• #Lina_Soualem et #Hiam_Abbass : « Faire exister l’humanité du peuple palestinien »

    Après Leur Algérie, explorant la branche familiale paternelle, la réalisatrice Lina Soualem poursuit l’introspection du double exil qu’elle porte : l’Algérie mais aussi la Palestine. Bye bye Tibériade, son second documentaire, sort en salles mercredi 21 février. Bouleversant de tristesse mais aussi de joie, il raconte comment la lignée de femmes de sa famille maternelle, dont sa mère l’actrice Hiam Abbass, a été percutée par les violences de l’histoire.

    À travers elles, c’est l’histoire du peuple palestinien qui se déploie sur plusieurs décennies, un peuple qui subit une injustice historique et qui est revenu au cœur de l’actualité de la plus sanglante des manières. La sortie de Bye Bye Tibériade survient en pleine guerre à Gaza, où Israël mène, depuis le 7 octobre 2023 et les massacres du Hamas qui ont fait 1 160 morts, une riposte militaire. Celle-ci a tué plus de 29 000 personnes, dont 70 % sont des femmes et des enfants, dans l’enclave palestinienne.

    En explorant les douleurs de la mémoire familiale et collective à travers le prisme des femmes, Lina Soualem questionne aussi admirablement l’universel qui nous percute et nous rassemble : l’amour, l’exil, la famille, la terre, les racines.

    https://www.youtube.com/watch?v=9vsnwCDc1Ww

    #film #Palestine #cinéma #documentaire #film_documentaire #dépossession #héroïsme #arrachement #exil #identité #droit_à_la_complexité #culture #nakba #intimité #négation #histoire_familiale #parcours_de_vie #silence #art #récits_de_vie #mémoire_collective #peur_de_la_perte #maison #douleurs_du_passé #transmission #force_féminine #vie #humour #liberté #rupture #exil_forcé #patriarcat #poésie

  • XI #Marcha_po_la_Dignidad - #Tarajal | 3.02.2024 | 10 AÑOS EXIGIENDO VERDAD, JUSTICIA Y REPARACIÓN.

    *English version below.
    **Traduction en Français ci-dessous.

    La XI MARCHA POR LA DIGNIDAD es un acto en memoria de las personas a las que arrebataron la vida la mañana del 6 de febrero de 2014 en la playa del Tarajal en Ceuta, pero también es un acto de denuncia por todas las personas a las que les arrebatan la vida por falta de vías legales y seguras para migrar.

    Los colectivos y organizaciones que quieran adherirse a la XI MARCHA POR LA DIGNIDAD deberán completar el siguiente formulario. Ello supondrá el siguiente compromiso:
    – Su inclusión como firmante en el manifiesto al que se dará lectura al finalizar el recorrido de la marcha en la Playa de El Tarajal.
    – Su inclusión en carteles y publicaciones para difusión del acto.
    – Su compromiso en la promoción y difusión de la iniciativa en redes locales, nacionales e internacionales.
    – El acceder a la información y materiales relacionados con la Marcha.
    – La facilitación de la toma de contacto con cualesquiera otros de los miembros incorporados a la red.
    – Asumir las directrices de las personas que conforman la organización de los actos.

    Os esperamos el próximo 3 de febrero en Ceuta.

    Redes de la Organización de la marcha:
    E-mail: marcha.tarajal@gmail.com
    Facebook: @marcha.tarajal
    Instagram: @marcha.tarajal
    Twitter: @marchatarajal
    ____________________________
    «10 YEARS DEMANDING TRUTH, JUSTICE AND REPARATION.»

    The XI MARCH FOR DIGNITY is an act in memory of the people whose lives were taken on the morning of February 6, 2014 on the beach of Tarajal, but it is also an act of denunciation for all the people whose lives are taken away from them due to the lack of legal and safe ways to migrate.

    Collectives and organizations wishing to join the XI MARCH FOR DIGNITY must complete the following form. This will involve the following commitment:

    / Their inclusion as a signatory organization in the manifesto that will be read at the end of the march.
    / Their inclusion in posters and publications for the dissemination of the event.
    / Your commitment in the promotion and dissemination of the initiative in local, national and international networks.
    / Access to information related to the march.
    / Facilitating contact with any other members of the network.
    / Assuming the guidelines of the Associations organizing the events.

    We look forward to seeing you on February 3th.

    Social networks of the March Organisation:
    E-mail: marcha.tarajal@gmail.com
    Facebook: @marcha.tarajal
    Instagram: @marcha.tarajal
    Twitter: @marchatarajal
    ____________________________
    «10 ANS D’EXIGENCE DE VÉRITÉ, DE JUSTICE ET DE RÉPARATION».

    La 11e MARCHE POUR LA DIGNITÉ est un acte en mémoire des personnes dont la vie a été arrachée le matin du 6 février 2014 sur la plage de Tarajal, mais c’est aussi un acte de dénonciation pour toutes les personnes dont la vie leur est enlevée en raison de l’absence de moyens légaux et sûrs de migrer.

    Les collectifs et organisations qui souhaitent se joindre à la 11ème MARCHE POUR LA DIGNITÉ doivent remplir le formulaire suivant. Cela implique l’engagement suivant :

    / Leur inclusion en tant que signataire dans le manifeste qui sera lu à la fin de la marche.
    / Leur inclusion sur les affiches et les publications pour faire connaître l’événement.
    / Votre engagement à promouvoir et à diffuser l’initiative dans les réseaux locaux, nationaux et internationaux.
    / Accès aux informations relatives à la marche.
    / Faciliter le contact avec l’un des autres membres du réseau.
    / Assumer les directives des associations qui organisent les événements.

    Nous vous attendons le 3 février.

    Réseaux sociaux de l’organisation de la mache :
    E-mail: marcha.tarajal@gmail.com
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    Instagram: @marcha.tarajal
    Twitter: @marchatarajal

    #commémoration #commémoraction #asile #migrations #réfugiés #Ceuta #Maroc #Espagne #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #2024 #dignité #justice #vérité #mémoire

    • A 10 anni dalla strage del Tarajal la XI Marcha por la dignidad

      Sono passati 10 anni dalla strage del Tarajal a Ceuta, l’enclave spagnola in Marocco. Quella tragica mattina del 6 febbraio del 2014 un gruppo molto numeroso di migranti (circa 300) prova ad entrare a Ceuta a nuoto, attraverso la spiaggia di Tarajal. La Guardia Civil cerca di fermarli, sparando pallottole di gomma e fumogeni molto vicino alle persone che si trovano in acqua. Alcuni testimoni affermano che vengono lanciati proprio sulle persone, molte delle quali galleggiano a fatica. Gli agenti sparano anche quasi duecento colpi a salve. Si diffonde il panico in acqua. Muoiono 15 persone e altri rimangono feriti.

      Per ricordare questa strage e la brutalità del regime delle frontiere ogni anno a Ceuta si svolge una manifestazione, la Marcha por la Dignidad, un atto in memoria delle persone che sono state uccise, ma anche di denuncia per tutte le persone che vengono uccise a causa della mancanza di vie legali e sicure per migrare. Quest’anno sarà sabato 3 febbraio.

      «Quanto accaduto il 6 febbraio 2014 è un chiaro esempio di razzismo di Stato. È nostro dovere antirazzista sapere cosa sta accadendo al confine meridionale spagnolo, dare eco e denunciare le flagranti violazioni dei diritti umani che vi si verificano» – scrivono dalle pagine della Marcha – «anno dopo anno, manteniamo viva la fiamma della memoria e continuiamo a denunciare le politiche migratorie europee che causano morte».

      La giornata di mobilitazione, che ha raccolto oltre 220 adesioni, è organizzata in due momenti. Nel pomeriggio dalle 15.15 inizierà la manifestazione che attraverserà le strade di Ceuta da Plaza de Los Reyes per raggiungere la spiaggia della strage. Nella tarda mattinata, alle 11.30 nella Sala delle Assemblee dell’IES ABYLA di Ceuta, la tavola rotonda in cui interverranno Patuca Fernández, Viviane Ogou e Mouctar Bah (l’incontro sarà trasmesso in diretta qui).

      «La logica razziale e coloniale ha determinato le politiche migratorie dell’Europa. I confini di Ceuta e Melilla stabiliscono una divisione tra coloro che sono considerati persone e coloro che non lo sono», spiegava nella tavola rotonda del 2023, Youssef M. Ouled, giornalista specializzato in razzismo istituzionale e sociale.
      «Ricordiamo il Tarajal ma parliamo di altre stragi. Quello che è successo nel 2014 non è qualcosa di aneddotico ma sistematico», ha sottolineato.

      Sono tante, troppe, le date che rappresentano purtroppo i punti più alti del razzismo e della violenza delle frontiere. Fra meno di un mese sarà passato un anno dal 26 febbraio 2023, giorno in cui 94 persone (34 di loro erano bambine/i) sono morte a soli 150 metri dalla spiaggia di Steccato di Cutro in Calabria: non una fatalità come le istituzioni vogliono far credere, ma un eccidio per omissione di soccorso diventato legge. Anche a Cutro, dopo un anno, si tornerà a manifestare ancora al fianco dei familiari e dei superstiti per non dimenticare e continuare a chiedere verità e giustizia.

      https://www.youtube.com/watch?v=g5fGZLGBVSg


      https://www.meltingpot.org/2024/02/a-10-anni-dalla-strage-del-tarajal-la-xi-marcha-por-la-dignidad

    • En 2023...

      Tarajal. Il dovere della memoria per tutte le vittime di frontiera

      Fare memoria non riguarda solo il ricordo, ma costituisce un atto politico e uno strumento di lotta per la verità e il riconoscimento delle responsabilità

      A Ceuta, enclave spagnolo situato a nord nel continente africano, centinaia di persone, tra attivistə e giovani migranti, continuano la Marcha por la Dignidad che da nove anni percorre l’intera cittadina lungo la linea che divide la Spagna dal Marocco per raggiungere la spiaggia del Tarajal dove, il 6 febbraio 2014 furono assassinate oltre 15 persone di origine sub-sahariana delle 300 che tentavano di attraversare il confine a nuoto.

      Quella mattina, all’alba di un’ennesima violenza razzista e coloniale, la Guardia Civil spagnola non solo sparò contro di loro proiettili di gomma per impedire che raggiungessero la costa, provocandone l’annegamento, ma eluse ogni tipo di soccorso delle persone in difficoltà e il recupero dei corpi in mare.

      Alla Frontera Sur sono trascorsi nove anni di impunità, nove anni di ingiustizia e violenza perpetrata verso le vittime di quella tragedia e contro tutte coloro che ogni giorno sfidano una delle frontiere più ineguali al mondo. Vigile e repressiva in modo sempre più assiduo sulle persone che da diversi paesi dell’Africa tentano l’attraversamento per mare e per terra della valla di filo spinato che separa i due continenti.

      Se è vero che nel Mediterraneo è iniziata l’Europa, altrettanto certo è che nel Mediterraneo stesso si esaurisce, tra le colonne di un mito che non ha più eroi ma esseri umani in cerca di sogni brutalmente lacerati. Uomini e donne disumanizzate affinché il fardello di colpe e responsabilità trainato da secoli di imperialismo e gerarchie di potere – ben oltre la colonialità storica – alleggerisca il suo peso.

      «Esistono due morti: quella fisica e quella ermeneutica» ha affermato Patuca Fernandez, l’avvocata di Coordinadora de barrios che prese in carico il caso del Tarajal, nel suo intervento sul dovere della memoria delle vittime di frontiera 1

      La prima costituisce quella biologica mentre la seconda riguarda quella inflitta dal processo di normalizzazione e di riduzione o perdita di rilievo del crimine che l’ha provocata. Un criminale non solo uccide la vittima ma impiega ogni sforzo necessario per trovare forme strategiche di ridurre la carica penale che ricadrebbe sui crimini commessi.

      È il modus operandi di una più profonda logica razziale che tende a interiorizzare e disumanizzare le persone migranti per normalizzare la violenza e gli abusi a loro inflitti.

      Ma queste morti non sono occasionali, né tanto meno naturali. Sono sistematiche e strutturali, legittimate da una necropolitica razzista in quanto applicata esclusivamente sulle persone che provengono da territori direttamente o indirettamente vincolati alle (ex)colonie, mediante accordi in materia di sicurezza e criminalizzazione applicata sulla base della propria origine.

      Ad oggi questo crimine resta ancora impunito, sotto la responsabilità di nessuno se non delle vittime stesse, profanate non soltanto in vita ma calpestate nella propria dignità in morte e in quella dei familiari, privati di verità e di giustizia, del diritto al dolore, al lutto, al risarcimento e alla non ripetizione.

      Fare memoria non riguarda solo il ricordo, ma costituisce un atto politico e uno strumento di lotta per la verità e il riconoscimento delle responsabilità.

      Puntare lo sguardo indietro ha un significato estremamente potente per quanto accade nel presente, e dare contenuto a quel passato che continua sistematicamente a ripetersi. Fare memoria vuol dire far conoscere la realtà di quanto accade ed esigere giustizia per ogni vittima di frontiera.

      «Ricordiamo il Tarajal ma parliamo di altre stragi», ha affermato Youssef M.Ouled, giornalista specializzato in razzismo istituzionale e sociale. «Quello che è successo nel 2014 non è qualcosa di aneddotico ma sistematico», ha continuato ricordando quanto accaduto di recente a Melilla2. Se cambiassero il luogo e la data, l’evidenza della violenza delle frontiere, esterne ed interne al Paese, sarebbero esattamente le medesime.

      https://www.youtube.com/watch?v=4HayyEDFaSc

      Tra le vittime più recenti, Moussa Sylla, espulso dal Ceti (Centro di residenza temporanea per migranti) di Ceuta dove era stato accolto al suo arrivo in territorio spagnolo lo scorso dicembre 2022. Moussa ha dovuto lasciare il centro senza però avere un altro luogo dove andare, allontanato come tanti altri minori che arrivano soli e finiscono abbandonati a sé stessi e alla disperazione. Fino allo scorso 26 gennaio era rimasto davanti alla porta dello stabilimento per chiedere di entrare. Sotto pioggia e freddo supplicava ripetutamente di non esser rilegato al margine ancora una volta. Ma non è stato ascoltato. Espulso dallo Stato che difende le frontiere anziché proteggere le persone, Moussa si è impiccato ad un albero dinanzi le porte dello stabilimento.

      Le colonne di Ercole, erette una di fronte all’altra nello stretto di Gibilterra, non sono più elemento di connessione ed unione tra due mondi inesplorati di un Ulisse che dal suo viaggio fa ritorno in patria. Le colonne dello stretto sono una stretta sul popolo in movimento indesiderato, una strategia ulteriore di chiusura all’Altro per cui l’hospes si è risolto in hostis.

      In questo incrocio di acque – Atlantico e Mediterraneo – e di terre, l‘Europa dall‘Africa, sorge l’inquietudine di una frontiera in cui i paesi e gli uomini non solo stanno di fronte ma sul fronte, in prima linea di guerra, per fronteggiarsi ed ispezionarsi.

      E’ al grido di «Basta violenza alle frontiere» che accompagniamo la marcia di commemor-azione che da nove anni si batte contro l’impunità che vige sul caso: l’inchiesta giudiziaria aperta, che stava per mettere al banco per omicidio colposo 16 guardie civili (scampate applicando la ‘dottrina Loot’), è stata definitivamente archiviata dalla Corte Suprema nel giugno dello scorso anno. La Corte Costituzionale sta ancora studiando se accogliere o meno i ricorsi presentati da diverse organizzazioni non governative e per conto delle famiglie delle vittime (a cui non è stato nemmeno permesso di recarsi in Spagna) per violazione dei loro fondamentali diritti alla vita, protezione giudiziaria effettiva e integrità morale, come indicato nelle dichiarazioni dell’avvocata Fernández.

      In memoria di Roger, Yves, Samba, Larios, Daouda, Luc, Youssouf, Armand, Ousmane, Keita, Jeannot, Oumarou, Blasie e le altre persone non identificate, continuiamo ad esigere che si faccia giustizia, che venga riconosciuta la responsabilità dei crimini di frontiera e garantire equi diritti a tutte le persone senza condizione alcuna.

      https://www.meltingpot.org/2023/02/tarajal-il-dovere-della-memoria-per-tutte-le-vittime-di-frontiera

    • La tomba 147 e l’instancabile lotta di giustizia per la strage del Tarajal

      Ceuta, 10 anni dal 6 febbraio 2014

      Nei tranquilli e placidi passaggi del cimitero di Santa Catalina a Ceuta, situato nel cortile di Santa Beatriz de Silva, c’è un corridoio infinito fiancheggiato da due file di lapidi, in cui si può scoprire un enigmatico labirinto di marmo. È adornato da nomi, cognomi e ornamenti che evocano la memoria di coloro che non ci sono più. Oltre questa fila, nel punto più alto, si trovano tombe meticolosamente numerate, sigillate nel freddo abbraccio del cemento. Questi loculi sono privi di nomi o vasi di fiori che ricordano le anime che riposano al loro interno. Guardando dall’altra parte dello stretto, si vedono le tombe dei migranti che sono morti nel tentativo di raggiungere la spiaggia di Tarajal a Ceuta e di altri che hanno subito lo stesso destino. Si tratta di tombe anonime. Qui giacciono cinque delle quindici persone che, il 6 febbraio 2014, hanno cercato di raggiungere a nuoto la spiaggia di Tarajal a Ceuta, situata al confine tra Marocco e Spagna.
      Ostacoli all’identificazione dei corpi delle vittime di Tarajal

      Solo il corpo di Nana Roger Chimie, un giovane camerunense, è stato identificato; gli altri resti sepolti nel sito rimangono non identificati, nonostante gli sforzi delle famiglie e degli avvocati di Samba, Larios e Ussman Hassan per chiarire l’identità dei corpi trovati dopo il ritrovamento di Nana, che giacciono sepolti lì.

      Patricia Fernández Vicent, avvocata della Coordinadora de Barrios, conferma che «Nana è stato identificato perché il suo corpo è stato ritrovato solo due giorni dopo i fatti e grazie agli oggetti personali che portava con sé quando ha cercato di attraversare il mare per raggiungere la Spagna. Inoltre, le sue condizioni hanno permesso di verificare le sue impronte digitali con i database camerunesi. Roger riposa nella tomba numero 147», che si distingue solo per la data e l’iscrizione: “Tarajal 6-2-14“.

      L’identità degli altri rimane un mistero. L’avvocata aggiunge: «Abbiamo chiesto al tribunale il test del DNA, ma è stato rifiutato in quanto non necessario per chiarire i fatti, quindi non è mai stato effettuato». C’è anche un quinto corpo la cui identità rimane sconosciuta, poiché non è stato fatto alcun tentativo formale di identificarlo.

      A distanza di dieci anni, le famiglie delle vittime sono ancora in cerca di giustizia e lottano senza sosta per ottenere il permesso di recarsi a Ceuta per identificare i loro cari. Tuttavia, il governo spagnolo ha ripetutamente negato i visti necessari per verificare se i resti appartengono a qualcuno dei parenti ancora dispersi.

      A tre anni dagli eventi, le famiglie delle vittime del Tarajal erano state ascoltate dal Congresso dei Deputati, in coincidenza con l’anniversario. Una dozzina di padri, madri, fratelli e sorelle di coloro che morirono sulla spiaggia di Ceuta avevano partecipato a un atto commemorativo in videoconferenza. «Vogliamo che sia fatta giustizia, vogliamo che la loro morte non rimanga impunita», aveva esclamato la madre di uno dei giovani morti di Douala, in Camerun, durante il tributo.

      Le famiglie dei giovani deceduti continuano a chiedere di conoscere la verità su quanto accaduto, chiedendo giustizia affinché queste morti non rimangano dimenticate e senza responsabilità. «Stavano solo cercando una vita migliore per le loro famiglie», ha detto un membro della famiglia.
      Dieci anni senza responsabilità

      A dieci anni dalle morti e dopo otto anni di procedimenti giudiziari, il caso non è ancora arrivato al processo, essendo stato archiviato tre volte dal giudice istruttore. La vicenda giudiziaria del caso Tarajal è stata complessa e prolungata. È iniziata nel febbraio 2015 quando il Tribunale di Ceuta ha convocato 16 agenti di polizia, con le Ong CEAR, Coordinadora de Barrios e Observatori DESC che hanno agito come parti civili.

