On peut citer Jacques Rancière, Marion Fontaine, Alessandro Portelli, Arthur McIvor, Stefan Berger, avec Xavier Vigna comme conseiller scientifique de l’ensemble des épisodes. Cette série documentaire virtuose, où l’expérience intime coexiste avec la mémoire collective, au risque parfois de la contredire, révèle ainsi combien nos sociétés contemporaines ont été façonnées par l’histoire des ouvriers.

    https://www.arte.tv/fr/videos/082189-001-A/le-temps-des-ouvriers-1-4

    #documentaire #film_documentaire #film
    #agriculture #cleasning #nettoyage #industrie #industrie_textile #industrialisation #expulsions_forcées #histoire #Ecosse #UK #exode_rural #déplacés_internes #IDPs #histoire #force_de_travail #classe_ouvrière #Highlands #désindustrialisation #compétition #factory_system #esclavage #Crowley #temps #contrôle_du_temps #salaires #profit #filatures #travail_d'enfants #enfants #femmes #New_Lanark #Robert_Owen #silent_monitor #école #Institut_pour_la_formation_du_caractère #paternalisme #contrôle #tyrannie #liberté_de_commerce #grève #émeute #insécurité_sociale #pauvreté #workhouse #criminalisation_de_la_pauvreté #résistance #Enoch #Great_Enoch #John_Ludd #général_Ludd #luddisme #luttes #insurrection #cadence #progrès_technique #accidents_de_travail #Angleterre #insurrection_luddite #massacre_de_Peterloo #odeur #intercheangeabilité #temps_des_ouvriers

    Sur le silent monitor :

    This small four-sided wooden block was known as a ’silent monitor’ and was used by Robert Owen as a means of imposing discipline at his #New_Lanark_Mills.

    Robert Owen was strongly opposed to the use of corporal punishment, so in order to keep discipline at the New Lanark Mills, he devised his own unique system. The ’silent monitors’ were hung next to each worker in the mills, with each side displaying a different colour. ’Bad’ behaviour was represented by the colour black; ’indifferent’ was represented by blue; ’good’ by yellow; and ’excellent’ by white. The superintendent was responsible for turning the monitors every day, according to how well or badly the worker had behaved. A daily note was then made of the conduct of the workers in the ’books of character’ which were provided for each department in the mills.


    https://www.peoplescollection.wales/items/10456

    New Lanark :

    • Le temps des ouvriers (4/4)Le temps de la destruction

      Stan Neumann déroule sur plus de trois siècles l’histoire du monde ouvrier européen. Dernier volet : dans les années 1930, la classe ouvrière semble plus puissante que jamais. Le succès, en 1936, du Front populaire en France témoigne de cette force. Pourtant, les ouvriers européens vont de défaite en défaite...

      En Espagne, la dictature franquiste, soutenue par Hitler et Mussolini, triomphe en 1939. Puis dans l’Europe asservie, l’Allemagne nazie fait des ouvriers des pays vaincus des « esclaves du XXe siècle » : « travail obligatoire » pour les ouvriers de l’ouest de l’Europe, « extermination par le travail » des juifs, des Tsiganes et des prisonniers de guerre soviétiques.
      Après 1945, la guerre froide génère de nouvelles fractures. En Occident, on achète la paix sociale en améliorant les conditions de vie et de travail dans la plus pure tradition fordiste. À l’Est, le pouvoir est confisqué par des partis uniques qui prétendent représenter les ouvriers tout en les privant des libertés syndicales avec le soutien de l’URSS et de ses tanks. L’espoir renaît dans les années 1970, qui voient fleurir les utopies révolutionnaires, des Lip à Solidarnosc. Mais c’est un chant du cygne. Avec son cortège de misère et de chômage, la désindustrialisation a commencé.

