• L’Action directe (1908) - [Fragments d’Histoire de la gauche radicale]
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    L’Action directe (1908)
    Article mis en ligne le 5 février 2024

    par ArchivesAutonomies

    Nous mettons en ligne le journal L’Action directe (1908) dont le premier numéro est daté du 15 janvier 1908, le dernier du 30 septembre 1908. Ce journal se voulait réagir contre la volonté de différents acteurs politiques et syndicaux de ramener l’action de la CGT dans un cadre légaliste. On va y retrouver des militants - P. Delesalle, A. Dunois, V. Griffuelhes, H. Lagardelle, A. Merrheim, P. Monatte, E. Pouget - ayant participé à la fondation de la CGT et ayant contribué par des nombreux articles dans la Voix du Peuple à défendre l’idéal du syndicalisme révolutionnaire. Voir les sommaires de #L’Action_directe.

    • Si on en croit les définitions « encyclopédiques », l’#action_directe n’est pas la #propagande_par_le_fait :

      La « propagande par le fait », à ne pas confondre avec l’« action directe », est une stratégie d’action politique développée par une partie des militants anarchistes à la fin du XIXe siècle, en association avec la propagande écrite et verbale. Elle proclame le « fait insurrectionnel » « moyen de propagande le plus efficace » et vise à sortir du « terrain légal » pour passer d’une « période d’affirmation » à une « période d’action », de « révolte permanente », la « seule voie menant à la révolution ».

      https://fr.wikipedia.org/wiki/Propagande_par_le_fait

      Une action directe, dans les domaines politiques et sociaux, est le mouvement d’un individu ou d’un groupe qui agit par lui-même, afin de peser directement sur un rapport de force pour changer une situation et ceci, sans déléguer le pouvoir à un intermédiaire (« représentant », professionnel de la politique, bureaucrate, etc.)1. Principalement rattachée à la mouvance anarchiste dont elle est issue, l’action directe peut être pacifique ou non.

      https://fr.wikipedia.org/wiki/Action_directe_(th%C3%A9orie_politique)

    • L’action directe, pour le faire simple, telle qu’elle a été théorisée par les syndicalistes révolutionnaires de la CGT, consiste à préconiser tout type de pratiques de lutte de classe, gérées par la classe ouvrière elle-même, sur le « terrain économique », c’est à dire essentiellement en entreprise, sans délégation parlementaire. À l’époque ces pratiques étaient en particulier identifiées comme étant, la grève, le sabotage (qui ne correspond pas exactement au sens qu’on donne à ce terme aujourd’hui) le boycott, le label.

      La "propagande par le fait", sans être totalement contradictoire avec l’action directe, désigne en fait, certaines pratiques anarchistes - les attentats – qui se sont surtout déroulées en France, pendant la période précédant celle du syndicalisme révolutionnaire.

      Le cas d’Émile Pouget, prenant d’abord la défense des attentats anarchistes dans son Père Peinard, puis théorisant ensuite l’action directe à la direction de la CGT (pour enfin terminer dans l’union sacrée) est assez emblématique de cette évolution.

  • #Alessandro_Chiappanuvoli. In ascolto de #L’Aquila

    Dal terremoto dell’aprile 2009 il capoluogo abruzzese è ancora un cantiere. Il podcast “#L’Aquila_fenice” racconta l’urgenza di costruire un’identità per la futura città. Partendo dalla rielaborazione collettiva di quanto accaduto.

    Se il terremoto ha insegnato qualcosa agli aquilani è a sperimentare, a lanciarsi nelle sfide, a collaborare, a creare nuove realtà e soluzioni dal basso”, dice Alessandro Chiappanuvoli. Giornalista, scrittore, il 6 aprile del 2009 aveva 28 anni e stava per decidere di abbandonare la sua città, per lavorare come cooperante in Sud America dopo essersi laureato in Sociologia della multiculturalità a Urbino. Non se n’è mai andato, però: a luglio ha riassunto tredici anni di vita in un podcast, “L’Aquila fenice”, prodotto da Spotify studios in collaborazione con Chora Media e Maxxi. “La memoria di ciò che è stato è fondamentale -dice- L’Aquila non può permettersi di non essere testimone del proprio terremoto. Non è più la città che stavo per abbandonare, ma un centro nevralgico di sperimentazione. Questo fermento deve essere alimentato. Ricostruite le case andrà ricostruita la città, l’idea di città, e l’identità dei suoi cittadini”.

    Attraversare un terremoto cambia l’approccio alla vita nel quotidiano. Porta a chiedersi “quand’è che sono felice?”. Che cosa significa questa domanda per te?
    AC Il terremoto è un momento di crisi, individuale e collettivo. Come tale porta con sé un dono, un’opportunità, quella di poter ripensare la propria vita. A me è accaduto nel 2010 quando mi posi la domanda che riporto nel podcast, e la risposta fu facile: “Quando scrivo”. Dopo 13 anni credo che il valore che ho dato a quella domanda e l’approccio alla vita non siano cambiati. La mia esistenza può finire da un giorno all’altro e devo viverla come se fosse sempre l’ultimo giorno, nel lavoro, nei sentimenti, nella socialità e nella vita politica (ovvero nella vita finalizzata alla realizzazione del bene comune). Ogni giorno cerco di andare a dormire sereno, soddisfatto, e così mi sveglio propositivo, energico, con la voglia di fare ancora di più.

    “L’Aquila non è più la città che stavo per abbandonare, ma un centro nevralgico di sperimentazione. Questo fermento deve essere alimentato. Ricostruite le case andrà ricostruita la città, l’idea di città, e l’identità dei suoi cittadini”

    Nel podcast racconti del grande attivismo post-terremoto, della mobilitazione dei giovani e non solo, di progetti come Casematte e 3e32. Però L’Aquila è stato il primo capoluogo di Regione in cui Fratelli d’Italia (FdI) ha vinto le elezioni, nel 2017. Perché?
    AC Le elezioni del 2017 furono controverse. Il candidato del Partito democratico perse al ballottaggio ma era dato come sicuro vincitore. E non credo che la vittoria sia targata FdI, quanto centrodestra. In città si è parlato di faide interne al Pd o di distrazione di voti a sinistra, causati dai movimenti nati dai comitati come il 3e32. Credo che il centro di potere del Pd che ha governato la città durante il terremoto abbia commesso un grave errore, perpetrato ancora nelle amministrative di quest’anno: non dare continuità alla propria azione, non alimentare un ricambio generazionale, non coinvolgere pienamente la grande mobilitazione nata a seguito del terremoto. L’Aquila prima del 2009 era un paesotto piccolo borghese con fulcri di potere ben definiti, il terremoto ha attivato processi di partecipazione strutturati o spontanei, calati dall’alto o nati dal basso. Questa partecipazione andava alimentata e organizzata, poiché un passo indietro è sempre possibile. Poi c’è una cosa che penso da 13 anni: L’Aquila è lo specchio futuro dell’Italia, la mia città è l’Italia tra cinque anni, quel che succede da noi è molto probabile succeda anche nel resto del Paese. Non avrei nulla contro la destra, purché sappia essere progressista, aperta al dialogo, partecipativa, responsabilizzante di tutte le parti sociali. Ciò che la sinistra non sta riuscendo a fare.

    Nel tuo racconto dai voce ai giovani aquilani, che erano bambini ai tempi del terremoto.
    AC Molti hanno avuto la fortuna di crescere al fianco di persone che si sono spese anima e corpo per L’Aquila, per il suo futuro e per strutturare un’idea di città anche se oggi nessuno sta lavorando per costruire un’idea di città futura. Ci sono intenzioni, protocolli d’intesa, strategie, ma poche azioni concrete, sostenibili, pochissime visioni di lungo periodo. I giovani hanno il diritto al futuro. Noi abbiamo il dovere di indicare la via, loro di sognare. L’Aquila quand’ero giovane era una città da cui scappare, oggi è in continuo mutamento, ma non è ancora una città dove restare. Ecco, forse dovremmo iniziare a chiedere in prestito i sogni dei giovani aquilani per costruire una vera idea de L’Aquila futura.

    “L’Aquila fenice” è un podcast in sei puntate scritto da Alessandro Chiappanuvoli, prodotto da Spotify Studios in collaborazione con Chora Media e Maxxi

    Una puntata è dedicata al tema della memoria, che non significa semplicemente non dimenticare.
    AC Davanti a una crisi personale, dopo il momento del dolore e di emergenza, le strade sono due: chiudere col passato e voltare pagina o metabolizzare quanto accaduto e imparare dai propri errori. Con il terremoto, un momento di crisi collettiva, è diverso: l’unica strada percorribile è la seconda. Bisogna costruire una memoria pubblica che aiuti la comunità a fare pace con l’emergenza, con il dolore, come hanno fatto i cittadini che hanno voluto il Parco della memoria. Questo non solo per non ripetere gli errori commessi -la cattiva gestione degli sfollati, i ritardi nella ricostruzione- e per non affrontare le catastrofi naturali come se fosse sempre la prima volta. È necessario per ricucire le ferite nell’animo della comunità, per rinsaldare lo spirito sociale di mutuo aiuto. La collettività non può vivere in salute con un rimosso. Gli esseri umani costruiscono sul passato una sovrastruttura sulla quale erigere l’esperienza di vita. Oggi invece sembra sia diventato importante soltanto commemorare il dolore, ricordare l’anniversario. Non c’è nulla di più inutile.

    Il terremoto ha tenuto L’Aquila ai margini degli effetti della crisi economica, ma rischia di causare una bolla. La città si sta preparando alla fine della ricostruzione?
    AC No, né da un punto di vista economico, né da quello socio-culturale. Si vive in una specie di presentismo precario, ma tra qualche anno la ricostruzione sarà ultimata e anche i flussi di denaro per la ripresa sociale smetteranno di arrivare. E se deperisce l’economia della città non so quanto realtà come il museo Maxxi L’Aquila o il Gran Sasso science institute, create dopo il terremoto, possano resistere in un contesto non più in crescita. Basti pensare che una buona parte dei fondi del Pnrr sono stati destinati al recupero del decoro urbano e non a costruire un futuro per le prossime generazioni. Come se fosse possibile per una città di provincia come L’Aquila, che certo non è Firenze, Roma o Venezia, puntare forte sul turismo. Temo che tra qualche anno ci ritroveremo con una città, ricostruita con i soldi degli italiani, bella ma vuota, nuova ma priva d’identità, una cattedrale desertificata, gentrificata.

    “Si vive in una specie di presentismo precario […]. Temo che tra qualche anno ci ritroveremo con una città, ricostruita con i soldi degli italiani, bella ma vuota, nuova ma priva d’identità, una cattedrale desertificata, gentrificata”

    Hai citato il Gran sasso science institute (Gssi). Quand’è arrivato e perché può rappresentare un modello, in generale per l’Italia interna e le sue università?
    AC Il Gssi è un centro di alta formazione che apre la città al mondo e che, fatto non secondario, tenta di concretizzare i saperi che produce. È fuor di dubbio un modello per l’Italia interna e per le università, ed è innegabile la mole di studi che mette a disposizione dei territori. Il problema è che fatica a non essere percepito come la classica astronave scesa dal cielo e non è solo una responsabilità dell’istituto costruire un rapporto con la città e con i cittadini, che va costruito da ambo le parti. È una questione che riguarda il rapporto dei cittadini con la cultura. Se la formazione continuerà a essere percepita solo come un’attività professionalizzante, questo divario diventerà sempre più ampio. Ma il punto, per tornare al Gssi, è questo. Dobbiamo trovare una risposta seria a queste domande: “A che serve il Gran sasso science institute per la quotidiana degli aquilani? Cosa ci può dare culturalmente che non siano benefici superficiali come affitti e introiti economici per i commercianti? Come può migliorare le nostre vite?”. Ecco, troviamo una risposta a queste domande.

    Tra i luoghi della cultura, gli spazi che guardano al futuro, elenchi anche il Mercato contadino: che cosa rappresenta?
    AC A citarlo è Quirino Crosta, attivista, tra le altre cose, di Slow Food, che ha partecipato in prima linea alla sua creazione. Io lo frequento come acquirente. Posso dire che rappresenta anch’esso un’opportunità e la più evidente: aiutare i produttori locali a raggiungere sempre più ampie fette di mercato e contribuire alla salvaguardia della memoria, dei saperi contadini locali, delle specificità, della biodiversità. Il Mercato contadino è un presidio, un tentativo di resistenza, una realtà che nel suo piccolo già crea cultura, già cambia la prospettiva e alimenta una nuova visione di consumo e di benessere.

    #tremblement_de_terre #Italie #Abruzzes #identité #experimentation #mémoire #reconstruction #crise #Casematte #3e32 #mémoire_publique #Gran_sasso_science_institute (#Gssi)

  • "Réfugiés", « migrants », « exilés » ou « demandeur d’asile » : à chaque mot sa fiction, et son ombre portée

    Alors que les violences policières contre un campement éphémère de personnes exilées font scandale, comment faut-il nommer ceux dont les tentes ont été déchiquetées ?

    Nombreuses et largement unanimes, les réactions qui ont suivi l’intervention de la police, lundi 23 novembre au soir, place de la République à Paris, condamnent la violence des forces de l’ordre. De fait, après cette intervention pour déloger le campement éphémère installé en plein Paris dans le but de donner de l’écho à l’évacuation récente d’un vaste camp de réfugiés sur les contreforts du périphérique, les images montrent les tentes qui valsent, les coups qui pleuvent, des matraques qui cognent en cadence, et de nombreux soutiens nassés en pleine nuit ainsi que la presse. Survenu en plein débat sur la loi de sécurité globale, et après de longs mois d’un travail tous azimuts pour poser la question des violences policières, l’épisode a quelque chose d’emblématique, qui remet au passage l’enjeu de l’accueil migratoire à la Une des médias.

    Une occasion utile pour regarder et penser la façon dont on nomme ceux qui, notamment, vivent ici dans ces tentes-là. Durant toute la soirée de lundi, la réponse policière à leur présence sur la place de la République a été amplement commentée, en direct sur les réseaux sociaux d’abord, puis sur les sites de nombreux médias. Si certains utilisaient le mot “migrants” désormais ordinaire chez les journalistes, il était frappant de voir que d’autres termes prenaient une place rare à la faveur de l’événement à chaud. Et en particulier, les mots “réfugiés” et “exilés”.

    En ligne, Utopia56, le collectif à l’origine de l’opération, parle de “personnes exilées”. Chez Caritas France (ex-Secours catholique), c’est aussi l’expression qu’utilise par exemple, sur la brève bio de son compte twitter, la salariée de l’humanitaire en charge des projets “solidarité et défense des droits des personnes exilées”. Ce lexique n’a rien de rare dans le monde associatif : la Cimade parle aussi de longue date de “personnes exilées”, la Fédération des acteurs de solidarités qui chapeaute 870 associations de même, et chez chez Act up par exemple, on ne dit pas non plus “migrants” mais “exilés”. Dans la classe politique, la nuit de violences policières a donné lieu à des déclarations de protestation où il n’était pas inintéressant d’observer l’usage des mots choisis dans le feu de l’action, et sous le projecteur des médias : plutôt “exilés” chez les écologistes, via le compte twitter “groupeecoloParis”, tandis qu’Anne Hidalgo, la maire de Paris, parlait quant à elle de “réfugiés”.

    Du côté des médias, le terme poussé par le monde associatif n’a sans doute jamais aussi bien pris qu’à chaud, dans l’épisode de lundi soir : sur son compte Twitter, CNews oscillait par exemple entre “migrants” et “personnes exilées”... au point de se faire tacler par ses abonnés - il faudrait plutôt dire “clandestins”. Edwy Plenel panachait pour sa part le lexique, le co-fondateur de Médiapart dénonçant au petit matin la violence dont avaient fait l’objet les “migrants exilés”.

    Peu suspect de gauchisme lexical, Gérald Darmanin, ministre de l’Intérieur, affirmait de son côté saisir l’IGPN pour une enquête sur cette évacuation d’un “campement de migrants”, tandis que le mot s’affichait aussi sur la plupart des pages d’accueil des sites de médias. Comme si le terme “migrants” était devenu un terme générique pour dire cette foule anonyme de l’immigration - sans que, le plus souvent, on interroge en vertu de quels critères ? Cet épisode de l’évacuation violente de la place de la République est en fait l’occasion idéale pour regarder la façon dont le mot “migrants” s’est disséminé, et remonter le film pour comprendre comment il a été forgé. Car ce que montre la sociologue Karen Akoka dans un livre qui vient justement de paraître mi-novembre (à La Découverte) c’est que cette catégorie est avant tout une construction dont la sociogenèse éclaire non seulement notre façon de dire et de penser, mais surtout des politiques publiques largement restées dans l’ombre.
    Les mots de l’asile, ces constructions politiques

    L’Asile et l’exil, ce livre formidable tiré de sa thèse, est à mettre entre toutes les mains car précisément il décortique en quoi ces mots de l’immigration sont d’abord le fruit d’un travail politique et d’une construction historique (tout aussi politique). Les acteurs de cette histoire appartiennent non seulement à la classe politique, mais aussi aux effectifs des officiers qui sont recrutés pour instruire les demandes. En centrant son travail de doctorat sur une sociohistoire de l’Ofpra, l’Office français de protection des réfugiés et des apatrides, créé en 1952, la chercheuse rappelle qu’il n’est pas équivalent de parler d’exil et d’asile, d’exilés, de demandeurs d’asile, de migrants ou de réfugiés. Mais l’ensemble de sa démonstration éclaire en outre toute la part d’artifice que peut receler ce raffinage lexical qui a permis à l’Etat de construire des catégories d’aspirants à l’exil comme on labelliserait des candidats plus ou moins désirables. Face aux "réfugiés", légitimes et acceptables depuis ce qu’on a construit comme une forme de consensus humaniste, les "migrants" seraient d’abord là par émigration économique - et moins éligibles. Tout son livre consiste au fond en une déconstruction méthodique de la figure du réfugié désirable.