      Nelle prime due istanze di archiviazione, nel 2015 e nel 2018, il giudice ha concluso che erano stati compiuti tutti i passi investigativi possibili, senza trovare prove di attività sanzionabile nei confronti dei 16 agenti della Guardia Civil coinvolti negli eventi di quella mattina del febbraio 2014. Tuttavia, il Tribunale Provinciale di Ceuta ha ribaltato entrambe le decisioni nel 2017 e nel 2018, incaricando il giudice di identificare i cinque deceduti e di raccogliere le dichiarazioni dei sopravvissuti. Nell’ottobre 2017, la Corte europea dei diritti umani ha condannato la Spagna per pratiche simili a Melilla.

      Il caso è stato nuovamente chiuso nel gennaio 2018, ma dopo i ricorsi, nell’agosto 2018, il Tribunale Provinciale di Cadice ha deciso di riaprire il caso, sottolineando le inadeguatezze dell’indagine. Nel settembre 2019, 16 agenti della Guardia Civil sono stati processati, ma il fascicolo è stato chiuso per la terza volta nell’ottobre 2019, provocando ulteriori ricorsi. Il Tribunale Provinciale di Cadice ha respinto i ricorsi nel luglio 2020.

      Le Ong hanno presentato un ricorso in Cassazione alla Corte Suprema, che è stato respinto nel maggio 2022. Nel luglio 2022 è stato presentato un ricorso per amparo alla Corte Costituzionale 1. Infine, nel giugno 2023, la Corte Costituzionale ha ammesso il ricorso per amparo, aprendo la possibilità di stabilire una dottrina costituzionale che protegga i diritti dei migranti alle frontiere.

      Nonostante si tratti di uno dei casi più mediatici degli ultimi anni, né i giudici né i pubblici ministeri si sono pronunciati pubblicamente durante il processo, limitandosi a fare riferimento alle ordinanze e ai documenti inviati alle parti. Una fonte giudiziaria ha spiegato a questo corrispondente che “si trattava di un caso insolito, in quanto era la prima volta che si trovavano di fronte a un gruppo di assalto marittimo“. Inoltre, ha sottolineato che le questioni legali sono complicate, in quanto bisogna stabilire “se c’è una responsabilità condivisa per i crimini sconsiderati e qual è stata la partecipazione specifica di ciascuna guardia civile“. Questo perché le sanzioni non possono essere applicate a gruppi, il che solleva questioni di natura strettamente legale.

      Cosa è successo nelle prime ore del 6 febbraio 2014 sulla spiaggia di Tarajal a Ceuta

      Nelle prime ore del 6 febbraio 2014, circa 400 persone hanno tentato di attraversare la barriera di confine che separa il Marocco dall’Europa. La Guardia Civil, dispiegata lungo l’intero perimetro del confine, ha cercato di impedire al gruppo di entrare a Ceuta utilizzando attrezzature antisommossa, proiettili di gomma, gas lacrimogeni e detonazioni acustiche.

      Almeno 15 persone sono state uccise e molte altre gravemente ferite. Coloro che sono sopravvissuti e sono riusciti a raggiungere il lato spagnolo della spiaggia di Tarajal sono stati immediatamente rispediti in Marocco. La mattina successiva furono ritrovati 14 corpi, 5 in Spagna e 9 in Marocco. Ufficialmente, 23 persone sono state riportate in Marocco e solo una persona è stata dichiarata dispersa.

      Secondo le ONG coinvolte nell’accusa popolare contro le guardie civili, “molte testimonianze di sopravvissuti e testimoni, insieme ai video ufficiali rilasciati dalla Guardia Civil, dimostrano che la delegazione governativa a Ceuta era a conoscenza in ogni momento dell’attivazione del livello massimo di allerta, che prevedeva la mobilitazione di varie unità della Guardia Civil dotate di attrezzature anti-sommossa“. L’allerta è stata attivata per impedire al gruppo di circa 400 persone di entrare in territorio spagnolo. Si trattava di coloro che erano riusciti a eludere i controlli delle forze marocchine nei boschi vicino al confine con Ceuta e a raggiungere la spiaggia, nella zona marocchina, dove si sono gettati in mare. Secondo i testimoni, circa 1.500 persone, per lo più africani subsahariani, hanno cercato di entrare in Europa quella mattina, ma solo 400 sono riusciti ad avvicinarsi.

      La Guardia Civil ha affrontato il gruppo in assetto antisommossa mentre nuotava verso la riva, lanciando candelotti fumogeni e palle di gomma dal frangiflutti. Questa azione non è stata inizialmente riconosciuta dal delegato del governo, Francisco Antonio González, e successivamente dal direttore generale della Guardia Civil, Arsenio Fernández de Mesa, che ha negato l’uso di materiale antisommossa in acqua, attribuendo la responsabilità dei morti alle forze marocchine.
      Le bugie del Ministero degli Interni

      Jorge Fernández Díaz, all’epoca Ministro degli Interni, si presentò una settimana dopo al Congresso ammettendo l’uso di materiale antisommossa come deterrente, ma indicando l’acqua. Queste spiegazioni seguirono la diffusione di immagini che mostravano gli agenti della Guardia Civil utilizzare “145 proiettili di gomma e cinque candelotti fumogeni” per impedire ai migranti di raggiungere la Spagna, sparando verso la posizione in cui stavano nuotando, mentre erano inseguiti da una motovedetta marocchina. Nella stessa occasione, il ministro si è rammaricato per la morte delle 15 persone sulla spiaggia di Tarajal ma, come gli ha chiesto un deputato dell’opposizione, non si è scusato con le famiglie delle vittime in quanto capo della Guardia Civil.

      Il Segretario di Stato per la Sicurezza, Francisco Martínez, al Congresso, ha dichiarato che nessuno dei giovani che hanno raggiunto la riva spagnola è rimasto ferito e che la Guardia Civil ha sparato solo mentre erano ancora in acque marocchine, attenuando l’azione dal frangiflutti. Tuttavia, sono sorte delle domande: “Perché nessuno ha cercato di salvare le persone che stavano annegando? Perché non sono stati allertati i soccorsi marittimi e la Croce Rossa?“.

      Il governo del PP, attraverso il ministro, ha ufficializzato la sua versione dei fatti e ha respinto la richiesta di aprire una commissione d’inchiesta richiesta dall’opposizione, approfittando della maggioranza assoluta di cui godeva nel 2014. Ma le registrazioni e gli audio forniti delle comunicazioni tra gli agenti e il COS mettono in dubbio la versione di Martínez. In una delle comunicazioni, gli agenti hanno avvertito della presenza di migranti che nuotavano e hanno chiesto istruzioni: “Dobbiamo fermarli?“. Dalla centrale operativa hanno risposto con incertezza: “Non sono sicuro, almeno cerchiamo di fermarli dall’avanzare, si stanno dirigendo verso Ceuta“. La risposta è stata: “Non è possibile, hanno attraversato da dietro e l’unica opzione era catturarli o lasciarli proseguire“. Le contraddizioni del delegato del governo a Ceuta e del direttore della Guardia Civil sono venute alla luce, mettendo a nudo la leadership del Ministero degli Interni. Nessuno si è dimesso.

      Persino il presidente del governo della città autonoma, Juan Jesús Vivas, si è spinto a definire “miserabili” sul suo account Facebook le organizzazioni che hanno accusato direttamente le guardie civili di essere responsabili delle morti. L’Ong Caminando Fronteras ha pubblicato un rapporto che includeva i referti delle ferite e le testimonianze dei sopravvissuti, tutti sono concordi nell’affermare che i proiettili di gomma erano diretti contro i migranti. Dopo essere venuto a conoscenza del rapporto, Francisco Antonio González ha consigliato alle guardie civili di sporgere denuncia contro l’organizzazione.
      Il vescovo di Tangeri critica l’azione della Guardia Civil

      L’arcivescovo emerito di Tangeri, Santiago Agrelo, ha criticato le azioni della Guardia Civil durante gli eventi del 6 febbraio 2014 a il Tarajal. “Quel giorno, quei giovani non si sono gettati in acqua contro nessuno: cercavano solo un futuro migliore, al quale sicuramente avevano diritto almeno quanto me“. Ha sottolineato la responsabilità delle forze dell’ordine, affermando che “le forze dell’ordine del Regno di Spagna hanno fatto tutto ciò che era in loro potere per impedire a quei giovani di raggiungere la spiaggia, un fatto che non solo è stato riconosciuto ma anche rivendicato: hanno fatto ciò che dovevano fare“.

      Nessuno si è assunto la responsabilità e nessuno sa chi abbia dato l’ordine di autorizzare gli agenti spagnoli ad agire sulla spiaggia di Tarajal. A distanza di dieci anni, nessuno a nome dello Stato spagnolo si è scusato con le famiglie delle vittime di quella fatidica mattina del febbraio 2014. La tomba 147 nel cimitero di Ceuta rimarrà in silenzio.

      La mattina di domenica 4 febbraio, la tomba di Roger Nana è stata resa dignitosa. L’associazione ELIN, la Coordinadora de Barrios e alcuni attivisti hanno dedicato un poster che è stato collocato sulla tomba di Nana. Dopo un breve funerale, Javier Baeza, presidente dell’organizzazione di Madrid, ha dedicato alcune parole di omaggio alle vittime. Le altre tombe sono già segnate come “persona non identificata 6 febbraio 2014“.

      https://www.meltingpot.org/2024/02/la-tomba-147-e-linstancabile-lotta-di-giustizia-per-la-strage-del-taraja

      #responsabilité

    • #Ceuta: di tutte le stragi, una Memoria Mediterranea

      A dieci anni dalla strage del Tarajal, in cui furono uccise almeno 14 persone nel tentativo di raggiungere la Spagna a nuoto, Ceuta, l’enclave spagnola in Marocco, continua a essere tra le frontiere più violente del regime necropolitico europeo: il mare da un lato, la valla di concertina tagliente dall’altro, sistematicamente iper vigilati e militarizzati per impedire il transito delle persone verso l’Europa. Luogo di incessante approccio securitario, Ceuta, come Melilla, in territorio nordafricano, è da anni scenario di morte e negazione della vita umana, non solo delle persone che tentano di sfidarlo ma di tutte coloro che restano dall’altro lato in attesa di verità sui propri familiari.

      Sono trascorsi 10 anni di silenzio sul massacro del Tarajal, quando, all’alba del 6 febbraio 2014, la Guardia Civil spagnola sparava brutalmente centinaia di proiettili di gomma contro un gruppo di oltre 300 persone migranti di origine sub – sahariana provocandone la morte per annegamento e omettendo il loro soccorso e il recupero dei corpi. Decine di persone sono annegate davanti allo sguardo inerme delle guardie che ad oggi continuano impunemente a perpetrare violenza e repressione contro le persone migranti direttamente coinvolte e contro le famiglie a cui viene negato l’accesso per poter raggiungere l’Europa e cercarli.

      Le persone che tentano di varcare il confine al costo della propria vita, vengono sottoposte a ripetute umiliazioni e procedure di controllo, trattenimento e maltrattamento propedeutiche allo smistamento e alla loro espulsione, sorte di cui spesso le famiglie rimangono ignare e lontane dalle possibilità di richiesta per verità e giustizia dai territori di origine.

      Dal massacro, il governo spagnolo ha ripetutamente respinto la richiesta dei visti ai familiari delle persone disperse e il prelievo del DNA dai resti recuperati affinché procedessero con l’eventuale identificazione dei corpi, ignorando di fatto la loro richiesta di giustizia e verità.

      Infatti, il caso del 6 febbraio fu ripetutamente archiviato dalle responsabilità di una ennesima strage di Stato, riaperto successivamente e in corso di risoluzione, solo lo scorso giugno 2023, grazie alla pressione delle stesse persone sopravvissute e delle famiglie, alle avvocate e attiviste solidali che con loro sostengono la rivendicazione contro la negazione politica della vita e della morte.

      In accordo con il Marocco – da Rajoy e i successori fino all’attuale Sanchez – lo Stato spagnolo ribadisce da decenni il proprio compromesso sul controllo bilaterale della frontiera elogiando l’impegno sempre più mirato all’esternalizzazione della frontiera sul territorio marrocchino in un’ottica di governance migratoria, disattendendo i principi democratici e i diritti di libertà e dignità per la vita delle persone migranti, in fuga da altrettante situazioni di violenze ed abuso, spesso dipese dalla onerosa precarizzazione economica.

      In questo senso, la violenza di cui Ceuta si fa testimone, la medesima che interessa Melilla e la rotta canaria in Spagna o i luoghi in cui vige la procedura di frontiera sull’intero suolo europeo – da Lampedusa a Ventimiglia e lungo i Balcani – non è rappresentata da “ assalti” ed “invasioni” illegali come mediaticamente cerca di strumentalizzare la difesa politica, ma insita nella rimozione sistematica del diritto a partire, a circolare ed arrivare liberamente, alla possibilità per tutte e tutti di avere riconosciuta un’identità ante e post mortem, il diritto a sapere e al lutto.

      Accordi con paesi terzi come il Marocco, esattamente come accade tra Italia e Libia e Tunisia, ledono ogni diritto umano, in primis quello alla vita, abusata e fatta prigioniera dietro e dentro le mura di cinta, potenziate nel meccanismo di controllo e respingimento in mare, nei dispositivi detentivi e di sorveglianza dei centri per il rimpatrio (In Spagna C.I.E.), luoghi di trattenimento forzato e punitivo senza alcuna condanna, dove però non si spengono manifestazioni per la libertà e la liberazione dalle persone trattenute e recluse, in protesta anche in questi giorni dai vari centri in Italia a seguito del suicidio di Stato di Ousmane Sylla .

      La strage di Tarajal è l’espressione di quanto accade ogni giorno da anni in cui impunità, ingiustizia e violenza assumono le sembianze della lotta alla criminalità e alla sicurezza nazionale. Massacri senza giustizia, tombe senza nome, corpi senza volto, morti senza corpo, non sono che l’espressione ultima.

      Ma non l’unica.

      Alla Frontera Sur, una ‘Marcha por la Dignidad’, organizzata da centinaia di persone migranti, familiari, attivisti e diverse organizzazioni solidali, tra cui @Caravana Abriendo Fronteras e @CarovaneMigranti, continua da 10 anni a reclamare ed esigere verità e giustizia per tutte le persone morte nel massacro di Ceuta e per tutte coloro che muoiono e scompaiono per mano della indifferente violenza sistemica di un regime politico mortifero che vigila e reprime le persone migranti alle frontiere interne ed esternalizzate.

      Anche quest’anno la Marcha, partita dalla sede della Delegazione del Governo di Ceuta, ha raggiunto la spiaggia del Tarajal, dove la commemorazione diviene strumento di lotta non solo per ricordare il Tarajal ma per parlare di tutte le ennesime stragi che si ripetono. Quanto accaduto nel 2014 non è qualcosa di aneddotico ma rigorosamente sistematico, lo abbiamo visto a Melilla, a Nador, ad Ouija, in Tunisia, in Sicilia, a Cutro. Tante, troppe e ininterrotte stragi, in altrettante date del calendario, si verificano nel silenzio politico di turno.

      Ma la lotta per la Memoria viva è un riscatto mediterraneo che unisce la rabbia per trasformare il dolore in un grido collettivo per ogni Memoria negata e inabissata che vive attraverso chi può raccontare, dalle lotte familiari e collettive.

      A dieci anni dalla strage di Ceuta, per tutte le stragi invisibili di cui non si racconta, per ogni persona coinvolta in un massacro rimosso, continuiamo a tessere un’unica Memoria Mediterranea, quella praticata tutti i giorni come strumento di denuncia e di ricerca di giustizia, custode di dignità e resistenza.

      Non lasceremo il Mediterraneo agli abissi, ce ne impossessiamo senza timore per combattere dove si combatte, per elevare la voce dove si protesta, per piantare dove si cerca di seppellire.

      Tarajal, no olvidamos!

      https://memoriamediterranea.org/ceuta-di-tutte-le-stragi-una-memoria-mediterranea
      #mémoire_méditerranéenne

  • #José_Vieira : « La #mémoire des résistances face à l’accaparement des terres a été peu transmise »

    Dans « #Territórios_ocupados », José Vieira revient sur l’#expropriation en #1941 des paysans portugais de leurs #terres_communales pour y planter des #forêts. Cet épisode explique les #mégafeux qui ravagent le pays et résonne avec les #luttes pour la défense des #biens_communs.

    Né au Portugal en 1957 et arrivé enfant en France à l’âge de 7 ans, José Vieira réalise depuis plus de trente ans des documentaires qui racontent une histoire populaire de l’immigration portugaise.

    Bien loin du mythe des Portugais·es qui se seraient « intégré·es » sans le moindre problème en France a contrario d’autres populations, José Vieira s’est attaché à démontrer comment l’#immigration_portugaise a été un #exode violent – voir notamment La Photo déchirée (2001) ou Souvenirs d’un futur radieux (2014) –, synonyme d’un impossible retour.

    Dans son nouveau documentaire, Territórios ocupados, diffusé sur Mediapart, José Vieira a posé sa caméra dans les #montagnes du #Caramulo, au centre du #Portugal, afin de déterrer une histoire oubliée de la #mémoire_collective rurale du pays. Celle de l’expropriation en 1941, par l’État salazariste, de milliers de paysans et de paysannes de leurs terres communales – #baldios en portugais.

    Cette #violence étatique a été opérée au nom d’un vaste #projet_industriel : planter des forêts pour développer économiquement ces #territoires_ruraux et, par le même geste, « civiliser » les villageois et villageoises des #montagnes, encore rétifs au #salariat et à l’ordre social réactionnaire de #Salazar. Un épisode qui résonne aujourd’hui avec les politiques libérales des États qui aident les intérêts privés à accaparer les biens communs.

    Mediapart : Comment avez-vous découvert cette histoire oubliée de l’expropriation des terres communales ou « baldios » au Portugal ?

    José Vieira : Complètement par hasard. J’étais en train de filmer Le pain que le diable a pétri (2012, Zeugma Films) sur les habitants des montagnes au Portugal qui sont partis après-guerre travailler dans les usines à Lisbonne.

    Je demandais à un vieux qui est resté au village, António, quelle était la définition d’un baldio – on voit cet extrait dans le documentaire, où il parle d’un lieu où tout le monde peut aller pour récolter du bois, faire pâturer ses bêtes, etc. Puis il me sort soudain : « Sauf que l’État a occupé tous les baldios, c’était juste avant que je parte au service militaire. »

    J’étais estomaqué, je voulais en savoir plus mais impossible, car dans la foulée, il m’a envoyé baladé en râlant : « De toute façon, je ne te supporte pas aujourd’hui. »

    Qu’avez-vous fait alors ?

    J’ai commencé à fouiller sur Internet et j’ai eu la chance de tomber sur une étude parue dans la revue de sociologie portugaise Análise Social, qui raconte comment dans les années 1940 l’État salazariste avait pour projet initial de boiser 500 000 hectares de biens communaux en expropriant les usagers de ces terres.

    Je devais ensuite trouver des éléments d’histoire locale, dans la Serra do Caramulo, dont je suis originaire. J’ai passé un temps fou le nez dans les archives du journal local, qui était bien sûr à l’époque entièrement dévoué au régime.

    Après la publication de l’avis à la population que les baldios seront expropriés au profit de la plantation de forêts, plus aucune mention des communaux n’apparaît dans la presse. Mais rapidement, des correspondants locaux et des éditorialistes vont s’apercevoir qu’il existe dans ce territoire un malaise, qu’Untel abandonne sa ferme faute de pâturage ou que d’autres partent en ville. En somme, que sans les baldios, les gens ne s’en sortent plus.

    Comment sont perçus les communaux par les tenants du salazarisme ?

    Les ingénieurs forestiers décrivent les paysans de ces territoires comme des « primitifs » qu’il faut « civiliser ». Ils se voient comme des missionnaires du progrès et dénoncent l’oisiveté de ces montagnards peu enclins au salariat.

    À Lisbonne, j’ai trouvé aussi une archive qui parle des baldios comme étant une source de perversion, de mœurs légères qui conduisent à des enfants illégitimes dans des coins où « les familles vivent presque sans travailler ». Un crime dans un régime où le travail est élevé au rang de valeur suprême.

