• French riots show how entrenched inequalities have become

      The gulf between immigrants and those born in the country is larger than in almost any other developed nation

      Imagine two countries. The first is proudly Christian, it allowed racial segregation in living memory and racism is mentioned more frequently in its media than anywhere else in the developed world. The second is strictly secular and legally prohibits the collection of data on people’s race, a conscious effort by its leaders to avoid using ethnicity to differentiate or divide.

      Which do you think would offer people from diverse racial and religious backgrounds the best prospects of success? Of becoming equal participants in society? The answers revealed in the data are surprising.

      In 2021, US unemployment was 5.5 per cent for those born in the country, and 5.6 per cent for those born overseas. Black and white employment rates are now neck and neck. In France, unemployment is seven per cent among those born in the country, but 12 per cent for immigrants, rising past 17 per cent among those who arrived in the last ten years. Comparisons with Britain, whose demographics and colonial history perhaps make for a fairer benchmark, are similarly damning.

      Following a week of rioting across France, spurred by the death of a teenager of North African descent shot dead by police at a traffic stop, these statistics are worth revisiting. While the number of arrests has declined this week, the need for a serious conversation about how France continues to fail its immigrant communities and their neighbourhoods remains.

      Just as in France’s 2005 bout of urban violence, or London’s own riots in 2011, fractious relations between police and ethnic minorities provided the spark for unrest fuelled by deprivation and social exclusion. Rioters tend to come disproportionately from disadvantaged neighbourhoods: those who don’t have a stake in society have little to lose in burning it down.

      Across the west, young black and brown men have grown bitterly used to being disproportionately targeted by police stop and searches, but the magnitude of the disparity in France is shocking. In London, black people are between two and three times as likely to be apprehended as their white counterparts, but in Paris the figure rises to six times, and almost eight times for those of Arab origin.

      Encounters with French police are more lethal, too, as officers are routinely armed and are allowed to shoot at people who don’t comply with traffic stops if they are deemed to pose a safety risk. There were 26 fatal police shootings in France in 2022, compared to just 2 in the UK, and in the past 18 months French police have shot dead 17 people during traffic stops such as that which sparked the latest riots.

      Last Friday as the unrest escalated, the two largest police unions released a statement declaring they were “at war” with “vermin” and “savage hordes”. This culture of hostility has grown since Nicolas Sarkozy abandoned neighbourhood policing two decades ago, in favour of more repressive tactics. A future government led by Marine Le Pen’s far-right party would surely only lean into the adversarial approach.

      And there is little sign of improvement on integration. One in five of France’s foreign-born population believe they are discriminated against, the joint highest with Italy in the developed world. Meanwhile France’s immigrants are almost three times as likely as those born in the country to be in poverty. In the UK, the poverty rates between immigrants and others are the same.

      This French disparity is compounded by decades of failed urban policy resulting in immigrant communities being concentrated in the banlieues, emphasising their otherness and hampering social mobility. The cheek-by-jowl nature of wealth and poverty in London comes with its own problems, but has been a buttress against the ossification of inequality seen in France. Twenty-eight per cent of recent French immigrants are now in the lowest tenth of earners, compared to just eight per cent of non-immigrants. In the UK, the figure is ten per cent regardless of country of birth.

      Despite claims that France is race-blind, the data tells a different story. Without reforms in both policing and social exclusion, there is little hope that these violent episodes will cease any time soon.

      john.burn-murdoch@ft.com, @jburnmurdoch

    • Les langues se délient dans la presse étrangères. Très bien. Mais à moins qu’une agence de notation dégrade à nouveau la France sur le marché de la dette, quels bénéfices pourrait-on retirer de ce « Macronie bashing » ?
      Sur un horizon proche, perso, je ne vois que des emmerdes. Les « investisseurs » se désinvestissent (trop d’insécurité). La France ainsi ostracisée perd tout crédit sur la scène internationale (n’est pas Donald Trump qui veut).
      Le gouverne-ment s’arqueboute sur un déni de plus en plus surréaliste. Pendant qu’une grande partie de la population tombe dans la précarité voire la misère, le pays « se tient sage » grâce à la propagande de Brave France Macronnienne (BFM) et consorts...
      {edit] j’oubliais grâce aussi au lobbying intense des « syndicats » du crime policier.

  • Respingimenti e ostacoli all’asilo. Ritorno sulla frontiera Italia-Svizzera

    Da gennaio ad aprile 2023 a Como-Ponte Chiasso oltre 1.300 persone migranti sono state “riammesse” indietro dalle autorità elvetiche. È il confine terrestre italiano con i dati più alti. Quattro su 10 sono afghani: la protezione è un miraggio

    Ahmed, diciassettenne afghano, è partito da Kabul nell’autunno del 2021 per non finire tra le fila dell’esercito talebano. A un anno e mezzo dalla partenza, dopo aver percorso una delle diramazioni della rotta balcanica, passa per la stazione di Milano, dove non si ferma neanche una notte: la prossima tappa da raggiungere è Zurigo, l’obiettivo ultimo la Germania. Che cosa lo aspetta al confine italo-svizzero? Seppur poco raccontato, secondo i dati del ministero dell’Interno, su questa frontiera nei primi quattro mesi del 2023 sono state registrate 1.341 riammissioni passive, ovvero le pratiche di polizia a danno di persone straniere considerate irregolari che, a un passo dall’arrivo sul territorio elvetico, vengono costrette a ritornare in Italia.

    A far da contraltare all’approccio di frontiera finalizzato al respingimento, una parte della società civile su entrambi i lati del confine testimonia ormai da anni un’accoglienza possibile ma sempre più difficile nei confronti dei transitanti. La collaborazione tra i due Paesi si rifà all’accordo italo-svizzero del 1998 “sulla riammissione delle persone in situazione irregolare”, mai ratificato dal Parlamento italiano. Il 31 maggio scorso quell’impegno bilaterale è stato ribadito nell’incontro tra il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e la sua omologa svizzera, Elisabeth Baume-Schneider, per contrastare, parole del Viminale, la “criminalità organizzata”, il “terrorismo internazionale” e monitorare i “foreign fighters di rientro dai teatri di guerra”. Il tutto, ha assicurato la consigliera elvetica, garantendo “sempre il rispetto dei diritti umani dei migranti”. Retorica politica che propone un concetto di sicurezza e promette di proteggere tutti, ma poi nella pratica minaccia le stesse persone in cerca di una maggior sicurezza.

    Già nel 2016 l’Associazione per gli studi giuridici sull’Immigrazione (Asgi) aveva evidenziato l’illegittimità delle riammissioni previste dall’accordo bilaterale per diversi motivi: ostacolano la domanda di asilo, implicano controlli sistemici e discriminatori lungo una frontiera Schengen e sono considerabili espulsioni collettive; infine, essendo procedure informali, non permettono di presentare un eventuale ricorso.

    Nonostante le rassicurazioni sul “rispetto dei diritti umani” di Baume-Schneider, le riammissioni, con le annesse criticità sottolineate nel 2016, continuano anche oggi. I dati relativi ai primi mesi dell’anno, comunicati dal Viminale dopo un’istanza di accesso civico di Altreconomia, sono eloquenti. Per quanto riguarda il settore terrestre di Como-Ponte Chiasso, da gennaio ad aprile 2023 sono state registrate 1.341 riammissioni verso l’Italia (numeri alti, basti pensare che per il più conosciuto accordo bilaterale tra Italia e Slovenia erano state 1.240 le persone riammesse nel 2020, anno di picco).

    Quello con la Svizzera si conferma quindi il confine terrestre italiano dove vengono registrate più riammissioni passive (si veda, a questo proposito, l’articolo sui respingimenti ai confini italiani nel numero di febbraio di Altreconomia). Dal gennaio 2022, infatti, in media, 330 persone ogni mese sono costrette dalla polizia svizzera a ritornare sui propri passi. Quattro su dieci sono afghani, proprio come Ahmed. Seguono siriani, turchi, marocchini e poi bengalesi e tunisini.

    Entrare nel merito di ciascun episodio è impossibile, ma si può ipotizzare che in molti casi la riammissione abbia ostacolato l’accesso alla domanda di protezione internazionale per persone provenienti da zone di conflitto. Ciò che permette un così alto numero di riammissioni è l’esteso sistema di controllo elvetico. “Il Ticino ha il più alto numero di poliziotti pro-capite di tutta la Svizzera”, spiega Donato Di Blasi di Casa Astra, centro di prima accoglienza per persone in emergenza abitativa nella Svizzera italiana. Nel territorio, infatti, si conta un agente ogni 305 abitanti, a fronte della media nazionale di uno ogni 466 secondo i dati della Radiotelevisione svizzera. “I pattugliamenti della polizia svizzera si estendono sui treni fino a Lugano, a 30 chilometri dalla stazione di confine di Ponte Chiasso”, continua Di Blasi.

    Spesso i controlli avverrebbero sistematicamente nei confronti di persone con caratteristiche somatiche apparentemente non di origine europea, in violazione delle normative che vietano la profilazione etnica (racial profiling). Un ragazzo egiziano di 16 anni che vive attualmente a Como racconta: “Una volta rientrando da Milano mi sono addormentato sul treno, superando per sbaglio la fermata di Como. Alla stazione di Chiasso mi hanno svegliato i poliziotti, mi hanno perquisito fino a lasciarmi in mutande, poi mi hanno riportato in Italia. Ero l’unico sul treno a cui è successo così”. Il monitoraggio frontaliero delle forze dell’ordine si inoltra anche nelle zone di transito percorribili in auto o a piedi. Per sorvegliare al meglio queste aree, l’ufficio federale dell’armamento (Armasuisse) aveva annunciato già nel 2015 l’acquisto di sei droni di fabbricazione israeliana che entreranno a pieno regime entro la fine del 2024.

    Nonostante la fitta rete di controlli e i numeri delle riammissioni, le realtà comasche che supportano le persone transitanti concordano nel dire che la situazione per le strade di Como non è minimamente paragonabile a quella dell’estate del 2016, quando fino a 500 persone dormivano nei pressi della stazione di San Giovanni in attesa di superare il confine. “Sono sporadici i casi di persone riammesse dalla Svizzera presenti sulle strade di Como”, racconta Anna Merlo di Porta Aperta, sportello di Caritas per i senza dimora. “Dato l’alto numero delle riammissioni, ci chiediamo: dove vanno le persone una volta riportate in Italia?”, si domanda don Giusto Della Valle, parroco di Rebbio, realtà solidale con le persone transitanti e attualmente luogo di accoglienza per decine di minori stranieri non accompagnati in attesa di una sistemazione definitiva. L’impressione è che chi viene riammesso non si fermi in città, provando a continuare il viaggio in altre zone di frontiera, vicine e lontane.