    Les tout premiers mots de l’introduction de ce livre (qu’il faut lire en entier) remontent à 2015 : cette année-là, Al-Jazeera annonçait que désormais, celles et ceux qui traversent la Méditerranée seront pour de bon des “réfugiés”. Et pas des “migrants”, contrairement à l’usage qui était alors en train de s’installer dans le lexique journalistique à ce moment d’explosion des tentatives migratoires par la mer. Le média qatari précisait que “migrants” s’apparentait à ses yeux à un “outil de deshumanisation”. On comprenait en fait que “réfugié” était non seulement plus positif, mais aussi plus légitime que “migrant”.

    En droit, c’est la Convention de Genève qui fait les “réfugiés” selon une définition que vous pouvez consulter ici. Avant ce texte qui remonte à 1951, on accueillait aussi des réfugiés, quand se négociait, au cas par cas et sous les auspices de la Société des nations, la reconnaissance de groupes éligibles. Mais le flou demeure largement, notamment sur ce qui, en pratique, départirait le “réfugié” de “l’étranger”. A partir de 1952, ces réfugiés répondent à une définition, mais surtout à des procédures, qui sont principalement confiées à l’Ofpra, créé dans l’année qui suit la Convention de Genève. L’autrice rappelle qu’à cette époque où l’Ofpra passe d’abord pour une sorte de “consulat des régimes disparus”, il y a consensus pour considérer que l’institution doit elle-même employer des réfugiés chargés de décider du sort de nouveaux candidats à l’asile. A l’époque, ces procédures et ces arbitrages n’intéressent que très peu de hauts fonctionnaires. Ca change progressivement à mesure que l’asile se politise, et la décennie 1980 est une bonne période pour observer l’asile en train de se faire. C’est-à-dire, en train de se fabriquer.

    La construction du "réfugié militant"

    Sur fond d’anticommunisme et d’intérêt à relever la tête après la guerre coloniale perdue, la France décidait ainsi au début des années 80 d’accueillir 130 000 personnes parmi celles qui avaient fui l’un des trois pays de l’ex-Indochine (et en particulier, le Vietnam). On s’en souvient encore comme des “boat people”. Ils deviendront massivement des “réfugiés”, alors que le mot, du point de vue juridique, renvoie aux critères de la Convention de Genève, et à l’idée de persécutions avérées. Or Karen Akoka rappelle que, bien souvent, ces procédures ont en réalité fait l’objet d’un traitement de gros. C’est-à-dire, qu’on n’a pas toujours documenté, dans le détail, et à l’échelle individuelle, les expériences vécues et la position des uns et des autres. Au point de ne pas trop chercher à savoir par exemple si l’on avait plutôt affaire à des victimes ou à des bourreaux ? Alors que le génocide khmer rouge commençait à être largement connu, l’idée que ces boat people massivement arrivés par avion camperaient pour de bon la figure du “bon réfugié” avait cristallisé. La chercheuse montre aussi que ceux qui sont par exemple arrivés du Vietnam avaient fait l’objet d’un double tri : par les autorités françaises d’une part, mais par le régime vietnamien d’autre part… et qu’il avait été explicitement convenu qu’on exclurait les militants politiques.

    Or dans l’imaginaire collectif comme dans le discours politique, cette représentation du réfugié persécuté politiquement est toujours très active. Elle continue souvent de faire écran à une lecture plus attentive aux tris opérés sur le terrain. Et empêche par exemple de voir en quoi on a fini par se représenter certaines origines comme plus désirables, par exemple parce qu’il s’agirait d’une main-d’œuvre réputée plus docile. Aujourd’hui, cette image très puissante du "réfugié militant" reste arrimée à l’idée d’une histoire personnelle légitime, qui justifierait l’étiquetage de certains “réfugiés” plutôt que d’autres. C’est pour cela qu’on continue aujourd’hui de réclamer aux demandeurs d’asile de faire la preuve des persécutions dont ils auraient fait l’objet.

    Cette enquête approfondie s’attèle à détricoter ce mirage du "bon réfugié" en montrant par exemple que, loin de répondre à des critères objectifs, cette catégorie est éminemment ancrée dans la Guerre froide et dans le contexte post-colonial. Et qu’elle échappe largement à une approche empirique rigoureuse, et critique. Karen Akoka nous dépeint la Convention de Genève comme un cadre qui se révèle finalement assez flou, ou lâche, pour avoir permis des lectures et des usages oscillatoires au gré de l’agenda diplomatique ou politique. On le comprend par exemple en regardant le sort de dossiers qu’on peut apparenter à une migration économique. Sur le papier, c’est incompatible avec le label de “réfugié”. Or dans la pratique, la ligne de partage entre asile d’un côté, et immigration de l’autre, ne semble plus si étanche lorsqu’on regarde de près qui a pu obtenir le statut dans les années 1970. On le comprend mieux lorsqu’on accède aux logiques de traitement dans les années 70 et 80 : elles n’ont pas toujours été les mêmes, ni été armées du même zèle, selon l’origine géographique des candidats. Edifiant et très pédagogique, le sixième chapitre du livre d’Akoka s’intitule d’ailleurs “L’Asile à deux vitesses”.

    L’autrice accorde par exemple une attention particulière à la question des fraudes. Pas seulement à leur nombre, ou à leur nature, mais aussi au statut que les institutions ont pu donner à ces fraudes. Ainsi, Karen Akoka montre l’intérêt qu’a pu avoir l’Etat français, à révéler à grand bruit l’existence de “filières zaïroises” à une époque où la France cherchait à endiguer l’immigration d’origine africaine autant qu’à sceller une alliance avec le Zaïre de Mobutu. En miroir, les entretiens qu’elle a menés avec d’anciens fonctionnaires de l’Ofpra dévoilent qu’on a, au contraire, cherché à dissimuler des montages frauduleux impliquant d’ex-Indochinois.

    Les "vrais réfugiés"... et les faux

    Entre 1970 et 1990, les chances de se voir reconnaître “réfugié” par l’Ofpra ont fondu plus vite que la banquise : on est passé de 90% à la fin des années 70 à 15% en 1990. Aujourd’hui, ce taux est remonté (de l’ordre de 30% en 2018), mais on continue de lire que c’est le profil des demandeurs d’asile qui aurait muté au point d’expliquer que le taux d’échec explose. Ou que la démarche serait en quelque sorte détournée par de “faux demandeurs d’asile”, assez habiles pour instrumentaliser les rouages de l’Ofpra en espérant passer entre les gouttes… au détriment de “vrais réfugiés” qu’on continue de penser comme tels. Karen Akoka montre qu’en réalité, c’est plutôt la manière dont on instruit ces demandes en les plaçant sous l’égide de politiques migratoires plus restrictives, mais aussi l’histoire propre de ceux qui les instruisent, qui expliquent bien plus efficacement cette chute. Entre 1950 et 1980 par exemple, nombre d’officiers instructeurs étaient issus des mêmes pays que les requérants. C’était l’époque où l’Ofpra faisait davantage figure de “consulat des pays disparus”, et où, par leur trajectoire personnelle, les instructeurs se trouvaient être eux-mêmes des réfugiés, ou les enfants de réfugiés. Aujourd’hui ce sont massivement des agents français, fonctionnaires, qui traitent les dossiers à une époque où l’on ne subordonne plus les choix au Rideau de fer, mais plutôt sous la houlette d’une politique migratoire et de ce qui a sédimenté dans les politiques publiques comme “le problème islamiste”.

    Rassemblé ici au pas de course mais très dense, le travail de Karen Akoka est un exemple vibrant de la façon dont l’histoire, et donc une approche pluridisciplinaire qui fait la part belle aux archives et à une enquête d’histoire orale, enrichit dans toute son épaisseur un travail entamé comme sociologue. Du fait de la trajectoire de l’autrice, il est aussi un exemple lumineux de tout ce que peut apporter une démarche réflexive. Ca vaut pour la façon dont on choisit un mot plutôt qu’un autre. Mais ça vaut aussi pour la manière dont on peut déconstruire des façons de penser, ou des habitudes sur son lieu de travail, par exemple. En effet, avant de soutenir sa thèse en 2012, Karen Akoka a travaillé durant cinq ans pour le HCR, le Haut commissariat aux réfugiés des Nations-Unies. On comprend très bien, à la lire, combien elle a pu d’abord croire, et même nourrir, certaines fausses évidences. Jusqu’à être “mal à l’aise” avec ces images et ces chimères qu’elle entretenait, depuis son travail - qui, en fait, consistait à “fabriquer des réfugiés”. Pour en éliminer d’autres.

    https://www.franceculture.fr/societe/refugies-migrants-exiles-ou-demandeur-dasile-a-chaque-mot-sa-fiction-e

    #asile #migrations #réfugiés #catégorisation #catégories #mots #terminologie #vocabulaire #Ofpra #France #histoire #légitimité #migrants_économiques #réfugié_désirable #déshumanisation #Convention_de_Genève #politisation #réfugié_militant #Indochine #boat_people #bon_réfugié #Vietnam #militants #imaginaire #discours #persécution #persécution_politique #preuves #guerre_froide #immigration #fraudes #abus #Zaïre #filières_zaïroises #Mobutu #vrais_réfugiés #faux_réfugiés #procédure_d'asile #consulat_des_pays_disparus #politique_migratoire
    #Karen_Akoka
    ping @isskein @karine4 @sinehebdo @_kg_

    • ...même jour que l’envoi de ce post on a discuté en cours Licence Géo le séjour d’Ahmed publié en forme de carte par Karen Akoka dans l’atlas migreurop - hasard ! Et à la fin de son exposé un étudiant proposait par rapport aux catégories : Wie wäre es mit « Mensch » ? L’exemple du campement à Paris - des pistes ici pour approfondir !

    • Ce qui fait un réfugié

      Il y aurait d’un côté des réfugiés et de l’autre des migrants économiques. La réalité des migrations s’avère autrement complexe souligne la politiste #Karen_Akoka qui examine en détail comment ces catégories sont historiquement, socialement et politiquement construites.

      L’asile est une notion juridique précieuse. Depuis le milieu du XXe siècle, elle permet, à certaines conditions, de protéger des individus qui fuient leur pays d’origine en les qualifiant de réfugiés. Mais l’asile est aussi, à certains égards, une notion dangereuse, qui permet paradoxalement de justifier le fait de ne pas accueillir d’autres individus, les rejetant vers un autre statut, celui de migrant économique. L’asile devenant alors ce qui permet la mise en œuvre d’une politique migratoire de fermeture. Mais comment faire la différence entre un réfugié et un migrant économique ? La seule manière d’y prétendre consiste à s’intéresser non pas aux caractéristiques des personnes, qu’elles soient rangées dans la catégorie de réfugié ou de migrant, mais bien plutôt au travail qui consiste à les ranger dans l’une ou l’autre de ces deux catégories. C’est le grand mérite de « #L’Asile_et_l’exil », le livre important de Karen Akoka que de proposer ce renversement de perspective. Elle est cette semaine l’invitée de La Suite dans Les Idées.

      Et c’est la metteuse en scène Judith Depaule qui nous rejoint en seconde partie, pour évoquer « Je passe » un spectacle qui aborde le sujet des migrations mais aussi pour présenter l’Atelier des artistes en exil, qu’elle dirige.

      https://www.franceculture.fr/emissions/la-suite-dans-les-idees/ce-qui-fait-un-refugie

      #livre #catégorisation #catégories #distinction #hiérarchisation #histoire #ofpra #tri #subordination_politique #politique_étrangère #guerre_froide #politique_migratoire #diplomatie

    • La fabrique du demandeur d’asile

      « Il y a les réfugiés politiques, et c’est l’honneur de la France que de respecter le droit d’asile : toutes les communes de France en prennent leur part. Il y a enfin ceux qui sont entrés illégalement sur le territoire : ceux-là ne sont pas des réfugiés, mais des clandestins qui doivent retourner dans leur pays », disait déjà Gerald Darmanin en 2015. Mais pourquoi risquer de mourir de faim serait-il moins grave que risquer de mourir en prison ? Pourquoi serait-il moins « politique » d’être victime de programmes d’ajustement structurels que d’être victime de censure ?

      Dans son livre L’asile et l’exil, une histoire de la distinction réfugiés migrants (La découverte, 2020), Karen Akoka revient sur la construction très idéologique de cette hiérarchisation, qui est liée à la définition du réfugié telle qu’elle a été décidée lors de la Convention de Genève de 1951, à l’issue d’âpres négociations.

      Cette dichotomie réfugié politique/migrant économique paraît d’autant plus artificielle que, jusqu’aux années 1970, il suffisait d’être russe, hongrois, tchécoslovaque – et un peu plus tard de venir d’Asie du Sud-Est, du Cambodge, du Laos ou du Vietnam – pour décrocher le statut de réfugié, l’objectif premier de la France étant de discréditer les régimes communistes. Nul besoin, à l’époque, de montrer qu’on avait été individuellement persécuté ni de nier la dimension économique de l’exil.

      Aujourd’hui, la vaste majorité des demandes d’asile sont rejetées. Qu’est ce qui a changé dans les années 1980 ? D’où sort l’obsession actuelle des agents de l’OFPRA (l’Office français de protection des réfugiés et apatrides) pour la fraude et les « faux » demandeurs d’asile ?

      Plutôt que de sonder en vain les identités et les trajectoires des « demandeurs d’asile » à la recherche d’une introuvable essence de migrant ou de réfugié, Karen Akoka déplace le regard vers « l’offre » d’asile. Avec la conviction que les étiquettes en disent moins sur les exilés que sur ceux qui les décernent.

      https://www.youtube.com/watch?v=bvcc0v7h2_w&feature=emb_logo

      https://www.hors-serie.net/Aux-Ressources/2020-12-19/La-fabrique-du-demandeur-d-asile-id426

    • « Il n’est pas possible d’avoir un système d’asile juste sans politique d’immigration ouverte »

      La chercheuse Karen Akoka a retracé l’histoire du droit d’asile en France. Elle montre que l’attribution de ce statut a toujours reposé sur des intérêts politiques et diplomatiques. Et que la distinction entre les « vrais » et les « faux » réfugiés est donc discutable.

      Qui étaient les personnes qui ont été violemment évacuées du camp de la place de la République, il y a quatre semaines ? Ceux qui les aident et les défendent utilisent le mot « exilés », pour décrire une condition qui transcende les statuts administratifs : que l’on soit demandeur d’asile, sans-papiers, ou sous le coup d’une obligation de quitter le territoire français, les difficultés restent sensiblement les mêmes. D’autres préfèrent le mot « illégaux », utilisé pour distinguer ces étrangers venus pour des raisons économiques du seul groupe que la France aurait la volonté et les moyens d’accueillir : les réfugiés protégés par le droit d’asile. Accordé par l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra) depuis 1952, ce statut permet aujourd’hui de travailler et de vivre en France à celles et ceux qui peuvent prouver une persécution ou une menace dans leur pays d’origine. Pour les autres, le retour s’impose. Mais qui décide de l’attribution du statut, et selon quels critères ?

      Pour le savoir, Karen Akoka a retracé l’histoire de l’Ofpra. Dressant une galerie de portraits des membres de l’institution, retraçant le regard porté sur les Espagnols, les Yougoslaves, les boat-people ou encore les Zaïrois, elle montre dans l’Asile et l’Exil (La Découverte) que l’asile a toujours été accordé en fonction de considérations politiques et diplomatiques. Elle remet ainsi en cause l’idée que les réfugiés seraient « objectivement » différents des autres exilés, et seuls légitimes à être dignement accueillis. De quoi prendre conscience (s’il en était encore besoin) qu’une autre politique d’accueil est possible.
      Comment interprétez-vous les images de l’évacuation du camp de la place de la République ?

      Quand on ne connaît pas la situation des personnes exilées en France, cela peut confirmer l’idée que nous serions en situation de saturation. Il y aurait trop de migrants, la preuve, ils sont dans la rue. Ce n’est pas vrai : si ces personnes sont dans cette situation, c’est à cause de choix politiques qui empêchent toute forme d’intégration au tissu social. Depuis les années 90, on ne peut plus légalement travailler quand on est demandeur d’asile. On est donc dépendant de l’aide publique. Avec le règlement européen de Dublin, on ne peut demander l’asile que dans le premier pays de l’Union européenne dans lequel on s’enregistre. Tout cela produit des illégaux, qui se trouvent par ailleurs enfermés dans des statuts divers et complexes. Place de la République, il y avait à la fois des demandeurs d’asile, des déboutés du droit d’asile, des « dublinés », etc.
      Y a-t-il encore des groupes ou des nationalités qui incarnent la figure du « bon réfugié » ?

      Aujourd’hui, il n’y a pas de figure archétypale du bon réfugié au même titre que le dissident soviétique des années 50-60 ou le boat-people des années 80. Il y a tout de même une hiérarchie des nationalités qui fait que les Syriens sont perçus le plus positivement. Mais avec une différence majeure : alors qu’on acheminait en France les boat-people, les Syriens (comme beaucoup d’autres) doivent traverser des mers, franchir des murs… On fait tout pour les empêcher d’arriver, et une fois qu’ils sont sur place, on les reconnaît à 90 %. Il y a là quelque chose de particulièrement cynique.
      Vos travaux reviennent à la création de l’Ofpra en 1952. Pourquoi avoir repris cette histoire déjà lointaine ?