    On retrouve tous ces différents motifs dans le fameux Portrait du colonisé d’Albert Memmi (1957). Car il y a de la part du régime un vrai discours de colonisateur vis-à-vis de ces régions montagneuses où l’État et la religion ont encore peu de prise sur les habitants.

    En somme, l’État salazariste veut faire entrer ces Portugais reculés dans la modernité.

    Il y a eu des résistances face à ces expropriations ?

    Les villageois vont être embauchés pour boiser les baldios. Sauf qu’après avoir semé les pins, il faut attendre vingt ans pour que la forêt pousse.

    Il y a eu alors quelques histoires d’arrachage clandestin d’arbres. Et je raconte dans le film comment une incartade avec un garde forestier a failli virer au drame à cause d’une balle perdue – je rappelle qu’on est alors sous la chape de plomb du salazarisme. D’autres habitants ont aussi tabassé deux gardes forestiers à la sortie d’un bar et leur ont piqué leurs flingues.

    Mais la mémoire de ces résistances a peu été transmise. Aujourd’hui, avec l’émigration, il ne reste plus rien de cette mémoire collective, la plupart des vieux et vieilles que j’ai filmés dans ce documentaire sont déjà morts.

    Comment justement avez-vous travaillé pour ce documentaire ?

    Quand António me raconte cette histoire d’expropriation des baldios par l’État, c’était en 2010 et je tournais un documentaire, Souvenirs d’un futur radieux. Puis lorsqu’en 2014 un premier incendie a calciné le paysage forestier, je me suis dit qu’il fallait que je m’y mette.

    J’ai travaillé doucement, pendant trois ans, sans savoir où j’allais réellement. J’ai filmé un village situé à 15 kilomètres de là où je suis né. J’ai fait le choix d’y suivre des gens qui subsistent encore en pratiquant une agriculture traditionnelle, avec des outils de travail séculaires, comme la roue celte. Ils ont les mêmes pratiques que dans les années 1940, et qui sont respectueuses de l’écosystème, de la ressource en eau, de la terre.

    Vous vous êtes aussi attaché à retracer tel un historien cet épisode de boisement à marche forcée...

    Cette utopie industrialiste date du XIXe siècle, des ingénieurs forestiers parlant déjà de vouloir récupérer ces « terres de personne ». Puis sous Salazar, dans les années 1930, il y a eu un débat intense au sein du régime entre agrairistes et industrialistes. Pour les premiers, boiser ne va pas être rentable et les baldios sont vitaux aux paysans. Pour les seconds, le pays a besoin de l’industrie du bois pour décoller économiquement, et il manque de bras dans les villes pour travailler dans les usines.

    Le pouvoir central a alors même créé un organisme étatique, la Junte de colonisation interne, qui va recenser les baldios et proposer d’installer des personnes en leur donnant à cultiver des terres communales – des colonies de repeuplement pour résumer.

    Finalement, l’industrie du bois et de la cellulose l’a emporté. La loi de boisement des baldios est votée en 1938 et c’est en novembre 1941 que ça va commencer à se mettre en place sur le terrain.

    Une enquête publique a été réalisée, où tout le monde localement s’est prononcé contre. Et comme pour les enquêtes aujourd’hui en France, ils se sont arrangés pour dire que les habitants étaient d’accord.

    Qu’en est-il aujourd’hui de ces forêts ? Subsiste-t-il encore des « baldios » ?

    Les pinèdes sont exploitées par des boîtes privées qui font travailler des prolos qui galèrent en bossant dur. Mais beaucoup de ces forêts ont brûlé ces dernière décennies, notamment lors de la grande vague d’incendies au Portugal de 2017, où des gens du village où je filmais ont failli périr.

    Les feux ont dévoilé les paysages de pierre qu’on voyait auparavant sur les photos d’archives du territoire, avant que des pins de 30 mètres de haut ne bouchent le paysage.

    Quant aux baldios restants, ils sont loués à des entreprises de cellulose qui y plantent de l’eucalyptus. D’autres servent à faire des parcs d’éoliennes. Toutes les lois promues par les différents gouvernements à travers l’histoire du Portugal vont dans le même sens : privatiser les baldios alors que ces gens ont géré pendant des siècles ces espaces de façon collective et très intelligente.

    J’ai fait ce film avec en tête les forêts au Brésil gérées par les peuples autochtones depuis des siècles, TotalEnergies en Ouganda qui déplace 100 000 personnes de leurs terres pour du pétrole ou encore Sainte-Soline, où l’État aide les intérêts privés à accaparer un autre bien commun : l’eau.

    https://www.mediapart.fr/journal/culture-et-idees/021223/jose-vieira-la-memoire-des-resistances-face-l-accaparement-des-terres-ete-

    #accaparement_de_terres #terre #terres #dictature #histoire #paysannerie #Serra_do_Caramulo #communaux #salazarisme #progrès #colonisation #colonialisme #rural #modernité #résistance #incendie #boisement #utopie_industrialiste #ingénieurs #ingénieurs_forestiers #propriété #industrie_du_bois #Junte_de_colonisation_interne #colonies_de_repeuplement #cellulose #pinèdes #feux #paysage #privatisation #eucalyptus #éoliennes #loi #foncier

  • VIDEO. Vivez en accéléré le déplacement hors-norme du monument aux morts de 940 tonnes à Toulouse
    https://france3-regions.francetvinfo.fr/occitanie/haute-garonne/toulouse/video-vivez-en-accelere-le-deplacement-hors-norme-du-mo

    https://france3-regions.francetvinfo.fr/image/TWAsjz9_o_-l8RweP76t7bw-yC4/930x620/regions/2023/08/31/whatsapp-image-2023-08-31-at-12-35-23-64f09545ce4145350

    #déprime #honte #toulouse
    ça ne les dérange pas que soit détériorer des quartiers entiers historiques et vivants de Toulouse (cf Matabiau actuellement), des arbres centenaires et des maisons toulousaines classées, non plus d’avoir une politique du logement zéro et d’un urbanisme violent tout comme de faire du business immobilier sans habitants mais un monument super môche, faut ABSOLUMENT le conserver quitte à le déplacer pour le remettre après les travaux :/

    #à_nos_enfants_morts_pour_l'industrie
    #monument_moche
    #mémoire_d'infanticides
    #en_marche_arrière
    #moudenc

    L’opération a coûté près de 7 millions d’euros sur les 3,2 milliards d’euros budgétisés pour l’ensemble des travaux de la ligne C du métro.

  • #Racisme_anti-noirs dans le monde arabe : le difficile dévoilement d’un #tabou

    Le 1er juillet, #Fati_Dasso et sa fille Marie, respectivement âgées de 30 ans et de 6 ans, sont retrouvées mortes, la tête enfouie dans le sable à la frontière entre la Tunisie et la Libye. Comme des milliers de migrants venus de l’Afrique subsaharienne, elles ont été raflées, puis abandonnées dans le désert. Ce drame est survenu dans le cadre d’une campagne massive d’arrestation et d’expulsion de migrants menée par la Tunisie de Kaïs Saïed depuis le début de l’été. Interpellés et battus par les forces de police à Sfax, les migrants subsahariens sont relâchés dans le désert situé entre la Tunisie et la Libye où une morte lente et douloureuse les attend.

    L’épisode n’est malheureusement pas un fait divers isolé ni tout à fait nouveau dans la région. Le drame de cet été a focalisé l’attention sur la #Tunisie mais la question semble concerner tout le #Maghreb et même une bonne partie du monde arabe. Ainsi, en mars dernier, l’ONG Médecins sans frontières (MSF) dénonçait l’abandon de milliers de migrants subsahariens par l’Algérie à la frontière nigéro-algérienne dans des conditions « sans précédents ». En 2017 déjà, la chaîne américaine CNN révélait dans un documentaire l’existence de trafics de migrants subsahariens en Libye, non loin de la capitale Tripoli.

    Ces #violences envers les migrants s’accompagnent du déferlement d’une #parole_raciste à leur encontre, prononcée parfois jusqu’au sommet de l’Etat. Dans un discours récent, donné en février 2023, le président tunisien #Kaïs_Saïed a assimilé la présence migratoire à « une volonté de faire de la Tunisie seulement un pays d’Afrique et non pas un membre du monde arabe et islamique ». Mais ce #racisme ne concerne pas que les personnes exilées. Maha Abdelhamid, chercheuse associée au Centre arabe de recherches et d’études politiques de Paris (Carep) et cofondatrice du collectif Voix des femmes tunisiennes noires (VFTN), explique que « les #noirs sont une minorité dans les pays arabes et subissent chaque jour le racisme verbal, institutionnel, social et économique. Ils subissent un #rejet fort de leur part ». La faute, selon elle, à une #mémoire_historique encore trop peu documentée et à des #constructions_identitaires figées par le #nationalisme.

    « L’organisation économique est en partie héritière de la structure esclavagiste »

    Le maintien d’un système de #discrimination envers les personnes noires semble aller de pair avec une forme de gêne autour de la question de la #traite transsaharienne – qui concerne principalement, mais pas exclusivement des personnes d’origine subsaharienne – pratiquée du VIIe siècle jusqu’à la fin du XIXe siècle au Maghreb et au Moyen-Orient : « Parler de l’esclavage consiste à reconnaître que l’organisation économique actuelle est en partie héritière de la #structure_esclavagiste », argumente Shreya Parikh, doctorante en sociologie à Sciences-Po Paris qui travaille sur les processus de #racialisation en #Afrique_du_Nord. Elle prend ces femmes et ces hommes principalement noirs exploités dans le milieu travail agricole à #Sfax ou aux environs de #Tataouine.

    Sur le plan universitaire, des productions scientifiques autour de la #traite_arabe ont émergé ces dix dernières années, non sans difficultés. Salah Trabelsi, professeur des universités en histoire et civilisation du monde arabe et musulman à l’université de Lyon-2 évoque un colloque qu’il a coorganisé en 2009 à Tozeur et notamment consacré à l’esclavage dans le monde arabo-musulman : « Nous avons dû changer le titre en les “Interactions culturelles entre le Maghreb et l’Afrique subsaharienne” pour le faire financer », dit-il en souriant.

    A la fin de ce même colloque, aucun des intervenants – hormis l’auteur Edouard Glissant, l’historien Abdelhamid Larguèche et le professeur Trabelsi – n’ont accepté de signer une charte signalant une volonté de faire figurer l’#histoire de l’esclavage dans les #manuels_scolaires tunisiens. « L’histoire de l’esclavage n’apparaît pas dans les manuels scolaires. Dans le secondaire, il n’est pas encore possible d’aborder des faits historiques avec un positionnement critique. Ce déficit intellectuel est, en tous les cas, aggravé par un aveuglement politique et moral, reléguant les noirs au rang de citoyens de seconde zone », poursuit Salah Trabelsi.

    Les productions scientifiques ou littéraires – encore timides sur le sujet – doivent aussi faire face à des problèmes de diffusion : « Il existe un grand nombre de productions contemporaines, de romans notamment comme “l’Océan des Britanniques” [non traduit en français] de Fareed Ramadanparu à Beyrouth en 2018, qui parlent de ces questions. Bien sûr, cela touche un public restreint car tout le monde ne lit pas des romans ou des essais tirés de thèses universitaires », note M’hamed Oualdi, professeur des universités à Sciences-Po Paris et spécialiste de l’histoire du Maghreb.

    Cette éclosion difficile de la #mémoire de l’esclavage s’explique également par une vision apologétique de la traite arabe dont la #violence est minorée : « Pour se donner bonne conscience, certains vont parler “d’esclavage familial et intégrateur”, qui serait différent de la #traite_transatlantique. C’est un #déni d’histoire. Les sources nous apprennent que l’une des plus grandes révoltes de l’histoire de l’esclavage a eu lieu dans le sud de l’Irak au IXe siècle. Elle a duré un an et s’est soldée par la mort de 50 000 de personnes à deux millions de personnes. Elles travaillaient dans les marécages du sud de Bassora pour dégager le sel et revivifier les terres pour qu’elles deviennent des domaines pour l’aristocratie musulmane. On ne peut pas dire que ce n’est pas un esclavage de travail », rapporte Salah Trabelsi.

    Années 2010 : un tournant dans l’appréhension des inégalités sociales et raciales

    Par ailleurs, le tabou se maintient également par une pression religieuse : « Parlez de l’esclavage dans le monde arabe, on vous opposera l’islam, comme si l’esclavage était un fait religieux et non un phénomène social qui a perduré dans le monde arabe durant plus de quatorze siècles », explique Salah Trabelsi, avant de rappeler que la traite arabo-musulmane s’est principalement déroulée dans les régions du Moyen-Orient, de l’Afrique du Nord et de l’Afrique de l’Est. Evoquer l’esclavage qui s’est déroulé sur ces terres peut être perçu comme une remise en question du rôle de l’#islam en tant que rempart contre l’esclavage.

    Cette mémoire apparaît comme secondaire d’autant plus que les discours portant sur la nécessité de construire une #unité_arabe sont depuis les années 60 considérés comme indispensables afin de lutter contre la présence coloniale et forger une #identité politique et sociale fortes : « Les régimes nationalistes dans le monde arabe n’ont pas accepté et n’acceptent pas les divergences autour des questions identitaires car ces mêmes dissensions ont été utilisées par le régime colonial pour créer des oppositions par exemple entre arabophones et berbérophones. Depuis, toute division paraît dangereuse », explique M’hamed Ouldi. La #pensée_panarabe vient alors imposer l’idée d’une #identité_arabe forcément musulmane, invisible et imperméable à toutes reconnaissances d’une #altérité et de revendication identitaires.

    Bien qu’en marge du débat, le racisme anti-noirs n’est pourtant pas totalement ignoré. Les années 2010, grâce aux printemps arabes, ont constitué un tournant dans l’appréhension des inégalités sociales et raciales : « En Tunisie, certains ont vécu la révolution comme une opportunité pour rompre avec la #tunisianité – une identité homogène imposée par l’Etat qui n’avait laissé aucune place à ceux qui étaient minorisés », rapporte Shreya Parikh. En 2018, la Tunisie adoptait une loi inédite, la première dans le monde arabe, pénalisant la #discrimination_raciale. L’#Algérie adoptera en 2020 un dispositif législatif similaire.

    Depuis, les débats et les contestations sont principalement concentrés sur les réseaux sociaux et portés par une jeune génération : la #chasse_aux_migrants en Algérie où le meurtre en 2013 d’un Sénégalais au Maroc ont donné lieu à de vives indignations. En juin 2020, la vidéo de l’actrice et réalisatrice palestinienne noire Maryam Abou Khaled dénonçant les #discriminations_raciales dans la région, avait dépassé le million de vues.

    Au Maghreb, l’augmentation du nombre de #migrants_subsahariens ces dernières années semble avoir provoqué un effet ambivalent entre déferlement de la parole raciste – accusant les exilés d’accroître les difficultés économiques du pays – tout en permettant de lancer une discussion autour du racisme latent dans cette région du monde. Mehdi Alioua, professeur de sociologie à Sciences-Po Rabat, assume lui « une révolution épistémique » sur ces questions : « En Tunisie ou au Maroc, des débats télévisés portent sur le racisme. Dans le même temps, on constate également un backlash avec des discours réactionnaires, racistes et figés sur l’identité. C’est deux pas en avant et deux pas en arrière. »

    https://www.liberation.fr/idees-et-debats/racisme-anti-noirs-dans-le-monde-arabe-le-difficile-devoilement-dun-tabou

    #identité #esclavage

    ping @_kg_

  • Muriel Salmona, psychiatre : « Non seulement on ne fait rien pour les victimes de violences sexuelles, mais en plus on les maltraite »
    https://www.causette.fr/en-prive/mental/muriel-salmona-psychiatre-non-seulement-on-ne-fait-rien-pour-les-victimes-d


    Ils ont euthanasié une victime plutôt que de soigner son traumatisme  !!!!
    #femmes #euthanasie #culture_du_viol #santé #mort #patriarcat

    Les formations pour les violences sexuelles n’existent pas du tout dans les facultés. Cela vient à la fois du déni au sujet des violences, dont bien entendu les femmes en sont les principales victimes, et au-delà du déni, l’existence d’une culture du viol qui met systématiquement en cause les victimes et utilise les symptômes psychotraumatiques pour les retourner contre elles. Comme dans la majorité des cas, aucun lien entre le comportement de la victime et ce qu’elle a subi n’est fait, les professionnels de santé mettent souvent les victimes sous des traitements inappropriés, dissociants qui aggravent les risques d’être, de nouveau, victime de violences. Non seulement on ne fait rien pour les victimes de violences sexuelles, mais en plus on les maltraite ! Aujourd’hui, on n’a aucune garantie que ces formations existeront un jour. Le milieu médical est hyper machiste et il s’agit d’un des milieux où il y a le plus de violences sexuelles.

  • Les Rivières

    Mai Hua, femme française d’origine vietnamienne, est une mère divorcée de deux enfants. En 2013, avec sa mère, elle ramène sa grand-mère mourante en France. Alors que cette dernière renaît de manière miraculeuse, un passé non résolu refait surface : Mai devient l’héritière d’une #mémoire_familiale complexe et douloureuse qu’elle ne veut pas transmettre à sa fille. À travers cette #lignée de femmes et sa quête de vérité, la réalisatrice plonge dans une archéologie familiale à la fois intime et universelle.

    https://www.film-documentaire.fr/4DACTION/w_fiche_film/64618_0
    #film #documentaire #film_documentaire
    #histoire_familiale #femmes_maudites #malédiction #inceste #mémoire_familiale #enfants_trahis #colère #abandon

    • Espace public genevois et héritage colonial. Les esclaves de Monsieur Gallatin. Invitation

      Madame,
      Monsieur,

      La Ville de Genève a décidé d’empoigner le sujet des hommages rendus dans l’espace public - par des monuments ou des noms de rues - à des personnalités ayant encouragé le racisme, l’esclavagisme et le colonialisme.

      Le rapport commandité par la commune auprès de MM. Mohamedou et Rodogno a été publié ce printemps : “L’idée d’effacer l’histoire n’est pas une option viable, comme celle d’invisibiliser continuellement et impunément des actions passées racistes, esclavagistes ou coloniales ne peut en être est une, affirme ce rapport. La notion même de [commémoration] dans l’espace public doit être réexaminée afin de dire l’histoire différemment et la dire entièrement.” Et, à cet effet, il est important ”d’impliquer les associations issues de la société civile, le monde associatif et les acteurs locaux, y compris les sociétés d’histoire locales ”.

      Du coup, c’est aussi le rôle des “Editions Parlez-moi de Saint-Jean”, une part intégrante de la Maison de Quartier de Saint-Jean, de lancer le débat public à partir de problématiques situées dans l’espace local, de faire émerger les questions, d’essayer de “dire l’histoire différemment et entièrement” afin de participer à l’élaboration d’une mémoire collective locale et de la réactualiser. (Pour voir les publications des éditions : https://mqsj.ch/parlez-moi-de-saint-jean#ouvrages).

      Le rapport ayant fait figurer l’Avenue De-Gallatin dans sa liste des sites et symboles genevois concernés par cette problématique, la Maison de Quartier de Saint-Jean et le Forum Démocratie participative 1203 ont décidé de consacrer un de leurs “apéros-débats” à la question des “esclaves de Monsieur Gallatin”. Vous trouverez ci-joint le flyer de cette manifestation qui renferme quelques explications supplémentaires.

      Nous espérons que cette initiative retiendra votre attention et nous nous réjouissons de vous accueillir à cet apéro-débat, jeudi prochain, 17 novembre, à 18h 30 (fin à 20 heures) à la Maison de Quartier de Saint-Jean. Nous vous remercions d’avance de bien vouloir faire circuler cette information auprès de toute personne intéressée.