    Ahmed ha avuto fortuna, è riuscito a superare l’ennesimo confine, ma questo non significa la fine degli ostacoli. Infatti, dalle informazioni raccolte, è frequente che le persone transitanti, intercettate dalle forze dell’ordine sul territorio svizzero, dopo aver provato a fare domanda di asilo vengano riportate in Italia alla centrale di polizia di Ponte Chiasso. “Per essere certi che la domanda di asilo venga presa in carico e le persone non vengano respinte, l’unico modo è accompagnarle fisicamente alla questura di Chiasso per contestare un’eventuale riammissione; lo abbiamo fatto più volte in passato -spiega Gabriela Giuria Tasville di Azione posti liberi, fondazione che segue dal punto di vista legale i richiedenti asilo in Ticino-. A peggiorare il quadro, inoltre, è impossibile, per le persone in transito, soggiornare anche temporaneamente in Svizzera, perché dal 2008 è entrata in vigore una legge federale che vieta qualsiasi forma di accoglienza e penalizza chiunque aiuti le persone transitanti in situazione di irregolarità”. Questa legge infatti punisce “con una pena detentiva sino a un anno o con una pena pecuniaria chiunque […] facilita o aiuta a preparare l’entrata, la partenza o il soggiorno illegali di uno straniero” (articolo 116, 1.a). Le autorità, da una parte, non permettono alle persone transitanti di regolarizzare la loro posizione sul territorio e quindi di accedere alle strutture di accoglienza; dall’altra, puniscono chiunque aiuti il soggiorno di una persona che è in una situazione di irregolarità a causa del mancato accesso alla procedura di asilo.

    Questa legge, ormai arrivata al suo quindicesimo anno d’età, ha fatto sì che realtà come Casa Astra, che già nel 2004 accoglieva sans papier provenienti dall’Ecuador, non possano più supportare persone in situazione di emergenza abitativa senza documenti. Ancora più eclatante è il caso del centro sociale autogestito il Molino a Lugano, unica realtà che fino al 2021 accoglieva apertamente le persone transitanti. Nel maggio di due anni fa è stato raso al suolo su provvedimento della polizia cantonale. Al contrario della solida collaborazione tra le autorità di frontiera dei due Paesi, costruire e mantenere una rete solidale a livello locale e transfrontaliero di supporto alle persone in transito, in questo contesto, sembra quasi impossibile.

    https://altreconomia.it/respingimenti-e-ostacoli-allasilo-ritorno-sulla-frontiera-italia-svizze

    #Italie #Suisse #frontières #push-backs #refoulements #asile #migrations #réfugiés #frontière_sud-alpine #réadmissions #réadmissions_passives #foreign_fighters #terrorisme #statistiques #chiffres #2023 #2022 #profilage_racial #drones #criminalisation_de_la_solidarité

  • #Frontex #risk_analyses based on unreliable information, EU watchdog says

    The EU border management agency Frontex produces untrustworthy risk analyses on migration due to the ‘low reliability of the data collected’, an investigation conducted by the #European_Data_Protection_Supervisor (#EDPS) found on Wednesday (31 May).

    The supervisor, which oversees the data processing of EU bodies, questioned the methodology used to integrate interviews collected on the field into risk analyses and denounced the “absence of a clear mapping and exhaustive overview of the processing of personal data” which the authority assessed as not sufficiently protected.

    The voluntary nature of interviews themselves is also not guaranteed, the report has found, as they “are conducted in a situation of deprivation (or limitation) of liberty” and aim at “identifying suspects on the basis of the interviewee’s testimony”.

    The concerns regard “the use of information of low reliability for the production of risk analyses and its implications for certain groups who may be unduly targeted or represented in the output of risk analysis products”.

    “Such undue representation could have negative impacts on individuals and groups through operational actions as well as the policy decision-making process,” the EU watchdog said.

    The new investigation results from fieldwork occurred in late 2022 at the Frontex headquarters in Warsaw.

    It is not the first time that the body has raised serious concerns about the data processing practices of an EU agency. In 2020, the supervisor initiated an investigation on Europol, the EU’s law enforcement agency, that resulted in the European Commission revising the agency’s mandate.

    Lack of protection

    The report explains that Frontex uses as its “main source of personal data collection” interviews that it conducts jointly with the member state they are operating in. Interviews are carried out on an ad hoc basis with people intercepted while trying to cross a border “without authorisation”.

    The EU agency collects information about their journey, the causes of the departure and any other information that can be relevant to the agency’s risk analysis.

    Despite Frontex carrying out interviews without putting the name of individuals, the information the exchanges contain “would allow for the identification of the interviewee and thus constitutes personal data within the meaning of data protection law”, the report argued.

    Among others, the EU agency collects personal data about individuals suspected to be involved in cross-border crimes, such as human smuggling, whose data are shared with Europol.

    According to the report, the EU agency may not “systematically” collect information about cross-border crimes since it “must be strictly limited to” Europol, Eurojust, and the member states’ “identified needs”.

    However, evidence shown by the EDPS indicates “that Frontex is automatically exchanging the debriefing reports with Europol without assessing the strict necessity of such exchange”.

    Since the latter constitutes a breach of Frontex rules themselves, the authority said that it would open an investigation on the matter.

    The authority also considers the arrangements that should be put in place when data are collected jointly between Frontex and member states to be “incomplete”.

    According to the EDPS, there are “no arrangements between the joint controllers for the allocation of their respective data protection obligations regarding the processing of personal data of interviewees”.

    “The audit report challenges the fundamental legality of risk analysis systems used against migrant people, and it highlights the serious harms that derive from their use,” Caterina Rodelli, EU Policy Analyst at the NGO Access Now told EURACTIV.

    Rodelli sees the EDPS report as an “important step” to set a limit to Frontex’s “disproportionate power” and it comes in a pivotal moment of risk assessment of data collecting tools regarding migratory flows.

    The authority sent Frontex 32 recommendations, of which 24 must to be implemented by the end of 2023.

    https://www.euractiv.com/section/data-privacy/news/frontex-risk-analyses-based-on-unreliable-information-eu-watchdog-says
    #chiffres #statistiques #méthodologie #fiabilité #europol #données_personnelles #frontières #migrations #réfugiés

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    voir aussi ce fil de discussion auquel cet article a été ajouté :
    https://seenthis.net/messages/705957

  • #Emmanuel_Lechypre, journaliste à BFM Business :

    « L’#échec des #politiques_de_la_ville, une quinzaine de #plans_banlieues depuis 1977. 100 milliards d’euro sur la table, et pas de résultats. La réalité c’est que la situation est bien plus difficile pour ces 7,5% de la population qui vivent dans les #banlieues que pour le reste du pays. Le taux de #chômage y est 2 fois plus élevé. La moitié des jeunes n’y a pas d’emploi, 4 habitants sur 10 n’ont aucun #diplôme, c’est le double de la moyenne nationale, et le taux de #pauvreté est 3 fois plus élevé que dans l’ensemble du pays.
    Quand vous regardez, est-ce que les habitants des #quartiers_pauvres reçoivent plus de #transferts_sociaux que les autres ? Non, en France métropolitaine on est à 6800 euros en moyenne par an. Là c’est 6100 euros dans les banlieues.
    Est-ce que ces territoires, plus pauvres, reçoivent beaucoup plus de la #solidarité_nationale qu’ils ne contribuent ? Ce n’est pas vrai. La Seine-Saint-Denis est le 3ème département en France le plus pauvre de France, et pourtant c’est le 8ème contributeur en termes de #cotisations_sociales.
    Est-ce que les quartiers pauvres sont mieux traités par l’Etat que la France périphérique ? Non, si on regarde les chiffres en matière de #santé, les quartiers populaires comptent moins de 250 professionnels offrant des #soins de proximité. C’est 400 en moyenne en France. Et même quand l’Etat dépense plus, les chiffres sont trompeurs. C’est vrai sur le coût moyen d’un élève accueilli en #éducation_prioritaire, il est plus élevé, sauf que la qualité de l’#enseignement qui est dispensé est moins bonne. »

    https://twitter.com/Laurent_Potelle/status/1675463787221008387
    https://www.bfmtv.com/economie/replay-emissions/good-morning-business/emmanuel-lechypre-banlieues-trop-peu-d-argent-trop-mal-depense-30-06_VN-20230
    #chiffres #statistiques #préjugés #idées_reçues #quartiers_populaires #réalité #Nahel #politique_de_la_ville

    ping @karine4 @isskein @cede

    • Violences en banlieue : la politique de la ville, une cible trop facile

      Depuis la mort de Nahel, l’extrême droite s’indigne des milliards qui auraient irrigué en vain les quartiers populaires. Mais avec des plans banlieues délaissés depuis des années, le problème semble surtout résider dans les rapports entre la jeunesse et la police.

      C’est une petite musique qui monte, après cinq nuits d’émeutes qui laissent le pays groggy. Une rage de justice, pour venger la mort de Nahel, 17 ans, tué par un tir policer le 27 juin, qui a tout emporté sur son passage : mairies, commissariats, écoles, centres des impôts ou de santé, médiathèques, boutiques et centres commerciaux, voitures et mobilier urbain. Jusqu’à cette tentative de mettre le feu à la mairie de Clichy-sous-Bois, tout un symbole : foyer des précédentes violences de 2005, la ville a longtemps été dirigée par l’actuel ministre de la Ville, Olivier Klein.

      Cette petite musique, le Rassemblement national la fredonne depuis des années, mais c’est Eric Zemmour qui l’a entonnée vendredi sur Twitter : « On a dépensé 40 milliards d’euros pour reconstruire ces quartiers avec le #plan_Borloo, 40 milliards ! Vous voyez le résultat aujourd’hui ? » Un discours démagogique : le #programme_national_de_rénovation_urbaine (#PNRU, 2004-2021), créé par la loi Borloo du 1er août 2003, n’a pas coûté 40 milliards, mais 12. Lesquels ont été financés aux deux tiers par #Action_Logement, l’organisme paritaire qui collecte le 1 % logement, un prélèvement sur la masse salariale. Le reste par les collectivités locales et l’Etat. Ces 12 milliards d’euros ont généré 48 milliards d’euros de travaux, une manne qui a surtout profité au BTP. En outre, le PNRU a généré 4 milliards de TVA, 6 milliards de cotisations et 40 000 emplois pendant dix ans. Merci la banlieue. Un deuxième programme, le #NPNRU (N pour nouveau), est en route. D’un montant identique, il court jusqu’en 2030.

      « Plus grand chantier civil de l’histoire »

      Trop d’argent aurait été déversé pour les quartiers populaires ? « Franchement, vous n’imaginez pas à quoi ressemblait leur #état_d’abandon, de #misère, l’#enfermement : la police ne rentrait pas dans ces quartiers, les poubelles n’étaient pas ramassées, personne n’y rentrait ! » s’énervait #Jean-Louis_Borloo mardi 27 juin. Avant d’engueuler Libération, qui l’interrogeait sur son bilan  : « A quoi ça a servi ? Avant le PNRU, qui est quand même le plus grand chantier civil de l’histoire de France, il y avait des émeutes sporadiques dans les quartiers, quasiment tous les jours, jusqu’au grand embrasement de 2005. »

      C’était quelques heures avant que Nanterre ne s’embrase. Hasard cruel du calendrier, le père de la #rénovation_urbaine se trouvait à la Grande Borne à Grigny (Essonne), dans le cadre d’un déplacement censé donner le coup d’envoi des « célébrations » des 20 ans de l’#Agence_nationale_pour_la_rénovation_urbaine (#Anru) et à quelques jours d’un Comité interministériel des villes présidé par Elisabeth Borne, qui devait enfin dévoiler le contenu du plan « Quartiers 2030 ». Issue de la loi la loi Borloo, l’Anru est aujourd’hui présidée par Catherine Vautrin, présidente LR du Grand Reims, qui a succédé à Olivier Klein.