      Jusqu’aux années 80, l’Ofpra accordait le statut de réfugié à 80 % des demandeurs. Depuis les années 90, environ 20 % l’obtiennent. Cette inversion du pourcentage peut amener à la conclusion qu’entre les années 50 et 80, les demandeurs d’asile étaient tous de « vrais » réfugiés, et que depuis, ce sont majoritairement des « faux ». Il était donc important d’étudier cette période, parce qu’elle détermine notre perception actuelle selon laquelle l’asile aurait été dénaturé. Or il apparaît que cette catégorie de réfugié a sans cesse été mobilisée en fonction de considérations diplomatiques et politiques.

      La question de l’asile n’a jamais été neutre. En contexte de guerre froide, le statut de réfugié est attribué presque automatiquement aux personnes fuyant des régimes communistes que l’on cherche à décrédibiliser. Lorsqu’on est russe, hongrois ou roumain, ou plus tard vietnamien, cambodgien ou laotien, on est automatiquement reconnu réfugié sans qu’il soit nécessaire de prouver que l’on risque d’être persécuté ou de cacher ses motivations économiques. Ce qui apparaît comme de la générosité est un calcul politique et diplomatique. Les 80 % d’accords de l’époque sont autant pétris de considérations politiques que les 80 % de rejets aujourd’hui.
      Ces considérations conduisent alors à rejeter les demandes émanant de certaines nationalités, même dans le cas de régimes communistes et/ou autoritaires.

      Il y a en effet d’importantes différences de traitement, qui s’expliquent principalement par l’état des relations diplomatiques. La France est réticente à accorder l’asile aux Yougoslaves ou aux Portugais, car les relations avec Tito ou Salazar sont bonnes. Il n’y a d’ailleurs même pas de section portugaise à l’Ofpra ! Mais au lieu de les rejeter massivement, on les dirige vers les procédures d’immigration. La France passe des accords de main- d’œuvre avec Belgrade, qui permettent d’orienter les Yougoslaves vers la régularisation par le travail et de faire baisser le nombre de demandeurs d’asile.

      Grâce aux politiques d’immigration ouvertes on pouvait donc diriger vers la régularisation par le travail les nationalités rendues « indésirables » en tant que réfugiés en raison des relations diplomatiques. On pouvait prendre en compte les questions de politique étrangère, sans que cela ne nuise aux exilés. Aujourd’hui, on ne peut plus procéder comme cela, puisque la régularisation par le travail a été bloquée. Les rejets ont donc augmenté et la question du « vrai-faux » est devenu le paradigme dominant. Comme il faut bien justifier les rejets, on déplace la cause des refus sur les demandeurs en disséquant de plus en plus les biographies pour scruter si elles correspondent ou non à la fiction d’une identité de réfugié supposée neutre et objective.

      Cela montre qu’il n’est pas possible d’avoir un système d’asile juste sans politique d’immigration ouverte, d’abord parce que les catégories de réfugiés et de migrants sont poreuses et ne reflètent qu’imparfaitement la complexité des parcours migratoires, ensuite parce qu’elles sont largement façonnées par des considérations politiques.
      Vous identifiez les années 80 comme le moment où change la politique d’asile. Comment se déroule cette évolution ?

      Les changements de cette période sont liés à trois grands facteurs : la construction de l’immigration comme un problème qui arrime la politique d’asile à l’impératif de réduction des flux migratoires ; la fin de la guerre froide qui diminue l’intérêt politique à l’attribution du statut ; et la construction d’une crise de l’Etat social, dépeint comme trop dépensier et inefficace, ce qui justifie l’austérité budgétaire et la rigueur juridique dans les institutions en charge des étrangers (et plus généralement des pauvres). L’Ofpra va alors passer d’un régime des réfugiés, marqué par un fort taux d’attribution du statut, des critères souples, une activité tournée vers l’accompagnement des réfugiés en vue de leur intégration, à un régime des demandeurs d’asile orienté vers une sélection stricte et la production de rejets qui s’appuient sur des exigences nouvelles. Désormais, les demandeurs doivent montrer qu’ils risquent d’être individuellement persécutés, que leurs motivations sont purement politiques et sans aucune considération économique. Ils doivent aussi fournir toujours plus de preuves.
      Dans les années 80, ce n’était pas le cas ?

      La particularité de la décennie 80 est qu’elle voit coexister ces deux régimes, en fonction des nationalités. Les boat-people du Laos, du Cambodge et du Vietnam reçoivent automatiquement le statut de réfugié sur la seule base de leur nationalité. Et pour cause, non seulement on retrouve les questions de guerre froide, mais s’ajoutent des enjeux postcoloniaux : il faut que la figure de l’oppresseur soit incarnée par les anciens colonisés et non plus par la France. Et n’oublions pas les besoins de main- d’œuvre, toujours forts malgré les restrictions de l’immigration de travail mises en place dès les années 70. L’arrivée de ces travailleurs potentiels apparaît comme une opportunité, d’autant qu’on les présume dociles par stéréotype. Au même moment, les Zaïrois, qui fuient le régime du général Mobutu, sont massivement rejetés.
      Pourquoi ?

      Après les indépendances, la France s’efforce de maintenir une influence forte en Afrique, notamment au Zaïre car c’est un pays francophone où la France ne porte pas la responsabilité de la colonisation. C’est également un pays riche en matières premières, qui fait figure de rempart face aux Etats communistes qui l’entourent. Les Zaïrois qui demandent l’asile doivent donc montrer qu’ils sont individuellement recherchés, là où prévalait auparavant une gestion par nationalité. L’Ofpra surmédiatise les fraudes des Zaïrois, alors qu’il étouffe celles des boat-people. On a donc au même moment deux figures absolument inversées. Dans les années 90, la gestion de l’asile bascule pour tous dans le système appliqué aux Zaïrois. Cette rigidification entraîne une augmentation des fraudes, qui justifie une nouvelle surenchère d’exigences et de contrôles dans un cercle vicieux qui perdure jusqu’aujourd’hui.
      Il faut ajouter le fait que l’Ofpra devient un laboratoire des logiques de management.

      L’Ofpra est longtemps resté une institution faible. Il était peu considéré par les pouvoirs publics, en particulier par sa tutelle, les Affaires étrangères, et dirigé par les diplomates les plus relégués de ce ministère. Au début des années 90, avec la construction de l’asile comme « problème », des sommes importantes sont injectées dans l’Ofpra qui s’ennoblit mais sert en retour de lieu d’expérimentation des stratégies de management issues du secteur privé. Les agents sont soumis à des exigences de productivité, de standardisation, et à la segmentation de leur travail. On leur demande notamment de prendre un certain nombre de décisions par jour (deux à trois aujourd’hui), faute de quoi ils sont sanctionnés.

      Cette exigence de rapidité s’accompagne de l’injonction à justifier longuement les décisions positives, tandis qu’auparavant c’était davantage les rejets qui devaient être motivés. Cette organisation productiviste est un facteur d’explication du nombre grandissant de rejets. La division du travail produit une dilution du sentiment de responsabilité qui facilite cette production des rejets. Ce n’est pas que les agents de l’Ofpra fassent mal leur travail. Mais les techniques managériales influent sur leurs pratiques et elles contribuent aux 80 % de refus actuels.
      Quelle est l’influence de la question religieuse sur l’asile ?

      Pour aborder cette question, je suis partie d’un constat : depuis la fin des années 90, un nouveau groupe, composé de femmes potentiellement victimes d’excision ou de mariage forcé et de personnes homosexuelles, a accès au statut de réfugié. Comment expliquer cette ouverture à un moment où la politique menée est de plus en plus restrictive ? On pense bien sûr au changement des « mentalités », mais cette idée, si elle est vraie, me semble insuffisante. Mon hypothèse est que c’est aussi parce que nous sommes passés du problème communiste au problème islamiste comme soubassement idéologique de l’attribution du statut. Par ces nouvelles modalités d’inclusion se rejoue la dichotomie entre un Occident tolérant, ouvert, et un Sud global homophobe, masculiniste, sexiste.

      Cette dichotomie a été réactualisée avec le 11 septembre 2001, qui a donné un succès aux thèses sur le choc des civilisations. On retrouve cette vision binaire dans la façon dont on se représente les guerres en Afrique. Ce seraient des conflits ethniques, flous, irrationnels, où tout le monde tire sur tout le monde, par opposition aux conflits politiques de la guerre froide. Cette mise en opposition permet de sous-tendre l’idée selon laquelle il y avait bien par le passé de vrais réfugiés qui arrivaient de pays avec des problèmes clairs, ce qui ne serait plus le cas aujourd’hui. Cette vision culturaliste des conflits africains permet également de dépolitiser les mouvements migratoires auxquels ils donnent lieu, et donc de délégitimer les demandes d’asile.

      https://www.liberation.fr/debats/2020/12/20/il-n-est-pas-possible-d-avoir-un-systeme-d-asile-juste-sans-politique-d-i

    • Le tri aux frontières

      En retraçant l’histoire de l’Office français de protection des réfugiés et des apatrides, Karen Akoka montre que l’accueil des migrants en France relève d’une distinction non assumée entre « bons » réfugiés politiques et « mauvais » migrants économiques.
      « Pourquoi serait-il plus légitime de fuir des persécutions individuelles que des violences collectives ? Pourquoi serait-il plus grave de mourir en prison que de mourir de faim ? Pourquoi l’absence de perspectives socio-économiques serait-elle moins problématique que l’absence de liberté politique ? »

      (p. 324)

      Karen Akoka, maîtresse de conférences en sciences politique à l’Université Paris Nanterre et associée à l’Institut des sciences sociales du politique, pose dans cet ouvrage des questions essentielles sur les fondements moraux de notre société, à la lumière du traitement réservé aux étrangers demandant une forme de protection sur le territoire français. Les institutions publiques concernées – principalement le ministère des Affaires Étrangères, l’ Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra), le ministère de l’Intérieur – attribuent depuis toujours aux requérants un degré variable de légitimité : ce dernier, longtemps lié à la nationalité d’origine, s’incarne en des catégories (réfugié, boat people, demandeur d’asile, migrant…) qui sont censées les distinguer et les classer, et dont le sens, les usages, et les effets en termes d’accès aux droits évoluent dans le temps. Cet ouvrage a le grand mérite de dévoiler les processus organisationnels, les rapports de force, les intérêts politiques, et les principes moraux qui sous-tendent ces évolutions de sens et d’usage des catégories de l’asile.

      Ce dévoilement procède d’une entreprise socio-historique autour de la naissance et du fonctionnement de l’Ofpra, entre les années 1950 et les années 2010, et notamment des pratiques de ses agents. Dans une approche résolument constructiviste, la figure du « réfugié » (et en creux de celui qui n’est pas considéré « réfugié ») émerge comme étant le produit d’un étiquetage dont sont responsables, certes, les institutions, mais qui est finalement délégué aux agents chargés de la mise en œuvre des règles et orientations politiques.

      Comment est-on passé d’une reconnaissance presque automatique du statut de réfugié pour des communautés entières de Russes, Géorgiens, Hongrois dans les années 1960 et 1970, à des taux de rejets très élevés à partir des années 1990 ? À quel moment et pourquoi la preuve d’un risque individuel (et non plus d’une persécution collective) est devenue un requis ? À rebours d’une explication qui suggérerait un changement de profil des requérants, l’auteure nous invite à rentrer dans les rouages de la fabrique du « réfugié » et de ses alter ego : le « demandeur d’asile » et le « migrant économique ». Pour comprendre à quoi cela tient, elle se penche sur le travail des agents qui sont appelés à les ranger dans une de ces multiples catégories, et sur les éléments (moraux, organisationnels, économiques, et politiques) qui influencent leurs arbitrages.
      Un voyage dans le temps au sein de l’OFPRA

      En s’appuyant à la fois sur les archives ouvertes et sur de nombreux entretiens, son livre propose un éclairage sur l’évolution des décisions prises au sein de l’Ofpra, au plus près des profils et des expériences des hommes et femmes à qui cette responsabilité a été déléguée : les agents.

      Karen Akoka propose une reconstruction chronologique des événements et des logiques qui ont régi l’octroi de l’asile en France à partir de l’entre-deux-guerres (chapitre 1), en s’attardant sur la « fausse rupture » que représente la création de l’Ofpra en 1952, à la suite de la ratification de la Convention de Genève (chapitre 2). Elle montre en effet que, loin de représenter un réel changement avec le passé, la protection des réfugiés après la naissance de cette institution continue d’être un enjeu diplomatique et de politique étrangère pendant plusieurs décennies.

      Les chapitres suivants s’attachent à montrer, de façon documentée et parfois à rebours d’une littérature scientifique jusque-là peu discutée (voir Gérard Noiriel, Réfugiés et sans-papiers, Paris, Hachette, 1998), que la création de l’Ofpra n’est pas exemplaire d’un contrôle « purement français » de l’asile : le profil des agents de l’Ofpra compte, et se révèle déterminant pour la compréhension de l’évolution des pourcentages de refus et d’acceptation des demandes. En effet, entre 1952 et la fin des années 1970, des réfugiés et des enfants de réfugiés occupent largement la place d’instructeurs de demandes de leurs compatriotes, dans une période de guerre froide où les ressortissants russes, géorgiens, hongrois sont reconnus comme réfugiés sur la simple base de leur nationalité. Les contre-exemples sont heuristiques et ils montrent les intérêts français en politique étrangère : les Yougoslaves, considérés comme étant des ressortissants d’un régime qui s’était désolidarisé de l’URSS, et les Portugais, dont le président Salazar entretenait d’excellents rapports diplomatiques avec la France, étaient pour la plupart déboutés de leur demande ; y répondre positivement aurait été considéré comme un « acte inamical » vis-à-vis de leurs dirigeants.

      Les années 1980 sont une décennie de transition, pendant laquelle on passe d’un « régime des réfugiés » à un « régime des demandeurs d’asile », où la recherche d’une crainte individuelle de persécution émerge dans les pratiques des agents. Mais toujours pas vis-à-vis de l’ensemble des requérants : des traitements différenciés continuent d’exister, avec d’évidentes préférences nationales, comme pour les Indochinois ou boat people, et des postures de méfiance pour d’autres ressortissants, tels les Zaïrois. Ce traitement discriminatoire découle encore des profils des agents chargés d’instruire les demandes : ils sont indochinois pour les Indochinois, et français pour les Zaïrois. La rhétorique de la fraude, pourtant bien documentée pour les ressortissants indochinois aussi, est largement mobilisée à charge des requérants africains. Elle occupe une place centrale dans le registre gouvernemental dans les années 1990, afin de légitimer des politiques migratoires visant à réduire les flux.

      L’entrée par le profil sociologique des agents de l’Ofpra et par les changements organisationnels internes à cet organisme est éclairante : la proximité culturelle et linguistique avec les publics n’est plus valorisée ; on recherche des agents neutres, distanciés. À partir des années 1990, l’institution fait évoluer les procédures d’instruction des demandes de façon à segmenter les compétences des agents, à déléguer aux experts (juristes et documentaristes), à réduire le contact avec les requérants ; l’organisation introduit progressivement des primes au rendement selon le nombre de dossiers traités, et des sanctions en cas de non remplissage des objectifs ; des modalités informelles de stigmatisation touchent les agents qui accordent trop de statuts de réfugié ; le recrutement d’agents contractuels permet aux cadres de l’Ofpra d’orienter davantage leur façon de travailler. Il apparaît alors qu’agir sur le profil des recrutés et sur leurs conditions de travail est une manière de les « contrôler sans contrôle officiel ».

      L’approche socio-historique, faisant place à différents types de données tels les mémoires, le dépouillement d’archives, et les entretiens, a l’avantage de décrire finement les continuités et les ruptures macro, et de les faire résonner avec les expériences plus micro des agents dans un temps long. Aussi, l’auteure montre que leurs marges de manœuvre sont largement influencées par, d’un côté, les équilibres politiques internationaux, et de l’autre, par l’impact du new public management sur cette organisation.

      Le retour réflexif de l’auteure sur sa propre expérience au sein du HCR, où elle a travaillé entre 1999 et 2004, est aussi le gage d’une enquête où le sens accordé par les interlocuteurs à leurs pratiques est pris au sérieux, sans pour autant qu’elles fassent l’objet d’un jugement moral. Les dilemmes moraux qui parfois traversent les choix et les hésitations des enquêté.e.s éclairent le continuum qui existe entre l’adhésion et la résistance à l’institution. Mobiliser à la fois des extraits d’entretiens de « résistants » et d’« adhérents », restituer la puissance des coûts de la dissidence en termes de réputation auprès des collègues, faire de la place aux bruits de couloirs : voilà les ingrédients d’une enquête socio-historique se rapprochant de la démarche ethnographique.
      Pour en finir avec la dichotomie réfugié/migrant et la morale du vrai/faux

      Une des contributions essentielles de l’ouvrage consiste à déconstruire l’édifice moral de l’asile, jusqu’à faire émerger les paradoxes de l’argument qui consisterait à dire que protéger l’asile aujourd’hui implique de lutter contre les fraudeurs et de limiter l’attribution du statut aux plus méritants. Karen Akoka aborde au fond des enjeux politiques cruciaux pour notre société, en nous obligeant, si encore il en était besoin, à questionner la légitimité de distinctions (entre réfugié et migrant) qui ne sont pas sociologiquement fondées, mais qui servent en revanche des intérêts et des logiques politiques des plus dangereuses, que ce soit pour maquiller d’humanitarisme la volonté cynique de davantage sélectionner les candidats à l’immigration, ou pour affirmer des objectifs populistes et/ou xénophobes de réduction des entrées d’étrangers sur le territoire sous prétexte d’une prétendue trop grande diversité culturelle ou encore d’une faible rentabilité économique.