      Pour la Maison de Quartier de Saint-Jean (www.mqsj.ch) :
      Pierre Varcher, membre du comité

      PS Vous pouvez consulter l’article de présentation de cet apéro-débat dans le dernier Quartier Libre, journal de la Maison de Quartier de Saint-Jean, p. 11 :


      téléchargeable :
      https://mqsj.ch/wp-content/uploads/2022/09/QL127-1.pdf

      #héritage_colonial #colonialisme #espace_public #toponymie #toponymie_politique #invisibilisation #histoire #commémoration #mémoire_collective

  • #Alessandro_Chiappanuvoli. In ascolto de #L’Aquila

    Dal terremoto dell’aprile 2009 il capoluogo abruzzese è ancora un cantiere. Il podcast “#L’Aquila_fenice” racconta l’urgenza di costruire un’identità per la futura città. Partendo dalla rielaborazione collettiva di quanto accaduto.

    Se il terremoto ha insegnato qualcosa agli aquilani è a sperimentare, a lanciarsi nelle sfide, a collaborare, a creare nuove realtà e soluzioni dal basso”, dice Alessandro Chiappanuvoli. Giornalista, scrittore, il 6 aprile del 2009 aveva 28 anni e stava per decidere di abbandonare la sua città, per lavorare come cooperante in Sud America dopo essersi laureato in Sociologia della multiculturalità a Urbino. Non se n’è mai andato, però: a luglio ha riassunto tredici anni di vita in un podcast, “L’Aquila fenice”, prodotto da Spotify studios in collaborazione con Chora Media e Maxxi. “La memoria di ciò che è stato è fondamentale -dice- L’Aquila non può permettersi di non essere testimone del proprio terremoto. Non è più la città che stavo per abbandonare, ma un centro nevralgico di sperimentazione. Questo fermento deve essere alimentato. Ricostruite le case andrà ricostruita la città, l’idea di città, e l’identità dei suoi cittadini”.

    Attraversare un terremoto cambia l’approccio alla vita nel quotidiano. Porta a chiedersi “quand’è che sono felice?”. Che cosa significa questa domanda per te?
    AC Il terremoto è un momento di crisi, individuale e collettivo. Come tale porta con sé un dono, un’opportunità, quella di poter ripensare la propria vita. A me è accaduto nel 2010 quando mi posi la domanda che riporto nel podcast, e la risposta fu facile: “Quando scrivo”. Dopo 13 anni credo che il valore che ho dato a quella domanda e l’approccio alla vita non siano cambiati. La mia esistenza può finire da un giorno all’altro e devo viverla come se fosse sempre l’ultimo giorno, nel lavoro, nei sentimenti, nella socialità e nella vita politica (ovvero nella vita finalizzata alla realizzazione del bene comune). Ogni giorno cerco di andare a dormire sereno, soddisfatto, e così mi sveglio propositivo, energico, con la voglia di fare ancora di più.

    “L’Aquila non è più la città che stavo per abbandonare, ma un centro nevralgico di sperimentazione. Questo fermento deve essere alimentato. Ricostruite le case andrà ricostruita la città, l’idea di città, e l’identità dei suoi cittadini”

    Nel podcast racconti del grande attivismo post-terremoto, della mobilitazione dei giovani e non solo, di progetti come Casematte e 3e32. Però L’Aquila è stato il primo capoluogo di Regione in cui Fratelli d’Italia (FdI) ha vinto le elezioni, nel 2017. Perché?
    AC Le elezioni del 2017 furono controverse. Il candidato del Partito democratico perse al ballottaggio ma era dato come sicuro vincitore. E non credo che la vittoria sia targata FdI, quanto centrodestra. In città si è parlato di faide interne al Pd o di distrazione di voti a sinistra, causati dai movimenti nati dai comitati come il 3e32. Credo che il centro di potere del Pd che ha governato la città durante il terremoto abbia commesso un grave errore, perpetrato ancora nelle amministrative di quest’anno: non dare continuità alla propria azione, non alimentare un ricambio generazionale, non coinvolgere pienamente la grande mobilitazione nata a seguito del terremoto. L’Aquila prima del 2009 era un paesotto piccolo borghese con fulcri di potere ben definiti, il terremoto ha attivato processi di partecipazione strutturati o spontanei, calati dall’alto o nati dal basso. Questa partecipazione andava alimentata e organizzata, poiché un passo indietro è sempre possibile. Poi c’è una cosa che penso da 13 anni: L’Aquila è lo specchio futuro dell’Italia, la mia città è l’Italia tra cinque anni, quel che succede da noi è molto probabile succeda anche nel resto del Paese. Non avrei nulla contro la destra, purché sappia essere progressista, aperta al dialogo, partecipativa, responsabilizzante di tutte le parti sociali. Ciò che la sinistra non sta riuscendo a fare.

    Nel tuo racconto dai voce ai giovani aquilani, che erano bambini ai tempi del terremoto.
    AC Molti hanno avuto la fortuna di crescere al fianco di persone che si sono spese anima e corpo per L’Aquila, per il suo futuro e per strutturare un’idea di città anche se oggi nessuno sta lavorando per costruire un’idea di città futura. Ci sono intenzioni, protocolli d’intesa, strategie, ma poche azioni concrete, sostenibili, pochissime visioni di lungo periodo. I giovani hanno il diritto al futuro. Noi abbiamo il dovere di indicare la via, loro di sognare. L’Aquila quand’ero giovane era una città da cui scappare, oggi è in continuo mutamento, ma non è ancora una città dove restare. Ecco, forse dovremmo iniziare a chiedere in prestito i sogni dei giovani aquilani per costruire una vera idea de L’Aquila futura.

    “L’Aquila fenice” è un podcast in sei puntate scritto da Alessandro Chiappanuvoli, prodotto da Spotify Studios in collaborazione con Chora Media e Maxxi

    Una puntata è dedicata al tema della memoria, che non significa semplicemente non dimenticare.
    AC Davanti a una crisi personale, dopo il momento del dolore e di emergenza, le strade sono due: chiudere col passato e voltare pagina o metabolizzare quanto accaduto e imparare dai propri errori. Con il terremoto, un momento di crisi collettiva, è diverso: l’unica strada percorribile è la seconda. Bisogna costruire una memoria pubblica che aiuti la comunità a fare pace con l’emergenza, con il dolore, come hanno fatto i cittadini che hanno voluto il Parco della memoria. Questo non solo per non ripetere gli errori commessi -la cattiva gestione degli sfollati, i ritardi nella ricostruzione- e per non affrontare le catastrofi naturali come se fosse sempre la prima volta. È necessario per ricucire le ferite nell’animo della comunità, per rinsaldare lo spirito sociale di mutuo aiuto. La collettività non può vivere in salute con un rimosso. Gli esseri umani costruiscono sul passato una sovrastruttura sulla quale erigere l’esperienza di vita. Oggi invece sembra sia diventato importante soltanto commemorare il dolore, ricordare l’anniversario. Non c’è nulla di più inutile.

    Il terremoto ha tenuto L’Aquila ai margini degli effetti della crisi economica, ma rischia di causare una bolla. La città si sta preparando alla fine della ricostruzione?
    AC No, né da un punto di vista economico, né da quello socio-culturale. Si vive in una specie di presentismo precario, ma tra qualche anno la ricostruzione sarà ultimata e anche i flussi di denaro per la ripresa sociale smetteranno di arrivare. E se deperisce l’economia della città non so quanto realtà come il museo Maxxi L’Aquila o il Gran Sasso science institute, create dopo il terremoto, possano resistere in un contesto non più in crescita. Basti pensare che una buona parte dei fondi del Pnrr sono stati destinati al recupero del decoro urbano e non a costruire un futuro per le prossime generazioni. Come se fosse possibile per una città di provincia come L’Aquila, che certo non è Firenze, Roma o Venezia, puntare forte sul turismo. Temo che tra qualche anno ci ritroveremo con una città, ricostruita con i soldi degli italiani, bella ma vuota, nuova ma priva d’identità, una cattedrale desertificata, gentrificata.

    “Si vive in una specie di presentismo precario […]. Temo che tra qualche anno ci ritroveremo con una città, ricostruita con i soldi degli italiani, bella ma vuota, nuova ma priva d’identità, una cattedrale desertificata, gentrificata”

    Hai citato il Gran sasso science institute (Gssi). Quand’è arrivato e perché può rappresentare un modello, in generale per l’Italia interna e le sue università?
    AC Il Gssi è un centro di alta formazione che apre la città al mondo e che, fatto non secondario, tenta di concretizzare i saperi che produce. È fuor di dubbio un modello per l’Italia interna e per le università, ed è innegabile la mole di studi che mette a disposizione dei territori. Il problema è che fatica a non essere percepito come la classica astronave scesa dal cielo e non è solo una responsabilità dell’istituto costruire un rapporto con la città e con i cittadini, che va costruito da ambo le parti. È una questione che riguarda il rapporto dei cittadini con la cultura. Se la formazione continuerà a essere percepita solo come un’attività professionalizzante, questo divario diventerà sempre più ampio. Ma il punto, per tornare al Gssi, è questo. Dobbiamo trovare una risposta seria a queste domande: “A che serve il Gran sasso science institute per la quotidiana degli aquilani? Cosa ci può dare culturalmente che non siano benefici superficiali come affitti e introiti economici per i commercianti? Come può migliorare le nostre vite?”. Ecco, troviamo una risposta a queste domande.

    Tra i luoghi della cultura, gli spazi che guardano al futuro, elenchi anche il Mercato contadino: che cosa rappresenta?
    AC A citarlo è Quirino Crosta, attivista, tra le altre cose, di Slow Food, che ha partecipato in prima linea alla sua creazione. Io lo frequento come acquirente. Posso dire che rappresenta anch’esso un’opportunità e la più evidente: aiutare i produttori locali a raggiungere sempre più ampie fette di mercato e contribuire alla salvaguardia della memoria, dei saperi contadini locali, delle specificità, della biodiversità. Il Mercato contadino è un presidio, un tentativo di resistenza, una realtà che nel suo piccolo già crea cultura, già cambia la prospettiva e alimenta una nuova visione di consumo e di benessere.

    #tremblement_de_terre #Italie #Abruzzes #identité #experimentation #mémoire #reconstruction #crise #Casematte #3e32 #mémoire_publique #Gran_sasso_science_institute (#Gssi)

  • Mediterraneo nero. Archivio, memorie, corpi

    L’importanza di una riflessione sul Mediterraneo nero è legata alle profonde trasformazioni, in termini culturali, sociali ed economici, che avvengono non solo in Europa, ma nel mondo intero. Oggi è necessario leggere il Mediterraneo in una prospettiva globale e transnazionale, ma anche quale archivio di memorie, pratiche e immagini che stanno ridiscutendo le geografie culturali. Centro di questo sistema epistemologico è il corpo, il rapporto di prossimità e distanza non solo con l’Europa, ma anche con una parte specifica del suo passato: il colonialismo e lo schiavismo. Connettendo passato e presente, l’autore si sofferma sulle memorie orali delle migrazioni raccolte in Italia: voci di etiopi, eritrei, somali e di persone che potremmo definire ‘seconde generazioni’ a proposito delle traversate mediterranee. L’obiettivo è quello di contribuire a una nuova riflessione sul rapporto tra il Mediterraneo nero e la riscrittura/reinvenzione dell’Europa e dell’identità europea.

    http://www.manifestolibri.it/shopnew/product.php?id_product=801

    #Méditerranée_noire #Méditerranée #livre #mémoire #corps #proximité #distance #passé #colonialisme #esclavage #passé_colonial #mémoire_orale #deuxième_génération #identité #identité_européenne #Gabriele_Proglio

    Et plein d’autres ressources intéressantes de ce chercheur (historien) sur son CV :
    https://www.unisg.it/docenti/gabriele-proglio
    –---

    ajouté à la métaliste sur l’#Italie_coloniale / #colonialisme_italien :
    https://seenthis.net/messages/871953

    ping @olivier_aubert @cede

    • The Horn of Africa Diasporas in Italy

      This book delves into the history of the Horn of Africa diaspora in Italy and Europe through the stories of those who fled to Italy from East African states. It draws on oral history research carried out by the BABE project (Bodies Across Borders: Oral and Visual Memories in Europe and Beyond) in a host of cities across Italy that explored topics including migration journeys, the memory of colonialism in the Horn of Africa, cultural identity in Italy and Europe, and Mediterranean crossings. This book shows how the cultural memory of interviewees is deeply linked to an intersubjective context that is changing Italian and European identities. The collected narratives reveal the existence of another Italy – and another Europe – through stories that cross national and European borders and unfold in transnational and global networks. They tell of the multiple identities of the diaspora and reconsider the geography of the continent, in terms of experiences, emotions, and close relationships, and help reinterpret the history and legacy of Italian colonialism.

      https://link.springer.com/book/10.1007/978-3-030-58326-2#toc

    • Libia 1911-1912. Immaginari coloniali e italianità

      L’Italia va alla guerra per conquistare il suo ’posto al sole’ senza realmente sapere cosa troverà sull’altra sponda del Mediterraneo. Il volume analizza la propaganda coloniale e, in particolare, la stretta relazione tra la costruzione narrativa della colonia libica e le trasformazioni dell’italianità. All’iniziale studio degli immaginari sulla Libia precedenti il 1911, segue una disamina di quelle voci che si mobilitarono a favore della guerra, partendo dai nazionalisti di Enrico Corradini con i riferimenti all’Impero romano, al Risorgimento, al mito della ’terra promessa’. L’archivio coloniale è indagato anche attraverso lo studio delle omelie funebri per i soldati caduti durante la guerra, con immagini che vanno dal buon soldato al figlio della patria. Un altro campo d’analisi è quello dell’infanzia: i discorsi dei docenti sul conflitto, del «Corriere dei Piccoli» e della letteratura per ragazzi lavorano per «costruire» i corpi dei piccoli italiani. Non manca, infine, lo studio della letteratura interventista: Gabriele D’Annunzio, Giovanni Pascoli, Filippo Tommaso Marinetti, Matilde Serao, Ezio Maria Gray, Umberto Saba, Ada Negri, Giovanni Bevione.

      https://www.mondadoristore.it/Libia-1911-1912-Immaginari-Gabriele-Proglio/eai978880074729
      #imaginaire_colonial #italianité #Libye

  • #David_Van_Reybrouck : « Il existe une forme de #colonisation de l’avenir »

    Dix ans après l’épais « Congo, une histoire », l’historien flamand déploie une histoire de la #décolonisation de l’#Indonésie. Entretien sur la #mémoire_coloniale, la #révolution et l’#héritage du #non-alignement forgé lors de la #conférence_de_Bandung en 1955.

    « Ce qui rend la Revolusi indonésienne passionnante, c’est l’énorme impact qu’elle a eu sur le reste de l’humanité : non seulement sur la décolonisation d’autres pays, mais plus encore sur la coopération entre tous ces nouveaux États. »

    David Van Reybrouck, écrivain et essayiste, auteur notamment de Congo, une histoire (prix Médicis Essai 2012), de Contre les élections ou de Zinc est un touche-à-tout obsédé par la volonté d’élargir sans cesse le spectre et le registre des expériences, qu’il s’agisse de promouvoir des innovations démocratiques ou des manières d’écrire l’histoire.

    Pour rédiger Revolusi. L’Indonésie et la naissance du monde moderne, que viennent de publier les éditions Actes Sud dans une traduction d’Isabelle Rosselin et Philippe Noble, David Van Reybrouck a mené près de deux cents entretiens dans près d’une dizaine de langues, et fait un usage inédit de Tinder, s’en servant non comme d’une application de rencontres mais comme un moyen de contacter les grands-parents de celles et ceux qui voulaient bien « matcher » avec lui dans tel ou tel espace du gigantesque archipel indonésien.

    Le résultat de cinq années de travail fait plus de 600 pages et remonte une histoire mal connue, d’autant que les Pays-Bas ont longtemps mis un écran entre leur monde et la violence du passé colonial de leur pays, mis en œuvre non pas par la Couronne ou le gouvernement lui-même mais par la VOC, la Compagnie Unie des Indes orientales, parce que « l’aventure coloniale néerlandaise n’a pas commencé par la soif de terres nouvelles, mais par la recherche de saveurs ».

    Cela l’a mené à la rencontre d’un géant démographique méconnu, et à une mosaïque politique et linguistique inédite, puisqu’un terrien sur 27 est indonésien, et que 300 groupes ethniques différents y parlent 700 langues. Entretien sur la mémoire coloniale, la révolution et l’héritage du non-alignement forgé lors de la conférence de Bandung en 1955.

    Mediapart : Zinc racontait le destin des plus petites entités territoriales et démographiques du monde. À l’inverse, votre dernier ouvrage déroule une copieuse histoire de l’Indonésie, fondée sur de très nombreux entretiens oraux. Pourquoi l’Indonésie demeure-t-elle pour nous un « géant silencieux », pour reprendre vos termes ?

    David Van Reybrouck : L’Indonésie est devenue un pays invisible, alors qu’il y a encore une soixantaine d’années, elle dominait la scène internationale, surtout après la conférence de Bandung de 1955 [qui réunissait pour la première fois les représentants de 29 pays africains et asiatiques - ndlr], qu’on peut qualifier de « 14-Juillet » à l’échelle mondiale.

    Sukarno, son président, était alors reçu à Washington, au Vatican, en Chine. Comment un pays aussi central dans les années 1940-1950 a-t-il pu devenir aussi invisible, alors qu’il demeure la quatrième puissance au monde, par sa démographie, et qu’il est devenu un acteur économique essentiel en Asie du Sud-Est ?

    J’ai l’impression que plus son économie devient importante, plus sa diplomatie devient discrète. C’est une grande démocratie qui, pour sa taille, se porte bien si on la compare à l’Inde ou même aux États-Unis, même s’il y a des tensions, notamment entre l’État laïc et l’État musulman, comme en Turquie.

    L’importance de l’Indonésie au sortir de la guerre était aussi liée à la figure de Sukarno, atypique dans le paysage politique indonésien : flamboyant, charismatique, charmeur, vaniteux, insupportable, brillant. Il me fait penser à Mohamed Ali en raison de la vitesse à laquelle il débitait ses mots. Il pouvait enthousiasmer l’audience.

    Le président actuel, Joko Widodo, surnommé Jokowi, est compétent, mais il a la particularité d’être un petit commerçant n’appartenant ni à l’élite traditionnelle ni à celle qui s’est forgée pendant et après l’indépendance.

    Pourquoi avoir choisi de raconter l’émancipation de l’Indonésie, dix ans après votre somme sur le « Congo » ?

    Pour des raisons à la fois subjectives et objectives. C’est un pays immense dont on ne parle jamais, le premier pays à avoir proclamé son indépendance, deux jours après la fin de la Seconde Guerre mondiale, mais cela demeure peu connu, même les Indonésiens ne s’en vantent pas.

    J’étais encore au Congo en train de faire mes recherches dans une petite ville proche de l’océan lorsque j’ai rencontré un bibliothécaire de l’époque coloniale qui n’avait plus que 300 livres en flamand. Parmi eux se trouvait Max Haavelar, le grand roman anticolonial hollandais du XIXe siècle – l’équivalent de Moby Dick ou de La Case de l’Oncle Tom –, écrit par Eduard Douwes Dekker, dit Multatuli, un pseudonyme emprunté au latin qui signifie « J’ai beaucoup supporté ». Le roman est écrit à partir de son expérience de fonctionnaire envoyé aux Indes néerlandaises, où il découvre l’exploitation coloniale dans la culture du café.

    À partir de ce point de départ, j’avais gardé en tête l’idée de m’intéresser à l’Indonésie, d’autant que le roi belge Léopold II s’est beaucoup inspiré de la colonisation hollandaise, notamment du principe d’utiliser l’aristocratie indigène pour mener une politique de domination indirecte. Max Havelaar dépeint d’ailleurs très bien la corruption de l’élite indigène qui exploite son propre peuple.

    Pourquoi insister sur l’idée de révolution plutôt que celle de « guerre d’indépendance » pour désigner ce qui s’est déroulé en Indonésie en 1945 ?

    Ce fut à la fois une révolution et une guerre d’indépendance. La proclamation d’indépendance, le 17 août 1945, n’a pas été jugée crédible par les Occidentaux, et les Britanniques ont cru pouvoir reprendre le contrôle du territoire et le redonner aux Hollandais. Mais cela a provoqué une colère immense de la jeunesse indonésienne, dont j’ai retrouvé des témoins qui racontent une expérience particulièrement humiliante et répressive de la colonisation britannique dans les années 1930.