      Si le plan Borloo a permis de pacifier les banlieues, il a été par la suite « victime de son succès ». « Quand ça a commencé à aller mieux, on a arrêté de s’occuper des banlieues, ce n’était plus un problème », explique l’ex-maire de Valenciennes. Il aura fallu l’« appel de Grigny » en 2017 suivi d’un rapport également signé par Borloo en 2018 et une déambulation d’Emmanuel Macron en Seine-Saint-Denis, en plein Covid, pour que le chef de l’Etat ne se décide enfin à lancer l’acte II de la rénovation urbaine.

      Entretemps, une génération aura été sacrifiée. « Les 15-17 ans qui constituent le gros des émeutiers, ce sont les oubliés de la politique de la ville, estime un ex-préfet de Seine-Saint-Denis. Ce mouvement doit engendrer une révolution des dispositifs permettant d’appréhender socialement cette classe d’âge, dont personne ne s’occupe, de Toulouse à Sevran. » L’éducation y joue un rôle central, et l’annonce faite le 26 juin par le chef de l’Etat à Marseille d’étendre les heures d’ouverture des collèges a été saluée par les acteurs de la politique de la ville, qui ne se résume pas à la rénovation urbaine.

      « La question, c’est la police, la police, la police »

      On en fait trop pour les banlieues, vraiment ? Quelques chiffres récents compilés par l’Insee : dans les 1 514 « quartiers prioritaires de la politique de la ville » (QPV), où vit 8 % de la population, le taux de pauvreté est trois fois plus élevé (43 %) que dans le reste des unités urbaines et le revenu médian plafonne à 13 770 euros par an et par foyer. Avec un taux de chômage de 18,6 %, plus du double du niveau national. Bref, « dans les QPV, les communes ont plus de besoins mais moins de ressources : 30 % de capacité financière en moins », rappelait Borloo dans son plan de « réconciliation nationale ». La politique de la ville n’est pas la charité, ou une faveur faite aux plus précaires.

      Dans ces quartiers, plus de la moitié des enfants vivent en situation de pauvreté : 57 %, contre 21 % en France métropolitaine. Ils grandissent la rage au ventre à force de se faire contrôler : dans ces quartiers dont souvent un quart des habitants ne sont pas nés en France, un jeune homme noir ou arabe a une probabilité vingt fois plus élevée d’être contrôlé que l’ensemble de la population, selon un rapport du Défenseur des droits de 2017. Pour le sociologue Renaud Epstein, on se trompe donc en imputant la révolte actuelle à l’échec de la rénovation urbaine. « La question, c’est la police, la police, la police, et éventuellement la justice. La rénovation urbaine n’a rien à voir là-dedans. Si ça chauffe à Pablo-Picasso [le quartier de Nanterre où vivait Nahel, épicentre des violences, ndlr], ce n’est pas parce qu’on va leur enlever leur mosaïque pour pouvoir rénover les tours Nuages ! »

      Elu municipal à Bobigny (Seine-Saint-Denis) et infatigable militant des quartiers populaires, Fouad Ben Ahmed peut dater la bascule au jour près. Le 3 février 2003, quand Nicolas Sarkozy, alors ministre de l’Intérieur, se rend à Toulouse et lance : « La police n’est pas là pour organiser des tournois sportifs, mais pour arrêter les délinquants, vous n’êtes pas des travailleurs sociaux. » Dans la foulée, le directeur de la police toulousaine est limogé. « Dès lors, la police n’a plus été là pour protéger les jeunes, mais pour les interpeller. » L’élu socialiste n’oublie pas non plus la dimension économique des violences actuelles, qu’il qualifie d’« émeutes du pouvoir d’achat ». Ce dont témoignent les pillages de supermarchés de hard discount comme Aldi. A Grigny, le maire, Philipe Rio, le rejoint : « Depuis 2005, la pauvreté a explosé à Grigny, et la crise du Covid et l’inflation ont été un accélérateur d’inégalités et d’injustices. »

      Alors que Mohamed Mechmache, figure des révoltes urbaines de 2005 à travers son association ACLeFeu, réclamait ce dimanche « un vrai Grenelle pour les quartiers », certains craignent que ces émeutes ne plantent le dernier clou dans le cercueil de la politique de la ville. En clair : il n’y aura pas de PNRU 3 ni de 18e plan banlieue. « Vu l’état de sécession de la jeunesse, et en face la force de l’extrême droite, il n’y aura plus un sou pour les quartiers, c’est mort », confie un militant. Rencontrée samedi soir à Bobigny, Nassima, qui condamne les violences mais comprend la colère, le dit avec ses mots et la sagesse de ses 15 ans : « Déjà qu’on était délaissés, mais on va l’être encore plus car les Français vont se dire : “Ces gens, on les aide, pour qu’au final ils pillent.” »

      https://www.liberation.fr/societe/ville/violences-en-banlieue-la-politique-de-la-ville-une-cible-trop-facile-2023

    • Trop d’argent public dans les banlieues ? « Un vaste mensonge à des fins racistes et anti-pauvres »

      Après les révoltes urbaines, des commentateurs ont accusé les banlieues d’engloutir les #fonds_publics. La réalité ce sont plutôt des #services_publics moins bien dotés qu’ailleurs, et des travailleurs essentiels plus nombreux dans ces quartiers.

      Les banlieues seraient « gorgées d’#allocations_sociales », a dit Éric Zemmour. Ou bien encore seraient dépendantes du « trafic de drogues », a affirmé le patron du Medef au sujet de la Seine-Saint-Denis, avant de s’excuser. « Quand on regarde la réalité de près, le fantasme des milliards d’argent public déversés, d’habitants qui seraient gorgés de subventions est un vaste #mensonge », réagit Stéphane Troussel, président, socialiste, du département en question. La Seine-Saint-Denis, « c’est un département dans le top 10 des créations d’entreprises, en 20 ans, l’emploi y a bondi de 30 %», met par exemple en avant l’élu pour contredire les #préjugés.

      « Je ne suis ni angélique ni naïf, je sais aussi les difficultés, le niveau de chômage, le nombre d’allocataires du RSA, le taux de délinquance et de criminalité élevé, ajoute-t-il. Mais les clichés et caricatures exploités par les réactionnaires et l’extrême droite le sont à des fins politiques, à des fins racistes et anti-pauvres, pour exacerber le clivage entre ce que nous représentons en Seine-Saint-Denis, qui est un peu l’emblème des banlieues, et le reste de la France. »

      Des quartiers de travailleuses et travailleurs

      Les affirmations discriminatoires de quelques figures politiques depuis les émeutes qui ont secoué les quartiers populaires sont en grande partie contredites par la réalité. Dans la symbolique Seine-Saint-Denis, la population dispose « du plus faible niveau de vie de la France métropolitaine », pointait un rapport parlementaire en 2018. Le département présente aussi le taux de #chômage le plus élevé de la région Île-de-France : à 9,8% contre 5,4 % à Paris début 2023. Mais la Seine-Saint-Denis est aussi le département d’Île-de-France, « où la part des travailleurs clés dans l’ensemble des actifs résidents est la plus élevée », relevait l’Insee dans une étude en 2021.

      Les « #travailleurs-clés » de Seine-Saint-Denis sont entre autres aides à domicile, caissières et caissiers, ou encore vendeurs de commerces essentiels. Des #métiers dont tout le monde a perçu l’importance vitale pendant les confinements. L’atelier parisien d’urbanisme s’est aussi demandé où vivent les actifs des professions essentielles d’Île-de-France : personnel hospitalier, caissiers, ouvriers de la logistique, de la maintenance, aides à domicile, personnel de l’éducation…

      Sans surprise, du fait des prix de l’immobilier, elles et ils sont peu à vivre à Paris et beaucoup plus dans les départements des banlieues populaires. Les auxiliaires de vie, par exemple, résident plus fréquemment en Seine-Saint-Denis. Les livreurs sont sous-représentés à Paris, dans les Hauts-de-Seine et dans les Yvelines, mais surreprésentés dans les autres départements franciliens, principalement en Seine-Saint-Denis, dans le Val-d’Oise et le Val-de-Marne.

      Justice, police : #sous-dotation à tous les étages

      « Tous ceux qui ont étudié un peu la situation et essayé de la regarder objectivement ont constaté le #sous-équipement de notre département, notamment en termes de grands services publics, en matière de #justice, de #police, d’#éducation, de #santé », dit aussi Stéphane Troussel. L’élu cite le rapport parlementaire « sur l’évaluation de l’action de l’État dans l’exercice de ses missions régaliennes en #Seine-Saint-Denis » rédigé en 2018 par un élu du parti de Macron et un élu LR.

      Le rapport pointe notamment l’inégalité d’accès à la justice. Par exemple, la durée de traitement des affaires au tribunal d’instance est de 8,6 mois en moyenne en Seine-Saint-Denis, contre moins de 5 mois pour ceux du 18e arrondissement ou du 15e arrondissement de Paris. La Seine-Saint-Denis dispose aussi de beaucoup moins d’officiers de police judiciaire, ceux et celles chargés d’enquêter, que Paris et les Hauts-de-Seine.

      « La police, dans un département populaire comme le nôtre, n’est pas assez dotée en moyens, qu’ils soient humains ou immobiliers, estime Stéphane Troussel. L’état des commissariats est scandaleux. » L’élu pense aussi qu’il faut changer la police. « Il faut un débat sur la doctrine d’intervention, les contrôles aux faciès, les conséquences des modifications législatives de 2017 [sur l’usage de leur arme par les policiers en cas de refus d’obtempérer, ndlr], sur la formation des policiers… Mais en attendant, je suis pour une police qui est un service public, qui rassure et protège d’abord les plus fragiles et les plus modestes, les femmes seules, les enfants et les jeunes, les personnes âgées. Aujourd’hui, je considère que la police n’a pas les moyens de cette action dans un département comme le nôtre. »

      Éducation : des milliers d’heures de cours perdues

      La situation n’est pas meilleure dans l’éducation. Il existe en Seine-Saint-Denis « une forme subie d’#exclusion_scolaire : l’absence d’enseignant devant les élèves », pointait le rapport parlementaire de députés LR et LREM. « En dépit des postes créés depuis cinq ans, la continuité de l’enseignement n’est toujours pas assurée en Seine-Saint-Denis, pour une raison “mécanique” qui tient à l’inefficacité du dispositif de remplacement des absences de courte durée », ajoutaient les deux parlementaires.

      L’an dernier, Mediapart avait comptabilisé 259 heures perdues en un mois dans un collège de Seine-Saint-Denis faute d’enseignants pour faire cours. Dans les Hauts-de-Seine, la Fédération des conseils de parents d’élèves (FCPE) recensait ce printemps déjà plus de 800 heures de cours perdues à Bagneux, commune populaire des Hauts-de-Seine.

      Pourtant, nombre d’établissements scolaires des banlieues populaires d’Île-de-France sont classés « réseau d’éducation prioritaire », Rep ou Rep+. Ce qui devrait signifier des moyens supplémentaires. 58 % des écoliers et 62 % des collégiens de Seine-Saint-Denis sont inscrits dans un établissement de ce type.