      Ce livre est une prise de position salutaire contre la rhétorique des « vrais et faux réfugiés », contre la posture de « autrefois c’était différent » (p. 27), et invite à arrêter de porter un regard moralisateur sur les mensonges éventuels des demandeurs : ces mensonges sont la conséquence du rétrécissement des cases de la protection, de la surenchère des horreurs exigées pour avoir une chance de l’obtenir, de la réduction des recours suspensifs à l’éloignement du territoire en cas de refus de l’Ofpra… La portée politique d’une sociohistoire critique des étiquetages est en ce sens évidente, et l’épilogue de Karen Akoka monte en généralité en mettant en perspective la dichotomie réfugié/migrant avec d’autres populations faisant l’objet de tri : le parallèle avec les pauvres et les guichetiers étudiés par Vincent Dubois (La vie au guichet. Relation administrative et traitement de la misère, Paris, Economica, 2003) permet de décloisonner le cas des étrangers pour montrer comment le système justifie la (non)protection des (in)désirables en la présentant comme nécessaire ou inévitable.

      https://www.icmigrations.cnrs.fr/2021/05/25/defacto-026-08

    • Karen Akoka : « Le statut de réfugié en dit plus sur ceux qui l’attribuent que sur ceux qu’il désigne »

      Alors que l’accueil d’exilés afghans divise les pays de l’Union européenne, l’interprétation par la France du droit d’asile n’a pas toujours été aussi restrictive qu’aujourd’hui, explique, dans un entretien au « Monde », la sociologue spécialiste des questions migratoires.

      (#paywall)

      https://www.lemonde.fr/international/article/2021/08/30/karen-akoka-le-statut-de-refugie-en-dit-plus-sur-ceux-qui-l-attribuent-que-s

  • Alain Damasio : « Pour le déconfinement, je rêve d’un carnaval des fous, qui renverse nos rois de pacotille »
    28 avril 2020 / Propos recueillis par Hervé Kempf
    https://reporterre.net/Alain-Damasio-Pour-le-deconfinement-je-reve-d-un-carnaval-des-fous-qui-r

    Reporterre — Êtes-vous en colère avec ce qui se passe en ce moment ?

    Alain Damasio — Clairement, je suis en colère, mais pas contre la pandémie elle-même. Je perçois et vis ce virus comme complètement naturel. Je suis en colère contre la façon dont notre gouvernement gère cette crise d’une façon pathétiquement verticale, centralisée et ultrasécuritaire, en faisant assumer à la population son incompétence crasse. Sur les trois axes clés de la lutte, à savoir les tests, les masques et les lits, la Macronerie a totalement échoué, rendant obligatoire ce confinement qu’on subit.

    Ce gouvernement nous martèle depuis deux ans : « Nous sommes l’innovation, nous sommes la réactivité, nous sommes la performance », et au moment crucial où il faudrait « performer », plus personne ! Jugeons Macron et ses laquais sur leurs propres critères, c’est-à-dire en tant que managers supposés de « la start-up nation ». Même se procurer des masques, négocier les achats, ils en ont été incapables. C’est une faillite complète. Et si l’on met ça en regard avec ces infirmières qu’on a matraquées et gazées à bout portant un mois avant le déclenchement de la pandémie, avec les grèves et démissions des médecins qui ont été traités avec un mépris absolu avant d’être érigés en héros, oui, ça fout la rage ! Mais cette rage, il faut l’apprivoiser et en faire quelque chose. La transformer en rage du sage. (...)

  • #L_après ne devra pas être un retour à la « normale » - Libération
    https://www.liberation.fr/debats/2020/03/30/l-apres-ne-devra-pas-etre-un-retour-a-la-normale_1783595

    L’ampleur de la #crise_économique dépendra de l’intensité et de la durée du confinement, qui elles-mêmes sont la conséquence de l’impréparation. Il faudra ensuite penser une économie capable de résister à de tels chocs.

    #Pollution : "Il faut que l’#après soit #différent de l’avant en termes d’émissions de gaz carbonique", déclare Jean Jouzel
    https://www.francetvinfo.fr/sante/maladie/coronavirus/pollution-il-faut-que-l-apres-soit-different-de-l-avant-en-termes-d-emi

    Pollution : « Il faut que l’après soit différent de l’avant en termes d’émissions de gaz carbonique », déclare Jean Jouzel
    Le climatologue Jean Jouzel appelle à changer les comportements et l’organisation de la société pour réduire la pollution de l’air alors que le confinement réduit les émissions de dioxyde d’azote dans toute l’Europe.

  • Coronavirus : le sommet de l’Etat redoute de devoir « rendre des comptes »
    https://www.lemonde.fr/politique/article/2020/03/25/coronavirus-le-sommet-de-l-etat-redoute-de-devoir-rendre-des-comptes_6034430

    Par Jean-Baptiste Jacquin, Cédric Pietralunga, Alexandre Lemarié et Olivier Faye

    Accusant l’exécutif d’« impréparation » ou de « manque de réaction » face à la crise, responsables de l’opposition et membres du milieu sanitaire annoncent le lancement d’enquêtes parlementaires ou de procédures pénales.

    C’est un sujet tabou, qui représente pourtant une source d’inquiétude majeure au sommet de l’Etat : la peur d’éventuelles poursuites judiciaires contre des membres du gouvernement suite à la gestion de la crise du coronavirus. Selon nos informations, le premier ministre, Edouard Philippe, a évoqué le sujet pour la première fois, mardi 24 mars, lors du petit déjeuner de la majorité, qui se déroulait en visioconférence.

    Le locataire de Matignon a notamment regretté, selon un participant à la réunion, que les oppositions, Les Républicains (LR) en tête, aient annoncé leur volonté de lancer plusieurs commissions d’enquêtes parlementaires. En parallèle, des médecins et des malades menacent le gouvernement d’éventuelles poursuites pénales. Une véritable épée de Damoclès pour le pouvoir.

    Ces derniers jours, plusieurs responsables de l’opposition et une partie des milieux sanitaires ont ainsi accusé l’exécutif d’« impréparation » face à la crise du coronavirus ou de « manque de réaction », pointant notamment du doigt le déficit de masques, de tests ou de lits dans les services de réanimation. Avec un mot d’ordre : le sommet de l’Etat devra « rendre des comptes ».

    « Pression supplémentaire »
    Le 22 mars, le président des députés LR, Damien Abad, a été le premier à lancer l’offensive, en annonçant au Journal du dimanche (JDD) que son groupe allait créer à l’automne une commission d’enquête parlementaire afin de « tirer toutes les leçons de l’épidémie ». Avec l’objectif « d’identifier les éventuelles défaillances et dysfonctionnements » de la part du gouvernement « pour les corriger et en tirer des leçons ».

    Les sénateurs LR prévoient également une commission d’enquête au Palais du Luxembourg, « quand le moment sera venu », a indiqué le même jour leur chef de file, Bruno Retailleau. Mardi, enfin, le vice-président du groupe socialiste au Sénat, Rachid Temal, a annoncé à son tour « avoir demandé », au nom de son groupe, la création d’une commission d’enquête sur la gestion de la pandémie, « une fois la crise passée ». « La transparence devra être faite car des questions se posent », a-t-il expliqué au JDD.

    Autant de déclarations qui agacent dans les coulisses du pouvoir. « Sous le vernis de l’unité nationale affichée, ces annonces sont ressenties clairement comme des menaces – elles en sont d’ailleurs – et nuisent au bon fonctionnement de l’Etat dans la lutte contre la crise, en mettant aux ministres et aux services une pression supplémentaire en plus de celle, déjà lourde, qu’ils supportent », explique un responsable de la majorité. Avant de souligner : « Les menaces sont évidentes. Une commission d’enquête peut déboucher sur des sanctions pénales. »

    • Coronavirus : le sommet de l’Etat redoute de devoir « rendre des comptes », Jean-Baptiste Jacquin, Cédric Pietralunga, Alexandre Lemarié et Olivier Faye
      https://www.lemonde.fr/politique/article/2020/03/25/coronavirus-le-sommet-de-l-etat-redoute-de-devoir-rendre-des-comptes_6034430

      Accusant l’exécutif d’« impréparation » ou de « manque de réaction » face à la crise, responsables de l’opposition et membres du milieu sanitaire annoncent le lancement d’enquêtes parlementaires ou de procédures pénales.

      C’est un sujet tabou, qui représente pourtant une source d’inquiétude majeure au sommet de l’Etat : la peur d’éventuelles poursuites judiciaires contre des membres du gouvernement suite à la gestion de la crise du #coronavirus. Selon nos informations, le premier ministre, Edouard Philippe, a évoqué le sujet pour la première fois, mardi 24 mars, lors du petit déjeuner de la majorité, qui se déroulait en visioconférence.

      Le locataire de Matignon a notamment regretté, selon un participant à la réunion, que les oppositions, Les Républicains (LR) en tête, aient annoncé leur volonté de lancer plusieurs #commissions_d’enquêtes parlementaires. En parallèle, des médecins et des malades menacent le gouvernement d’éventuelles #poursuites_pénales. Une véritable épée de Damoclès pour le pouvoir.
      Ces derniers jours, plusieurs responsables de l’opposition et une partie des milieux sanitaires ont ainsi accusé l’exécutif d’« impréparation » face à la crise du coronavirus ou de « manque de réaction », pointant notamment du doigt le déficit de #masques, de #tests ou de lits dans les services de #réanimation. Avec un mot d’ordre : le sommet de l’Etat devra « rendre des comptes ».

      « Pression supplémentaire »
      Le 22 mars, le président des députés LR, Damien Abad, a été le premier à lancer l’offensive, en annonçant au Journal du dimanche (JDD) que son groupe allait créer à l’automne une commission d’enquête parlementaire afin de « tirer toutes les leçons de l’épidémie ». Avec l’objectif « d’identifier les éventuelles défaillances et dysfonctionnements » de la part du gouvernement « pour les corriger et en tirer des leçons ».
      Les sénateurs LR prévoient également une commission d’enquête au Palais du Luxembourg, « quand le moment sera venu » , a indiqué le même jour leur chef de file, Bruno Retailleau. Mardi, enfin, le vice-président du groupe socialiste au Sénat, Rachid Temal, a annoncé à son tour « avoir demandé », au nom de son groupe, la création d’une commission d’enquête sur la gestion de la pandémie, « une fois la crise passée » . « La transparence devra être faite car des questions se posent », a-t-il expliqué au JDD.

      Autant de déclarations qui agacent dans les coulisses du pouvoir. « Sous le vernis de l’unité nationale affichée, ces annonces sont ressenties clairement comme des menaces – elles en sont d’ailleurs – et nuisent au bon fonctionnement de l’Etat dans la lutte contre la crise, en mettant aux ministres et aux services une pression supplémentaire en plus de celle, déjà lourde, qu’ils supportent », explique un responsable de la majorité. Avant de souligner : « Les menaces sont évidentes. Une commission d’enquête peut déboucher sur des sanctions pénales. »
      Pour cadrer les différentes enquêtes parlementaires annoncées, l’Assemblée nationale a annoncé, mardi 24 mars, la création d’une #mission_d’information sur la gestion de l’épidémie, qui devrait être présidée par le président de l’institution, Richard Ferrand, proche d’Emmanuel Macron. Cette mission, qui va contrôler chaque semaine les mesures prises par le gouvernement, pourrait se doter des prérogatives d’une commission d’enquête. Ce travail ne se fera pas « dans une optique à charge, ni contre cette majorité ni contre la précédente », a prévenu le patron des députés La République en marche (LRM), Gilles Le Gendre. Une manière de couper l’herbe sous le pied à l’offensive des oppositions.

      Plusieurs plaintes envoyées à la CJR
      Déjà, les premières poursuites se profilent. Mardi 24 mars, un patient atteint du Covid-19 a porté plainte contre X pour « entrave aux mesures d’assistance » devant la #Cour_de_justice_de_la_République (CJR), seule instance habilitée à juger des actes commis par des membres du gouvernement dans l’exercice de leurs fonctions, a révélé BFM-TV. En cause : la supposée « inaction » du gouvernement à mesure que les avertissements de la communauté scientifique se multipliaient.
      En fin de semaine dernière, un collectif de médecins appelé C19 a également annoncé son intention de porter plainte contre l’ex-ministre de la santé, Agnès Buzyn, et le premier ministre, Edouard Philippe, devant la CJR, estimant que ces derniers « avaient conscience du péril et disposaient des moyens d’action, qu’ils ont toutefois choisi de ne pas exercer » . Leur initiative est appuyée par une pétition en ligne, qui a déjà recueilli près de 200 000 signatures en quatre jours.

      Selon une source judiciaire, la CJR a déjà reçu cinq plaintes – quatre contre Edouard Philippe et Agnès Buzyn, et une contre le premier ministre et l’actuel ministre de la santé, Olivier Véran. Les motifs ? Blessures involontaires, homicides involontaires ou mise en danger de la vie d’autrui. La commission des requêtes de la CJR doit désormais se prononcer sur leur recevabilité.
      Ces différents plaignants s’appuient notamment sur les déclarations d’Agnès Buzyn au Monde, qui a affirmé avoir alerté dès janvier le premier ministre sur la gravité de l’épidémie. Au sein de l’appareil d’Etat, certains voient d’ailleurs dans les confidences de l’ex-ministre de la santé une volonté de se couvrir en amont. « L’interview de Buzyn est une bombe atomique car elle prépare l’étape d’après sur les commissions d’enquête à venir et les éventuels procès », analyse un haut fonctionnaire, au fait de ces sujets.

      « Rendez-vous au procès »
      La présidente du Rassemblement national (RN), Marine Le Pen, a tenté d’instrumentaliser cette polémique en estimant que « Mme Buzyn sera probablement amenée à donner des explications à la Cour de justice ». « Se rend-elle compte qu’elle engage sa responsabilité pénale et celle des autres personnes qu’elle dit avoir prévenues ? », a commenté pour sa part le chef de file des « insoumis », Jean-Luc Mélenchon.

      D’autres plaignants préfèrent se tourner vers le #Conseil_d’Etat, qui a été saisi à plusieurs reprises par des soignants pour obliger l’exécutif à prendre certaines décisions. Lundi, le juge des référés de l’institution a donné 48 heures au gouvernement pour durcir les conditions de confinement, ce qui a poussé Edouard Philippe à annoncer la fermeture des marchés ouverts ou à limiter les sorties à une heure par jour. Jeudi, le Conseil d’Etat devait de nouveau examiner une demande de syndicats d’infirmiers et de médecins sur l’approvisionnement en masques et en matériel pour les soignants, ainsi que la mise en place d’un dépistage massif.

      Sur les réseaux sociaux, les menaces de poursuites se multiplient également, de la part de particuliers mais pas seulement. « Rendez-vous au procès », a ainsi tweeté le 24 mars Jérôme Marty, président du syndicat de médecins UFML, en exergue d’un article où la porte-parole du gouvernement, Sibeth Ndiaye, disait ne pas craindre de rendre des comptes sur l’épidémie. « L’imprévoyance du gouvernement et de l’administration française a été totale » et les autorités « auront des comptes à rendre », avait déclaré deux jours plus tôt Jean-Paul Hamon, président de la Fédération des médecins de France (FMF).
      « Il faut s’attendre à une déferlante de #plaintes contre l’Etat », reconnaît un membre du Conseil national des barreaux. « Etant donné les polémiques sur l’absence de protection des personnels soignants et l’impréparation de l’Etat et des hôpitaux, les familles de victime voudront demander des comptes », poursuit-il. De fait, un site Internet proposant des modèles de plainte pour les particuliers a déjà vu le jour. Selon que l’on est personnel soignant, personne malade ou non malade, trois types de plaintes contre X à adresser au procureur de la République peuvent être téléchargées. Il s’agit de plainte pour homicide volontaire, violences volontaires, mise en danger de la vie d’autrui, etc.

      « Prêts à répondre »
      Pour l’heure, aucune plainte de ce type n’est arrivée au parquet de Paris, explique Rémy Heitz, le procureur de la République. Au ministère de la justice, la direction des affaires criminelles et des grâces n’a pas non plus fait remonter d’information sur de telles procédures. Elle en serait immédiatement informée car derrière ces plaintes contre X, ce sont des ministres et des responsables d’administrations qui seraient visés.
      Face à ces menaces, la sérénité est officiellement de mise au sein de l’exécutif. Le gouvernement « a pris ses responsabilités » et ne craint pas de « rendre des comptes » sur sa gestion de la crise du coronavirus devant une commission d’enquête parlementaire, a assuré, le 23 mars, sa porte-parole, Sibeth NDiaye. « Cela ne m’inquiète pas parce que je crois que nous avons, avec beaucoup de professionnalisme, de détermination et de gravité regardé cette crise en face (…) et nous avons pris nos responsabilités », a-t-elle estimé sur CNews. Avant d’ajouter : « C’est normal qu’on puisse rendre des comptes et c’est normal qu’une commission parlementaire interroge le processus de cette crise. » « Nous serons évidemment prêts à y répondre, ça fait partie du jeu démocratique », a poursuivi la secrétaire d’Etat.
      A l’Elysée, on réfute également par avance le procès en inaction. « Le président a été le premier à mobiliser nos partenaires étrangers, il a été le premier dirigeant au monde à appeler à la mobilisation internationale, c’est lui qui a provoqué le sursaut européen, énumère l’entourage d’Emmanuel Macron. Dès janvier, on a rapatrié nos compatriotes. Dès janvier, on a mis en place des instances de suivi de l’épidémie. Les faits et la chronologie sont là, il n’y a pas de polémique à avoir. »

      Sur le fond, l’exécutif appelle néanmoins à une forme d’indulgence, pointant les nombreuses inconnues autour du virus. « Le président n’a jamais dit qu’il avait toutes les solutions, au contraire. Cette crise nous met dans une position de grande humilité », reconnaît un proche du chef de l’Etat. Mais, ajoute cette source, « le président met tout en œuvre pour répondre à la crise. Il est transparent, réactif, sur tous les fronts. L’heure des comptes viendra mais plus tard. Le temps est aujourd’hui à l’action. Certains veulent nous punir alors que nous devons agir. Ce n’est pas responsable. »
      En attendant, pas question de se défiler. Le moment venu, l’exécutif assumera ses choix, dit-on au sommet de l’Etat. « Les décisions ne sont pas prises par le conseil scientifique mais par le gouvernement, qui par nature est responsable », estime un proche d’Edouard Philippe. « Le comité scientifique va être responsable des avis qu’il émet. Ceux qui prennent des décisions, c’est le gouvernement, à la lumière des avis du comité scientifique », abonde la députée LRM Marie Guévenoux, rapporteuse du projet de loi sur les mesures d’urgence.