    Lorsque les Japonais arrivent en Indonésie en 1942, ils commencent par donner à cette jeunesse une leçon de fierté. Ils politisent les jeunes générations à travers des slogans, des entraînements de gymnastique, des films, des affiches… À partir de 1943, cette politisation se militarise, et les jeunes apprennent à manier les armes, à faire d’une tige de bambou verte une arme blanche.

    Mais les nonagénaires que j’ai interviewés, qui avaient pu au départ accueillir les Japonais avec reconnaissance, virent ensuite leurs pères emmenés de force comme travailleurs, des millions de personnes mourir de la famine en 1944, leurs sœurs et leurs mères enlevées pour les troupes japonaises pour devenir « des femmes de réconfort ».

    La sympathie initiale pour les Japonais s’est retournée contre eux, et la guerre d’indépendance contre les colons a ainsi pris l’air d’une révolution comparable à la Révolution française, mais menée par des personnes beaucoup plus jeunes. La volonté de renverser le régime était présente d’emblée. Alors que Sukarno était encore en train de négocier avec les Japonais, ce sont les plus jeunes qui l’ont poussé à proclamer l’indépendance sans attendre, avec une certaine improvisation et un drapeau indonésien cousu par sa femme la veille…

    Très vite, on a établi les ébauches de ce nouvel État. Début septembre, les Britanniques arrivent. Les Hollandais sont toujours dans les camps d’internement du Japon, ou alors partis en Australie ou au Sri Lanka. Les Britanniques assurent préparer le retour, désarmer les Japonais. Un premier bateau arrive, puis un deuxième, avec quelques officiers hollandais à bord et des parachutistes pour aller dans les camps d’internement des Japonais.

    Comme souvent dans les révolutions, celle-ci a eu sa part de violence, avec des atrocités commises envers les Indo-Européens, les Chinois et les Hollandais détenus dans les camps par les Japonais, et un bilan total qu’on a longtemps estimé à 20 000 morts, mais que certains estiment aujourd’hui plutôt autour de 6 000.

    Vous avez rencontré des survivants des massacres commis par les Hollandais. Beaucoup vous ont dit : « Vous êtes le premier Blanc à venir nous interroger. » Est-ce que cela vous a questionné ?

    J’ai interviewé presque 200 personnes, la plupart avaient au-delà de 90 ans. J’ai passé un an sur le terrain, même si ça n’était pas d’un bloc. Pour mon livre Congo, j’avais onze cahiers d’entretiens. Là, j’en avais 28. Je me suis retrouvé avec une documentation extrêmement riche. Il fallait organiser tout cela avec des résumés des entretiens, des schémas pour les axes chronologiques, les protagonistes, les figurants…

    Personne n’a refusé de témoigner et j’étais assez étonné de ce qui s’est dévoilé. La plupart des témoins parlent plus facilement des moments où ils étaient victimes que bourreaux, mais j’ai retrouvé des Hollandais et des Indonésiens qui n’hésitaient pas à décrire en détail les tortures qu’ils avaient eux-mêmes commises.

    J’avais la crainte qu’on juge que ce n’était pas à un Blanc de raconter cette histoire, mais j’avais la facilité de pouvoir dire que j’étais belge. Beaucoup de mes témoins ne connaissaient pas la Belgique. La différence aussi est que le souvenir du passé colonial est peut-être moins vif en Indonésie qu’au Congo, qui demeure dans une situation économique pénible. Même si l’Indonésie est un pays pauvre, il se trouve dans une dynamique positive.

    Comment la mémoire du passé colonial est-elle organisée en Indonésie et aux Pays-Bas ?

    Je suis frappé par le talent de l’oubli de la mémoire coloniale indonésienne. Nous, nous sommes obsédés par le passé. C’est important de le travailler, d’avoir une introspection morale, mais il faut aussi le laisser cicatriser pour avancer. Le livre se termine avec l’idée que le rétroviseur n’est pas le seul champ de vision à explorer.

    Souvent les traumatismes sont trop grands, la souffrance est encore trop forte, mais il existe aussi un conditionnement culturel différent. Pour la jeune génération indonésienne, l’époque coloniale est révolue. On trouve des cafés à Djakarta décorés dans un style colonial. Il y a en quelque sorte une appropriation culturelle du passé colonial, qui se voit lors de la fête de l’Indépendance, où il existe un folklore inspiré de la Hollande mais où personne ne parle de ce pays.

    Un sondage de YouGov, commandé par les Britanniques, a récemment cherché à savoir quelle était la nation la plus fière de son passé colonial. Les Britanniques, qui ont encore des colonies, pensaient que ce serait eux. Et, à leur grande surprise et soulagement, ce sont les Hollandais qui remportent haut la main ce triste concours de mémoire coloniale ! Plus de 50 % des sondés hollandais sont fiers du passé colonial, et seulement 6 % expriment de la honte…

    Ces dernières années, il y a cependant eu une accélération aux Pays-Bas de la mise en mémoire du passé colonial avec des excuses du roi, du premier ministre, une exposition au Rijksmuseum d’Amsterdam…

    Mais cette histoire demeure largement ignorée. Ma compagne est hollandaise, mais s’étonnait chaque soir de ce que je lui racontais et qui ne lui avait pas été enseigné, comme l’existence d’un véritable « goulag » où étaient envoyés, dans les années 1920-1930, les indépendantistes et les communistes, ou le fait que la Hollande exigeait des milliards de florins pour reconnaître l’indépendance et payer le coût de la guerre qu’elle avait perdue…

    Le non-alignement, qu’on a vu ressurgir au moment de l’invasion de l’Ukraine par la Russie, a-t-il le même sens qu’en 1955 ? On voit comment il peut tendre à se confondre avec un refus de prendre la mesure de l’impérialisme russe. Vous semble-t-il malgré cela une position d’avenir ?

    Je trouve que nous assistons là à une perversion du mouvement du non-alignement. L’esprit de Bandung consiste à refuser l’impérialisme et constitue un mouvement moral fondé sur les idéaux de liberté, d’égalité et de fraternité. Si n’être pas aligné aujourd’hui, c’est ne pas s’exprimer sur la Russie, un Nehru, un Nasser ou un Mandela ont de quoi se retourner dans leur tombe. Le non-alignement est un idéalisme géopolitique, pas la somme de calculs économiques.

    Vous écrivez : « Même si nous parvenons un jour à apurer complètement le passif du colonialisme d’antan, nous n’aurons encore rien fait pour enrayer la colonisation dramatique à laquelle nous nous livrons aujourd’hui, celle de l’avenir. L’humanité confisque le siècle à venir avec la même rigueur impitoyable dont elle fit preuve aux temps anciens pour s’approprier des continents entiers. Le colonialisme est un fait non plus territorial, mais temporel. » Solder les comptes du colonialisme est-il une priorité si on veut faire face collectivement à un défi qui se situe à l’échelle planétaire ?

    Le passé est une plaie qu’on a très mal guérie, pas seulement dans le Sud. Elle continue à ternir ou à influencer les rapports entre Nord et Sud. Il faut s’occuper de cette plaie, d’autant plus qu’elle est toujours grande ouverte, comme le montre une carte des pays les plus vulnérables au changement climatique qui est superposable à celle des anciens pays colonisés. Ce qui se joue avec le changement climatique, ce n’est pas un ours polaire sur une banquise qui fond, c’est d’abord ce qui arrive aux peuples du Sud. Quand on parle de colonialisme, on pense en premier lieu au passé, mais il existe une forme de colonisation de l’avenir qui est menée par les mêmes pays qui ont été les acteurs du colonialisme du passé. Il est faux de dire que c’est l’humanité en général qui est responsable du changement climatique, les responsabilités ne sont pas égales.

    Pourquoi écrivez-vous alors que « le quatrième pays du monde n’aurait jamais vu le jour sans le soutien d’adolescents et de jeunes adultes – encore que j’ose espérer que les jeunes activistes de la “génération climat” recourent à des tactiques moins violentes ». Ne faut-il pas une « revolusi » pour le climat ?

    J’ai travaillé sur ce livre au moment où le mouvement de Greta Thunberg faisait parler de lui. Il y avait un regard condescendant sur ces adolescents, les considérant comme une forme politique non sérieuse. Regardez pourtant ce que la jeunesse a fait en Indonésie. Si le pays en est là, c’est grâce aux jeunes, même si j’espère que Greta Thunberg ne va pas se saisir de lances en bambou !

    Je participe à différentes conventions sur le climat qui se déroulent mieux qu’en France, où la transmission vers le politique a été mal faite. Je pense qu’il faut plutôt penser à une désobéissance civile, qui relève d’abord pour moi d’une désobéissance fiscale. Au milieu du XIXe siècle, David Thoreau refuse de payer l’impôt dans l’État du Massachusetts à cause de l’esclavagisme et de la guerre contre le Mexique. Il a été arrêté au bout de six ans.

    Regardons le budget de nos États, et calculons quel pourcentage des dépenses de l’État belge ou hollandais va vers le secteur fossile. Si c’est 18 %, on enlève 18 % de nos impôts et on le met au pot commun. Quand les lois ne sont pas justes, il est juste de leur désobéir.

    Dans la longue liste de vos remerciements, vous remerciez un tableau, « Composition en noir » de Nicolas de Staël, c’est étrange, non ?

    Je remercie deux peintures, celle que vous évoquez et une d’Affandi, un peintre indonésien. J’étais en train d’écrire, je cherchais encore le bon registre pour décrire les atrocités, sans esquiver les détails, mais sans perdre de vue l’ensemble. J’ai une passion pour la peinture et les arts plastiques, qui me vient de ma mère, elle-même peintre. Je me trouvais donc à Zurich, en pleine écriture de mon livre, et je vois cette toile qui m’a montré le chemin, fait de noirceur, d’humanisme, de précision et de lueur aussi. Celle d’Affandi aussi, parce qu’elle était faite de violence et de joie. Il aurait été considéré comme un peintre majeur s’il avait été américain ou français.

    La forme originale, très personnelle de cet ouvrage, comme celui sur le Congo, interpelle. Vous humanisez une histoire abstraite en ayant recours à la non-fiction littéraire. Pourquoi ? Pour la rendre plus accessible ?

    Le discours sur le Congo est trop souvent un monologue eurocentrique. Je voulais rédiger un dialogue en donnant la parole aux Congolais, mais aussi en écoutant des Belges. Dans ce livre sur l’Indonésie, je ne vais pas seulement du monologue vers le dialogue, mais je tends vers la polyphonie. Je suis parti aussi au Japon ou au Népal. Il était important de montrer la dimension internationale de cette histoire et de ne pas la réduire aux rapports verticaux et en silo entre les anciennes métropoles et les anciennes colonies, d’où le sous-titre de l’ouvrage : « et la naissance du monde moderne ».

    https://www.mediapart.fr/journal/international/011022/david-van-reybrouck-il-existe-une-forme-de-colonisation-de-l-avenir
    #Pays-Bas #violence #passé_colonial #livre #Sukarno #guerre_d'indépendance #politisation #fierté #Japon #torture #oubli #appropriation_culturelle #plaie #colonisation_de_l'avenir #désobéissance_civile #désobéissance_fiscale

    ping @cede

    • #Revolusi. L’Indonésie et la naissance du monde moderne

      Quelque dix ans après "Congo", David Van Reybrouck publie sa deuxième grande étude historique, consacrée cette fois à la saga de la décolonisation de l’Indonésie - premier pays colonisé à avoir proclamé son indépendance, le 17 août 1945. Il s’agit pour lui de comprendre l’histoire de l’émancipation des peuples non européens tout au long du siècle écoulé, et son incidence sur le monde contemporain.
      Fidèle à la méthode suivie dès son premier ouvrage, l’auteur se met lui-même en scène au cours de son enquête, alternant sans cesse, et avec bonheur, exposé de type scientifique et “reportage” à la première personne – ce qui rend la lecture de l’ouvrage à la fois aisée et passionnante.

      https://www.actes-sud.fr/catalogue/litterature/revolusi

  • “Ti saluto, vado in Abissinia”. Parma e Africa Orientale tra colonialismo e post-colonialismo. Archivio, didattica e ricerca storica

    L’articolo presenta il progetto di costruzione di un archivio sulla memoria coloniale e post-coloniale locale. Condotto dall’Istituto della Resistenza e dell’età contemporanea di Parma e dall’ong #Parma_per_gli_altri, il progetto ha l’obiettivo di tracciare – attraverso fotografie, testimonianze e documenti vari – i rapporti recenti tra la città e le ex-colonie italiane del Corno d’Africa, soprattutto Etiopia ed Eritrea. Infine, sulla base del materiale raccolto, sono stati elaborati percorsi didattici proposti alle scuole di secondo grado.

    https://e-review.it/vitale-archivio-colonialismo

    #Parme #Parma #Italie #colonialisme #colonisation #mémoire #mémoire_coloniale #Ethiopie #Erythrée

    –—

    ajouté à la métaliste sur la #colonialisme_italien:
    https://seenthis.net/messages/871953

    via @olivier_aubert

  • Le cimetière oublié des enfants de Saint-Maurice
    https://www.mediapart.fr/journal/france/110822/le-cimetiere-oublie-des-enfants-de-saint-maurice

    Entre 1962 et 1964, trente et un enfants de harkis ont été enterrés à même le sol sur un terrain militaire situé non loin du camp de Saint-Maurice, dans le Gard. Avant d’y être volontairement oubliés… Pour l’heure, les fouilles menées officiellement sont restées vaines.

    #Mémoire_harkie_en_Languedoc #discriminations,_Harkis,_Histoire

  • https://www.lemonde.fr/societe/article/2022/01/26/aux-antilles-une-cascade-de-proces-contre-l-etat-sur-la-question-de-l-esclav

    Aux Antilles, une cascade de procès contre l’Etat sur la question de l’esclavage

    La France est visée par une série de plaintes, en Martinique et en Guadeloupe, pour son rôle dans la traite négrière et l’esclavage. Des associations et des particuliers réclament des réparations pour dédommager les descendants de ces crimes contre l’humanité.

    Par Jean-Michel Hauteville (Fort-de-France, Martinique)
    Publié le 26 janvier 2022

    Marche organisée par le Mouvement international pour les réparations pour commémorer le 22 mai 1848, jour de l’abolition de l’esclavage en Martinique, à Saint-Pierre, le 22 mai 2019.
    Marche organisée par le Mouvement international pour les réparations pour commémorer le 22 mai 1848, jour de l’abolition de l’esclavage en Martinique, à Saint-Pierre, le 22 mai 2019. BENOIT DURAND / HANS LUCAS

    Pour Garcin Malsa, l’attente aura été vaine. Mardi 25 janvier, cette figure politique martiniquaise attendait un jugement en délibéré de la cour d’appel de Fort-de-France au sujet d’une plainte déposée contre l’Etat par le Mouvement international pour les réparations (MIR), une association mémorielle dont il est le président.

    En octobre 2020, cette organisation antillaise, qui milite depuis vingt ans en faveur de l’attribution de réparations aux descendants d’esclaves africains dans les anciennes colonies françaises d’Amérique, avait assigné l’Etat devant le juge des référés de Fort-de-France, « en vue d’ordonner une expertise ayant pour but de retrouver, grâce à des fouilles archéologiques, l’ensemble [des] charniers », en Martinique, dans lesquels « des milliers d’Africains réduits en esclavage » auraient été sommairement enterrés aux abords des plantations coloniales, selon un communiqué de l’association. Sur la base de l’article 145 du code de procédure civile, le MIR souhaitait également faire condamner l’Etat à « ouvrir aussi les procédures en vue d’exproprier ces lieux (…) et d’en faire des lieux commémoratifs ouverts au public ».

    Débouté en première instance en novembre 2021, le mouvement avait fait appel. La décision était attendue mardi en fin de journée, mais le tribunal a fait savoir que le jugement ne serait rendu public que le lendemain. « Ils sont terribles, quand même ! », peste Garcin Malsa. « Ces juges-là fonctionnent comme des juges coloniaux. Ils n’obéissent qu’à l’Etat », fustige ce pionnier du militantisme écologique en Martinique et ancien maire, à tendance indépendantiste, de la commune de Sainte-Anne, haut lieu du tourisme balnéaire au sud de l’île.
    Feuilleton judiciaire

    A ce jour, l’existence de ces charniers n’est pas attestée en Martinique (...)

    #mémoire_esclavage #Antilles_françaises #réparations #reconnaissance

  • https://www.lemonde.fr/politique/article/2022/01/26/guerre-d-algerie-emmanuel-macron-fait-un-geste-envers-les-pieds-noirs-en-rec

    Guerre d’Algérie : Emmanuel Macron fait un geste envers les pieds-noirs en reconnaissant deux « massacres » commis à Alger et à Oran en 1962
    « La vérité doit être de mise, et l’histoire transmise », a insisté le chef de l’Etat, mercredi, devant un parterre de rapatriés réunis à l’Elysée .

    Le Monde avec AFP Publié le 26 janvier

    Emmanuel Macron a fait un geste fort, mercredi 26 janvier, aux rapatriés d’Algérie en qualifiant d’« impardonnable pour la République » la fusillade de la rue d’Isly, à Alger, en mars 1962, et en estimant que le « massacre du 5 juillet 1962 » à Oran devait être « reconnu ».
    Devant un parterre de rapatriés réunis à l’Elysée, le président de la République est revenu sur la fusillade de la rue d’Isly, dans laquelle des dizaines de partisans de l’Algérie française furent tués par l’armée en mars 1962. « Ce jour-là, les soldats français déployés à contre-emploi, mal commandés, ont tiré sur des Français (…). Ce jour-là, ce fut un massacre », a déclaré M. Macron, ajoutant que « soixante ans après » ce « drame passé sous silence », « la France reconnaît cette tragédie ». « Et je le dis aujourd’hui haut et clair : ce massacre du 26 mars 1962 est impardonnable pour la République. Toutes les archives françaises sur cette tragédie pourront être consultées et étudiées librement. »

    Evoquant la « surenchère atroce d’insécurité et de violence », « d’attentats et d’assassinats » qui scandèrent la fin de la guerre d’Algérie, le chef de l’Etat a également exhorté à reconnaître et à « regarder en face » le « massacre du 5 juillet 1962 » à Oran, qui toucha « des centaines d’Européens, essentiellement des Français ». « La vérité doit être de mise, et l’histoire transmise », a encore insisté le président de la République.

    Des rapatriés « incompris » et « méprisés »

    Face aux rapatriés, M. Macron a par ailleurs souligné la difficulté de « ces mois d’adieu et de déchirure » qui ont frappé des milliers de familles :
    « Votre arrivée en métropole est un soulagement, car vous vous savez ici en sécurité, mais elle n’est pas une consolation, car vous vous sentez vite incompris, méprisés pour vos valeurs, votre langue, votre accent, votre culture. »
    Le chef de l’Etat a déploré que « la plupart » se soient « heurtés à l’indifférence quand ce n’était pas aux préjugés ». « Il y a soixante ans, les rapatriés d’Algérie ne furent pas écoutés. Il y a soixante ans, ils ne furent pas reçus avec l’affection que chaque citoyen français en détresse mérite », a-t-il ajouté. Désormais, « le chemin qu’il nous revient de faire est celui de cette réconciliation », a-t-il plaidé.

    Cette « reconnaissance » s’inscrit dans une série d’actes mémoriels, depuis le début du quinquennat et à l’approche du 60e anniversaire de la fin de la guerre d’Algérie avec les Accords d’Evian, puis l’indépendance de ce pays – le 5 juillet 1962.
    Le 20 septembre 2021, le chef de l’Etat avait demandé « pardon » aux harkis, supplétifs algériens de l’armée française, qui furent « abandonnés » par la France. Un projet de loi, pour acter ce « pardon » et tenter de « réparer » les préjudices subis, est en cours d’examen au Parlement et devrait être adopté d’ici à la fin du mois de février.