      « Dans les établissements Rep et Rep+, les moyens ne sont absolument pas à la hauteur des besoins, accuse Fatna Seghrouchni, professeure de français en collège dans le Val-d’Oise et cosecrétaire de la fédération Sud Éducation. « On entasse les élèves dans les classes, on surcharge les classes. » Quand elle est arrivée dans son collège il y a 17 ans, l’enseignante avait « 20 à 22 élèves par classe », témoigne-t-elle. « Alors que mon collège n’était pas encore classé #Rep. Aujourd’hui, on est à 26-28 tout en étant classé Rep. Cinq élèves en plus par classe, c’est oppressant pour les élèves eux-mêmes. Et l’établissement n’est pas fait pour accueillir autant d’élèves. »

      La responsable syndicale salue les programmes de soutien pour les établissements classés prioritaires, d’aides aux devoirs, les enveloppes budgétaires pour proposer des activités culturelles et sportives. Mais tout cela reste « du saupoudrage, dit-elle. Nous, nous demandons surtout moins d’élèves dans les classes, plus d’établissements scolaires, pour mieux accueillir tous les élèves, plus d’enseignants, plus de personnel en général, et une meilleure rémunération de tous les personnels. »

      Des grands projets qui ne profitent pas aux habitants

      Au cours des nuits de tensions fin juin et début juillet, Yohan Salès, conseiller municipal à Pierrefitte-sur-Seine pour la France insoumise, a arpenté les rues de sa ville à la rencontre des jeunes et des médiateurs. « On a discuté des débats des plateaux télé des derniers jours. Ce que disent les gens, c’est que l’argent de la politique de la ville, on ne le voit pas, rapporte-t-il. Dire que la Seine-Saint-Denis engloutit des millions d’argent public, c’est une lubie de la droite. L’investissement est en fait largement insuffisant. »

      Pour lui, beaucoup des grands projets menés par l’État dans le département de Seine-Saint-Denis ne profitent pas à la population des quartiers. « La vérité, c’est que sur la Plaine-Saint-Denis par exemple, que l’État veut transformer en un nouveau quartier d’affaires, il n’y a pas de volonté politique pour que les habitants du département puissent y travailler. Le chantier d’un site des Jeux olympiques (JO) a brûlé à Aubervilliers, mais ces JO ne vont pas profiter aux habitants du département ! Aucun habitant ne pourra se permettre le prix du billet d’un événement sportif de ces Jeux. » Le premier tarif démarre à 24 euros pour les JO et 15 euros pour les Jeux paralympiques, pour les places avec le moins de visibilité. Les tarifs vont jusqu’à frôler les 1000 euros pour les meilleures places.

      Comment se payer des places, même à quelques dizaines d’euros, quand « une situation de détresse alimentaire frappe les habitants » des banlieues, comme l’alertaient quelques semaines avant la mort de Nahel et les émeutes, des dizaines d’élus locaux des quartiers populaires de différents horizons politiques ? « Les banlieues sont au bord de l’#asphyxie », leurs habitants ont « le sentiment d’être abandonnés par la République », écrivaient aussi ces édiles. Face à cette situation, le président de la Seine-Saint-Denis Stéphane Troussel en appelle à « une action publique de remise à niveau qui porte un choc structurel d’égalité. Sans cela, ma crainte, c’est que les écarts ne cessent de s’accroître ». Dans son département, en Île-de-France, et au-delà.

      https://basta.media/trop-d-argent-public-dans-les-banlieues-un-vaste-mensonge-a-des-fins-racist

      ici aussi :
      https://seenthis.net/messages/1010259

  • The Great Robbery: during illegal pushbacks in Greece, refugees are robbed by border guards

    Solomon’s investigation, in collaboration with the Spanish newspaper El País, reveals that Greek security forces have stolen more than €2 million from refugees during pushbacks.

    In January 2022, two Cuban citizens, Lino Antonio Rojas Morell and Yudith Pérez Álvarez, presented themselves to the Greek authorities in the Evros region to request asylum, after entering the country illegally.

    The police officers who the couple approached, didn’t just ignore their request. They forced the couple into a van, and transported them to the police station where they confiscated their backpacks and mobile phones.

    The next day, before the couple was deported to the Turkish side of the border along with dozens of other people of different nationalities, they were again searched by the police.

    “The one who seemed to be the leader put my money, €375, in his pocket,” explains Rojas Morell, adding that “the police were obviously looking for money.”

    “One man wanted to look down my pants. They touched my chest and between my legs,” says Pérez Álvarez, in a claim she recently submitted to the United Nations Human Rights Council (UNHRC).

    A year later, they are still traumatized by the violence they experienced during their alleged deportation to Turkey. Despite it being uncommon for Cubans to enter the EU in this way, their case is far from unprecedented — and highlights a practice that has become more frequent in recent years in the landlocked southeastern tip of the European Union.

    From September 2022 to March 2023, Solomon, in collaboration with El País, conducted interviews with more than a dozen sources, including employees of various institutions connected to the Greek asylum system, active and retired members of the security forces, Frontex officials, lawyers, experts, and residents of the Evros region.

    We also collected the testimonies of eight victims of pushbacks and analyzed each of the 374 claims, as they were recorded by multiple agencies, describing the pushbacks of over 20,000 asylum seekers from Greece to Turkey via Evros during 2017-2022.

    The findings of our investigation indicate a clear modus operandi of the Greek authorities in recent years:

    - asylum seekers are arrested when they enter Greece illegally, without being given the opportunity to apply for asylum (as required by both Greek and international law)

    – sometimes they are arrested in various parts of the mainland, although they may already be registered or have already been granted asylum

    - they are brought to various places (police stations, barracks, abandoned warehouses), where often people in uniform or civilian clothing physically assault them and take their belongings before they are transported to Turkey in inflatable boats

    The data collected allows us to conclude that, during the last six years, members of the Greek security forces have stolen more than €2 million in cash (at least €2.2 – 2.8 million) from asylum seekers.

    This amount is based on conservative estimations, without taking into account the value of mobile phones and other valuables (rings, bracelets) taken from victims. In addition, it is highly likely that these cases are just the tip of the iceberg, as the vast majority of pushbacks go unreported.

    A second key point that our joint investigation revealed, is that a few years ago, the practice of stealing money and personal belongings was not as prevalent, but it has progressively become a systematic tactic.

    “When you confiscate their phones, you eliminate any evidence that they were there. When you confiscate their money, you make their lives more difficult. When you strip them naked, another trend that’s on the rise, you humiliate and demoralize them,” comments Eva Cossé, senior researcher at Human Rights Watch in Greece.

    “It’s part of a strategy to prevent them from trying to cross the border again,” she adds.

    A systematic practice

    “We’re not talking about some isolated incidents, because in recent years they’ve become part of a systematic operational practice,” comments Hope Barker, representative of the Border Violence Monitoring Network (BVMN), which consists of twelve organizations that collect testimonies about illegal pushbacks of asylum seekers at EU borders.

    Barker says that BVMN initially noticed the practice of confiscating the belongings of asylum seekers at the Croatian border around 2017. In that context, however, the clothes, phones, and money that were taken, were thrown into fires to be destroyed.

    “In Greece, around 2019, it was a more random practice. Some were stripped of their possessions, others were not. But in recent years it has become an established tactic. Phones are sometimes kept, sometimes destroyed — but money is definitely kept. And it’s common for them to beat someone even more as punishment if they find out they’ve hidden their money,” Barker says.

    This happened to two young Moroccans, who on November 1, 2022 were deported along with fifty others.

    They were in a detention center, then were transferred to Evros, where they were registered again. The two young men said that “at the detention center the officers had already taken all our belongings, so the [other] officers should have known, at this stage, that we had nothing else on us.”

    When they stated that “we [told them] we had no items left,” the officers then became violent towards them, the BVMN report affirmed.
    Frontex sources confirm the illegal pushbacks

    In a case against the Greek state being heard at the European Court of Human Rights (ECHR), the UN High Commissioner for Refugees has provided evidence of 311 incidents in which “at least 6,680 people” were pushed back through Evros to Turkey.

    Two sources from Frontex, (the European Border and Coast Guard Agency) that have an increased presence in Greece, confirmed to Solomon and El País that pushbacks are now a normalized reality.

    “We do it, just like [other countries] do it. Except that they’re not as hostile [toward asylum seekers] as we are,” acknowledges one of the two sources.

    An institutional source who spoke on the condition of anonymity stated that “asylum seekers who enter Greece and follow the asylum procedure have said that it’s their second or third attempt. Some make even more attempts, because they were previously pushed back to Turkey.”

    The same source adds that there is now a “great escalation in the use of violence and humiliating practices. It’s the lowest level of respect for human life.”
    2022: confiscating their money in 92% of cases

    We asked the Greek authorities specific questions, asking to be informed regarding any ongoing investigations into the recorded pushbacks, and what procedure is being followed in terms of the money and personal belongings that are confiscated from the asylum seekers.

    In its reply to our queries, the Ministry of Migration & Asylum reaffirmed its commitment to the protection of human rights, but did not offer any specific answers.

    From the analysis of the recorded pushbacks of the last six years, an increasingly disturbing pattern emerges: the culmination of the Greek border guards’ interest in stealing money from asylum seekers.

    While in 2017 stealing money was reported just in 11% of pushback cases, by 2022 that figure skyrocketed to 92%.

    The data from our analysis is confirmed by the interim report of the relevant Recording Mechanism created by Greece’s National Commission for Human Rights (GNCHR ). It is noted that the GNCHR is an official, independent advisory body of the Greek state.

    Based on the incidents recorded by the GNCHR alone (which do not include those recorded by UNHCR), the report estimates the minimum number of people pushed back between 2020-2022 to be 2,157 people.

    During the presentation of the report in January 2023, the GNCHR confirmed to Solomon and El País that in 88% of the cases the victims stated that they had suffered violence, and in 93% of the cases that their possessions and money had been taken.

    According to the report, the victims of the pushbacks come from countries with high rates of asylum (Syria, Afghanistan, Turkey, Iran).
    Minors kidnapped from the mainland

    The GNCHR report confirms a trend that has also been highlighted by journalistic investigations in recent years: the abduction and pushback to Turkey of people who were living in Greece, already registered or who were already granted asylum.

    Solomon and El País recorded the testimony of Amir, an unaccompanied minor from Afghanistan who, in the summer of 2020, lived in a hostel in Thessaloniki.

    On August 25, 2020, as Amir waited at the bus station, a group of plainclothes men surrounded him and forced him into a black van with tinted windows.

    Twenty other refugees and migrants were in the van, which traveled eastward for about 350 kilometers, arriving near the Evros River. There they were detained and, hours later, their belongings were confiscated and they were taken by boat to Turkish soil.

    “I tried to explain to them that I had papers, but they were very aggressive. Every time you tried to talk to them, they would hit you,” explains Amir.

    His name has been changed to protect his identity, but his testimony was confirmed by a social worker at the hostel as well as two of his friends. In photos shown to Solomon, Amir is pictured smiling by their side, in Greece.
    Planned operations

    Hope Barker, from the BVMN, comments that since the crisis on the Greek-Turkish border in March 2020, not only have “hot pushbacks” (i.e. pushbacks of people found at the border) taken place. Operations have extended inland for hundreds of kilometers.

    “People are being arrested in different cities, in many cases even though they have valid documents or are in the process of seeking asylum,” she says. “They are detained in these kinds of secret places, unable to communicate, until enough people are rounded up, 80 or 100, and then transported to Turkish soil. This is a large state operation.”

    The range of operations underscores the indications that it’s an organized plan.

    “If raids are carried out in different parts of Greece, there is definitely a government order. Because this requires the mobilization of resources, the existence of detention facilities and the participation of different police units, not just some police officers from the Evros region,” comments Eva Cossé of Human Rights Watch.