      Temps complet
      La classe ouvrière a-t-elle disparu, ou simplement changé de forme, de nom, de rêve ? Conciliant l’audace et la rigueur historique, l’humour et l’émotion, le détail signifiant et le souffle épique, Stan Neumann ("Austerlitz", « Lénine »", ""Gorki"" – ""La révolution à contre-temps") livre une éblouissante relecture de trois cents ans d’histoire. Faisant vibrer la mémoire des lieux et la beauté des archives, célébrissimes ou méconnues, il parvient à synthétiser avec fluidité une étonnante quantité d’information. Les séquences d’animation, ludiques et inventives, et un commentaire dit par la voix à la fois présente et discrète de Bernard Lavilliers permettent de passer sans se perdre d’un temps à l’autre : celui du travail, compté hier comme aujourd’hui minute par minute, celui des grands événements historiques, et celui, enfin, des changements sociaux ou techniques étalés parfois sur plusieurs décennies, comme le processus de légalisation des syndicats ou du travail à la chaîne. En parallèle, le réalisateur donne la parole à des ouvriers et ouvrières d’aujourd’hui et à une douzaine d’historiens et philosophes, hommes et femmes, « personnages » à part entière dont la passion communicative rythme le récit. On peut citer Jacques Rancière, Marion Fontaine, Alessandro Portelli, Arthur McIvor, Stefan Berger, avec Xavier Vigna comme conseiller scientifique de l’ensemble des épisodes. Cette série documentaire virtuose, où l’expérience intime coexiste avec la mémoire collective, au risque parfois de la contredire, révèle ainsi combien nos sociétés contemporaines ont été façonnées par l’histoire des ouvriers.

      https://www.arte.tv/fr/videos/082189-004-A/le-temps-des-ouvriers-4-4

      #poing_levé #Front_populaire #Espagne #Fígols #mujeres_libres #guerre_d'Espagne #mineurs #alcolisme #violence_domestique #expulsions_collectives #travailleurs_étrangers #Volkswagen #nazisme #extermination_par_le_travail #Berlin #Pologne #Hongrie #superflu #rock_and_roll #mai_68 #Sochaux #Lip #Solidarność #Solidarnosc #Anna_Walentynowicz #printemps_de_Prague #NUM #autonomie_ouvrière #Arthur_McIvor #Margareth_Thatcher #muséification #désindustrialisation #invisibilisation #uberisation

  • Did a Muslim Slave Make Your Chinese Shirt? - WSJ
    https://www.wsj.com/articles/did-a-muslim-slave-make-your-chinese-shirt-11571264293
    https://images.wsj.net/im-117506/social

    Our organization, Citizen Power Initiatives for China, has released a report titled “Cotton: The Fabric Full of Lies,” using direct evidence from data published by the Chinese Communist Party, Chinese companies and witness testimony to prove that prisons and re-education camps in the region are forcing inmates to work in China’s cotton supply chain.

    This report documents the modern slavery that distorts free trade, violates international labor standards and seriously violates human rights. Like the Soviet gulags, this penal system banishes inmates to a remote region and punishes them with hard labor, all while making money for the state.

    #Chine #Ouïghour·es #travail_forcé #Xinjiang #industrie_textile

  • Se l’operaio alle dipendenze del cinese è pachistano

    Che ci fa un piccolo imprenditore cinese in ginocchio? Perché solleva davanti alle telecamere e ai giornalisti un artigianalissimo cartello che recita “Cobas Comanda #Prato, Aiuto Istituzioni”? Perché alcuni operai pachistani vengono picchiati e finiscono in ospedale insieme a un sindacalista?

    Benvenuti a Prato, città di frontiera, ieri come oggi, città dove il nuovo lavorativo e imprenditoriale si presenta prima che altrove. Nei decenni del “piccolo è bello” era stato il distretto industriale per eccellenza; dagli anni Novanta è stato il distretto che ha prima accolto e poi criminalizzato l’imprenditoria dei migranti cinesi; dal 2014 è stato il luogo dove la Regione ha introdotto controlli serrati sul lavoro in maniera esplicitamente discriminante: solo le ditte cinesi sarebbero state controllate a tappeto; negli ultimi tempi, gli imprenditori cinesi di Prato – adeguandosi a un modello già in uso tra gli italiani – sono stati i primi imprenditori migranti ad impiegare massicciamente manodopera immigrata non cinese.

    Oggi Prato è la nuova frontiera di quello che si sarebbe tentati di considerare un conflitto tutto etnico: la contrapposizione tra datori di lavoro cinesi e operai pachistani nell’industria tessile e dell’abbigliamento.

    Nel distretto di Prato i cinesi erano arrivati in sordina, alla fine degli anni Ottanta, proponendosi come terzisti nell’abbigliamento per ditte finali dislocate in diverse città del Centro Nord Italia. Come operai impiegavano solo connazionali, introducendo quindi un modello di etnicizzazione del lavoro che, anche grazie al laboratorio usato come luogo di vita e di lavoro insieme, ha permesso di ristrutturare gli spazi e i tempi del lavoro: gli operai cinesi pagati a cottimo, infatti, si spostavano da un laboratorio cinese all’altro seguendo le commesse in arrivo e il bisogno di evaderle urgentemente. A poco a poco una parte dei terzisti cinesi è riuscita a fare il grande balzo imprenditoriale e ad aprire le proprie ditte finali nel “pronto moda”. Nel frattempo e con gradualità, i cinesi sono riusciti anche ad acquisire da imprenditori pratesi le tintorie che tingono per il pronto moda, ricavandosi quindi uno spazio crescente anche nel settore tessile, appannaggio tradizionale dell’imprenditoria autoctona. Oggi ci sono a Prato circa 3.700 imprese cinesi nelle confezioni e 400 nel tessile.