    Le Monde avec AFP

    #Algerie #Françalgérie #mémoirecoloniale #Macron

  • Maremme amère Toscane, souffrances et cultures ouvrières. Entretien avec Alberto Prunetti
    Par Thomas Pérès , traduction par Muriel Morelli et Laura Brignon

    Alberto Prunetti a grandi à Follonica, une ville située en haute Maremme, région faisant partie de la Toscane. Dans Amianto 1, il raconte la vie d’ouvrier itinérant que mena son père, sa maladie, due à l’amiante, contractée sur les chantiers où il travaillait, tout en entrecoupant son récit par ses souvenirs d’enfance dans cette cité industrielle. Son livre, à la fois tragique, drôle et tendre, donne une image non tronquée de ce que les économistes appellent complaisamment le « miracle économique italien », dont on occulte toujours le coût humain et environnemental.

    https://www.jefklak.org/maremme-amere

  • Streit über Stolpersteine : »NS-Opfer und Täter lassen sich oft nur schwer definieren« – wer verdient eine Anerkennung ?
    https://www.spiegel.de/geschichte/stolpersteine-wer-verdient-eine-ehrung-als-ns-opfer-a-1c021711-113b-40fc-bbd

    Cet article dans l"hebdomadaire Der Spiegel porte un sous-titre infâme qui sous entend une course des victimes nazis à une récompence sous forme de pavé commémoratif "Stolperstein". "Récompense" est la traduction de "Anerkennung". Le texte par contre contient des informations intéressantes sur le projet de mémoire collective le plus important d’Allemagne.

    Alors qu’il y a prèsque 10.000 Stolpersteine à Berlin l’ancienne capitale du mouvement nazi Munich n’a autorisé aucun pavé commémoratif dans l’espace public.

    Avec son projet "Stolpersteine" l’artiste Gunter Demnig génère des revenus de 60.000 Euros par mois. Son objectif commercial est le chiffre de 75.000 Euros mensuels. Cette somme correspond à 750 pavés commmémoratifs pour des victimes des nazis. A partir de son action artistique initiale s’est développé un réseau de groupes de soutien iinternational qui identifient les victimes et leurs histoires afin de déposer les demandes d’autorisation nécessaire auprès des municipalités et de trouver les fonds nécessaires pour l’intervention de l’artiste.

    Gunter Demnig n’est ni historien ni fonctionnaire d’une organisation d’anciens persécutés. Chez iui on est facilement admis dans le cercle des victimes nazies. Ce caractère ouvert lui vaut la critique d’associations dont le modèle d’affaire ressemble au sien. On n’apprécie guère que d’autre victimes des nazis viennt contester l’exclusivité du panthéon et de son gardien d’entrée à Yad Vashem.

    Gunter Demnig préfère ne pas perdre son temps avec des discussions. Il veut poser ses pavés dans la mémoire publique des villes et compter son argent. C’est une position qu’il a conquis avec beaucoup de persistene et de travail, et personne ne lui disputera son succès.

    24.09.2021, von Isabel Metzger, - Gunter Demnig ist unterwegs. Am Telefon rauscht im Hintergrund die Autobahn. »Geht’s auch eine halbe Stunde später?« fragt der 73-Jährige. Gerade war er noch in Bensheim, verlegte Stolpersteine an der Darmstädter Straße. Zuvor fuhr er nach Serbien und setzte 22 Steine, »die ersten im Land«, sagt Demnig.

    Seit rund 25 Jahren verlegt der Kölner Bildhauer Stolpersteine. Damit will Demnig an NS-Opfer erinnern: »Menschen, die in der Zeit des Nationalsozialismus verfolgt, ermordet, deportiert, vertrieben oder in den Suizid getrieben wurden«, ist auf der Seite seiner Stiftung zu lesen.

    Doch wenn es um die Biografien einzelner Menschen geht, kann es heikel werden. Ein Auftrag aus Luxemburg sorgte in diesen Tagen für Aufruhr. Denn in der Gemeinde Junglinster sollten 15 Stolpersteine im Boden versenkt werden: vier für Juden – und elf für Zwangsrekrutierte. Gemeint sind Luxemburger, die während des Nationalsozialismus zwangsweise eingezogen wurden und teilweise in der Wehrmacht mitkämpften. Alle elf Soldaten starben im Krieg, andere Zwangsrekrutierte überlebten. In den Achtzigerjahren zahlte die Bundesrepublik Entschädigungen, als Zeichen der Anerkennung. Für Demnig ist daher klar: »Die elf waren NS-Opfer, für mich gibt es da keinen Unterschied.«
    »Vermischung von unterschiedlichem Leid«

    Ist da wirklich kein Unterschied? Kritiker sprachen von »Gleichmacherei«: Als Vertreterin der jüdischen Gemeinschaft fühle sie »Befremdung«, sagte Claude Wolf, Präsidentin des »Comité pour la mémoire de la Deuxiéme Guerre Mondiale«, dem luxemburgischen Portal reporter.lu. Die »Vermischung von unterschiedlichem Leid« bereite ihr Sorgen.

    Auch Jens-Christian Wagner, Stiftungsdirektor der Gedenkstätten Buchenwald und Mittelbau-Dora, lehnt Stolpersteine für Zwangsrekrutierte ab: »Wehrmachtskämpfer und Menschen, die in Gaskammern ermordet wurden, werden hier gestalterisch auf eine Stufe gestellt«, sagte er dem SPIEGEL. »Das ist geschichtsvergessen.«

    Demnig kennt diese Diskussionen: Die Definition von NS-Opfern ist umstritten. Wer einen Stolperstein im öffentlichen Raum bekommt und wer nicht, entscheiden die Kommunen. Sie urteilen unterschiedlich streng. So lag Demnig im Streit mit der Stadt Hannover, als er vor zehn Jahren einen Stolperstein für Walter Sochaczewski verlegen wollte. Weil der jüdische Kinderarzt bereits 1936 emigriert war, lehnte Hannover zunächst ab: Der Arzt habe den Holocaust überlebt, Stolpersteine seien allein Todesopfern vorbehalten. Nach Protesten lenkte die Stadt schließlich ein.

    Augsburg wies 2017 aus ähnlichen Gründen acht Anträge auf Stolpersteine zurück. Darunter befanden sich NS-Gegner wie Maria Pröll, die durch Luftangriffe ums Leben kam. Andere starben durch Krankheit. Stolpersteine sollten ausschließlich als Gedenkzeichen für »die von den Nationalsozialisten ermordeten und in den Tod getriebenen Opfer verlegt werden«, lautete die Begründung, wie die »Süddeutsche Zeitung« berichtete.
    Stolpersteine sind nicht überall erlaubt

    In München darf Demnig Stolpersteine generell nur auf privatem Grund verlegen, auf öffentlichem Grund verbot sie der Stadtrat. Für die Israelitische Kultusgemeinde München und Oberbayern hatte Präsidentin Charlotte Knobloch kritisiert, Passanten würden auf die Steine treten und »achtlos über sie hinweggehen«. Bis heute sind im öffentlichen Raum nur Stelen oder Gedenktafeln erlaubt.

    In Städten wie Hamburg, sagt Demnig, sei es für ihn einfacher, der Opferbegriff weniger eng gefasst. Dort befinden sich unter den heute mehr als 6000 Stolpersteinen auch weniger eindeutige Fälle wie Emigranten sowie Kriegsbeteiligte. Otto Röser etwa wurde 1935 verhaftet wegen »Vorbereitung zum Hochverrat«, so heißt es in der damaligen Gerichtsbegründung. Später kämpfte Röser in der »Bewährungstruppe 999«; sie wurde aus »wehrunwürdigen« Häftlingen gebildet, denen ansonsten die Deportation in ein KZ drohte.

    Wahrscheinlich, heißt es in der Datenbank der »Stolpersteine Hamburg«, starb er bei einem Einsatz des Bataillons. Ist Röser ein Opfer oder ein Täter?

    »NS-Opfer und Täter lassen sich oft nur schwer definieren«, sagt Jens-Christian Wagner. »Es ist eine Grauzone, die sich mit Stolpersteinen nicht darstellen lässt.« Wer aber entscheidet, ob ein Mensch die Bezeichnung »Opfer« verdient? Bislang gibt es kein deutschlandweit einheitliches Verfahren, keine gemeinsamen Kriterien, um Stolpersteine zu beantragen.
    »Ich bin kein Weltverbesserer«

    Finanziert wird das Projekt über Patenschaften. Ein Stein kostet 120 Euro, im Ausland zwölf Euro mehr. Meistens, erklärt Demnig, kommen Bewohner oder Nachfahren von NS-Opfern auf ihn zu. Lokale Initiativen kümmern sich oftmals darum, die Anträge bei der Kommune durchzusetzen.

    »Stolpersteine funktionieren als Schneeballsystem, das macht ihren Charme aus«, sagt Wagner. »Mit einem Zentralkomitee würde das Problem nicht gelöst.« Allerdings müssten lokale Initiativen »mehr in diskursiven Austausch treten«. Ob ein Stolperstein angemessen ist, lasse sich nur aus einer »wissenschaftlichen Perspektive« entscheiden.

    Gunter Demnig ist kein Wissenschaftler. Er sieht sich weder als Aktivist noch als Weltverbesserer – »ich bin Bildhauer«. Über seine Familie verliert Demnig nicht viele Worte. Sein Vater habe »bei der Flak« gearbeitet, sagt er, »die schossen in die Luft und wussten oft selbst nicht wohin«.

    Die meisten Geschichten von »damals« hörte er von seiner Großmutter. »’Ne Rote, SPD-Frau der ersten Stunde«, sagt Demnig. Sie habe bei Nauen in Brandenburg gelebt, nicht weit vom KZ Sachsenhausen. »Dort hat sie die Transporte beobachtet«, sah, wie Soldaten Gefangene mit Gewehren vor sich hertrieben. Natürlich sei klar gewesen, »dass das nicht sauber war, was da ablief«, sagt Demnig.

    Stein auf Stein, 500 pro Monat

    Seinen ersten Stein setzte Demnig am 16. Dezember 1992 in Köln. In eine Messingplatte gravierte er einen Deportationsbefehl des SS-Massenmörders Heinrich Himmler von 1942. »Damals dachte ich nicht, dass daraus einmal so ein Projekt wird«, sagt er. »Für mich war das Konzeptkunst.« Dann kam alles anders: Karlheinz Schmid, Herausgeber der »Kunstzeitung«, veröffentlichte zu dieser Zeit einen Bildband mit dem Titel »Kunstprojekte für Europa« – Untertitel: »Größenwahn«. Darin war auch Demnigs erster Stein abgebildet.

    Der Bildhauer fühlte sich herausgefordert: »Millionen Steine würde ich vielleicht nicht schaffen, dachte ich mir damals«, erzählt Demnig. »Aber ich könnte ja zumindest mal anfangen.« Bis heute wurden 80.000 Stolpersteine verlegt, in 27 Ländern. Er schafft um die 500 Steine im Monat, das Ziel seien 750.

    Als er von den Diskussionen über die Stolpersteine in Luxemburg hörte, »hat mich das unheimlich traurig gemacht«, sagt Demnig. »Eine Opfergruppe wird hier gegen die andere ausgespielt«. Zwangsrekrutierte seien zwar Teil der Wehrmacht gewesen. »Aber habt ihr Beweise, dass es wirklich Mörder waren?«

    Gibt es NS-Opfer erster und zweiter Klasse?

    Wagner dagegen fordert, in strittigen Fällen keine Stolpersteine zu setzen. Selbst wenn Menschen gegen ihren Willen eingezogen wurden oder nicht aktiv am Verbrechen beteiligt waren, handle es sich um eine Grauzone: »Auch Zwangsrekrutierte waren tragende Säulen der NS-Ausgrenzung.«

    Vor rund zehn Jahren gab es deshalb eine Auseinandersetzung wegen eines Stolpersteins für Hugo Dornhofer: Vor 1945 war der spätere CDU-Politiker dienstverpflichteter Bauleiter im KZ Mittelbau-Dora. Der Stein wurde genehmigt, Demnig verlegte ihn in Heiligenstadt in Thüringen, beschriftet mit dem Titel »Zwangsarbeiter«.

    Hinter jedem Stein ein Schicksal

    Vor 20 Jahren verlegte Gunter Demnig seine Stolpersteine für die NS-Opfer erstmals mit behördlicher Genehmigung – mittlerweile sind es mehr als 61.000. Hier erzählt der Künstler, warum er nicht damit aufhört.

    Wagner protestierte dagegen. »Mit so einer Aufschrift musste jeder denken, dass er ein normaler KZ-Häftling war«, sagt er. Zwar sei Dornhofer zum Dienst verpflichtet worden, damals arbeitslos, »mit Sicherheit kein glühender Nazi«. »Ein Bauleiter hatte aber ein normales Arbeitsverhältnis, mit ganz normalem Lohn«, so Wagner. Schließlich habe er Demnig überredet, den Stein wieder zu entfernen, »eines Tages war er einfach nicht mehr da«.

    »Opferbegriff verwässert«

    »Mit dem Opferzentrismus unserer Erinnerungskultur hadere ich«, sagt Wagner. »Gesellschaftlich hat das Opfer hohes Prestige, viele versuchen deshalb unter den Opferbegriff unterzuschlüpfen.« Damit aber werde der Begriff »verwässert«. »Menschen sind keine Lämmer, sondern handelnde Akteure«, sagt Wagner. Unter dem Opferbegriff würden sie »objektiviert«.

    Wagner plädiert dafür, sich in der Erinnerungskultur mehr mit den Profiteuren des Nationalsozialismus zu beschäftigen. Es sei zwar eine »Pflicht der Gesellschaft, sich auch mit strittigen Fällen auseinanderzusetzen«, sagt er. »Dazu aber braucht es Bildungsprojekte, öffentliche Diskussionen. Und keine Stolpersteine.«

    Demnig hat den Eindruck, dass in den letzten Jahren der Opferbegriff erweitert wurde. Für Behinderte habe er früher weniger Aufträge bekommen, »jetzt kommen immer mehr Angehörige auf mich zu«. In manchen Städten hätten sich die Kriterien für Stolpersteine gelockert. Nach Hannover fahre er inzwischen mehrmals im Jahr – »mal sehen, was in München noch passiert«.

    https://de.m.wikipedia.org/wiki/Stolpersteine

    Liste der Länder mit Stolpersteinen, sortiert nach dem Datum (Jahr) der ersten Steinsetzung:

    Deutschland (seit 1992 – ein Prototyp in Köln)
    Österreich (seit 1997)
    Deutschland (seit 2000 mit amtlicher Genehmigung)
    Niederlande und Ungarn (seit 2007)
    Polen und Tschechien (seit 2008)
    Belgien und Ukraine (seit 2009)
    Italien (seit 2010)
    Norwegen (seit 2011)
    Slowakei und Slowenien (seit 2012)
    Frankreich, Kroatien, Luxemburg, Russland und Schweiz (seit 2013)
    Rumänien (seit 2014)
    Griechenland und Spanien (seit 2015)[26]
    Litauen (im August 2016)
    Lettland (seit 2017)
    Finnland (seit Juni 2018)
    Republik Moldau (seit Juli 2018)
    Schweden und Dänemark (seit Juni 2019)
    Serbien (seit August 2021)[28

    Liste de Stolpersteine ä Berlin-Charlottenburg
    https://www.berlin.de/ba-charlottenburg-wilmersdorf/ueber-den-bezirk/geschichte/stolpersteine/artikel.180218.php#azmap_1_0

    https://www.stolpersteine-berlin.de/de/biografie/3816

    #nazis #victimes #art #Allemagne #mémoire_collective

  • WORKING WITH MEMORY : GEORGIA AND ARMENIA

    Does sound play an important role in collective memory? In January and February 2016 we wanted to look at some of the underlying socio/political and historical themes in Georgia and Armenia, developing a method of journalism that uses aural history and folk songs to understand the individual and contrasting narratives that form historical threads. In particular we wanted to record folk songs that had been passed down through generations in order to remember the Armenian genocide, and thereby look at the way sound and stories are often used to maintain identity in the aftermath of displacement. Likewise we wanted to listen to the stories of the Yazidi community, one of Georgia’s long established ethnic minorities, and understand both the conditions for minorities in Georgia, and also their views on the persecution of Yazidis under ISIS, and its impact on the wider community.

    However as we were relatively new to the context of both Georgia and Armenia, much of our focus fell on gathering impressions through fieldwork in markets, rural towns, choirs, and talking to people in cafes and bars. We wanted to give space for unexpected stories to emerge, to follow leads and open spaces for collaboration. This ultimately led us to interview a polyphonic choir of coal minors, learn about the Bengalis diaspora in Georgia and listen to conflicting stories of memories under the soviet era.

    https://brushandbow.com/home/podcasts/georgia-armenia
    #mémoire #Géorgie #Arménie #mémoire_collective #son #Yézidis
    #journalisme_créatif #creative_journalism

    Throughout Yazidi history we have always suffered religious discrimination. Arabs and Turks call us Kafirs (unbelievers)

    –-> un nouveau #mot pour la longue liste sur les mots utilisés pour désigner les personnes étrangères (ajouté à la métaliste) :
    #Kafirs (unbelievers)
    https://seenthis.net/messages/414225
    #terminologie #vocabulaires #migrations #étrangers

  • Thread by lfaliaj on Thread Reader App – Thread Reader App
    https://threadreaderapp.com/thread/1380068166966071296.html

    Je me suis toujours refusé à employer des mots forts concernant ce que diffuse cette association et notamment sa direction mais là c’est dramatique : cette brochure est dangereuse

    #murielle_salmona #faux_souvenirs_induits #mémoire_traumatique cc @mad_meg

    • je sais pas pour vous mais ça fait un moment que j’ai un souci avec M.salmona. Ici ça explique bien pourquoi. C’est important d’être au jus, même si elle a fait des choses super bien et importantes.

    • Je suis cretainement biaisée et je veux bien qu’il y ai des pbl avec cette notion d’amnésie traumatique, mais je trouve pas convainquant le discours de ce mec, à part affirmé que Salmona n’est pas une vrai scientifique contrairement à lui, je voie pas trop ou il veux en venir. La brochure qu’il incrimine ne dit pas qu’on peu se passé d’une aide médicale, et si les symptômes peuvent ressemblé à beaucoup d’autres maladie ca ne prouve rien.

      Le fait aussi qu’il utilise les incohérences des souvenirs pour les rejetés ;

      Comment sait-on qu’il s’agissait de faux souvenirs ? Car certains concernaient des personnes décédées avant la naissance des victimes,
      d’autres des personnes dont la présence géographique était impossible au moment des faits, des faits improbables (e.g., sectes et rites sataniques, enlèvement par des aliens, j’en passe)

      Ici je trouve les exemples très mal choisis, car il arrive en effet que le souvenir traumatique soit altéré, par exemple au lieu que l’agresseur soit ton père (idée insupportable pour la victime) elle imagine que c’est un enlèvement d’aliens ou son arrière grand père mort au moment des faits. Le fait qu’il y ai des incohérences ne prouve absolument rien.

      Enfin il prétend que Salmona à l’oreille du gouv, ca me semble faux d’affirmé cela, Schiappa s’en est pris publiquement plusieurs fois à l’asso et à Salmona et le résultat de tout ce soit disant changement des mentalitées, c’est que le viol est correctionnalisé automatiquement depuis hier. Ce gouv se tamponne des victimes de viols comme de sa première chemise, la seul chose qui interesse ce gouv c’est le fric.

    • c’est moi qui dit qu’elle a l’oreille des gens au pouvoir, et c’est peut-être pas une bonne formule du tout. C’est juste qu’elle est très invitée sur les plateaux télé il me semble, qu’elle prend beaucoup de place médiatiquement...

      Ce qui fait problème pour moi, c’est 1.sa façon de surdramatiser des choses déjà bien assez dramatique comme ça 2.ce qui a pour effet de « nous » enfermer dans le dark 3.le tout en défendant une sorte de pureté de la victime (voir la campagne où elle (et d’autres) publiaient des photos d’eux et d’elles enfant, avec pour légende : « moi à 12 ans, est-ce que j’ai une tête à consentir ? »).

      Encore une fois, elle a fait des choses très très bien, et il ne s’agit pas d’essayer de la dézinguer.

      Mais perso, je suis tombé sur son site, il y a quelque années, et c’est peut-être très bien de mettre à la disposition de tout le monde un certain savoir, mais il y a des trucs qu’on ne peut pas prendre à bras le corps seul.e. Moi ça m’a vraiment enfoncé de lire ses trucs, je sais pas comment dire, c’est ce truc de #iatrogénie, comme de lire une notice d’effet secondaire de médocs, et de commencer à psychoter... Encore une fois, je crois pas qu’il s’agisse de foutre en l’air son travail sur l’amnésie traumatique, mais peut-être de nuancer un peu...