      Au sein de l’exécutif, on assure d’ailleurs que la perspective de devoir rendre des comptes est présente dans les esprits depuis le départ. « Sang contaminé, amiante : le grand public a reproché le manque de transparence à chaque fois. Nous, nous avons ouvert le capot, vantait une ministre, début mars. Nous donnons à voir comment se passe la gestion d’une crise épidémiologique. » Il y a dix jours, une secrétaire d’Etat soupirait, plus sceptique : « C’est sûr qu’on se fera engueuler sur la gestion de la crise, quoiqu’on fasse. Ça finira par arriver. »

      Rémy Heitz, procureur de Paris, explique au « Monde » avoir relevé en une semaine près de 10 000 infractions au confinement et une quinzaine de trafics de masques.

      Rémy Heitz : « Je réfléchis à des peines de travail d’intérêt général en milieu hospitalier après la fin de l’état d’urgence sanitaire »
      https://www.lemonde.fr/police-justice/article/2020/03/25/remy-heitz-je-reflechis-a-des-peines-de-travail-d-interet-general-en-milieu-

      Le procureur de la République de Paris, Rémy Heitz, songe à des alternatives aux amendes pour les personnes, souvent jeunes, qui violent les règles du confinement, notamment des #travaux_d’intérêt_général. Il détaille la politique du parquet pendant l’état d’urgence sanitaire.

      Quelle réponse pénale apportez-vous aux violations des règles du confinement ?
      Mardi 24 mars, nous étions à Paris juste en dessous de 10 000 #infractions constatées depuis le début du confinement. Jusqu’ici, il s’agissait d’une amende forfaitaire de catégorie 4, de 135 euros. Mais depuis la promulgation de la loi d’urgence, les peines sont alourdies en cas de #récidive. Je vais donner des directives pour adapter les mesures pénales, notamment en privilégiant le travail d’intérêt général (#TIG). Ces infractions concernent souvent une population jeune pour qui une amende de 3 750 euros est sans doute trop élevée, et une peine de prison n’est pas vraiment d’actualité [la troisième récidive en trente jours est punissable de six mois de prison et 3 750 euros d’amende]. Une peine de TIG, même si elle ne sera exécutée qu’après la sortie de l’état d’urgence sanitaire, aura plus de sens. Je réfléchis d’ailleurs à la possibilité de les faire exécuter en milieu hospitalier. De même, plutôt qu’une amende de cinquième catégorie [1 500 euros pour la première récidive], je compte privilégier la sanction de travail non rémunéré [qui est aux contraventions ce que le TIG est aux délits].

      Quelle évolution de la délinquance observez-vous dans la capitale en lien avec la crise sanitaire ?
      Nous avons une quinzaine d’affaires de trafics de masques. Souvent, il s’agit de petits trafics, faits par des pharmacies ou parapharmacies qui n’ont pas répondu aux demandes de réquisition de masques par le gouvernement et en vendaient sous le manteau. Il y a quelques trafics plus importants. Au total, nous avons déjà saisi plusieurs dizaines de milliers de masques, que nous faisons porter aux hôpitaux. Par ailleurs, nous commençons à voir des dossiers de violences conjugales ou intrafamiliales. Le fait nouveau est qu’il y a des auteurs primo-itérants, inconnus jusqu’ici. Mais soyons prudents dans l’interprétation de ce phénomène plus visible alors que le reste de la délinquance baisse et que, contrairement à certaines atteintes aux biens dont nous retardons les procédures, les violences conjugales font partie des infractions que nous continuons de traiter en priorité.

      Comment le parquet de Paris est-il organisé pour travailler ?
      Nous sommes en dessous du plan de continuité d’activité, qui prévoit de tourner à près de trente magistrats. Nous sommes à moins de vingt [sur 125 magistrats au parquet de Paris]. L’activité en comparutions immédiates est fortement réduite et tient beaucoup aux conséquences de la grève des avocats du début d’année. Cet après-midi, par exemple, sur les sept dossiers de l’audience des comparutions immédiates où je vais requérir, six sont des renvois qui avaient été demandés lors de la grève, un seul est nouveau. Il s’agit d’une affaire de violences conjugales.
      Jean-Baptiste Jacquin

    • Sous le vernis de l’unité nationale affichée, ces annonces sont ressenties clairement comme des menaces – elles en sont d’ailleurs – et nuisent au bon fonctionnement de l’Etat dans la lutte contre la crise, en mettant aux ministres et aux services une pression supplémentaire en plus de celle, déjà lourde, qu’ils supportent », explique un responsable de la majorité.

      A propos du « vernis de l’unité nationale » que penser de l’attitude d’Édouard Philippe qui est rappelée ici :
      https://seenthis.net/messages/834069

      Le 28 février est publié le rapport crucial de l’OMS sur ce qui a été fait en Chine. Il montre que seule une mobilisation de « tout le gouvernement » (all-of-government) et « toute la société » (all-of-society) permet de vaincre l’épidémie. On se souviendra sans doute longtemps du fait que le lendemain, le samedi 29 février d’une année bissextile, le premier ministre Édouard Philippe a décidé de détourner un conseil des ministres « exceptionnel dédié au Covid-19 » pour annoncer l’utilisation de l’article 49.3 de la Constitution afin d’adopter sans vote la réforme des retraites. Alors que l’OMS démontrait l’urgence de l’action collective et solidaire face à une pandémie bientôt incontrôlable, le gouvernement s’est dit que le plus urgent était de profiter de la dernière fenêtre de tir pour faire passer son projet de loi tant décrié.

      Le « vernis » est abondamment étalé par le gouvernement lui-même.

    • Du vernis sur une belle grosse merde !

      « Je réfléchis à des peines de travail d’intérêt général en milieu hospitalier après la fin de l’état d’urgence sanitaire »

      Il faudrait confiner ce con fini ! J’espère qu’on va pas attendre 150 ans pour les mettre dans nos indulgentes prisons et sans masques (illes ne savent pas s’en servir de toute façon).

    • Pour cacher les défaillance, à l’instar de Mme Buzyn, l’ensemble du gouvernement a préféré la dissimulation à la planification. Selon les prises de paroles officielles, les masques étaient inutiles, difficiles d’utilisation, ou réservés aux seuls soignants. Tout cela à l’encontre des recommandations du Haut Conseil de la Santé Publique qui recommandait en 2013 des masques pour toutes les professions de contact. Tout a été dit ou presque pour minimiser le virus du Covid-19 et rassurer les Français, pendant que la Chine et la Corée prenaient des mesures drastiques.

      Un guide sur mesure, sans masques, sans confinement

      Le gouvernement a édité dès le 20 janvier 2020 un guide méthodologique Covid-19. Ce plan a été déroulé au mot près par Jérôme Salomon et le gouvernement. Ne figure pas dans ce guide les termes de confinement, de quarantaine et le stade 2 renforcé n’existe pas. Les masques ne sont destinés qu’aux malades et personnels de santé.

      Il a été dit que ce plan était une déclinaison du plan 2011 contre la grippe H1N1

      On peut se demander pourquoi le gouvernement a crée un mini plan COVD 19 plutôt qu’une mise à jour du plan pandémie grippal 2011 est particulièrement complet. Contrairement au guide méthodologique de 2020, le plan pandémie grippale prévoit à chaque phase de l’épidémie l’utilisation des Masque FFP, notamment FFP2, en phase avec la doctrine de 2013 sur la protection des travailleurs.

      D’ailleurs on peut constater la cohérence de tous les acteurs publics concernant la protection de la population en cas de pandémie grippale ainsi par exemple on trouvera nombre d’information sur les port des masques avec les liens suivant :

      https://gouvernement.fr/risques/pandemie-grippale

      https://solidarites-sante.gouv.fr/IMG/pdf/Que_faire_si_je_pense_avoir_la_grippe_030210.pdf

      https://ansm.sante.fr/Dossiers/Pandemie-grippale/Les-masques-medicaux/(offset)/7

      Les mesures et les explications de port de masques sont donc nombreuses dans la réponse à une pandémie, mais devant la pénurie et l’absence de préparation, le gouvernement a préféré mentir aux populations concernant la réel protection des masques.

      Ceci est d’autant plus grave que le gouvernement a encouragé à la continuité économique du pays, sans organiser ou superviser la protection des salariés, notamment dans les métiers de contacts.

      https://www.lemondemoderne.media/labsence-de-masques-met-en-danger-les-travailleurs

      https://reflets.info/articles/il-faut-une-enquete-penale-sur-la-gestion-de-la-pandemie-covid19

    • Coronavirus : l’impossible communication de crise d’Emmanuel Macron

      « La gestion des masques et des tests , on dirait Coluche qui disait : “dites-moi quel est votre besoin, je vous expliquerai comment vous en passer”_
      https://www.lemonde.fr/politique/article/2020/03/29/coronavirus-l-impossible-communication-de-crise-d-emmanuel-macron_6034796_82


      Le président Emmanuel Macron porte un masque lors de sa visite de l’hôpital militaire à Mulhouse (Haut-Rhin), le 25 mars. MATHIEU CUGNOT / AFP

      Pour répondre à la crise sanitaire, le chef de l’Etat doit à la fois rassurer et effrayer. Un paradoxe qu’il tente de résoudre en saturant l’espace et en adoptant un ton martial.

      C’est le cauchemar de tous les conseillers en communication : vivre une crise où chaque événement du jour peut remettre en cause ce que vous aviez décidé la veille.
      C’est pourtant ce qu’affronte Emmanuel Macron depuis l’apparition du SARS-CoV-2, un virus qui oblige l’exécutif à adapter sa #communication tout autant à l’avancée de l’#épidémie qu’à celle des connaissances scientifiques. « Cette crise est inédite, il est normal de tâtonner », estime Gaspard Gantzer, ancien conseiller en communication de François Hollande.

      Pour affronter la #crise_sanitaire, « la plus grave qu’ait connue la France depuis un siècle », comme l’a qualifiée le chef de l’Etat dès le 12 mars, l’exécutif avait au départ fait le pari de placer en première ligne le ministre de la santé, Olivier Véran, fraîchement nommé à ce poste après le départ d’Agnès Buzyn, et le directeur général de la santé, l’infectiologue Jérôme Salomon. « Ils doivent devenir les “François Molins” du coronavirus », entendait-on alors dans les rangs de la majorité, en référence à l’ancien procureur de la République de Paris, qui avait incarné la lutte contre le terrorisme après les attentats de 2015.

      Hyperprésence d’Emmanuel Macron

      Las ! Depuis son premier déplacement lié au Covid-19, le 27 février, à l’hôpital parisien de la Pitié-Salpétrière, le chef de l’Etat s’impose par son hyperprésence.
      Un jour dans une maison de retraite, un autre dans un centre de régulation du SAMU, le suivant dans un laboratoire de l’Institut Pasteur ou dans un hôtel réquisitionné pour les SDF… En un mois, Emmanuel Macron s’est déplacé ou s’est exprimé une dizaine de fois sur le Covid-19. Sans parler de ses trois allocutions solennelles, les 12 et 16 mars depuis l’Elysée et le 25 mars à Mulhouse (Haut-Rhin). Des interventions suivies massivement : le 16 mars, son annonce du confinement a été regardée par 35 millions de Français, du jamais vu.

      « Emmanuel Macron n’a pas le choix. Dans une période comme celle que nous vivons, le président doit se déplacer, aller sur le terrain, comme les généraux vont sur le front , approuve Gaspard Gantzer. Il faut remettre de l’humain, montrer une forme de courage physique, ça fait du bien aux gens. »
      C’est cette ligne qu’avait choisie François Hollande après l’attaque de Charlie Hebdo en janvier 2015 ou les attentats de novembre 2015. « En période de crise, le pouvoir politique doit parler très souvent à son peuple, il doit s’exprimer », abonde Arnaud Dupui-Castérès, directeur général du cabinet Vae Solis et spécialiste de la communication de crise.

      « Prendre de la hauteur »
      « A partir du moment où le pouvoir fait le choix de la pédagogie et de la transparence, il doit prendre la parole quotidiennement. Dans une crise comme celle que nous vivons, il n’y a jamais assez de communication » , confirme Clément Léonarduzzi, président de Publicis Consultants. Pour l’ex-bras droit de Marie-France Lavarini, ancienne communicante de Lionel Jospin à Matignon, le gouvernement devrait d’ailleurs instaurer un point quotidien sur la situation économique du pays, comme il le fait pour la situation sanitaire avec Jérôme Salomon. « Quand il y a des questionnements, il faut y répondre », estime le consultant.

      A l’Elysée, on assume en tout cas cette posture jupitérienne retrouvée du chef de l’Etat, alors qu’Emmanuel Macron avait tenté de la gommer après la crise des « gilets jaunes ». « Le président est transparent, réactif et sur tous les fronts », résume son entourage.
      Au point d’inquiéter certains soutiens, qui le trouvent exagérément exposé. « Macron est trop seul. A part [Olivier] Véran et [Jérôme] Salomon, qui s’occupent du sanitaire, personne n’imprime. Ce devrait être le rôle du premier ministre [Edouard Philippe] ou du [ministre de l’intérieur Christophe] Castaner de gérer l’opérationnel, mais ils n’y arrivent pas, il manque un échelon », estime un communicant réputé proche de l’Elysée.

      « Dans une crise, on est souvent obsédé par la gestion opérationnelle. C’est une erreur. Un président ou un premier ministre doivent prendre de la hauteur et de la distance, pas s’occuper de la fermeture des marchés », abonde Arnaud Dupui-Castérès.
      Sur la forme, l’exécutif a fait le choix d’une communication au ton très martial. « Nous sommes en guerre », a répété à six reprises Emmanuel Macron lors de son allocution télévisée du 16 mars, évoquant un « ennemi (…) invisible, insaisissable » contre lequel il faut sonner « la mobilisation générale ».

      « Le président s’inspire beaucoup de Clemenceau »
      Le 25 mars, le chef de l’Etat s’est volontairement mis en scène devant l’hôpital de campagne installé par l’armée sur le parking du centre hospitalier de Mulhouse, y annonçant même le lancement d’une opération militaire baptisée « Résilience ». « Le président s’inspire beaucoup de Clemenceau, qui fait partie de son panthéon personnel. Son appel à la mobilisation vient de là » , explique un proche.
      Mais certains s’interrogent sur la durabilité de ce ton martial. S’il a permis de mobiliser les Français et d’obtenir une forme d’union nationale contre le virus, poursuivre sur la même tonalité comporte aussi des risques, estiment les professionnels de la communication.

      « Le vocabulaire guerrier peut s’user très vite , met en garde Gaspard Gantzer. Les gens voient bien qu’il ne s’agit pas d’une guerre au sens classique. » « C’est une sémantique qui met immédiatement dans une position de #chef_de_guerre. Cela provoque un choc utile et nécessaire. Mais comme dans une guerre, il faut ensuite donner une perspective sur les batailles et la victoire à venir », abonde Clément Léonarduzzi.

      D’autres se montrent aussi sceptiques sur le choix de médiatiser les #experts du conseil scientifique ou du comité analyse, recherche et expertise (CARE), deux instances installées ces dernières semaines par l’exécutif pour le conseiller sur la crise sanitaire.

      « Cela donne un sentiment de fébrilité, que le pouvoir cherche à s’abriter derrière les scientifiques. C’est une ligne Maginot illusoire » , tance un conseiller de l’ombre. Des réserves balayées par l’Elysée. « Le président a mis en place ces conseils pour créer un lien de confiance avec les Français, pas pour se défausser », explique un membre du cabinet de M. Macron. « Le président s’entoure beaucoup mais il n’est pas prisonnier. Il ne veut pas d’un gouvernement d’experts. C’est lui qui prend les décisions et il l’assume », ajoute un autre conseiller.