    Negli ultimi anni, l’organizzazione del lavoro sta cambiando drasticamente nelle imprese cinesi. Gli operai non sono più solo cinesi, ma anche pachistani, bangladesi e africani, sia nelle tintorie che nei laboratori di confezioni. A spiegare questa evoluzione contribuisce la difficoltà crescente per gli imprenditori cinesi di trovare e trattenere presso di loro operai cinesi. Questo a sua volta scaturisce dalla fine degli arrivi di manodopera a basso costo dalla Cina, e dal fatto che i cinesi che vivono in Italia da decenni, se possono, cercano impiego fuori dal manifatturiero.

    Ma il processo di multi-etnicizzazione del lavoro non è solo una reazione a questo. Scaturisce anche dalla concreta possibilità per gli imprenditori di accrescere i propri profitti, impiegando una manodopera ancor più vantaggiosa di quella cinese. Se poi sono rifugiati – come lo sono buona parte dei migranti arrivati negli ultimi anni – gli operai diventano ancora più interessanti perché maggiormente vulnerabili.

    Già qualche anno fa, nelle fasi iniziali del processo di multietnicizzazione, la stampa locale aveva mostrato come vi fosse una sorta di gerarchia degli stipendi dei diversi gruppi di immigrati: gli operai cinesi erano al top, con stipendi (perlopiù a cottimo) di circa 1.300 euro, quelli pachistani e bangladesi avevano salari più bassi di circa 300-400 euro, e gli africani guadagnavano ancora meno. Invece, i pochi italiani che lavoravano nelle tintorie cinesi – operai specializzati o consulenti, a volte ex proprietari – ricevevano compensi ben diversi. Differenze nei salari di operai cinesi e altri immigrati non cinesi sono emerse anche da uno studio che ha analizzato l’impiego di manodopera immigrata non cinese nei centri ingrosso gestiti da cinesi nel Veneto (G. D’Odorico e D. Sacchetto, Il commercio all’ingrosso cinese in Italia: prospettive storiche e presenti in un’ottica globale, in Cinesi tra le maglie del lavoro).

    La differenza fondamentale tra gli operai cinesi e gli altri operai immigrati non sta però principalmente nei divari salariali, quanto nel fatto che i gli operai cinesi, a differenza degli altri immigrati, godono di benefit tradizionalmente garantiti agli operai cinesi nelle imprese cinesi: vitto e alloggio a costo zero. Nelle interviste che abbiamo raccolto nel corso dell’estate, gli operai pachistani protestavano per questo trattamento differenziato a parità di mansioni e di ore lavorate, e facevano i calcoli su quanto si alzerebbero le loro entrate mensili se come i cinesi non dovessero pagarsi l’appartamento e il cibo.

    Inoltre, dal nostro recente lavoro sul campo, così come da una ricerca sullo sfruttamento lavorativo finanziata dal Comune di Prato (A. Cagione e G. Coccoloni, Forme di sfruttamento lavorativo a Prato), emerge il potere assoluto dei datori di lavoro cinesi che lasciano a casa all’istante gli operai pachistani o africani quando, da mesi privi di un solo giorno libero, decidono di rimanere a casa per un giorno e quando chiedono di avere un contratto di lavoro, indispensabile per ottenere il permesso di soggiorno per lavoro. Non era mai stata registrata prima tanta rigidità nei rapporti lavorativi; al contrario, un vantaggio molto apprezzato dagli operai cinesi negli ultimi anni era la maggior flessibilità dell’orario di lavoro garantita dai datori di lavoro cinesi rispetto a quelli italiani – seppur in un contesto di forte sfruttamento e auto-sfruttamento. Inoltre, mentre i contratti di lavoro degli operai cinesi sono perlopiù a tempo indeterminato o si adeguano alle esigenze dei lavoratori cinesi di rinnovare il permesso di soggiorno per lavoro o di accedere al ricongiungimento con i familiari, i contratti dei lavoratori immigrati non cinesi sono di breve durata, quando ci sono.