      Après il y a d’autres gens qui disent des choses assez graves (ce truc de sectes là) et c’est tellement énorme que je suis un peu dépassé, j’avoue...

    • J’ai un ressenti assez opposé au tien car le contenu trouvé sur le site m’a fait plutot beaucoup de bien, même si sur le moment c’etait pas facil. Le truc c’est que Salmona s’exprime en réaction de la culture du viol

      1.

      sa façon de surdramatiser des choses

      est mes yeux le minumum qu’on puisse faire en réaction au discours habituel à base de "ce n’est qu’un troussage de domestique" ou "tu va pas faire tant d’histoire pour un coup de bite"...

      2.

      ce qui a pour effet de « nous » enfermer dans le dark

      - mais c’est le dark je voie pas trop en quoi nommer enfin les choses à peu près comme il se doit (cad sortir du point de vue masculin sur les viols qui trouve ca si fun et bandant), serait un enferment.

      3.

      le tout en défendant une sorte de pureté de la victime (voir la campagne où elle (et d’autres) publiaient des photos d’eux et d’elles enfant, avec pour légende : « moi à 12 ans, est-ce que j’ai une tête à consentir ? »).

      On parle de viols, cad le crime qui est celui dans lequel on fait le procès des victimes, le crime le moins punis, le crime qui a été correctionnalisé hier comme si de rien n’était. Un crime ou meme pour des gosses de 4-5 ans les tribuneaux se demande si t’etait pas trop allumeuse et convoquent des experts pour ca. La campagne « moi à 12 ans, est-ce que j’ai une tête à consentir ? » je la comprend comme une réponse aux mecs comme Costa-Gavras qui te disent qu’elle en paressait 25 alors qu’elle en a 12 quand leur potes réals se font chopper à sodomiser des gosses.

      Salmona ca fait plus de 10 ans que je la voie se démené comme une acharnée et enfin on l’entend un peu dans les grands médias. Je dit pas qu’elle se trompe jamais ou que je suis toujours d’accord avec elle mais là les reproches que tu lui fait ne me semblent pas fondé. Elle réagit en réaction à des propos et ca serait bien de pas extraire ses propos de leur contexte.

    • Merci pour le lien, je suis perdu avec twiter. J’avais raté cette video qui sert de levier à la démonstration de la psy de twiter que tu signal.

      Il y a d’un coté une confusion entre Salmona la militante et Salmona la thérapeuthe. Lorsqu’elle fait cette video elle est pas en consultation, elle joue sur l’emotionnel pour impacté les gens, gens qui s’en tapent royalement qu’il y ai 6,7millions de victimes d’inceste tant qu’une people ne sort pas un livre de témoignage. J’aime pas non plus qu’elle l’appelle Muriel dans le tread, le prénom est une dévalorisation des femmes souvent utilisé ainsi que le reproche d’être émotionnelle.

      Pour l’histoire de sa collègue agresseuse qu’elle soutiens, si c’est vrai c’est triste et banal, en cas de conflit de loyeauté c’est tjrs difficil de rester correcte et Salmona autant qu’un·e autre. De là à parler de secte ca me semble fort et je découvre les signalements à l’ordre... l’ordre est habitué à couvrir les violeurs et punir les medecins qui font des signalements du coup je voie pas ca d’un bon oeil et encore moins un argument qui montrerai la dangerosité de Salmona. Je fait probablement parti de la secte et j’ai un gros biais en faveur de Salmona mais là je voie rien de concret dans les reproches qui sont fait.

    • Au delà de la dévalorisation que les femmes seraient trop émotionnelles, moi je vois ça comme la critique (à mon sens parfaitement justifiée il me semble) d’une femme professionnelle à une autre femme professionnelle : les deux sont psys, ont des patients, et quand on est pro et qu’on parle de ses sujets, on se doit justement d’avoir un contrôle émotionnel, c’est pas normal d’après elle d’être psy spécialisée des violences traumatiques graves et être à ce point débordée émotionnellement quand on parle de ce sujet.

      Sur l’aspect sérieux/scientifique, les deux (le premier lien et la femme sur twitter) disent aussi que par le passé oui il y a aussi plein de travail sérieux ("il est important de reconnaître que ce travail était énorme" / « Ca a donné des outils de compréhension aux victimes mais aussi à leurs proches. Ce sujet est beaucoup plus discuté médiatiquement. Ca on ne peut pas lui enlever. »), mais que par glissement petit à petit, désormais Salmona ne cite quasiment plus aucune source (il s’agit pas juste des prises de paroles à l’oral ça ok, mais des documents), et que la production de contenus récents n’a plus l’air basé sur les connaissances cliniques validées par les paires. Moi je n’y connais rien dans ce domaine donc je peux pas trop juger ce point mais que d’autres professionnels du même domaine (psy, victimologie, traumatisme) fassent ces remarques, c’est légitime, ça fait partie du nécessaire débat scientifique.

      Après elle (la femme du deuxième lien) parle de fait (très) graves, et du fait qu’il y a une plainte en cours de traitement envers Salmona, avec tout un dossier de preuves. Donc à voir la suite, on peut trop rien dire pour le moment puisque la plainte est en cours… Mais du coup ya bien des victimes (plusieurs apparemment) dans cette affaire, qu’il faut écouter aussi.

    • Pour le reproche d’être trop émotionnel, quand on la voie en publique c’est pas une psy en consultation mais une militante et une survivante de l’inceste qui s’exprime. Je trouve un peu déplacé de lui reproché son émotivité, ca peu être aussi bien une technique oratoire mise au point après 20 ans expérience des médias, qu’une difficulté à prendre la parole en publique.

      Pour les sources, sur le site https://www.memoiretraumatique.org les infos sont sourcés mais je suis pas plus apte que toi @rastapopoulos pour jugé la qualité de ces sources.

      Enfin pour (la femme du deuxième lien) j’ai pas compris de quel lien il est question. Si tu pouvait me le faire suivre ca m’arrangerait. Je ne sais rien de cette histoire mis à part que l’ordre en est saisi.

  • L’oublieuse mémoire coloniale italienne

    Commencée avant le fascisme, galvanisée par Mussolini, la colonisation par l’Italie de la Libye, de la Somalie et de l’Ethiopie fut marquée par de nombreuses atrocités,loin du mythe d’une occupation douce. Longtemps refoulés, ces souvenirs commencent à ressurgir

    Tout commence dans le centre de Rome, sur l’Esquilin, la plus haute des sept collines antiques. Plus précisément dans la cage d’escalier d’un immeuble sans ascenseur, situé à deux pas de la piazza Vittorio. Dans ce quartier à deux pas de la gare Termini, les prix de l’immobilier sont beaucoup plus modestes que dans le reste du centre, si bien que l’Esquilin est devenu, depuis une vingtaine d’années, un lieu de concentration de l’immigration africaine et asiatique, ce qui n’est pas sans provoquer des tensions le squat, occupé depuis 2003 par les militants néofascistes de CasaPound, est juste à côté.

    C’est donc là, en rentrant chez elle, épuisée, dans la touffeur d’une après-midi de fin d’été 2010, qu’Ilaria Profeti se retrouve nez à nez avec un jeune homme arrivé d’Ethiopie par la route des migrants. Dans un italien presque sans accent, celui-ci lui assure, documents à l’appui, qu’il est le petit-fils de son père, Attilio, un homme de 95 ans qui est resté, sa longue vie durant, plus que discret sur ses jeunes années de « chemise noire » fasciste, en Abyssinie.

    Levons toute ambiguïté : la scène qui vient d’être décrite est tout à fait vraisemblable, mais elle est issue d’une oeuvre de fiction. Il s’agit en réalité des premières pages d’un roman, le superbe Tous, sauf moi (Sangue giusto), de Francesca Melandri (Gallimard, 2019), qui dépeint avec une infinie subtilité les angles morts de la mémoire coloniale italienne. Le fil conducteur de la narration est le parcours sinueux d’un vieil homme dont le destin finalement assez ordinaire a valeur d’archétype.

    Issu d’un milieu plutôt modeste, Attilio Profeti a su construire à sa famille une position plutôt enviable, en traversant le mieux possible les différents mouvements du XXe siècle. Fasciste durant sa jeunesse, comme l’immense majorité des Italiens de son âge, il est parti pour l’Ethiopie, au nom de la grandeur impériale. Après la chute de Mussolini et la fin de la guerre, il parviendra aisément à se faire une place au soleil dans l’Italie du miracle économique, jouant de son physique avantageux et de ses amitiés haut placées, et enfouissant au plus profond de sa mémoire le moindre souvenir de ses années africaines, les viols, les massacres, les attaques chimiques. C’est ce passé, refoulé avec une certaine désinvolture, qui revient hanter ses enfants, trois quarts de siècle plus tard, sous les traits d’un jeune homme d’une vingtaine d’années, arrivé à Rome après une interminable traversée.

    Comme l’héroïne de Tous, sauf moi, Francesca Melandri vit sur l’Esquilin, au dernier étage d’un immeuble à la population mélangée. Et à l’image d’Ilaria, c’est sur le tard qu’elle a découvert ce pan escamoté de l’histoire italienne. « Quand j’étais à l’école, on ne parlait pas du tout de ce sujet-là, confie-t-elle depuis sa terrasse dominant les toits de la ville. Aujourd’hui ça a changé, il y a eu une prise de conscience, et de nombreux travaux universitaires. Pourtant cette histoire n’est jamais rappelée par les médias. Lorsqu’on parle du dernier attentat à la bombe à Mogadiscio, qui se souvient des liens entre Italie et Somalie ? Quand des bateaux remplis de migrants érythréens sont secourus ou coulent avant d’être sauvés, qui rappelle que l’Erythrée, nous l’appelions "l’aînée des colonies" ? »

    Le plus étrange est qu’à Rome, les traces du passé colonial sont légion, sans que personne n’ait jamais pensé à les effacer. Des stèles près desquelles personne ne s’arrête, des bâtiments anonymes, des noms de rue... rien de tout cela n’est explicité, mais tout est à portée de main.

    Comprendre les raisons de cette occultation impose de revenir sur les conditions dans lesquelles l’ « Empire » italien s’est formé. Création récente et n’ayant achevé son unité qu’en 1870, alors que la plus grande partie du monde était déjà partagée en zones d’influence, le royaume d’Italie s’est lancé avec du retard dans la « course » coloniale. De plus, il ne disposait pas, comme l’Allemagne qui s’engage dans le mouvement à la même époque, d’une puissance industrielle et militaire susceptible d’appuyer ses prétentions.

    Visées impérialistes

    Malgré ces obstacles, l’entreprise coloniale est considérée par de nombreux responsables politiques comme une nécessité absolue, à même d’assurer une fois pour toutes à l’Italie un statut de grande puissance, tout en achevant le processus d’unification du pays nombre des principaux avocats de la colonisation viennent de la partie méridionale du pays. Les visées impérialistes se dirigent vers deux espaces différents, où la carte n’est pas encore tout à fait figée : la Méditerranée, qui faisait figure de champ naturel d’épanouissement de l’italianité, et la Corne de l’Afrique, plus lointaine et plus exotique.

    En Afrique du Nord, elle se heurta vite à l’influence française, déjà solidement établie en Algérie. Ses prétentions sur la Tunisie, fondées sur la proximité de la Sicile et la présence sur place d’une importante communauté italienne, n’empêcheront pas l’établissement d’un protectorat français, en 1881. Placé devant le fait accompli, le jeune royaume d’Italie considérera l’initiative française comme un véritable acte de guerre, et la décennie suivante sera marquée par une profonde hostilité entre Paris et Rome, qui poussera le royaume d’Italie à s’allier avec les grands empires centraux d’Allemagne et d’Autriche-Hongrie plutôt qu’avec sa « soeur latine .

    Sur les bords de la mer Rouge, en revanche, la concurrence est plus faible. La première tête de pont remonte à 1869, avec l’acquisition de la baie d’Assab (dans l’actuelle Erythrée) par un armateur privé, pour le compte de la couronne d’Italie. Cette présence s’accentue au cours des années 1880, à mesure du recul de l’influence égyptienne dans la zone. En 1889, est fondée la colonie d’Erythrée, tandis que se structure au même moment la Somalie italienne. Mais l’objectif ultime des Italiens est la conquête du my thique royaume d’Abyssinie, qui s’avère plus difficile que prévu.

    En 1887, à Dogali, plusieurs centaines de soldats italiens meurent dans une embuscade menée par un chef abyssin, le ras Alula Engida. Cette défaite marque les esprits, mais ce n’est rien à côté de la déconfiture des forces italiennes lors de la bataille d’Adoua, le 1er mars 1896, qui porte un coup d’arrêt durable aux tentatives italiennes de conquête.

    Seul pays africain indépendant (avec le Liberia), l’Ethiopie peut désormais se targuer de devoir sa liberté à une victoire militaire. Le négus Menelik II y gagne un prestige considérable. Côté italien, en revanche, cette défaite est un électrochoc. Ressentie comme une honte nationale, la déroute des troupes italiennes entraîne la chute du gouvernement Crispi et freine durablement l’im périalisme italien.

    Adoua est un tournant. L’historien et ancien sénateur de gauche Miguel Gotor est l’auteur d’une remarquable synthèse sur le XXe siècle italien, L’Italia nel Novecento. Dalla sconfitta di Adua alla vittoria di Amazon (« L’Italie du XIXe siècle. De la défaite d’Adoua à la victoire d’Amazon » Einaudi, 2019, non traduit). Pour lui, c’est là-bas, sur les hauteurs de la région du Tigré, par cette humiliation retentissante, que le XXe siècle italien a commencé.

    L’aventure coloniale italienne s’est ouverte de façon peu concluante, mais l’aspiration à l’empire n’a pas disparu. La décomposition de l’Empire ottoman offrira à Rome une occasion en or, en lui permettant, en 1911-1912, de s’implanter solidement en Cyrénaïque et en Tripolitaine. « Souvent la conquête de ce qui allait devenir la Libye est évacuée un peu vite, mais c’est un moment très important. Pour l’armée italienne, c’est une répétition, un peu comme a pu l’être la guerre d’Espagne, juste avant la seconde guerre mondiale », souligne Miguel Gotor. Ainsi, le 1er novembre 1911, un aviateur italien lâche quatre grenades sur des soldats ottomans, réalisant ainsi le premier bombardement aérien de l’histoire mondiale.

    « La conquête des côtes d’Afrique du Nord est importante, certes, mais la Libye est juste en face de la Sicile, au fond c’est du "colonialisme frontalier". La colonie au sens le plus "pur", celle qui symboliserait le mieux l’idée d’empire, ça reste l’Abyssinie », souligne Miguel Gotor. Aussi les milieux nationalistes italiens, frustrés de ne pas avoir obtenu l’ensemble de leurs revendications territoriales au sortir de la première guerre mondiale, continueront à nourrir le rêve de venger l’humiliation d’Adoua.

    Le fascisme naissant ne se privera pas d’y faire référence, et d’entretenir le souvenir : les responsables locaux du parti se feront appeler « ras », comme les chefs éthiopiens. A partir de la fin des années 1920, une fois le pouvoir de Mussolini solidement établi, les prétentions coloniales deviendront un leitmotiv des discours officiels.

    Aussi la guerre de conquête déclenchée contre l’Ethiopie en 1935 est-elle massi vement soutenue. L’effort est considérable : plus de 500 000 hommes sont mobilisés. Face à un tel adversaire, le négus Haïlé Sélassié ne peut résister frontalement. Le 5 mai 1936, les soldats italiens entrent dans la capitale, Addis-Abeba, et hissent le drapeau tricolore. Quatre jours plus tard, à la nuit tombée, depuis le balcon du Palazzo Venezia, en plein coeur de Rome, Mussolini proclame « la réapparition de l’Empire sur les collines fatales de Rome » devant une foule de plusieurs centaines de milliers de personnes.

    « C’est bien simple, à ce moment-là, en Italie, il est à peu près impossible d’être anti fasciste », résume Miguel Gotor. Dans la foulée de ce succès, le roi Victor-Emmanuel III est proclamé empereur d’Ethiopie ; Benito Mussolini peut désormais se targuer d’avoir bâti un empire. La faillite d’Adoua avait été causée par un régime parle mentaire inefficace et désorganisé ? La victoire de 1936 est due, elle, aux vertus d’une Italie rajeunie et revigorée par le fascisme. La machine de propagande tourne à plein régime, l’assentiment populaire est à son sommet. « Ce moment-là est une sorte d’apogée, et à partir de là, la situation du pays se dégrade, analyse Miguel Gotor. Ar rivent les lois raciales, l’entrée en guerre... tout est réuni pour nourrir une certaine nostalgie de l’épopée éthiopienne. »

    Mécanisme de refoulement

    Le rêve impérial sera bref : il ne survivra pas à la défaite militaire et à la chute du fascisme. L’Ethiopie est perdue en 1941, la Libye quelques mois plus tard... Le traité de Paris, conclu en 1947, met officiellement un terme à une colonisation qui, dans les faits, avait déjà cessé d’exister depuis plusieurs années. Tandis que l’Ethiopie indépendante récupère l’Erythrée, la Libye est placée sous la tutelle de la France et du Royaume-Uni. Rome gardera seulement une vague tutelle sur la Somalie, de 1949 à 1960.

    Le projet d’empire colonial en Méditerranée et en Afrique, qui fut un des ciments de l’assentiment des Italiens à Mussolini, devient associé pour la plupart des Italiens au régime fasciste. L’un et l’autre feront l’objet du même mécanisme de refoulement dans l’Italie de l’après-guerre. Les dirigeants de l’Italie républicaine font rapidement le choix de tourner la page, et ce choix est l’objet d’un profond consensus qui couvre tout le spectre politique (le premier décret d’amnistie des condamnations de l’après-guerre remonte à 1946, et il porte le nom du dirigeant historique du Parti communiste italien Palmiro Togliatti). Les scènes de liesse de la Piazza Venezia ne seront plus évoquées, et avec elles les faces les plus sombres de l’aventure coloniale. Même la gauche transalpine, qui prendra fait et cause pour les mouvements anticoloniaux africains (notamment le FLN algérien) n’insistera jamais sur le versant italien de cette histoire.

    « Cela n’est pas étonnant, la mémoire est un phénomène sélectif, et on choisit toujours, consciemment ou non, ce qu’on va dire à ses enfants ou ses petits-enfants », remarque le jeune historien Olindo De Napoli (université de Naples-Frédéric-II), spécialiste de la période coloniale. « Durant l’immédiat après-guerre, ce sont les témoins qui parlent, ce sont eux qui publient », remarque l’his torien. Ainsi de la collection d’ouvrages L’Italia in Africa éditée sous l’égide du ministère des affaires étrangères, emblématique de la période. « Ces volumes sont passionnants, mais il y a certains oublis, qui vont vite poser des problèmes. »

    Parmi ces « oublis », la question la plus centrale, qui fera le plus couler d’encre, est celle des massacres de civils et de l’usage de gaz de combat, malgré leur interdiction par les conventions de Genève, lors de la guerre d’Ethiopie. Dans les années 1960, les études pionnières d’Angelo Del Boca et Giorgio Rochat mettront en lumière, documents officiels à la clé, ce pan occulté de la guerre de 1935-1936. Ils se heurteront à l’hostilité générale des milieux conservateurs.

    Un homme prendra la tête du mouvement de contestation des travaux de Del Bocaet Rochat : c’est Indro Montanelli (1909-2001), considéré dans les années 1960 comme le journaliste le plus important de sa géné ration. Plume du Corriere della Sera (qu’il quittera pour fonder Il Giornale en 1974), écrivain d’essais historiques à l’immense succès, Montanelli était une figure tutélaire pour toute la droite libérale.

    Comme tant d’autres, il avait été un fasciste convaincu, qui s’était porté volontaire pour l’Ethiopie, et il n’a pris ses distances avec Mussolini qu’en 1943, alors que la défaite était apparue comme certaine. Ra contant « sa » guerre à la tête d’une troupe de soldats indigènes, Montanelli la décrit comme « de longues et belles vacances », et qualifie à plusieurs reprises d’ « anti-Italiens » ceux qui font état de massacres de civils et d’usage de gaz de combat. La polémique durera des années, et le journaliste sera bien obligé d’admettre, à la fin de sa vie, que les atrocités décrites par Rochat et Del Bocaavaient bien eu lieu, et avaient même été expressément ordonnées par le Duce.