    The GNCHR report records seven instances of pushbacks in which the victims were located inland, compared to 24 cases in which they were located in the Evros region.
    The isolation of border residents

    During Byzantine times, “Akrítes”, or citizens who lived in border areas, guarded the borders of the empire from raids from the east.

    Today, the residents of Evros are often compared to the Akrítes, and historically, politicians have always viewed them in special regard. For example, Prime Minister Kyriakos Mitsotakis recently announced that in the upcoming elections he will (also) be a candidate in Evros.

    But today, Evros exudes abandonment. It is not difficult to see that the region’s opportunities are extremely limited.

    A source in the city of Orestiada explains that many young people, who haven’t tried their luck in Thessaloniki or Athens, dream of a job in the border guard or the army: “they earn more than the minimum wage and have a secure job for life.”

    In November 2022, when we visited the village of Nea Vyssa, four kilometers from the Turkish border, the streets were deserted. Activity was minimal, and was limited to the cafe in the village square.

    In the cafe’s courtyard, protected from the cold by a plastic sheet, patrons chatted as they slowly sipped their coffees. They all had gray hair.

    One of them was proud that the village once “was one of the largest villages in Greece” and reminded us that the great mathematician Konstantinos Karatheodoris has roots from Vyssa.

    The village’s population today has dwindled to less than 3,000 residents and many buildings are deteriorating. Another patron explained that during the most recent announcement of job placements, three boys from the village were accepted into the border guard unit.

    In 2020, the president of the European Commission, Ursula Von der Leyen, promised Greece €700 million to protect its borders. Nearby on the Egnatia highway, new Nissan Qashqai police vehicles sped by every few minutes.

    In addition to the military, 1,800 border guards serve in Evros, of which 650 were hired last year (2022) with priority given to locals. In January 2023, the opening of another 400 border guard positions were announced.

    The institutional source who spoke to Solomon and El País asserted that there are also differences between them: while some border guards simply “follow orders” and send the asylum seekers back, others decide to “exploit” the situation.

    “There are police officers who only want to serve along the river,” he comments. “Imagine how much a group can earn if they get €100 or €200 from 100 people. They can make an entire salary in a single shift.”
    Mobile phones for the police officers’ kids

    On April 3, 2022, police officers in balaclavas arrested a 22-year-old Syrian man in a forest near Evros.

    According to the victim’s testimony, (recorded by Josoor, an organization that used to document human rights abuses before it had to disband due to pressure it experienced in Greece and Turkey), the police beat him with clubs and took all his belongings, including his phone, which he was forced to unlock. He was then sent back to Turkey with other asylum seekers.

    “When they put me in the car I realized they had a lot of phones and power banks in there. When one of the men took a cigarette out of his pocket, I saw that he had a wad of bills. I think they were taken from others earlier,” he said.

    It remains unknown where all the phones taken from asylum seekers in recent years have ended up. But sources from Orestiada explain that the police officers keep the best devices.

    “The border guards give them to their kids. They show up at school with new phones and proudly say their parents took them from ‘illegal immigrants’,” they comment, expressing concern about young people who join the security forces and end up adopting “the far-right narrative” that considers refugees to be invaders who threaten the security of the country.
    Refugees adapt

    Both before and during their journey, asylum seekers share information via WhatsApp, Telegram, and Facebook — so news spreads quickly.

    The expectation of their [poor] treatment by the Greek border guards means that they carry less and less money on them. While they used to carry larger amounts, a source from the asylum system explains that now “€50, €100, €150 is the norm”.

    A 2021 report on the Balkan corridor by the Global Initiative against Transnational Organized Crime states that “unlike 2015-2016, asylum seekers and migrants now appear wary of carrying large amounts of cash for fear of being robbed by thieves or the police. They tend to access money along the way using money transfer services.”

    Differences also exist based on the nationality of the asylum seekers.

    In recent years, Cubans (who fly to Russia, then to Serbia, arrive in Greece with the intention of applying for asylum in another country) are the unluckiest: without knowing what awaited them, they often each carried with them several thousand euros.

    “Groups of North Africans tend to travel alone or in small groups of two or three, and carry less money. Groups that include families, Syrians and Afghans, tend to be led by traffickers and carry more money,” explains Barker.

    “But, certainly, in the last 1-2 years people are more aware of the risks and no one expects to reach Greece on the first try,” she adds.

    “They know they will be pushed back to Turkey more than once.”

    Methodology

    We examined the testimonies of the victims of 374 illegal pushbacks that were collected between 2017-2022 by the following: Border Violence Monitoring Network (188), Human Rights Watch (76), the Greek Council for Refugees (55), Amnesty International (4), other NGOs and local reports (43), as well as by the journalists of this investigation (8).

    Some testimonies were rejected because they overlapped in dates or did not include sufficient evidence. In 2022, far fewer incidents were recorded than in the previous two years, because the NGO Josoor, which had collected the most testimonies, decided to disband, due to the judicial and police pressure they experienced by Greek and Turkish authorities.

    Testimonies were organized into structured data to be classified by date, place, nationalities and number of people pushed back. It was also ascertained whether the victims reported theft (232 incidents) or not (142). Using this data, the estimated number of asylum seekers present during the pushbacks where theft occurred was more than 13,500.

    Although migrants are systematically recorded, sometimes there are some who manage to hide their money, also, not all migrants have cash with them (this is especially true for families traveling together, so only one family member has been counted as a target for theft). Therefore, using the demographic profiles of migrant groups developed by UNHCR and the PRAB initiative (which includes various NGOs and foundations), a 30% deflator was applied to the theft victim base.

    Not all testimonies of theft specified the amount stolen but 62 testimonies did specify amounts (five were rejected for the calculation because the amounts stolen were so large that they could be misleading). With this data, a statistical distribution was created, of the most frequently confiscated amounts. The distribution was applied to the deflated victim base in order to derive an estimate of the money stolen from migrants. The results show that between 2017 and 2022, between €2.2 and €2.8 million were stolen – these estimates are conservative, as many victims do not report being deported or robbed.

    https://wearesolomon.com/mag/format/investigation/the-great-robbery-during-illegal-pushbacks-in-greece-refugees-are-robb
    #migrations #réfugiés #frontières #push-backs #refoulements #vol #argent #Grèce #Evros #téléphones_portables #confiscation #chiffres #statistiques

    • Greek Border Guards call on Solomon to retract investigation which reveals they stole more than €2 million from refugees

      The Union of Evros Border Guards demands that Solomon removes from its website the investigation that revealed how in recent years members of the Greek security forces have stolen more than €2 million from refugees during pushbacks.

      On March 9, 2023, in collaboration with Spanish newspaper El País, Solomon published the findings of a months-long investigation, which sheds light on the extent of a practice, that in recent years, Greek border guards have allegedly engaged in: confiscating money and personal belongings from refugees during illegal pushbacks.

      To document the research, we conducted interviews with several sources. Among them were employees of the Greek asylum system, active and retired members of the security forces, Frontex officials, lawyers, experts, as well as residents of Evros.

      We collected testimonies from the victims of pushbacks, some of which have been submitted to the European Court of Human Rights (ECHR), and analyzed 374 published testimonies that were recorded by a variety of agencies, which describe the pushbacks of over 20,000 asylum seekers from Greece to Turkey via Evros during the period of 2017-2022.

      The publication of the investigation caused the immediate reaction of MEPs, including the president of the European Parliament’s Committee on Civil Liberties, Justice and Home Affairs (LIBE), who addressed questions to the Commission.

      But these were not the only reactions that followed.

      We received a legal notice from the Union of Evros Border Guards (ESYFNE), which refutes the findings of our investigation, which it characterizes as “slanderous and untrue” and calls on us “to retract the article and publish a correction”.

      The legal notice, signed by a lawyer in Alexandroupoli on May 23, has a delivery date of May 29. However, during that time, our staff was traveling abroad for professional obligations, and we only became aware of the legal notice on June 15.

      In an interesting turn of events, we found that the delivery date coincided with a remarkable news story: on the very same day, five border guards from the Border Unit of Isaaki Didymotihos were accused of being involved in a refugee smuggling ring and were arrested.

      According to the Hellenic Police, the five border guards had in their possession: €26,550, 59 mobile phones, 12 power banks, 2,120 USD, 850 Turkish lire, 23 GBP, 77 Romanian Leu, a number of banknotes from Asian countries, and a bank card.

      In other words, on the same day that the Evros border guards were calling for the withdrawal of our investigation which described how Greek border guards were taking money and mobile phones from refugees during pushbacks, five of their colleagues were arrested, and large sums of foreign currency and 59 mobile phones were found in their possession.

      The legal notice also refers to the “arbitrary use” of a photo (depicting an ESYFNE member) which was used as a central illustration in our article, which they claim was used to “publicly and brutally insult the honor and dignity” of the said border guard “in the most arbitrary and abusive manner”.

      This reference causes a real doubt, as:

      - the photos that were used were obtained online (specifically from the website of the Ministry of Citizen Protection), and are also used in a multitude of other publications,

      - the photographs were processed by Solomon (to such a degree that the features of the border guard are not distinguishable), to create an artistic composition of the illustration which reflects the various elements of the subject,

      – and above all, a simple reading of the article is enough to make it clear that no mention is made of specific persons.

      In any case, as our purpose is to highlight an alarmingly widespread phenomenon that has also been recorded by a multitude of organisations (eg Human Rights Watch), we will replace the photo in question from our central illustration.

      Therefore, we will defend our work and the belief that it serves the public interest.

      We are at ESYFNE’s disposal for an in-depth interview, and even bring to their attention the recently published interim report of the Greek National Commission for Human Rights (GNCHR).

      The report by GNCHR, an official advisory body of the Greek state, estimates the minimum number of people who were forced back between 2020-2022 at 2,157 persons (without taking into account cases recorded by other organisations, e.g. the High Commission).

      In addition, the report states that in 88% of the cases the victims suffered violence, and in 93% their belongings and money were confiscated.

      In recent years, Solomon has consistently covered migration issues, highlighting human rights violations both on the mainland and on the islands. And we will continue to do so.

      https://wearesolomon.com/mag/our-news/greek-border-guards-call-on-solomon-to-retract-investigation-which-rev
      #pression

  • The #Mountains_Uncovered_Series: Intercomparable Maps and Statistics for 100 Selected Global Mountain Ranges (v1.0)

    The Mountains Uncovered series (v1.0) was developed by #GEO _Mountains (https://www.geomountains.org), an Initiative of the #Group_on_Earth_Observations (GEO) and a Flagship Activity of the #Mountain_Research_Initiative, and #Geofolio. It seeks to provide an easily understandable overview of the key characteristics of 100 selected mountain ranges around the world.


    The series was developed by collating and visualising a variety of current global scale, open data products. The consistent approach taken throughout enables comparisons between mountain ranges to be made. We hope that the series will be a useful resource for researchers, policy-makers, environmental managers, educators, and others seeking to better understand the Earth’s major mountain regions, and that over time it will inspire the generation of additional datasets, analyses, and products.

    https://www.geomountains.org/resources/outreach

    #montagne #montagnes #cartographie #statistiques #chiffres #topographie #climat #hydrologie #topographie #cryosphère #géographie_physique

  • Le nombre de personnes tuées par un tir des #forces_de_l’ordre a doublé depuis 2020

    Année après année, la liste des tués par les forces de l’ordre ne cesse d’augmenter. Trop souvent, la thèse de la légitime défense ou du refus d’obtempérer ne supporte pas l’analyse des faits. Basta ! en tient le terrible mais nécessaire décompte.