    Il processo di etnicizzazione gerarchizzata in atto permette di fare luce su alcuni importanti mutamenti nel mondo del lavoro. L’idea che gli immigranti facciano i lavori che gli italiani non vogliono fare è in un certo senso superata. Oggi, e sempre di più, sono i datori di lavoro stessi a cercare attivamente gli operai immigrati preferendoli ai cosiddetti autoctoni. Detto altrimenti, il processo di etnicizzazione del lavoro scaturisce (anche) da volontà imprenditoriali di sfruttare al meglio il lavoro dipendente, giocando su tutte le forme di vulnerabilità possibili. E secondo molti il processo di precarizzazione intacca prima le categorie più vulnerabili, come i migranti e i giovani, per poi estendersi a fasce sempre più vaste di lavoratori, inclusi quelli cosiddetti “di concetto”. Allo stesso tempo, questo processo di sfruttamento rapace risponde all’esigenza di contenere sempre più il costo del lavoro in settori dove la concorrenza è serrata e i margini di profitto per i terzisti sono in continuo ribasso.

    Oggi, guidati dai sindacalisti autoctoni di Si Cobas – il sindacato di base che ha condotto lotte di successo tra gli immigrati che lavorano nella logistica – i pachistani impiegati in alcune aziende tessili pratesi gestite da cinesi scendono in sciopero e bloccano la produzione. Chiedono di non lavorare 12 ore al giorno 7 giorni su 7; chiedono di non avere contratti da 2, 4 o 6, ore ma contratti adeguati al numero di ore effettivamente svolte. Gli imprenditori cinesi reagiscono male agli scioperi dei lavoratori. I sindacalisti ci raccontano di imprenditori cinesi increduli, che non sanno spiegarsi come mai gli operai possano scendere in sciopero e addirittura possano bloccare la produzione, ostacolando l’entrata e l’uscita delle merci. A fine giugno, alcuni operai pachistani in sciopero sono stati portati in ospedale perché picchiati da cinesi durante un picchetto davanti alla tintoria dove lavoravano.

    Se pensiamo alle repressioni degli scioperi in Cina e all’irregimentazione del lavoro in Asia, viene da chiedersi se questo sia un modello tutto cinese di gestione della conflittualità con gli operai.

    Ma pensare che si tratti di un modello cinese è una foglia di fico. Oggi a Prato c’è una manciata di imprenditori pachistani nel settore delle confezioni che dà lavoro a connazionali. I loro operai ci raccontano che non c’è differenza tra i datori di lavoro cinesi e quelli pachistani: i livelli di sfruttamento sono gli stessi. Inoltre, i laboratori terzisti pachistani cuciono vestiti per ditte finali cinesi e italiane. Questo permette di capire che quello che è in atto non è uno scontro etnico, ma un’evoluzione nello sfruttamento del lavoro dove ogni imprenditore sfrutta ogni occasione per massimizzare il profitto. Pensare che si tratti di un modello cinese, inoltre, serve solo a non vedere come nel nostro Paese, da anni ormai, la difesa dei diritti dei lavoratori abbia finito per essere inusuale, inaspettata e perfino demonizzata. Diverse ricerche hanno mostrato come un costante processo di normalizzazione del lavoro precario – con la giustificazione che avrebbe favorito la ripresa dell’occupazione – ha portato a una proliferazione del lavoro povero e sfruttato. Contratti finti, che dichiarano orari di lavoro ridicoli rispetto a quelli effettivi non sono tipicamente cinesi. Paghe sempre più basse, lontane da quelle contrattuali sono la regola anche tra i giovani e meno giovani autoctoni, e ferie, malattia, e maternità sono diventati vocaboli sempre più desueti nel nostro Paese in generale, e non solo tra i lavoratori migranti.

    I cinesi hanno imparato cosa si può fare in questo Paese, lo hanno imparato così bene da dire oggi a chiare lettere – con quel cartello “Istituzioni aiuto!” – che si aspettano che il governo (locale) faccia rispettare il patto (nazionale) secondo cui i sindacati devono restare immobili e gli operai devono essere grati per avere il lavoro, non importa quanto grave sia lo sfruttamento. La cartina tornasole di questo stato di cose sta in un’azione istituzionale preoccupante: il foglio di via che la questura di Prato ha presentato ai due sindacalisti di Si Cobas che mobilitano i lavoratori pachistani in sciopero per avere un lavoro (più) dignitoso.

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