      Trouver un chemin de crête

      N’empêche, l’exécutif a donné le sentiment de ne pas toujours savoir quelle stratégie tenir, notamment en matière de #masques ou de #tests, ce qui a provoqué le trouble.
      « Ce type de crise nécessite des décisions quotidiennes, mais il faut choisir une ligne et éviter de se dédire. On ne peut pas être sur la face nord et sur la face sud en même temps, sinon plus personne n’y comprend rien », met en garde M. Dupui-Castérès. « La gestion des masques et des tests , on dirait Coluche qui disait : “dites-moi quel est votre besoin, je vous expliquerai comment vous en passer”. Cela va revenir comme un boomerang pour l’exécutif » , craint un communicant ayant ses entrées à l’Elysée.
      « Nous n’avons pas d’autre choix que de nous adapter, les scientifiques eux-mêmes changent d’avis ! Il y a encore quinze jours, l’OMS [l’Organisation mondiale de la santé] disait que généraliser les tests ne servait à rien ! », se défend-on à Matignon.

      Reste à savoir combien de temps Emmanuel Macron pourra tenir ce rythme et maintenir ce ton. Depuis le début de la crise, l’exécutif est confronté à deux écueils, entre lesquels il tente de trouver un chemin de crête : celui d’en faire trop et celui de ne pas en faire assez.
      « La plus grosse difficulté est ce paradoxe à gérer : il faut faire #peur pour que les gens se confinent, mais aussi rassurer pour qu’ils gardent le moral. Cela n’a rien d’évident sur le long terme » , reconnaît M. Gantzer.

      « Montrer le bout du tunnel »

      Pour éviter de tomber de ce fil d’équilibriste, tous les communicants s’accordent à dire que le chef de l’Etat n’a qu’une solution : ouvrir rapidement la séquence de #l’après. « Pour garder la confiance de ses troupes, un chef de guerre doit aussi se projeter dans la victoire , estime Mayada Boulos, directrice générale adjointe de Havas Paris et ancienne conseillère de Marisol Touraine au ministère de la santé. Le temps est aujourd’hui comme suspendu, il faut montrer le bout du tunnel. Expliquer qu’il y aura un stade 4 après le stade 3 de l’épidémie. »

      Un changement de discours qui passe aussi par des symboles, estiment d’autres conseillers. « Pour donner le moral aux Français, on pourrait imaginer que la patrouille de France passe au-dessus de l’Arc de triomphe comme la patrouille italienne est passée au-dessus de la Péninsule au son de Pavarotti. Ou annoncer dès maintenant que des soignants de l’AP-HP [Assistance publique-Hôpitaux de Paris] défileront sur les Champs-Elysées le 14 juillet, propose M. Gantzer, qui avait été de ceux à imaginer le grand défilé parisien après l’attaque contre Charlie Hebdo, qui avait réuni 1,5 million de personnes en janvier 2015. Les Français vivent des moments difficiles, ils ont aussi besoin d’être flattés, d’être considérés, de se sentir comme des résistants… »

      #communication_de_crise

    • L’article du Monde est vraiment mauvais. La vérité, c’est que l’ensemble de nos gouvernants est franchement mauvais, mauvais et incompétents et même pas capables d’une bonne communication.

      La seule bonne option, violemment rejetée par Macron, serait de reconnaitre qu’ils (il…) se sont (s’est) trompé(s) au lieu de ramer derrière les pitoyables justifications sur le manque de masques, de tests, d’organisation a minima de l’outil industriel pour le réorganiser en urgence sur ces manques,…

      Dans leur bulle, ils ne perçoivent pas le discrédit profond qui les atteint, sans parler de l’immense colère qu’ils déclenchent. Pour museler toute critique, Monsieur le Premier ministre, il faudrait commencer par reconnaître qu’il y a eu lacune (grave !) et agir avec détermination et non pas le nez fixé sur la (mauvaise) comm’. Annoncer 15 jours de prolongation du confinement pour, le lendemain, laisser entendre que c’est (très) grave et donc, que ça sera certainement nettement plus, un seul mot, c’est minable.

      Ouvrir la séquence de l’après, non mais c’est quoi ces communicants de m… ! On n’y est pas !
      Pour garder la confiance de ses troupes, un chef de guerre doit être à la hauteur de la situation. On n’y est pas !

    • Même Léa Salamé, relayée par Gala, exprime ses doutes. et suggère de reconnaître l’erreur (voilà où on en est, Léa Salamé est meilleure conseillère que la batterie d’experts en comm’ de crise…)

      VIDEO – Olivier Véran “challengé” par Léa Salamé : tension sur le plateau de France 2 - Gala
      https://www.gala.fr/l_actu/news_de_stars/video-olivier-veran-challenge-par-lea-salame-tension-sur-le-plateau-de-france-2

      UN ÉCHANGE TENDU
      Olivier Véran fait partie des ministres en première ligne dans la lutte contre le coronavirus. Alors qu’il multiplie les interventions télévisées depuis des semaines et sa nomination au ministère de la Santé, il était une nouvelle fois présent sur France 2, dans l’émission Vous avez la parole, présentée par Thomas Sotto et Léa Salamé. Lors de sa prise de parole, le ministre de la Santé a évoqué plusieurs sujets, notamment les tests, en s’appuyant sur des chiffres. « Nous étions à 4.000 tests, nous sommes ensuite montés à 5.000 tests, nous sommes aujourd’hui à 10.000 tests. Il y a dix plateformes haut-débit qui sont capables chacune de réaliser 2.000 tests par jour qui sont en train d’arriver en France », a-t-il déclaré en préambule. Avant de se faire interrompre par Thomas Sotto : « Mais l’Allemagne est à 500 000 tests par semaine », a noté le journaliste de _France 2. Un brin agacé, Olivier Véran a alors rétorqué : « Vous voyez, j’essaie de vous donner un certain nombre d’informations et vous êtes déjà en train de me challenger par rapport à la situation de l’Allemagne », a-t-il réagi.

      La passe d’armes ne s’est pas arrêtée là. Le ministre de la Santé a tenté de poursuivre son raisonnement et de conclure : « Ces tests, ils peuvent venir de Corée, d’Europe, de France ou des Etats-Unis, à mesure qu’ils arrivent, nous les achetons et nous les mettons en disponibilité pour les Français. Plus de 2 millions de tests le mois prochain, si vous faites le calcul avec l’Allemagne, vous aurez votre réponse », a-t-il déclaré. Léa Salamé a alors pris à son tour la parole afin de faire une mise au point qu’elle jugeait nécessaire : « Monsieur le ministre, on n’essaie pas de vous challenger, on essaie de comprendre et de vous faire passer les questions des Français », a-t-elle précisé. Et d’ajouter : « Au début de la crise, il y a trois semaines encore, les messages du gouvernement, c’était de dire : ’n’achetez pas forcément des masques, c’est inutile » ou ’les tests, ce n’est pas l’alpha et l’oméga’. Vous nous avez dit ça dans un premier temps (...) Est-ce qu’au fond, il ne fallait pas dire la vérité plus simplement ?", s’est-elle interrogée.

    • A mon avis il n’y a pas d’experts en communication à l’Elysée (à moins que Sibeth puisse etre considéré comme telle !), Jupiter n’écoute que lui, et peut être Brigitte à la limite, mais c’est tout. Les autres sont simplement des exécutant·es minables et viles qui se sont rabaisser au service d’un pur dictateur pour se faire du fric. Et c’est pas un problème de communication, choisir le conseil des ministres spécial coronavirus pour imposer le 49.3 c’est pas un problème de conseillés en marketing. Choisir de contracté 45 millliards d’euros de dettes sur notre dos pour les patrons du cac40 et dire aux soignants « la meilleur prime pour les soignants c’est de respecté les gestes sanitaires » c’est pas non plus une erreur c’est de la provocation. Dire que les soignant·es contractent le virus non sur leur lieu de travail mais dans les transports c’est pas une erreur non plus c’est juste pour que les soignant·es sachent qu’illes vont crevé sans que ca soit considéré comme relavant du code du travail.
      Quelle urgence y a-t il à supprimer le code du travail, les droits des prévenu·es à une défense, les droits à une retraite.... En fait Macron utilise la stratégie du choc, et il se venge sur les soignant·es, avocat·es et toutes celles et ceux qui ne sont rien.
      Il promet une prime aux soignant·es pour après mais il donne de suite une prime au cac40. Pourquoi ne pas donné immédiatement cette prime plutot que de parler d’un après qui n’adviendra pas... Il a peur d’avoir à rendre des comptes mais si on est en guerre comme il dit, alors il doit être arrêté pour haute trahison et fraternité avec le virus.

    • « Pour donner le moral aux Français, on pourrait imaginer que la patrouille de France passe au-dessus de l’Arc de triomphe comme la patrouille italienne est passée au-dessus de la Péninsule au son de Pavarotti. Ou annoncer dès maintenant que des soignants de l’AP-HP [Assistance publique-Hôpitaux de Paris] défileront sur les Champs-Elysées le 14 juillet, propose M. #Gantzer, qui avait été de ceux à imaginer le grand défilé parisien après l’attaque contre Charlie Hebdo …

      #sérieux ?
      Ben quand tu vois qu’ils en sont là face à une pandémie prévisible où ils sont au mieux des criminels, au pire des criminels, il faut se dépêcher de mettre nos masques, dès aujourd’hui. Et de les recycler pour les manifs qui viendront. Puisque la loi devrait changer maintenant sur les masques auparavant interdits pour cause d’identification biométrique. (je dis ça, je dis rien)

    • Oui, @simplicissimus l’article est mauvais. L’ai publié pour la formule Coluche utilisé par un conseiller (ils savent qu’on sait), et pour mémoire quant aux circonvolutions empapaoutées de L’imMonde, voix de la France. Non @mad_meg il y a évidemment des conseillers en communication ! Et ils sont géniaux. Voir un autre article du Monde avec le même Gantzer (ex PS-CAC40 et Ville de Paris)

      https://seenthis.net/messages/835629#message835632

      « S’il veut garder le soutien de l’opinion, Emmanuel Macron ne pourra pas se contenter d’appeler à la mobilisation générale. Il faut aussi qu’il donne de l’espoir, qu’il montre le bout du tunnel, qu’il réintroduise de la joie de vivre » , estime Gaspard Gantzer, ancien conseiller en communication de François Hollande, qui suggère par exemple d’ « annoncer dès maintenant que des soignants défileront sur les Champs-Elysées le 14 juillet » . Où ils pourront crier : « On l’a eu ! » (fuckin’ sic, ndc)_

    • Brio et inventivité, probité, libre arbitre, efficacité, faut peut-être pas se faire une trop haute idée de ce que sont les communicants ou les journalistes, ou les avocats ou les professeurs, et tous les professionnels de la profession du monde.
      "Plus le mensonge est gros, plus il passe" était le mot d’un #communicant nommé Goebbels, et il a fait école, y compris banalement dans la pub.
      Sibeth Ndiaye assure : « J’assume parfaitement de mentir pour protéger le président ». De là à inventer des mensonges qui soient beaux, fassent envie, donnent confiance, agrège, des mensonges qui fonctionnent vraiment....
      Parce que ce qui structure tout le champ, le souci actuel des militants de l’économie, c’est qu’ils n’ont rigoureusement aucune #perspective à offrir, à part le transhumanisme, mais c’est une promesse de niche qui largue tout le monde, au lieu d’intégrer. Un capitalisme vert ou moralisé ? On rigole (ou bien on est à EELV, Attac et d’autres). C’est ce qui rend difficile l’exercice, au de-là du déni actif. "Il n’y pas de violences policières" nous dit-on depuis 4 ans. "L’épidémie ne passera pas par la France car nous sommes prêts à la combattre efficacement", façon Buzyn en janvier. Certes, on continue à nous dire "enrichissez-vous" et avec le chômage de masse on y a ajouté "intégrez-vous" à la société ("mieux vaut être Uber que cassos", etc), sans avoir rien à proposer qui soit réellement partageable. D’où "la guerre" : nous partageons au moins une chose, un ennemi. Mais est ce que ces ennemis de notre ennemi - ici la mort en masse et dépit du possible - sont bien nos amis ?

      À cette limite, l’absence totale d’horizon impliquée par leur propre position, ils sont bien adaptés. Le regard braqué sur des "perspectives" et indicateurs de profit, d’une part, l’audimat, les sondages, et ce qui reste d’électeurs d’autre part, il sont devenus incapables d’incarner le capitaliste collectif, l’État. Ce dernier étant d’ailleurs devenu nébuleux en prenant une dimension transnationale et globale, entre multinationales, organisations et instances internationales, tou en étant arrimé à des institutions vues comme infra étatiques (villes, régions, syndicats, institutions diverses).
      Ils communiquent sans cesse, mais ils ont perdu la consistance (Hollande n’aime pas la littérature, un autre dira que la sociologie sert d’excuse sans arriver à rien en tirer pour son compte) et l’intelligence nécessaires pour faire une job devenue infaisable. Ça ne veut pas dire que ça va tomber de soi même (façon Lundi matin).

      Si leur communication est en crise au point qu’une communication de crise soit difficile à mettre au point, c’est aussi sur un fond de montée exponentielle du contrôle dans un contexte de crise de la société de contrôle.
      Là dessous, il y le désir, qui reste n’importe quoi, puissant. L’histoire Raoult me semble en témoigner. Porté par divers appuis et le buzz des réseaux sociaux, il s’est imposé à un gouvernement qui n’a rien pour l’instant rien trouvé d’autre pour répondre à une demande, à des affects de masse qui se sont cristallisés sur cette "solution", dans la peur et la méfiance des institutions (ça manière de jouer l’outsider).

      Voilà, je résiste pas à citer pour finir ce que tu risques je le crains de prendre comme un argument d’autorité, pris dans

      Gilles Deleuze : « L’information, c’est la société de contrôle »
      https://iphilo.fr/2018/01/12/gilles-deleuze-linformation-cest-la-societe-de-controle

      Les déclarations de police sont dites, à juste titre, des communiqués. On nous communique de l’information, c’est-à-dire on nous dit ce que nous sommes tenus de croire, ou même pas de croire mais de faire comme si l’on croyait. On ne nous demande pas de croire, on nous demande de nous comporter comme si l’on croyait. C’est cela l’information, la communication – et indépendamment de ces mots d’ordre et de la transmission de ces mots d’ordre, il n’y a pas de communication, il n’y a pas d’information.

      Indulgence pour le vrac, svp. Ça manque de points d’interrogation et de développement. Rien n’est trop clair dans le changement épocal en cours. Avec ces semaines confinées je trouverais peut-être moyen de scriber autrement et ailleurs.

      #horizon

    • Ne t’inquiète pas @colporteur l’autorité de Deleuze ne vaut pas tripette à mes yeux et le vrac ne me dérange pas. J’ai été un peu vite aussi , car il est vrai que je ne sais pas bien distingué les communiquants des politiques. Heureusement qu’à ce niveau d’incompétence illes (les communiquant·es) ne peuvent pas rattraper le coup. Il serait temps qu’on contemple enfin la grosse dégueulasserie capitaliste en face.

  • L’écrivain et militant russe Edouard Limonov est mort
    https://www.lemonde.fr/disparitions/article/2020/03/17/l-ecrivain-et-militant-russe-edouard-limonov-est-mort_6033445_3382.html


    Edouard Limonov lors d’une manifestation à Moscou, en 2014.
    DMITRY SEREBRYAKOV / AFP

    Agé de 77 ans, Edouard Limonov est notamment célèbre pour une série de romans sulfureux narrant son exil aux Etats-Unis, du temps de l’URSS, dans les années 1970.

    L’écrivain et militant politique russe Edouard Limonov est mort, mardi 17 mars à Moscou, a fait savoir son parti #L’Autre_Russie dans un communiqué. « Aujourd’hui, 17 mars, est mort à Moscou Edouard Limonov. Tous les détails seront transmis demain », a affirmé le parti, fondé par Edouard Limonov, dans un message publié sur son site Internet. 

    « Malheureusement, [sa mort] a eu lieu il y a une demi-heure à l’hôpital », a dit le député communiste Sergueï Chargounov, à l’agence de presse TASS. « Jusqu’au bout, il gardait le contact et discutait, on pouvait lui écrire. Il avait l’esprit clair et était en bonne santé », a-t-il ajouté.

    Né en 1943 à Dzerjink, dans la région russe de Nijni Novgorod, Edouard Limonov était notamment célèbre pour une série de romans sulfureux narrant son exil aux Etats-Unis, du temps de l’URSS, dans les années 1970. Dans les années 1980, il avait vécu à Paris et participé à plusieurs revues littéraires.

    Retourné en Russie dans les années 1990, après la chute de l’Union soviétique, Edouard Limonov avait fondé un parti d’opposition « #national-bolchévique » et y avait activement milité. Il avait également rejoint des groupes nationalistes proserbes pendant les guerres en ex-Yougoslavie, s’attirant de nombreuses critiques.
    Plus récemment, il avait soutenu l’annexion de la péninsule ukrainienne de Crimée par Moscou, en 2014. En France, il avait bénéficié d’un important regain d’attention après la parution en 2011 du roman Limonov de l’écrivain Emmanuel Carrère.

    #rouge-brun #nazbol
    #Другая_Россия

  • « Quand j’entends le mot culture, je sors mon revolver »
    https://www.mediapart.fr/journal/culture-idees/150719/l-authentique-histoire-des-fausses-citations-88-quand-j-entends-le-mot-cul

    Quand on parle de nazisme, il ne faut en général pas longtemps avant d’entendre cette phrase généralement attribuée à Hermann Goering, même si d’autres dignitaires du IIIe Reich sont parfois cités : le patron de la propagande allemande Joseph Goebbels, le théoricien Alfred Rosenberg, le chef des jeunesses hitlériennes Baldur von Schirach… Mais si Goering et les autres connaissaient la formule et l’ont peut-être même utilisée, ils n’en sont pas les auteurs.