    « Je vais te tirer une balle dans la tête », lance le « gardien de la paix », braquant son arme sur la vitre de la voiture à l’arrêt, avant que son collègue ne crie « Shoote- le ». Au volant, Nahel, un mineur de 17 ans qui conduit sans permis, démarre malgré tout. Le gardien de la paix met sa menace à exécution, tuant à bout portant l’adolescent. La scène se déroule ce 27 juin à Nanterre. Les agents ont plaidé la légitime défense arguant que le véhicule fonçait sur eux, ce que dément la vidéo de la scène. L’auteur du coup de feu mortel est placé en garde à vue. La famille de la victime s’apprête à déposer deux plaintes, l’une pour « homicide volontaire et complicité d’homicide », l’autre pour « faux en écriture publique ».

    Le drame déclenche la révolte des habitants du quartier d’où est originaire la victime. Deux semaines plus tôt c’est Alhoussein Camara qui est tué d’une balle dans le thorax par un policier, dans des conditions similaires près d’Angoulême. En 2022, on dénombrait treize morts lors de « refus d’obtempérer » par l’ouverture du feu des forces de l’ordre. Au delà des nouveaux drames de Nanterre et d’Angoulême, combien de personnes ont-elles été tuées par les forces de l’ordre, et dans quelles circonstances ?

    Les décès dus à une ouverture du feu des forces de l’ordre ont considérablement augmenté, avec respectivement 18 et 26 personnes abattues en 2021 et 2022, soit plus du double que lors de la décennie précédente. Cette augmentation amplifie la tendance constatée depuis 2015, lorsque le nombre de tués par balle a franchi le seuil de la dizaine par an. À l’époque, le contexte lié aux attaques terroristes islamistes a évidemment pesé, avec cinq terroristes abattus en 2015 et 2016 par les forces de sécurité.

    Le risque terroriste n’explique cependant pas l’augmentation des décès par balle en 2021 et 2022. Un seul terroriste potentiel a été tué en 2021 – Jamel Gorchene, après avoir mortellement poignardé une fonctionnaire administrative de police devant le commissariat de Rambouillet (Yvelines), le 23 avril 2021, et dont l’adhésion à l’idéologie islamiste radicale serait « peu contestable » selon le procureur chargé de l’enquête. Aucun terroriste ne figure parmi les 26 tués de 2022. Dans quelles circonstances ces tirs ont-ils été déclenchés ?
    Tirs mortels face à des personnes munis d’armes à feu

    Sur les 44 personnes tuées par balles en deux ans, un peu plus de la moitié (26 personnes) étaient armées, dont dix d’une arme à feu. Parmi elles, sept l’ont utilisée, provoquant un tir de riposte ou de défense des forces de l’ordre. Plusieurs de ces échanges de tirs se sont déroulés avec des personnes « retranchées » à leur domicile. L’affaire la plus médiatisée implique Mathieu Darbon. Le 20 juillet 2022, dans l’Ain, ce jeune homme de 22 ans assassine à l’arme blanche son père, sa belle-mère, sa sœur, sa demi-sœur et son demi-frère. Le GIGN intervient, tente de négocier puis se résout à l’abattre. En janvier 2021, dans une petite station au-dessus de Chambéry, un homme souffrant de troubles psychiatriques s’enferme chez lui, armé d’un fusil, en compagnie de sa mère, après avoir menacé une voisine. Arrivé sur place, le GIGN essuie des tirs, et riposte. Scénario relativement similaire quelques mois plus tard dans les Hautes-Alpes, au-dessus de Gap. Après une nuit de négociation, le « forcené », Nicolas Chastan est tué par le GIGN après avoir « épaulé un fusil 22 LR [une carabine de chasse, ndlr] et pointé son arme en direction des gendarmes », selon le procureur. L’affaire est classée sans suite pour légitime défense.

    Au premier trimestre 2021, le GIGN a été sollicité deux à trois fois plus souvent que les années précédentes sur ce type d’intervention, sans forcément que cela se termine par un assaut ou des tirs, relevait TF1. Le GIGN n’intervient pas qu’en cas de « forcené » armé. Le 16 avril 2021, l’unité spéciale accompagne des gendarmes venus interpeller des suspects sur un terrain habité par des voyageurs. Un cinquantenaire qui, selon les gendarmes, aurait pointé son fusil dans leur direction est tué.
    Arme à feu contre suspects munis d’arme blanche

    Parmi les 44 personnes tuées par arme à feu en 2021 et 2022, 16 étaient munis d’une arme blanche (couteau, cutter, barre de fer). Une dizaine d’entre elles auraient menacé ou attaqué les agents avant d’être tuées. Au mois de mars 2021, un policier parisien tire sur un homme qui l’attaque au couteau, pendant qu’il surveillait les vélos de ses collègues.

    La mort d’un pompier de Colombes (Hauts-de-Seine) rend également perplexes ses voisins. En état d’ébriété, il jette une bouteille vers des agents en train de réaliser un contrôle, puis se serait approché d’eux, muni d’un couteau « en criant Allah Akbar ». Il est tué de cinq balles par les agents. L’affaire est classée sans suite, la riposte étant jugée « nécessaire et proportionnée ». L’été dernier à Dreux, une policière ouvre mortellement le feu sur un homme armé d’un sabre et jugé menaçant. L’homme était par ailleurs soupçonné de violence conjugale.

    Dans ces situations, la légitime défense est la plupart du temps invoquée par les autorités. Cela pose cependant question lorsque la « dangerosité » de la personne décédée apparaît équivoque, comme l’illustre le cas de David Sabot, tué par des gendarmes le 2 avril 2022. Ses parents, inquiets de l’agressivité de leur fils, alcoolisé, alertent la gendarmerie de Vizille (Isère). Les gendarmes interviennent et tirent neuf balles sur David. Selon les gendarmes, il se serait jeté sur eux. Selon ses parents, il marchait les bras ballants au moment des tirs. « On n’a pas appelé les gendarmes pour tuer notre enfant », s’indignent-ils dans Le Dauphiné.

    Juridiquement, le fait que la personne soit armée ne légitime pas forcément l’ouverture du feu par les forces de l’ordre. Selon l’Article 122-5 du Code pénal, une personne se défendant d’un danger n’est pas pénalement responsable si sa riposte réunit trois conditions : immédiateté, nécessité, proportionnalité. « La question va se poser, s’il n’y avait pas moyen de le neutraliser autrement », indique à Var Matin « une source proche du dossier », à propos du décès d’un sans-abri, Garry Régis-Luce, tué par des policiers au sein de l’aéroport de Roissy-Charles de Gaulle, en août dernier. Sur une vidéo de la scène publiée par Mediapart, le sans-abri armé d’un couteau fait face à cinq policiers qui reculent avant de lui tirer mortellement dans l’abdomen. Sa mère a porté plainte pour homicide volontaire.

    De plus en plus de profils en détresse psychologique

    Plusieurs affaires interrogent sur la manière de réagir face à des personnes en détresse psychologique, certes potentiellement dangereuses pour elle-même ou pour autrui, et sur la formation des policiers, souvent amenés à intervenir en premier sur ce type de situation [1].

    Le 21 avril 2022, à Blois, des policiers sont alertés pour un risque suicidaire d’un étudiant en école de commerce, Zakaria Mennouni, qui déambule dans la rue, pieds nus et couteau en main. Selon le procureur de Blois, l’homme se serait avancé avec son couteau vers les policiers avant que l’un d’eux tire au taser puis au LBD. Son collègue ouvre également le feu à quatre reprises. Touché de trois balles à l’estomac, Zakaria succombe à l’hôpital. La « légitime défense » est donc invoquée. « Comment sept policiers n’ont-ils pas réussi à maîtriser un jeune sans avoir recours à leur arme à feu », s’interroge la personne qui a alerté la police. Une plainte contre X est déposée par les proches de l’étudiant, de nationalité marocaine. Sur Twitter, leur avocat dénonce une « enquête enterrée ».

    Près de Saint-Étienne, en août 2021, des policiers interviennent dans un appartement où Lassise, sorti la veille d’un hôpital psychiatrique, mais visiblement en décompression, a été confiné par ses proches, avant que sa compagne n’appelle police secours. Ce bénévole dans une association humanitaire, d’origine togolaise, aurait tenté d’agresser les policiers avec un couteau de boucher, avant que l’un d’eux n’ouvre le feu.

    Pourquoi, dans ce genre de situation, les policiers interviennent-ils seuls, sans professionnels en psychiatrie ? Plusieurs études canadiennes démontrent le lien entre le désinvestissement dans les services de soins et la fréquence des interventions des forces de l’ordre auprès de profils atteintes de troubles psychiatriques. Une logique sécuritaire qui inquiète plusieurs soignants du secteur, notamment à la suite de l’homicide en mars dernier d’un patient par la police dans un hôpital belge.
    Le nombre de personnes non armées tuées par balles a triplé

    Le nombre de personnes sans arme tombées sous les balles des forces de l’ordre a lui aussi bondi en deux ans (5 en 2021, 13 en 2022). C’est plus du triple que la moyenne de la décennie précédente. Cette hausse est principalement liée à des tirs sur des véhicules en fuite beaucoup plus fréquents, comme l’illustre le nouveau drame, ce 27 juin à Nanterre où, un adolescent de 17 ans est tué par un policier lors d’un contrôle routier par un tir à bout portant d’un agent.

    Outre le drame de Nanterre ce 27 juin, l’une des précédentes affaires les plus médiatisées se déroule le 4 juin 2022 à Paris, dans le 18e arrondissement. Les fonctionnaires tirent neuf balles avec leur arme de service sur un véhicule qui aurait refusé de s’arrêter. La passagère, 18 ans, est atteinte d’une balle dans la tête, et tuée. Le conducteur, touché au thorax, est grièvement blessé. Dans divers témoignages, les deux autres personnes à bord du véhicule réfutent que la voiture ait foncé sur les forces de l’ordre. Le soir du second tour de l’élection présidentielle, le 24 avril, deux frères, Boubacar et Fadjigui sont tués en plein centre de Paris sur le Pont-Neuf. Selon la police, ces tirs auraient suivi le refus d’un contrôle. La voiture aurait alors « foncé » vers un membre des forces de l’ordre qui se serait écarté avant que son collègue, 24 ans et encore stagiaire, ne tire dix cartouches de HK G36, un fusil d’assaut.