    A sa manière, Montanelli incarne parfaitement la rhétorique du « bon Italien » (« Italia brava gente »), qui sera, pour toute une génération, une façon de disculper l’homme de la rue de toute forme de culpabilité collective face au fascisme. Selon ce schéma, contrairement à son allié allemand, le soldat italien ne perd pas son humanité en endossant l’uniforme, et il est incapable d’actes de barbarie. Ce discours atténuant la dureté du régime s’étend jusqu’à la personne de Mussolini, dépeint sous les traits d’un chef un peu rude mais bienveillant, dont le principal tort aura été de s’allier avec les nazis.

    Ce discours trouve dans l’aventure coloniale un terrain particulièrement favorable. « Au fond, on a laissé s’installer l’idée d’une sorte de colonisation débonnaire, analyse Olindo De Napoli, et ce genre de représentation laisse des traces. Pourtant la colonisation italienne a été extrêmement brutale, avant même le fascisme. En Ethiopie, l’armée italienne a utilisé des soldats libyens chargés des basses oeuvres, on a dressé des Africains contre d’autres Africains. Et il ne faut pas oublier non plus que les premières lois raciales, préfigurant celles qui seront appliquées en 1938 en Italie, ont été écrites pour l’Ethiopie... Il ne s’agit pas de faire en sorte que des enfants de 16 ans se sentent coupables de ce qu’ont fait leurs arrière-grands-pères, il est seulement question de vérité historique. »

    Désinvolture déconcertante

    Malgré les acquis de la recherche, pour le grand public, la colonisation italienne reste souvent vue comme une occupation « douce », par un peuple de jeunes travailleurs prolétaires, moins racistes que les Anglais, qui se mélangeaient volontiers avec les populations locales, jusqu’à fonder des familles. L’archétype du colon italien tombant amoureux de la belle Abyssine, entretenu par les mémoires familiales, a lui aussi mal vieilli. Là encore, le parcours d’Indro Montanelli est plus qu’éclairant. Car aujourd’hui, si sa défense de l’armée italienne apparaît comme parfaitement discréditée, ce n’est plus, le concernant, cet aspect de sa vie qui fait scandale.

    En effet, on peut facilement trouver, sur Internet, plusieurs extraits d’entretiens télévisés remontant aux années 1970 et 1980, dans lesquelles le journaliste raconte avec une désinvolture déconcertante comment, en Ethiopie, il a « acheté régulièrement » à son père, pour 350 lires, une jeune fille de 12 ans pour en faire sa femme à plusieurs reprises, il la qualifie même de « petit animal docile », devant un auditoire silencieux et appliqué.

    Célébré comme une gloire nationale de son vivant, Indro Montanelli a eu l’honneur, à sa mort et malgré ces déclarations sulfureuses, de se voir dédié à Milan un jardin public, au milieu duquel trône une statue de lui. Au printemps 2019, cette statue a été recouverte d’un vernis de couleur rose par un collectif féministe, pour rappeler cet épisode, et en juin 2020, la statue a de nouveau été recouverte de peinture rouge, en lointain écho au mouvement Black Lives Matter (« les vies noires comptent ») venu des Etats-Unis.

    Indro Montanelli mérite-t-il une statue dans l’Italie de 2021 ? La question a agité les journaux italiens plusieurs jours, au début de l’été, avant que la polémique ne s’éteigne d’elle-même. Pour fondée qu’elle soit, la question semble presque dérisoire eu égard au nombre de témoignages du passé colonial, rarement explicités, qui subsistent un peu partout dans le pays.

    Cette situation n’est nulle part plus visible qu’à Rome, que Mussolini rêvait en capitale d’un empire africain. L’écrivaine italienne Igiaba Scego, née en 1974 de parents réfugiés somaliens, y a dédié un passionnant ouvrage, illustré par les photographies de Rino Bianchi (Roma negata, Ediesse, réédition 2020, non traduit).

    Passant par la stèle laissée à l’abandon de la piazza dei Cinquecento, face à la gare Termini, dont la plupart des Romains ignorent qu’elle a été baptisée ainsi en mémoire des 500 victimes italiennes de l’embuscade de Dogali, ou l’ancien cinéma Impero, aujourd’hui désaffecté, afin d’y évoquer l’architecture Art déco qui valut à la capitale érythréenne, Asmara, d’être classée au patrimoine de l’Unesco, la romancière fait une station prolongée devant le siège romain de la FAO (l’Organisation des Nations unies pour l’alimentation et l’agriculture), construit pour abriter le siège du puissant ministère de l’Afrique italienne.

    Devant ce bâtiment tout entier dédié à l’entreprise coloniale, Benito Mussolini avait fait ériger en 1937 un obélisque haut de 24 mètres et vieux d’environ seize siècles, ramassé sur site d’Axoum, en Ethiopie. Il s’agissait, rappelle Igiaba Scego, de faire de ce lieu « le centre de la liturgie impériale .

    La république née sur les ruines du fascisme s’était engagée à restituer cette prise de guerre à la suite des traités de 1947, mais après d’innombrables vicissitudes, le monument est resté en place jusqu’en 2003, où le gouvernement Berlusconi choisit de le démonter en trois morceaux avant de le renvoyer à Axoum, à ses frais.

    En 2009, la mairie de Rome a fait installer sur la même place, à deux pas de cet espace vide, une stèle commémorative afin « de ne pas oublier le passé . Mais curieusement, celle-ci a été dédiée... à la mémoire des attentats du 11-Septembre. Comme s’il fallait enfouir le plus profondément possible ce souvenir du rêve impérial et de la défaite, la ville a choisi de faire de ce lieu le symbole d’une autre tragédie. « Pourquoi remuer ces his toires horribles ? Pensons plutôt aux tragédies des autres. Le 11-Septembre était parfait », note, sarcastique, Igiaba Scego.

    A une quinzaine de kilomètres de là, dans le décor grandiose et écrasant du Musée de la civilisation romaine, en plein centre de ce quartier de l’EUR où la mémoire du fascisme est omniprésente, l’ethno-anthropologue Gaia Delpino est confrontée à un autre chantier sensible, où s’entrechoquent les mémoires. Depuis 2017, elle travaille à fusionner en un même lieu les collections du vieux musée ethnologique de Rome (Musée Pigorini) et du sulfureux Musée colonial inauguré en 1923, dont les collections dormaient dans des caisses depuis un demi-siècle.

    D’une fascinante complexité

    Lorsqu’on lui parle de l’odyssée de l’obélisque d’Axoum, elle nous arrête tout de suite : « C’est bien simple : ce qui a été réalisé là-bas, c’est exactement l’inverse de ce qu’on veut faire. » Restituer ces collections dans leur contexte historique tout en articulant un message pour l’Italie d’aujourd’hui, permettre à toutes les narrations et à toutes les représentations de s’exprimer dans leur diversité... L’entreprise est d’une fascinante complexité.

    « Les collections du MuséePigorini ont vieilli bien sûr, comme tous ces musées ethnographiques du XIXe siècle qui véhiculaient l’idée d’une supériorité de la civilisation occidentale. Le Musée colonial, lui, pose d’autres problèmes, plus singuliers. Il n’a jamais été pensé comme autre chose qu’un moyen de propagande, montrant à la fois les ressources coloniales et tout ce qu’on pourrait en tirer. Les objets qui constituent les collections n’ont pas vu leur origine enregistrée, et on a mis l’accent sur la quantité plus que sur la qualité des pièces », expliqueGaia Delpino.

    Sur des centaines de mètres de rayonnages, on croise pêle-mêle des maquettes de navires, des chaussures, des outils et des objets liturgiques... L’accumulation donne le vertige. « Et ce n’est pas fini, nous recevons tous les jours des appels de personnes qui veulent offrir des objets ayant appartenu à leur père ou à leur grand-père, qu’ils veulent nous confier comme une réparation ou pour faire un peu de place », admet l’anthropologue dans un sourire.

    Alors que le travail des historiens peine à se diffuser dans le grand public, où les représentations caricaturales du système colonial, parfois instrumentalisées par la politique, n’ont pas disparu, le futur musée, dont la date d’ouverture reste incertaine pour cause de pandémie, risque d’être investi d’un rôle crucial, d’autant qu’il s’adressera en premier lieu à un public scolaire. « Ce qu’il ne faut pas oublier, c’est que parallèlement à ce difficile travail de mémoire, la population change. Aujourd’hui, dans nos écoles, il y a aussi des descendants de victimes de la colonisation, italienne ou autre. Nous devons aussi penser à eux », précise Gaia Delpino.

    Retournons maintenant au centre de Rome. En 2022, à mi-chemin du Colisée et de la basilique Saint-Jean-de-Latran, une nouvelle station de métro doit ouvrir, dans le cadre du prolongement de la ligne C. Depuis le début du projet, il était prévu que celle-ci soit baptisée « Amba Aradam », du nom de la large artère qui en accueillera l’entrée, appelée ainsi en souvenir de la plus éclatante des victoires italiennes en Ethiopie.

    Ce nom était-il opportun, alors que les historiens ont établi que cette victoire écrasante de l’armée fasciste avait été obtenue au prix de 10 000 à 20 000 morts, dont de nombreux civils, et que les troupes italiennes avaient obtenu la victoire en faisant usage d’ypérite (gaz moutarde), interdit par les conventions de Genève ? Le 1er août 2020, la mairie a finalement fait savoir que la station serait dédiée à la mémoire de Giorgio Marincola.

    Pour le journaliste Massimiliano Coccia, qui a lancé cette proposition avec le soutien de collectifs se réclamant du mouvement Black Lives Matter, « revenir sur notre passé, ce n’est pas détruire ou incendier, mais enrichir historiquement notre cité . Et on peut choisir de célébrer la mémoire d’un résistant italo-somalien tué par les nazis plutôt que celle d’une des pages les plus sombres de l’histoire coloniale italienne.

    https://www.lemonde.fr/idees/article/2021/02/05/libye-somalie-ethiopie-l-oublieuse-memoire-coloniale-italienne_6068846_3232.

    #Italie #colonialisme #colonisation #Mussolini #fascisme #Libye #Somalie #Ethiopie #atrocités #occupation_douce #mémoire #mémoire_coloniale #occultation #impérialisme #Corne_de_l'Afrique #baie_d'Assab #royaume_d'Abyssinie #Alula_Engida #bataille_d'Adoua #Menelik_II #Crispi #Adoua #Tigré #Cyrénaïque #Tripolitaine #colonialisme_frontalier #Abyssinie #Haïlé_Sélassié #propagande #traité_de_Paris #refoulement #mémoire #massacres #gaz #Indro_Montanelli #gaz_de_combat #bon_Italien #Italia_brava_gente #barbarie #humanité #lois_raciales #vérité_historique #culpabilité #viol #culture_du_viol #passé_colonial #Igiaba_Scego #monuments #toponymie #toponymie_politique #Axoum #stèle #Musée_Pigorini #musée #Musée_colonial #Amba_Aradam #ypérite #gaz_moutarde #armes_chimiques #Giorgio_Marincola #Black_Lives_Matter

    L’article parle notamment du #livre de #Francesca_Melandri, « #sangue_giusto » (traduit en français par « Tous, sauf moi »
    https://seenthis.net/messages/883118

    ajouté à la métaliste sur le #colonialisme_italien :
    https://seenthis.net/messages/871953

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  • Documenter la douleur des autres : #souvenirs, #identités et #appartenance dans les imaginaires diasporiques des #Teochew

    La #mémoire_traumatique est un héritage avec lequel les descendants des #rescapés du #génocide_cambodgien doivent négocier pour trouver leur place dans une #histoire rompue, celle de leurs parents, et en France, pays où ils sont nés. Pour certains d’entre eux, l’#art et la #littérature sont un moyen de réparer les #blessures.

    La #migration s’accompagne invariablement d’une expérience de bouleversement, mais les circonstances du déplacement des #réfugiés du Cambodge – dont un nombre important de Chinois originaires du sud de la #Chine, les Teochew – équivaut à une réelle rupture. Le génocide mené par les #Khmers_rouges qui a anéanti près d’un quart de la population a laissé une génération dépourvue d’anciens et une fracture qui n’a pas été refermée quatre décennies plus tard. Pour les #réfugiés_cambodgiens, cette #séparation forcée est accentuée par l’apparente permanence de l’#exil. Comme pour tous les réfugiés et survivants cambodgiens, cette expérience du génocide est au cœur de la #mémoire_diasporique des Teochew, une mémoire déjà compliquée par l’histoire de #déplacements répétés (de la Chine au Cambodge et du Cambodge à la #France) et par un rapport ambivalent non seulement envers le Cambodge et son passé génocidaire mais aussi envers la Chine qui est restée silencieuse face à la persécution de ses diasporas.

    Comme mes recherches l’ont montré, ces histoires sont largement cryptées dans le #silence qui hante les familles de réfugiés, projetant les ombres du passé génocidaire à travers les générations. Les réflexions sur le travail de mémoire sino-cambodgien éclairent la relation entre lieux – de vie et d’appartenance –, mémoire et identité diasporique. Elles éclairent les conditions qui facilitent ou entravent la #transmission_intergénérationnelle ainsi que les luttes des générations post-réfugiées – celles qui n’ont pas vécu les #traumatismes mais qui sont néanmoins hantées par eux – pour récupérer cette histoire, et, à travers elle, leur place et leur appartenance à de multiples espaces de connexion.

    Ce texte fait référence aux prises de paroles de descendants de réfugiés cambodgiens (Jenny Teng, Mathieu Pheng et Lana Chhor) lors de la conférence « Générations Post-refugié.e.s » organisée à Sciences Po en décembre 2018. L’analyse de leur parole démontre à quel point le silence autour de la mémoire du génocide des Khmers rouges est un élément constitutif des identités des descendants nés et éduqués en France.

    Les générations post-génocide face au silence

    Dans ses réflexions sur le silence « post-génocide », Jenny Teng, cinéaste française d’origine cambodgienne Teochew, souligne qu’il existe « une culture du récit, de l’histoire, de la transmission des mots, qui est fondatrice de la diaspora et la culture juive » qu’on ne retrouve pas chez les Sino-cambodgiens, ce qui rend le témoignage encore plus difficile. Liant le silence à la honte et la culpabilité des survivants face à de telles violences et de telles pertes, elle note : « Les témoignages viennent ouvrir quelque chose qui était très secret. Et c’est peut-être parce que, dans ce secret, il y a une forme de culpabilité et une honte que ces enfants, que cette deuxième génération porte depuis l’enfance. » Pour Lana Chhor, auteure d’origine sino-cambodgienne, le silence engendre des effets dévastateurs non seulement « pour celui qui porte le silence mais aussi pour ceux à qui il est imposé. » Soulignant l’effet du silence qui, de manière simultanée, lie et fracture, elle compare la famille enveloppée par le silence à une « prison » où « chacun [se trouve] dans des cellules individuelles ». Les générations suivantes se retrouvent ainsi sans les outils nécessaires pour reconstruire et comprendre ces histoires et ces récits non seulement au sens linguistique mais aussi culturel et expérientiel. Comme le note Lana Chhor, « il est douloureux de grandir dans le silence car les mêmes questions reviennent, mais toujours sans réponses. »

    « Quelle place on donne aux disparus, aux défunts qui n’ont pas reçu de sépultures ? Les survivants ont en mémoire et au quotidien gardé une place, quelle est cette place ? »

    #Jenny_Teng, cinéaste et chercheure

    Le credo républicain de l’assimilation en France ne laisse pas de place à la pluralité des histoires, ce qui invisibilise non seulement les histoires des communautés diasporiques en France mais aussi les enchevêtrements de ces histoires avec l’histoire coloniale et post-coloniale de la France. Cet effacement permet à la France de ne considérer les réfugiés que comme des personnes à sauver et les politiques d’asile comme une action humanitariste plutôt que comme une responsabilité. Pour beaucoup, comme l’exprime Jenny Teng, le vide créé par l’inconnu et le non reconnu provoque un questionnement existentiel : « où se sent-on chez soi, physiquement, symboliquement ? » Pour les générations post-réfugiées, historiciser leur identité est donc un moyen d’affirmer leur humanité et individualité (personhood) et, comme le dit Lana Chhor, « d’enlever les étiquettes que la société nous met malgré nous ». En récupérant ces histoires enfouies et désavouées, ils récupèrent un lien avec un passé, et à travers ce passé une place dans le présent – au Cambodge, en Chine, en France – et une identité collective qui s’oppose à l’invisibilisation, à l’altérité, et à un « entre-deux » qui signifie essentiellement être à l’extérieur.
    Les générations post-génocide face à la mémoire

    Comme pour d’autres histoires traumatiques, avec le passage des générations, les questions de transmission et de conservation de la mémoire acquièrent une certaine urgence. Écrivant sur la transmission de la « tutelle de l’Holocauste », l’écrivaine Eva Hoffman décrit la deuxième génération comme « la génération charnière dans laquelle les connaissances reçues et transférées des événements sont transformées en histoire ou en mythe1. Comment les générations « postmémoire », ainsi que les appelle une autre écrivaine, Marianne Hirsch, reçoivent-elles et négocient-elles ces « expériences puissantes, souvent traumatisantes, qui ont précédé leur naissance mais qui leur ont pourtant été si profondément transmises qu’elles semblent constituer des souvenirs pleins ? » Comment raconter et aborder la « douleur des autres sans se l’approprier » comme la philosophe Susan Sontag l’a si bien décrit ? Et comment faire cela avec seulement des fragments de souvenirs, glanés ici et là, et à distance depuis son perchoir générationnel ? Quelles sont, le cas échéant, les négociations entre éthique et esthétique de la mémoire ?

    « Le credo républicain de l’assimilation en France ne laisse pas de place à la pluralité des histoires, ce qui invisibilise non seulement les histoires des communautés diasporiques en France mais aussi les enchevêtrements de ces histoires avec l’histoire coloniale et post-coloniale de la France. »

    Khatharya Um

    Significativement, à partir de leur « proximité distanciée », les générations post-réfugiées peuvent s’engager dans cette histoire traumatisante d’une manière impossible pour les survivants de la première génération. Les « entre-deux » spatiaux, temporels et générationnels, des lieux que #Mathieu_Pheng, documentariste d’origine franco-cambodgienne, décrit comme « les endroits où ça frictionne » – ne sont pas seulement des espaces de tension mais aussi de possibilité, où la distance générationnelle offre de nouvelles perspectives, un sentiment d’urgence renouvelé, où le créatif et le critique peuvent émerger des ruines de la guerre, du génocide et de l’exil. Pour Jenny Teng, qui centre ses œuvres sur cette notion d’« entre », la création est un pont entre le passé et le présent, et la caméra une fenêtre vers un passé douloureux qui « permet à la personne qui témoigne, de se constituer en témoin dans le sens premier, c’est-à-dire qu’elle va dire ce qu’elle a vu, ce qu’elle a connu pour l’inscrire dans l’histoire. Le documentaire a cette force-là, qui est de sortir du cercle familial et de l’affect, peut-être trop chargé, pour s’adresser à la fenêtre qu’ouvre la caméra. » Les documentaires offrent également une opportunité de dialogue intergénérationnel et de co-création qu’elle considère comme ouvrant la voie « pour sortir du tabou familial » même si cela prend du temps.

    Si l’art et l’écriture ont leur rôle dans la promotion des liens intergénérationnels et de la guérison, ils ne peuvent ni consoler ni restaurer les pertes subies par les réfugiés. Pour Jenny Teng, la possibilité offerte par la création artistique n’est pas forcément la récupération, qu’elle juge impossible, mais un moyen de « permettre à la solitude d’être un petit peu apaisée… Donc c’est vraiment consoler la souffrance de la souffrance, pas la souffrance en elle-même. » Également investie dans la potentialité réparatrice de l’art, Lana Chhor voit les mots comme aidant à suturer le vide et la blessure engendrés par le silence spectral de l’histoire : « Autant qu’ils peuvent blesser, je suis intimement convaincue que les mots peuvent réparer. »

    http://icmigrations.fr/2020/11/18/defacto-023-03

    #diaspora #douleur #mémoire #Cambodge #génocide