    #L’authentique_histoire_des_fausses_citations #Histoire,_Spider-man

  • #L’authentique_histoire_des_fausses_citations (7/8). « Tu quoque mi fili »
    https://www.mediapart.fr/journal/culture-idees/100819/l-authentique-histoire-des-fausses-citations-78-tu-quoque-mi-fili

    Elle aura fait la joie de Goscinny et d’Uderzo qui ont rarement loupé une occasion d’y faire allusion dans leurs BD ou dans le film « Les Douze Travaux d’Astérix » : la phrase lancée à Brutus par un César mourant est sans doute l’une des citations latines les plus célèbres. Mais si l’amertume et la déception qu’elle exprime face à la trahison sont passées à la postérité, la formule pose plusieurs problèmes, à commencer par celui de sa véracité.

    #Spider-man,_Histoire

  • « Un grand pouvoir implique de grandes responsabilités »
    https://www.mediapart.fr/journal/culture-idees/080819/un-grand-pouvoir-implique-de-grandes-responsabilites

    Ressortie à toutes les sauces, la formule est associée à un héros en particulier au point de se confondre avec lui : Spider-Man. Mais si Marvel a réussi à installer le mantra qui vaut à Peter Parker quelques solides dilemmes et autant de nuits blanches, ce n’est pas à l’esprit pourtant fertile de ses créateurs qu’on doit une réflexion qui remonte à la nuit des temps.

    #L’authentique_histoire_des_fausses_citations #Spider-man,_Histoire

  • « S’ils n’ont pas de pain, qu’ils mangent de la brioche ! »
    https://www.mediapart.fr/journal/culture-idees/150719/clone-l-authentique-histoire-des-fausses-citations-58-s-ils-n-ont-pas-de-p

    S’il y a bien une phrase qui a porté, c’est celle-ci. Méprisante et frivole, la formule traduit le caractère qu’on prête à « l’Autrichienne » : l’indifférence au sort des démunis, élevée au rang d’art de vivre et l’aveuglement de ceux qui ne voient pas que les tables sont en train de tourner. Problème : Marie-Antoinette n’a jamais dit ça.

    #L’authentique_histoire_des_fausses_citations #Marie-Antoinette,_Louis_XVI,_Château_de_Versailles,_Jean-Jacques_Rousseau,_Histoire

  • « La Garde meurt mais ne se rend pas »
    https://www.mediapart.fr/journal/culture-idees/040819/la-garde-meurt-mais-ne-se-rend-pas

    C’est beau, c’est noble, c’est généreux, c’est la France éternelle. Héroïque, la réplique du général nantais Pierre Cambronne aux Anglais qui lui demandaient de se rendre à Waterloo est hélas un poil trop belle. Retour sur une phrase assez emblématique pour avoir fait l’objet d’une enquête préfectorale…

    #L’authentique_histoire_des_fausses_citations #Napoleon,_Histoire,_Waterloo

  • « Elémentaire, mon cher Watson »
    https://www.mediapart.fr/journal/culture-idees/020819/elementaire-mon-cher-watson

    C’est sans doute l’une des phrases les plus célèbres de la littérature, au point qu’elle est devenue proverbiale. La réplique un tantinet condescendante de Sherlock Holmes au fidèle Watson, est commode quand il s’agit de souligner la qualité d’un raisonnement – l’équivalent du bon vieux CQFD en quelque sorte, doublé d’une petite touche diablement britannique. Seul souci : Conan Doyle ne l’a jamais écrite.

    #L’authentique_histoire_des_fausses_citations #Arthur_Conan_Doyle,_Sherlock_Holmes,_Histoire

  • Histoire des fausses citations : Einstein, Churchill, Clemenceau, ou aucun d’entre eux
    https://www.mediapart.fr/journal/culture-idees/310719/histoire-des-fausses-citations-einstein-churchill-clemenceau-ou-aucun-dent

    « Les États-Unis d’Amérique sont le seul pays passé de la barbarie à la décadence sans jamais avoir connu la civilisation. » Cette phrase est en général attribuée à Albert Einstein. Non seulement c’est faux, mais retrouver l’origine exacte de la formule tient du casse-tête.

    #L’authentique_histoire_des_fausses_citations #Etats-Unis,_Histoire,_albert_einstein

  • Histoire des fausses citations : Einstein, Twain, Churchill, Clemenceau, Wilde, voire aucun d’entre eux
    https://www.mediapart.fr/journal/culture-idees/310719/histoire-des-fausses-citations-einstein-twain-churchill-clemenceau-wilde-v

    « Les États-Unis d’Amérique sont le seul pays passé de la barbarie à la décadence sans jamais avoir connu la civilisation. » Souvent citée dès qu’il s’agit de pointer une dérive outre-Atlantique, cette phrase est en général attribuée à Albert Einstein, même si d’autres candidats le suivent de près. Non seulement c’est faux, mais retrouver l’origine exacte de la formule tient du casse-tête.

    #L’authentique_histoire_des_fausses_citations #albert_einstein,_Etats-Unis,_Histoire

  • Histoire des fausses citations : Einstein, Twain, Churchill, Clemenceau, Wilde, voire aucun d’entre eux
    https://www.mediapart.fr/journal/culture-idees/310719/histoire-des-fausses-citations-einstein-twain-churchill-clemenceau-wilde-v

    « Les États-Unis d’Amérique sont le seul pays passé de la barbarie à la décadence sans jamais avoir connu la civilisation. » Souvent citée dès qu’il s’agit de pointer une dérive outre-Atlantique, cette phrase est en général attribuée à Albert Einstein, même si d’autres candidats le suivent de près. Non seulement c’est faux, mais retrouver l’origine exacte de la formule tient du casse-tête.

    #L’authentique_histoire_des_fausses_citations #Etats-Unis,_Histoire,_albert_einstein

  • #L’authentique_histoire_des_fausses_citations (1/8). « Et pourtant, elle tourne ! »
    https://www.mediapart.fr/journal/culture-idees/290719/l-authentique-histoire-des-fausses-citations-18-et-pourtant-elle-tourne

    Difficile de mieux illustrer le noble courage du savant persécuté qu’avec cette exclamation de Galilée. En quatre mots, la formule traduit le combat courageux de la raison contre la croyance et de la science contre la superstition. Il n’y a qu’un problème : rien ne permet de penser qu’il l’ait prononcée.

    #galilée,_Histoire

  • Disaster recovery and violence in neoliberal times: community and spatial fragmentation in #L’Aquila

    The purpose of this paper is to examine the disruption and reconfiguration of the territorial organisation of the central Italian town of L’Aquila resulting from actions taken by the special commissioner, a plenipotentiary official appointed by the central government, during the ten-month emergency period following the 2009 earthquake. The study attempts to determine how during the commissioner’s short tenure the territory of L’Aquila was restructured for many years to come.

    https://www.emeraldinsight.com/doi/abs/10.1108/DPM-01-2018-0032?journalCode=dpm
    #Italie #tremblement_de_terre #reconstruction #néolibéralisme #violence
    ping @albertocampiphoto

  • Financer l’action sociale avec des fonds privés : les débuts laborieux des « contrats à impact social », Isabelle Rey-Lefebvre
    https://www.lemonde.fr/societe/article/2019/03/07/les-debuts-laborieux-des-contrats-a-impact-social_5432627_3224.html

    Les CIS obéissent à une logique très macronienne, en associant le public et le privé. Seuls trois contrats ont été conclus en trois ans.

    Cela fait trois ans qu’ils existent, mais on ne peut pas dire qu’ils se soient vraiment imposés dans le paysage. Christophe Itier, haut commissaire à l’économie sociale et solidaire, tire, ce jeudi 7 mars, un premier bilan des contrats à impact social (CIS). Ils ont été lancés en 2016 par Martine Pinville, qui était alors secrétaire d’Etat chargée de l’économie sociale et solidaire d’Emmanuel Macron, ministre de l’économie. Et M. Itier entend leur redonner du souffle. Cette formule vient du Royaume-Uni, où elle a été expérimentée, dès 2010, sur l’insertion des prisonniers à leur sortie de la prison de Peterborough, parvenant à réduire le taux de récidive de 9 %.

    Les CIS obéissent à une logique très macronienne, en associant le public et le privé, cette fois dans le domaine de l’#action_sociale. Ces contrats réunissent quatre partenaires : une association ou un opérateur qui propose une innovation sociale ; un investisseur privé qui la finance ; une entité publique, Etat ou collectivité locale, qui remboursera l’investisseur avec intérêts (entre 3 % et 5 %) si les objectifs de performance fixés au contrat sont remplis ; et un évaluateur externe chargé de vérifier les résultats.

    « Mesurer les coûts évités »

    « C’est une nouvelle façon de concevoir l’action publique, plus tournée vers la prévention, en mesurant les coûts évités grâce à cette action et permettant aux associations de passer à une échelle supérieure, s’enthousiasme M. Itier. Plus de vingt pays ont adopté ce système, décliné en 120 projets, pour un investissement total de 400 millions d’euros. »

    Un premier appel à projets, en 2016, avait obtenu quinze réponses. Seuls trois contrats ont été conclus.

    En France, le bilan est bien plus modeste. Un premier appel à projets, en 2016, avait obtenu quinze réponses. Seuls trois contrats ont été conclus. Trois autres devaient être officialisés le 7 mars, pour un total de 9,7 millions d’euros. L’association La cravate solidaire a, après une longue année de mise au point, signé son CIS fin décembre 2018. Elle espère développer son activité de coaching des jeunes à la recherche d’un emploi : « Il ne s’agit pas seulement de trouver un costard au jeune, mais de lui donner confiance et le préparer à l’entretien », explique Nicolas Gradziel, l’un des trois fondateurs que ce projet a réunis à leur sortie d’école de commerce.

    Cette activité pourra ainsi, avec l’apport de 500 000 euros par les assurances Maif et Aviva, la Caisse des dépôts et le fonds Inco – ex-Comptoir de l’innovation, géré par le #groupe_SOS – s’étendre au Val-d’Oise et en Seine-Seine-Denis. Un camion itinérant, deux salariés et des bénévoles sillonneront les banlieues les plus oubliées. « Nous devrons prouver, à l’aide d’indicateurs, que notre méthode assure un plus grand succès à l’entretien d’embauche que si le jeune n’a pas bénéficié de nos conseils », précise M. Gradziel.

    L’association Wimoov, du groupe SOS, aide les chômeurs et bénéficiaires du #RSA à trouver des solutions de transports pour les inciter à accepter un emploi ou une formation qui leur semblent géographiquement hors de portée. « Ce sont de petites actions, avec un conseil personnalisé, explique Florence Gilbert, fondatrice de Wimoov. Par exemple, convaincre un chômeur de prendre sa bicyclette pour parcourir les cinq kilomètres qui le séparent de son emploi ou de la gare en lui proposant un vélo à prix réduit et un itinéraire rapide et sûr ; aider un jeune à passer son permis et acquérir une voiture à petit prix ; organiser un covoiturage avec de petits bus ; convaincre une ville de modifier les horaires d’un car. »

    Un CIS soutient l’activité de l’association Article Un, qui aide les jeunes ruraux boursiers à oser choisir des études longues et difficiles.
    Wimoov compte 130 conseillers en mobilité quotidienne, répartis dans 27 plates-formes financées par les collectivités locales. Ils conseillent, chaque année, 11 000 personnes. Dans ce cas, le CIS apporte 750 000 euros financés par la BNP, le Crédit coopératif, la Caisse des dépôts et toujours le fonds Inco. Il permet de développer un nouvel outil, numérique cette fois, pour un plus grand nombre de bénéficiaires, à un coût moindre, avec diagnostic par internet.
    Un troisième CIS soutient l’activité de l’association Article Un, qui aide les jeunes ruraux boursiers à oser choisir des études longues et difficiles. Il est financé par le fonds B, lancé à titre personnel par Emmanuel Faber, Président de Danone, souvent consulté par Emmanuel Macron.

    « Ambiguïté »

    Ce principe des CIS ne fait cependant pas l’unanimité. « Evaluer l’action sociale est une bonne chose et nous avons des progrès à faire dans ce domaine, admet Patrick Doutreligne, président de Union nationale interfédérale des œuvres et organismes privés non lucratifs sanitaires et sociaux, qui représente les trois quarts des intervenants dans le domaine sanitaire et social. Mais c’est toute l’ambiguïté de ces contrats à impact social : on voit bien que leur but n’est pas seulement d’être plus efficace mais d’abord de faire des économies d’argent public. Les indicateurs peuvent être biaisés et l’attribution de ces contrats rester opaque et source de conflits d’intérêts. »

    Conscient de la difficulté qu’ont les CIS à se multiplier, M. Itier cherche à en simplifier le processus. Il a confié cette mission à Frédéric Lavenir, président de l’Association pour le droit à l’initiative spécialisée dans le microcrédit, qui fera ses propositions d’ici au mois de juin.

    Quand le social finance les banques et les multinationales , Collectif
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2016/03/10/quand-le-social-finance-les-banques-et-les-multinationales_4880783_3232.html

    Les « investissements à impact social » posent des problèmes graves, qui remettent en question les missions de l’Etat, la nature du travail social et le rôle des associations, expliquent les membres d’un collectif d’associations de terrain.

    "Trois arguments sont mis en avant pour promouvoir les SIB : dans une période de pénurie d’argent public, faire appel au privé est une solution innovante ; la puissance publique ne prend aucun risque car les investisseurs ne sont payés que si les objectifs sont atteints ; à terme, le contribuable fait des économies. Tous sont fallacieux."

    Le gouvernement s’apprête à introduire en France les « investissements à impact social », avec, pour fer de lance, la création de « Social Impact Bonds » (SIB) pour lesquels il ne reste plus qu’à trouver une appellation « à la française ». Depuis la remise au gouvernement en septembre 2014 du rapport d’Hugues Sibille (alors vice-président du Crédit coopératif, dont il préside désormais la Fondation), le lobbying en faveur des SIB n’a jamais cessé.

    Le 4 février 2016, Le Monde publiait un article faisant la promotion des SIB, sous le titre « Quand les investisseurs privés financent l’action sociale », signé par Benjamin Le Pendeven, Yoann Lucas et Baptiste Gachet, qui sont aussi les auteurs du document « Social Impact Bonds : un nouvel outil pour le financement de l’innovation sociale » financé et diffusé par l’Institut de l’entreprise, un think tank dépendant des grands groupes industriels et financiers français.

    Depuis, une partie de la presse a suivi : Les Echos, La Croix, Libération et L’Humanité… Ces articles comportent nombre d’approximations sur le fonctionnement de ces produits financiers et en cachent les méandres qui permettent aux organismes financiers, aux consultants et aux cabinets d’audit de dégager des marges considérables.

    Trois arguments sont mis en avant pour promouvoir les SIB :
    – Dans une période de pénurie d’argent public, faire appel au privé est une solution innovante ;
    – La puissance publique ne prend aucun risque car les investisseurs ne sont payés que si les objectifs sont atteints ;
    – à terme, le contribuable fait des économies.
    Tous sont fallacieux.
    Supériorité du privé sur le public jamais démontrée

    Le premier argument est vieux comme le capitalisme. En réalité, la meilleure participation « innovante » du privé serait que les grands groupes multinationaux bancaires ou industriels payent les impôts dans les pays où ils réalisent leurs profits et que l’optimisation et l’évasion fiscales ne soient plus possibles (il n’y aurait alors plus de déficit budgétaire dans aucun pays de l’Union européenne).
    Le second est également faux : le vrai risque est toujours assumé par la puissance publique, qui paye en dernier ressort, soit en rémunérant dans des conditions exorbitantes les financeurs, soit en reprenant le programme à son compte en cas d’échec (comme cela a été le cas, par exemple, pour le tout premier SIB, censé réduire la récidive des prisonniers de Peterborough, en Grande-Bretagne, et abandonné en cours de route).

    La meilleure participation « innovante » du privé serait que les grands groupes multinationaux bancaires ou industriels payent les impôts dans les pays où ils réalisent leurs profits
    Pour le troisième, la supériorité du privé sur le public, aussi bien en termes d’efficacité que d’efficience, n’a jamais été démontrée.

    L’expérience des partenariats publics privés (PPP) prouve le contraire, comme le souligne le rapport de la commission des lois du Sénat.
    En clair, une autorité publique (souvent conseillée par les financeurs) qui souhaite engager une action dans un domaine social (insertion, récidive, décrochage scolaire, parentalité etc.), mais a des difficultés financières ou souhaite rompre avec le subventionnement des associations, s’adresse à un « organisme financier intermédiaire » (une banque qui, bien entendu, se rémunère). Cet intermédiaire récolte des fonds auprès d’investisseurs (banques, fondations d’entreprises, épargnants…) qui souhaitent s’impliquer dans le domaine social, tout en effectuant un investissement rentable.

    Un évaluateur de l’évaluateur de l’évaluateur
    L’autorité publique fixe (en principe) des objectifs à atteindre. L’intermédiaire sélectionne ensuite un « opérateur » qui peut être une association, mais aussi une entreprise privée (qui se rémunérera aussi) lequel sera chargé de la mise en œuvre.

    Un cabinet d’audit « indépendant » (également rémunéré) sera chargé de l’évaluation. Alors qu’il est très délicat d’évaluer des résultats dans le domaine social, dans certaines expériences en cours à l’étranger, il a été fait appel à un évaluateur de l’évaluateur et même un évaluateur de l’évaluateur de l’évaluateur (un nouveau marché pour les cabinets spécialisés).