    Comme nous le révélions il y a un an, les policiers ont tué quatre fois plus de personnes pour refus d’obtempérer en cinq ans que lors des vingt années précédentes. En cause : la loi de 2017 venue assouplir les règles d’ouverture de feu des policiers avec la création de l’article 435-1 du Code de la sécurité intérieure . « Avec cet article, les policiers se sont sentis davantage autorisés à faire usage de leur arme », estime un commandant de police interrogé par Mediapart en septembre dernier. À cela « vous rajoutez un niveau de recrutement qui est très bas et un manque de formation, et vous avez le résultat dramatique que l’on constate depuis quelques années : des policiers qui ne savent pas se retenir et qui ne sont pas suffisamment encadrés ou contrôlés. Certains policiers veulent en découdre sans aucun discernement. »

    « Jamais une poursuite ni une verbalisation ne justifieront de briser une vie »

    Au point que les gendarmes s’inquiètent très officiellement de la réponse adéquate à apporter face aux refus d’obtempérer, quitte à bannir le recours immédiat à l’ouverture du feu (voir ici). « L’interception immédiate, pouvant s’avérer accidentogène, n’est plus la règle, d’autant plus si les conditions de l’intervention et le cadre légal permettent une action différée, préparée et renforcée. Donc, on jalonne en sécurité, on lâche prise si ça devient dangereux, et surtout on renseigne. Tout refus d’obtempérer doit être enregistré avec un minimum de renseignements pour ensuite pouvoir s’attacher à retrouver l’auteur par une double enquête administrative et judiciaire », expliquait la commandante de gendarmerie Céline Morin. « Pour reprendre une phrase du directeur général de la gendarmerie : “Jamais une poursuite ni une verbalisation ne justifieront de briser une vie.” Il importe donc à chacun de nous de se préparer intellectuellement en amont à une tactique et à des actions alternatives face aux refus dangereux d’obtempérer. » On est loin du discours de surenchère tenu par certains syndicats de policiers.

    « Pas d’échappatoire » vs « personne n’était en danger »

    Pour justifier leur geste, les agents invoquent la dangerosité pour eux-mêmes ou pour autrui, considérant souvent le véhicule comme « arme par destination ». Hormis la neutralisation du conducteur du véhicule, ils n’auraient pour certains « pas d’échappatoire » comme l’affirmait le membre de la BAC qui a tué un jeune homme de 23 ans à Neuville-en-Ferrain (Nord), le 30 août 2022, qui aurait démarré son véhicule au moment où les agents ouvraient la portière.

    Des policiers qui se seraient « vus mourir » tirent sur Amine B, le 14 octobre, à Paris. Coincé dans une contre-allée, le conducteur aurait redémarré son véhicule en direction des fonctionnaires qui ont ouvert le feu. Plusieurs témoins affirment que ce ressortissant algérien, diplômé d’ingénierie civile, roulait « doucement » sans se diriger vers eux ni mettre personne en danger. Et Amine est mort d’une balle dans le dos. La famille a lancé un appel à témoins pour connaître les circonstances exactes du drame. Rares sont ces affaires où le récit policier n’est pas contredit par les éléments de l’enquête ou des témoins.

    Au nom de la légitime défense, des gendarmes de Haute-Savoie ont tiré neuf fois le 5 juillet 2021 sur un fuyard suspecté de vol. Le conducteur de la camionnette, Aziz, n’a pas survécu à la balle logée dans son torse. « Personne n’était en danger », affirme pour sa part un proche, présent sur lieux. D’après son témoignage recueilli par Le Média, les militaires « étaient à 4 ou 5 mètres » du fourgon. Une reconstitution des faits a été effectuée sans la présence de ce témoin, au grand dam de la famille qui a porté plainte pour « homicide volontaire ».

    Pour Zied B. le 7 septembre à Nice abattu par un policier adjoint, comme pour Jean-Paul Benjamin, tué par la BAC le 26 mars à Aulnay-sous-Bois alors que, en conflit avec son employeur (Amazon), il était parti avec l’un des véhicules de l’entreprise, ce sont les vidéos filmant la scène qui mettent à mal la version policière des faits [2]. Et dans le cas de Souheil El Khalfaoui, 19 ans, tué d’une balle dans le cœur à Marseille lors d’un contrôle routier (voir notre encadré plus haut), les images de vidéosurveillance filmant la scène, et en mesure de corroborer ou de contredire la version des policiers, n’ont toujours pas pu être visionnées par la famille qui a porté plainte. Près de deux ans après le drame...

    Si 2021 et 2022 ont été particulièrement marquées par les morts par balles lors d’interventions policières, qu’en sera-t-il en 2023 ? À notre connaissance, #Nahel est au moins la huitième personne abattue par des agents assermentés depuis janvier dernier.

    https://basta.media/Refus-d-obtemperer-le-nombre-de-personnes-tuees-par-un-tir-des-forces-de-l-

    #statistiques #chiffres #décès #violences_policières #légitime_défense #refus_d'obtempérer #Nanterre #armes_à_feu #tires_mortels #GIGN

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    signalé aussi par @fredlm
    https://seenthis.net/messages/1007961

    • #Sebastian_Roché : « Le problème des tirs mortels lors de refus d’obtempérer est systémique en France »

      Le débat émerge suite au décès du jeune Nahel en banlieue parisienne. Entretien avec Sebastian Roché, politologue spécialiste des questions de police

      Pour certains, la mort du jeune Nahel, tué mardi par un policier lors d’un #contrôle_routier en banlieue parisienne, est l’occasion de dire qu’il y a trop de refus d’obtempérer en France. Pour d’autres, c’est surtout le moment de condamner la manière qu’a la #police d’y fait face. A gauche on estime qu’« un refus d’obtempérer ne peut pas être une condamnation à mort ». A droite, on pense que ces drames sont dus au fait que « les refus d’obtempérer augmentent et mettent en danger nos forces de l’ordre ».

      En 2022, le nombre record de 13 décès a été enregistré après des refus d’obtempérer lors de contrôles routiers en France. En cause, une modification de la loi en 2017 assouplissant les conditions dans lesquelles les forces de l’ordre peuvent utiliser leur arme. Elles sont désormais autorisées à tirer quand les occupants d’un véhicule « sont susceptibles de perpétrer, dans leur fuite, des atteintes à leur vie ou à leur intégrité physique ou à celles d’autrui ». Des termes jugés trop flous par de nombreux juristes.

      Sebastian Roché, politologue spécialiste des questions de police qui enseigne à Sciences-Po Grenoble, est un spécialiste de la question. Nous avons demandé à ce directeur de Recherche au CNRS, auteur de La nation inachevée, la jeunesse face à l’école et la police (Grasset), ce qu’il pensait de ce débat.

      Le Temps : Vous avez fait des recherches sur le nombre de personnes tuées en France par des tirs de policiers visant des véhicules en mouvement. Quelles sont vos conclusions ?

      Sebastian Roché : Nous avons adopté une méthode de type expérimentale, comme celles utilisées en médecine pour déterminer si un traitement est efficace. Nous avons observé 5 années avant et après la loi de 2017, et nous avons observé comment avaient évolué les pratiques policières. Les résultats montrent qu’il y a eu une multiplication par 5 des tirs mortels entre avant et après la loi dans le cadre de véhicule en mouvement.

      En 2017, la loi a donné une latitude de tir plus grande aux policiers, avec une possibilité de tirer même hors de la légitime défense. C’est un texte très particulier et, derrière, il n’y a pas eu d’effort de formation proportionné face au défi que représente un changement aussi historique de réglementation.

      L’augmentation n’est-elle pas simplement liée à l’augmentation des refus d’obtempérer ?

      Nous avons regardé le détail des tirs mortels. Le sujet, ce n’est pas les refus d’obtempérer, qui sont une situation, ce sont les tirs mortels, qui interviennent dans cette situation. Les syndicats de police font tout pour faire passer le message que le problème ce sont les refus d’obtempérer qui augmentent. Mais le problème ce sont les tirs mortels, dont les refus d’obtempérer peuvent être une cause parmi d’autres. Et les refus d’obtempérer grave ont augmenté mais pas autant que ce que dit le ministère. D’autant que l’augmentation des tirs mortels n’est notable que chez la police nationale et non dans la Gendarmerie. Dans la police nationale, en 2021, il y a eu 2675 refus d’obtempérer graves, pas 30 000. Il y a une augmentation mais ce n’est pas du tout la submersion dont parlent certains. Ce n’est pas suffisant pour expliquer l’augmentation des tirs mortels. D’autant que la police nationale est auteur de ces homicides et pas la Gendarmerie alors que les refus d’obtempérer sont également répartis entre les deux. Si le refus d’obtempérer était une cause déterminante, elle aurait les mêmes conséquences en police et en gendarmerie.

      Comment cela s’explique-t-il ?

      Les gendarmes n’ont pas la même structure de commandement, pas la même stabilité de l’ancrage local et pas la même lecture de la loi de 2017. La police a une structure qui n’est pas militaire comme celle de la gendarmerie. Et l’encadrement de proximité y est plus faible, particulièrement en région parisienne que tous les policiers veulent quitter.

      Pour vous c’est ce qui explique le drame de cette semaine ?

      La vidéo est accablante donc les responsables politiques semblent prêts à sacrifier le policier qui pour eux a fait une erreur. Mais ce qui grave, c’est la structure des tirs mortels avant et après 2017, c’est-à-dire comment la loi a modifié les pratiques. Ce n’est pas le même policier qui a tué 16 personnes dans des véhicules depuis le 1er janvier 2022. Ce sont 16 policiers différents. Le problème est systémique.

      Avez-vous des comparaisons internationales à ce sujet ?

      En Allemagne, il y a eu un tir mortel en dix ans pour refus d’obtempérer, contre 16 en France depuis un an et demi. On a un écart très marqué avec nos voisins. On a en France un modèle de police assez agressif, qui doit faire peur, davantage que dans les autres pays d’Europe mais moins qu’aux Etats-Unis. Et cette loi déroge à des règles de la Cour européenne des droits de l’homme. C’est une singularité française.

      Cette loi avait été mise en place suite à des attaques terroristes, notamment contre des policiers ?

      Oui, c’est dans ce climat-là qu’elle est née, mise en place par un gouvernement socialiste. Il y avait aussi eu d’autres attaques qui n’avaient rien à voir. Mais le climat général était celui de la lutte antiterroriste, et plus largement l’idée d’une police désarmée face à une société de plus en plus violente. L’idée était donc de réarmer la police. Cette loi arrange la relation du gouvernement actuel avec les syndicats policiers, je ne pense donc pas qu’ils reviendront dessus. Mais il y a des policiers qui vont aller en prison. On leur a dit vous pouvez tirer et, là, un juge va leur dire le contraire. Ce n’est bon pour personne cette incertitude juridique. Il faut abroger la partie de la loi qui dit que l’on peut tirer si on pense que le suspect va peut-être commettre une infraction dans le futur. La loi française fonctionnait précédemment sous le régime de la légitime défense, c’est-à-dire qu’il fallait une menace immédiate pour répondre. Comment voulez-vous que les policiers sachent ce que les gens vont faire dans le futur.

      https://www.letemps.ch/monde/le-probleme-des-tirs-mortels-lors-de-refus-d-obtemperer-est-systemique-en-fr

    • « Refus d’obtempérer »  : depuis 2017, une inflation létale

      Depuis la création en 2017 par la loi sécurité publique d’un article élargissant les conditions d’usage de leur arme, les tirs des policiers contre des automobilistes ont fortement augmenté. Ils sont aussi plus mortels.