    Bien entendu les thuriféraires français des SIB et le gouvernement nous promettent de faire mieux, puisque ce sera « à la française ».
    Au final, selon les résultats obtenus, les investisseurs vont recevoir, un retour sur investissement payé par l’autorité publique (donc par l’impôt des citoyens) à deux chiffres (jusqu’à 13 % voire, 15 % par an, selon les contrats).
    Un modèle prestataire
    Dans le système antérieur, une tout autre relation liait les associations (par définition non-lucratives) et les pouvoirs publics. Bons experts du terrain et du territoire, elles pouvaient conduire leur travail social, avec le plus souvent des professionnels, de façon relativement autonome, dans un climat de confiance et de coopération démocratique. Ce modèle est désormais déclaré caduc. À la mission de service public rémunérée par une subvention assortie de certaines contreparties se substitue aujourd’hui un modèle prestataire, régulé par la concurrence, au service de collectivités publiques se considérant elles-mêmes comme des entreprises.
    Les SIB sont bien une nouvelle forme de partenariats public-privé (PPP), tristement connus dans le domaine du BTP, dont les conséquences désastreuses ont déjà été soulignées à maintes reprises, y compris par la Commission des lois du Sénat qui parle de « bombes à retardement » pour les finances publiques (Rapport de la commission des lois du Sénat du 16 juillet 2014 sur les partenariats publics-privés (PPP) : « Les contrats de partenariat : des bombes à retardement ? »).

    Il s’agit, ni plus ni moins, de transformer les « dépenses sociales » en « investissement social » très rentable, sans risque puisque le retour sur investissement est garanti par l’Etat, en contrepartie d’hypothétiques économies au terme du contrat ! Il est significatif que ces actions mobilisent les plus « grands philanthropes » du monde, tels Goldman Sachs, Merrill Lynch ou encore la fondation Rockefeller…

    L’ensemble du dispositif repose en réalité sur un socle purement idéologique : le privé serait, par principe, plus efficace et moins cher que le public. Un postulat qui n’a jamais été démontré mais qui rapporte ! L’institut de l’entreprise, dans la quasi-totalité des exemples qu’il fournit dans son étude, démontre que la plupart des SIB induisent un retour sur investissement qui double le capital investi en trois ans ! Pour le SIB « Advance Programme » au Royaume-Uni qui porte sur l’emploi, pour un capital investi de 3 millions de livres, le retour certes maximum sur trois ans est de 3,3 millions.

    Escroquerie financière
    Mieux encore, certaines actions menées à l’étranger par le biais d’un financement SIB ont coûté en moyenne trois fois plus cher au contribuable que si l’action avait été financée directement par la puissance publique. Au-delà de l’escroquerie financière, les « investissements à impact social » posent des problèmes graves, qui remettent en question les missions de l’Etat, la nature du travail social et le rôle des associations.

    La mise en place des SIB pose en effet la question de la définition de l’intérêt général : si désormais c’est le secteur financier qui décide de soutenir une action sociale plutôt qu’une autre (tout en puisant dans les fonds publics, c’est-à-dire dans la poche du citoyen), selon la seule règle de la maximisation du profit et la minimisation des risques, à quoi servent encore les élus et toute la vie démocratique à laquelle contribuent les différents organes de la société civile ?

    Plus besoin de métiers en tant qu’espaces d’autonomie, de socialisation et de responsabilité, puisqu’il s’agit pour les professionnels de ce secteur de devenir les exécutants de logiques financières

    Si les investisseurs déterminent à la fois les actions à financer, les indicateurs de performance et les objectifs (chiffrés) à atteindre, quid de la doctrine même du travail social ? Le travail social ne consiste pas à poser des rustines sur les dégâts du capitalisme. Il vise à l’émancipation des personnes vulnérables dans une société capable de reconnaître sa responsabilité dans la production d’inégalités et cherchant sans cesse à y remédier…

    Il ne s’agit donc pas simplement de produire les prestations adaptées
    et rentables, à une « cohorte » d’individus ayant des besoins particuliers, mais, partant de leurs ressources, de travailler « avec » eux au changement, dans une perspective de court et moyen terme, sans jamais être sûr, à l’avance, de la performance… C’est le prix de la solidarité en actes, que ne connaît pas le commerce.

    #Usagers-marchandise
    Si les acteurs de terrain (en grande majorité les associations) sont obligés de compter sur des financements de type SIB, avec mise en concurrence des « projets » et soumission absolue au diktat financier pour les « heureux élus » – en imposant un management ad hoc qui peut aller jusqu’à la mise en place d’un directeur financier dans la structure – que reste-t-il de l’essence même de la vie associative, reposant, répétons-le, sur la capacité des citoyens à s’organiser eux-mêmes pour trouver, par eux-mêmes, des solutions innovantes à des problèmes qu’ils sont les seuls (ou les premiers) à identifier ?

    Dans un système du paiement au résultat appliqué au social, la notion de métier est niée et, avec elle, la dimension créative des acteurs de terrain. On comprend mieux pourquoi le Plan d’action en faveur du travail social qui soutient l’ouverture du travail social aux investissements à impact social s’appuie sur une refonte des métiers du travail social : la réflexion sur la pratique n’est plus considérée comme un élément central de la formation, il suffit de former les travailleurs sociaux à des fonctions de coordination ou à acquérir des compétences purement techniques, suivant le niveau de qualification (« Défendre les métiers sociaux », Le Monde du 23 juin 2015).

    En effet, plus besoin de métiers en tant qu’espaces d’autonomie, de socialisation et de responsabilité, puisqu’il s’agit pour les professionnels de ce secteur de devenir les exécutants de logiques financières qui passent par une « rationalisation » de l’action. Pour les usagers également, la relation avec les professionnels du social change de nature : plus question d’une rencontre avec l’autre, plus question d’être considéré comme un citoyen protégé par la collectivité, mais bel et bien de devenir une marchandise.

    Les SIB sont présentés comme un outil innovant pour financer l’action sociale. En fait il s’agit juste d’accommoder une vieille recette qui consiste à faire payer la collectivité publique au bénéfice du privé lucratif, à s’accaparer des financements publics et à instrumentaliser le travail social.

    Mécanique néolibérale
    Même dotée d’un visage « solidaire », la mécanique néolibérale ne quitte jamais ses fondamentaux : haro sur l’Etat (et la démocratie), haro sur les capacités des citoyens à s’organiser eux-mêmes (en dehors du sacro-saint marché), haro sur toutes celles et ceux qui œuvrent à la transformation de la société dans une optique de justice, d’égalité et de fraternité, du bien commun, de l’intérêt général. Non seulement il faut refuser de s’engager dans la voie des SIB, mais les rescrits fiscaux opaques, les optimisations et évasions fiscales doivent cesser.

    L’avenir n’est pas dans la financiarisation du social mais dans l’instauration de nouvelles formes de relations entre associations et autorités publiques, reposant sur une co-construction réelle, l’indépendance des structures et le respect des métiers.

    Premiers signataires : Jean Claude Boual (Président du Collectif des associations citoyennes), #Michel_Chauvière (Directeur de recherche émérite au CNRS), Gabrielle Garrigue (Avenir Educs), Eric Denoyelle (Collectif pour une éthique en travail social), #L’appel_des_Appels.

    #Borello :
    https://seenthis.net/messages/741504

  • L’âge de la tortue

    L’âge de la tortue c’est une structure qui conçoit et met en œuvre des projets artistiques dans le champ des #arts_visuels et des #arts_vivants. Fondée sur une pensée critique de notre société contemporaine et sur le respect des #droits_culturels, la démarche de #L’âge_de_la_tortue interroge notre rapport aux représentations politiques et sociétales pour décaler notre #regard_sur_le_monde. Les processus de travail viennent nourrir la production des œuvres et prennent la forme de #laboratoires_interdisciplinaires menés par des artistes sur le temps long (laboratoires entre différents arts, laboratoires de réflexion, laboratoires participatifs avec des personnes vivant sur un territoire).

    Implantée dans le quartier du Blosne à Rennes, L’âge de la tortue développe ses projets depuis l’échelle micro-locale en articulation avec d’autres territoires en Europe.L’âge de la tortue est une association (loi 1901) fondée en 2001 à Rennes.

    http://agedelatortue.org
    #art
    ping @odilon @reka

  • Envisaging #L’Aquila. Strategies, spatialities and sociabilities of a recovering city

    L’Aquila, a city of about 70,000 inhabitants located in central Italy, was hit by a devastating earthquake on April 6th, 2009. The disaster killed 309 people, left 50,000 homeless and shut down entire areas of its sprawling urban system.

    The public debate and policy interventions that followed the disaster raised the question of what kind of city should be rebuilt. Which new visions for the city could be put forward?

    Envisaging L’Aquila brings together the results of a large and articulated research project carried out at the Gran Sasso Science Institute to document the reconstruction process.

    The book provides a broad overview of the emerging visions and spatial strategies unfolding at the local level, documenting the everyday life public spaces, civil society movements, and the relaunch of the knowledge economy in the local territorial system.


    http://www.professionaldreamers.net/?p=3821
    #tremblement_de_terre #reconstruction #post-disaster #urban_matter #villes #désastre #catastrophe

    cc @albertocampiphoto

  • Cartographie - Méthodologie−L’accès aux soins à l’épreuve des grands espaces guyanais | Insee

    https://www.insee.fr/fr/statistiques/3181900?sommaire=3181903

    #L’accès_aux_soins à l’épreuve des grands espaces guyanais
    Xavier Baert, Rémi Charrier, Nicolas Kempf

    Le développement social et économique de la #Guyane passe par un accès à la santé de qualité. Le territoire guyanais, vaste et faiblement peuplé, complique la mise en place d’une offre de soin efficace pour l’ensemble de la population. Le système de #santé repose sur deux piliers. En premier lieu, les hôpitaux et cliniques assurent le traitement des urgences ainsi qu’un certain nombre de soins complexes. L’autre composante du système de santé est la médecine de ville qui regroupe l’ensemble des professions libérales de santé, des infirmiers aux médecins spécialistes. L’accès aux soins hospitaliers en Guyane a déjà été traité dans une précédente étude. L’objectif de ce dossier est de mesurer l’accessibilité à la médecine de ville.

    #accessibilité

  • #Zakhar_Prilepine, l’ange noir de la littérature russe
    https://www.mediapart.fr/journal/culture-idees/121117/zakhar-prilepine-l-ange-noir-de-la-litterature-russe

    Zakhar Prilepine Avec #L’Archipel_des_Solovki, Zakhar Prilepine signe l’un des plus grands romans russes de ces dernières années. C’est un livre qui allie la puissance de la fiction à la précision d’une enquête documentaire. Cette plongée dans le premier camp de concentration du régime bolchevique, où se forge l’homme nouveau, donne la parole à tous, chef de camp, popes, criminels, politiques. Critique et entretien avec l’auteur sur son œuvre, mais aussi sur l’Ukraine et sur Vladimir Poutine.

    #Culture-Idées #Donbass #Goulag

  • ’Ndrangheta, arrestati i ras dell’accoglienza migranti

    Retata in Calabria contro il clan #Arena, che gestiva di fatto il centro per migranti tra i più grandi d’Europa. Arrestati per associazione mafiosa anche il governatore della #Misericordia di #Isola_Capo_Rizzuto e il parroco fondatore della sezione locale della confraternita


    http://espresso.repubblica.it/attualita/2017/05/15/news/ndrangheta-arrestati-i-ras-dell-accoglienza-migranti-1.301446
    #Eglise #Calabre #asile #migrations #réfugiés #mafia #ndrangheta #Italie #accueil #logement #hébergement #Italie #Isola_Capo_Rizzuto #business #cara #Leonardo_Sacco
    cc @albertocampiphoto

  • Miscellanées au beurre (ou florilège de « l’Assiette au beurre ») - PERSONNE
    https://www.legrandsoir.info/miscellanees-au-beurre-ou-florilege-de-l-assiette-au-beurre.html

    29 juillet 1911, « Le ministère », par Jankowski

    Voici quelques illustrations tirées de numéros de ’’l’Assiette au beurre’’, datées de 1901 à 1912, accompagnées de leur légende originelle ( publications numérisées par la B.N.F., disponibles sur : http://gallica.bnf.fr/ark :/12148/cb327033728/date&rk=85837 ;2 ).

    Chacun a toute latitude pour établir certains parallèles, pour déceler certaines similitudes avec ce que nous connaissons, ici, ou avec ce que subissent d’autres, ailleurs.

    Les grillages d’hier sont devenus des murs qui protègent certaines forteresses ou qui empiètent sur le territoire d’Autrui...

    La République a révélé son vrai visage avec le fossoyeur Thiers...

    Le Droit des Affaires prime en toute circonstance...

    Les lois emmurent, chaque jour un peu plus, les Grands Principes...

    La libre pensée, le libre arbitre...


    ’’ Les camps de reconcentration au Transvaal’’, numéro du 28 septembre 1901, par Jean Veber
    ’’Toute ferme confisquée est immédiatement vendue et trouve facilement un nouveau propriétaire qui s’empresse de prendre possession de sa nouvelle propriété’’ (rapport au War Office)


    ’’… les prisonniers Boers ont été réunis en de grands enclos où depuis 18 mois ils trouvent le repos et le calme. Un treillage de fer traversé par un courant électrique est la plus saine et la plus sûre des clôtures. Elle permet aux prisonniers de jouir de la vue du dehors et d’avoir ainsi l’illusion de la liberté...’’ (rapport officiel au War Office)


    ’’… Je dois reconnaître la galanterie proverbiale du soldat anglais et lui rendre hommage. Chaque jour j’en ai sous les yeux de nombreux et naïfs exemples. Il est touchant de voir avec quels égards, quels soins les femmes Boers sont traitées...’’ (rapport officiel du lord Roberts)


    La fête du 14 juillet à Brazzaville (dessin de B.N.)
    - C’qu’on rigole aux colonies ! Vive la République !


    Le châtiment (dessin de Sottloc).
    Le ministre, indigné, à Gaud - Il y a deux manières de tuer les gens, monsieur : à la guerre ou après une sentence de justice. Les tuer autrement, c’est commettre un assassinat.


    ’La République’’, 15 juillet 1905, par Geoffroy
    La naissance


    L’idylle


    - Vous croyez, mon brave homme, que nous nous sommes rencontrés autrefois ?... Je ne vous reconnais pas du tout !


    Au « mur »
    ’’Les morts sont des vivants mêlés à nos combats.’’ (Hugo)


    ’Le drapeau’’, 27 janvier 1912, par M. Savignol
    Actions – Il est le pavillon qui couvre la marchandise


    ’Les opinions’’, 27 avril 1907, par Savignol
    L’ordre social repose sur l’intelligence - le patron gagne cent francs, l’ouvrier cinq. Le gendarme maintient l’ordre pour vingt-cinq sous par jour, quand ils se querellent.


    ’’Les travaux parlementaires’’, 28 novembre 1908
    Dessin de Chapuis :

    - Continuez, messieurs, à fabriquer des lois ! Quoi qu’en disent les anarchistes, il n’y a pas de lois inutiles. La Déclaration des Droits de l’Homme a dit que « tout ce qui n’était pas défendu par une loi était permis ». L’idéal de notre République est de modifier ainsi la formule : « Tout ce qui n’est pas permis par une loi est défendu ! »


    Dessin d’Édouard Bernard
    [’arbitraire’, ’iniquité’, ’corruptions’, ’égoïsme’, ’préjugés’, ’pots de vin’, ’MADE IN FRANCE’]


    ’Le socialisme allemand’’, 10 juin 1911, par Andriser
    L’unique moyen pour les politiciens pour s’emparer de la masse ouvrière est de lui bourrer la tête avec des brochures !


    Leur syndicalisme :

    - Viens, chéri, dans mon p’tit syndicat ; tu y jouiras d’une existence heureuse.

    - Et que faut-il faire pour cela ?

    - Payer quelques oboles... et surtout, rester sage et tranquille.


    Dernières manœuvres :

    - Annonçons qu’on vient de surprendre dans les remparts le candidat socialiste avec un petit marchand de journaux...

    - Pas moyen... On a affiché hier qu’il était impuissant !


    ’Candidatures’’, 5 mai 1905, par Jean Villemot
    C’est égal, des journées comme celle-là... c’est bien inventé tout de même qu’on ait quatre ans pour s’en remettre !...


    ’La corruption électorale’’, 23 avril 1910, par Radiguet
    Le candidat – Ça, ce n’est pas de la corruption électorale... Les professions de foi, tout le monde sait que cela ne compte pas !


    ’’L’administration’’, 19 octobre 1901, par Paul Ralluriau


    ’’Évitez les contrefaçons’’, 23 octobre 1909
    Dessin de Bernard

    - Bah ! Est-ce que La République ne nous donne pas l’exemple de la fraude, avec la Liberté frelatée, la Fraternité de contrebande et l’Égalité illusoire qu’elle nous offre ?


    ’La bourse’’, 11 octobre 1902, par Em. Barcet
    Le miroir aux alouettes. - Elles y viendront toujours !


    ’Les opinions’’, 27 avril 1907, par Savignol
    Héros et malfaiteurs
    - On arrête celui qui porte une bombe, on acclame celui qui tire un canon.


    ’La liberté’’, 14 avril 1906
    Dessin de Ricardo Florès

    Ma conscience me défend de tirer contre les grévistes, comme la vôtre de forcer la porte des églises...
    Un soldat n’a pas le droit d’avoir une conscience... la conscience ne commence qu’au grade de lieutenant.


    ’Les éteignoirs de la pensée’’, 2 décembre 1905
    Dessin de Grandjouan
    La Pensée libre
    D’abord elle est indécente !
    Et dangereuse !
    Elle débauche la jeunesse.
    Étranglez-la !

    #Histoire #république #élections #l’Assiette_au_beurre #B.N.F.