      Depuis plus d’un an, chaque mois en moyenne, un automobiliste est tué par la police. Dans la plupart des cas, la première version des faits qui émerge du côté des forces de l’ordre responsabilise le conducteur. Il lui est reproché d’avoir commis un refus d’obtempérer, voire d’avoir attenté à la vie des fonctionnaires, justifiant ainsi leurs tirs. Il arrive que cette affirmation soit ensuite mise à mal par les enquêtes judiciaires : cela a été le cas pour le double meurtre policier du Pont-Neuf, à Paris en avril 2022, celui d’Amine Leknoun, en août à Neuville-en-Ferrain (Nord), ou celui de Zyed Bensaid, en septembre à Nice. En ira-t-il de même, concernant le conducteur de 17 ans tué mardi à Nanterre (Hauts-de-Seine) ? Les investigations pour « homicide volontaire par personne dépositaire de l’autorité publique » ont été confiées à l’Inspection générale de la police nationale (IGPN). Deux autres enquêtes ont été ouvertes depuis le début de l’année pour des tirs mortels dans le cadre de refus d’obtempérer en Charente et en Guadeloupe.

      Cette inflation mortelle s’est accélérée depuis le début de l’année 2022, mais elle commence en 2017. Ainsi, d’après les chiffres publiés annuellement par l’IGPN et compilés par Libération, entre la période 2012-2016 d’une part, et 2017-2021 d’autre part, l’usage des armes par les policiers a augmenté de 26 % ; et les usages de l’arme contre un véhicule ont augmenté de 39 %. Une croissance largement supérieure à celle observée chez les gendarmes entre ces deux périodes (+10 % d’usage de l’arme, toutes situations confondues).
      Doublement faux

      Mercredi, lors des questions au gouvernement, Gérald Darmanin a affirmé que « depuis la loi de 2017, il y a eu moins de tirs, et moins de cas mortels qu’avant 2017 ». C’est doublement faux : depuis cette année-là, les tirs des policiers contre des véhicules sont non seulement plus nombreux, mais ils sont aussi plus mortels. C’est la conclusion de travaux prépubliés l’année dernière, et en cours de soumission à une revue scientifique, de Sebastian Roché (CNRS), Paul Le Derff (université de Lille) et Simon Varaine (université Grenoble-Alpes).

      Les chercheurs établissent que le nombre de tués par des tirs policiers visant des personnes se trouvant dans des véhicules a été multiplié par cinq, entre avant et après le vote de la loi « sécurité publique » de février 2017. D’autant qu’entre les mêmes périodes, le nombre de personnes tuées par les autres tirs policiers diminue légèrement. « A partir d’une analyse statistique rigoureuse du nombre mensuel de victimes des tirs, malheureusement, il est très probable » que ce texte soit « la cause du plus grand nombre constaté d’homicides commis par des policiers », expliquent Roché, Le Derff et Varaine.

      La loi sécurité publique a créé l’article 435-1 du code de la sécurité intérieure (CSI), qui s’est depuis trouvé (et se trouve encore) au cœur de plusieurs dossiers judiciaires impliquant des policiers ayant tué des automobilistes. Cet article complète celui de la légitime défense (122-5 du code pénal) dont tout citoyen peut se prévaloir, en créant un cadre spécifique et commun aux forces de l’ordre pour utiliser leur arme.
      Un texte plusieurs fois remanié

      L’article 435-1 du CSI dispose que « dans l’exercice de leurs fonctions et revêtus de leur uniforme ou des insignes extérieurs et apparents de leur qualité », les policiers peuvent utiliser leur arme « en cas d’absolue nécessité et de manière strictement proportionnée », notamment dans la situation suivante : « Lorsqu’ils ne peuvent immobiliser, autrement que par l’usage des armes, des véhicules, embarcations ou autres moyens de transport, dont les conducteurs n’obtempèrent pas à l’ordre d’arrêt et dont les occupants sont susceptibles de perpétrer, dans leur fuite, des atteintes à leur vie ou à leur intégrité physique ou à celles d’autrui. » Avant d’arriver à cette formulation, le texte a été plusieurs fois remanié, au fil de son parcours législatif, dans le sens de l’assouplissement. Par exemple : les atteintes devaient être « imminentes », selon la version initiale ; dans la mouture finale elles n’ont plus besoin que d’être « susceptibles » de se produire, pour justifier le tir.

      La direction générale de la police nationale l’a rapidement relevé. Ainsi, dans une note de mars 2017 expliquant le texte à ses fonctionnaires, on pouvait lire : « L’article L.435-1 va au-delà de la simple légitime défense », en ce qu’il « renforce la capacité opérationnelle des policiers en leur permettant d’agir plus efficacement, tout en bénéficiant d’une plus grande sécurité juridique et physique ». Tout en rappelant qu’« il ne saurait être question de faire usage de l’arme pour contraindre un véhicule à s’arrêter en l’absence de toute dangerosité de ses occupants ».

      https://www.youtube.com/watch?v=Dz5QcVZXEN4&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Fwww.liberation.fr%2


      https://www.liberation.fr/societe/police-justice/refus-dobtemperer-depuis-2017-une-inflation-letale-20230627_C7BVZUJXLVFJBOWMDXJG2N7DDI/?redirected=1&redirected=1

    • Mort de Nahel : chronique d’un drame annoncé

      Au moment de l’adoption, sous pression des policiers, de la #loi de 2017 modifiant les conditions d’usage des armes à feu par les forces de l’ordre, la Commission nationale consultative des droits de l’homme, le Défenseur des droits et la société civile avaient alerté sur l’inévitable explosion du nombre de victimes à venir.

      #Bernard_Cazeneuve se trouve, depuis la mort de Nahel, au centre de la polémique sur l’#usage_des_armes_à_feu par les policiers. La gauche, notamment, ne cesse de rappeler que l’ex-dirigeant socialiste est le concepteur de la loi dite « #sécurité_publique » qui, en février 2017, a institué le #cadre_légal actuel en la matière. C’est en effet lui qui en a assuré l’élaboration en tant que ministre de l’intérieur, puis qui l’a promulguée alors qu’il était premier ministre.

      À deux reprises, Bernard #Cazeneuve s’est justifié dans la presse. Le 29 juin tout d’abord, dans Le Monde (https://www.lemonde.fr/politique/article/2023/06/29/adolescent-tue-par-un-policier-a-nanterre-emmanuel-macron-sur-une-ligne-de-c), il affirme qu’« il n’est pas honnête d’imputer au texte ce qu’il n’a pas souhaité enclencher » et explique que cette loi avait été votée dans un « contexte de tueries de masse après les attentats ».

      Le lendemain, dans un entretien au Point (https://www.lepoint.fr/societe/bernard-cazeneuve-non-il-n-y-a-pas-en-france-de-permis-de-tuer-30-06-2023-25), l’ancien premier ministre de #François_Hollande développe la défense de son texte. « Il n’y a pas, en France, de #permis_de_tuer, simplement la reconnaissance pour les forces de l’ordre de la possibilité de protéger leurs vies ou la vie d’autrui, dans le cadre de la #légitime_défense », affirme-t-il.

      Bernard Cazeneuve évoque encore un « contexte particulier » ayant justifié ce texte, « celui des périples meurtriers terroristes et de la tragédie qu’a constituée l’attentat de Nice, le 14 juillet 2016, qui a vu un policier municipal neutraliser le conducteur d’un camion-bélier ayant tué 86 personnes et blessé plusieurs centaines d’autres, sur la promenade des Anglais ».

      Cette invocation d’une justification terroriste à l’adoption de la loi « sécurité publique » paraît étonnante à la lecture de l’exposé des motifs (https://www.legifrance.gouv.fr/dossierlegislatif/JORFDOLE000033664388/?detailType=EXPOSE_MOTIFS&detailId=) et de l’étude d’impact (https://www.senat.fr/leg/etudes-impact/pjl16-263-ei/pjl16-263-ei.pdf) du texte. À aucun moment un quelconque attentat n’est mentionné pour justifier les dispositions de l’article premier, celui modifiant le cadre légal de l’usage des armes à feu par les policiers.

      À l’ouverture de l’examen du texte en séance publique par les député·es, le mardi 7 février (https://www.assemblee-nationale.fr/14/cri/2016-2017/20170112.asp#P970364), le ministre de l’intérieur Bruno Leroux parle bien d’un attentat, celui du Carrousel du Louvre (https://fr.wikipedia.org/wiki/Attaque_contre_des_militaires_au_Carrousel_du_Louvre) durant lequel un homme a attaqué deux militaires à la machette. Mais cette attaque s’est déroulée le 3 février, soit bien après l’écriture du texte, et concerne des soldats de l’opération Sentinelle, donc non concernés par la réforme.

      La loi « sécurité publique » a pourtant bien été fortement influencée par l’actualité, mais par un autre drame. Le #8_octobre_2016, une vingtaine de personnes attaquent deux voitures de police dans un quartier de #Viry-Châtillon (Essonne) à coups de pierres et de cocktails Molotov. Deux policiers sont grièvement brûlés (https://fr.wikipedia.org/wiki/Affaire_des_policiers_br%C3%BBl%C3%A9s_%C3%A0_Viry-Ch%C3%A2tillon).

      Les images des agents entourés de flammes indignent toute la classe politique et provoquent un vaste mouvement de contestation au sein de forces de l’ordre. Cela génèrera un immense scandale judiciaire puisque des policiers feront emprisonner des innocents en toute connaissance de cause (https://www.mediapart.fr/journal/france/160521/affaire-de-viry-chatillon-comment-la-police-fabrique-de-faux-coupables). Mais à l’époque, les syndicats de policiers réclament par ailleurs une modification de la législation.

      « C’était une période de fin de règne de François #Hollande, avec des policiers à bout après avoir été sur-sollicités pour les manifestations contre la loi Travail, pour les opérations antiterroristes, se souvient Magali Lafourcade, secrétaire générale de la Commission nationale consultative des droits de l’homme (CNCDH). Et, surtout, il y a eu l’attaque de policiers de Viry-Châtillon. Leur mouvement de colère avait été accompagné par des manifestations à la limite de la légalité, avec des policiers armés, masqués et sans encadrement syndical, car il s’agissait d’un mouvement spontané. Je pense que cela a fait très peur au gouvernement. »

      La loi « sécurité publique » est l’une des réponses du gouvernement à cette fronde des policiers. Ceux-ci étaient alors régis par le droit commun de la légitime défense. Désormais, ils bénéficient d’un #régime_spécifique, copié sur celui des gendarmes et inscrit dans le nouvel #article_435-1 du #Code_de_la_sécurité_intérieure (https://www.legifrance.gouv.fr/codes/article_lc/LEGIARTI000034107970).

      Celui-ci dispose notamment que les policiers sont autorisés à faire usage de leur arme pour immobiliser des véhicules dont les occupants refusent de s’arrêter et « sont susceptibles de perpétrer, dans leur fuite, des atteintes à leur vie ou à leur intégrité physique ou à celles d’autrui ».

      On ne peut donc que s’étonner lorsque Bernard Cazeneuve assure, dans Le Point, que la loi « sécurité publique » « ne modifie en rien le cadre de la légitime défense ». « Je dirais même, enchérit-il, qu’elle en précise les conditions de déclenchement, en rendant impossible l’ouverture du feu hors de ce cadre. »

      Pourtant, comme l’a montré Mediapart (https://www.mediapart.fr/journal/france/280623/refus-d-obtemperer-l-alarmante-augmentation-des-tirs-policiers-mortels), le nombre de déclarations d’emploi d’une arme contre un véhicule a bondi entre 2016 et 2017, passant de 137 à 202, avant de se stabiliser à un niveau supérieur à celui d’avant l’adoption du texte, par exemple 157 en 2021.

      De plus, lorsque l’on relit les nombreux avertissements qui avaient été faits à l’époque au gouvernement, il semble difficile de soutenir que cette augmentation du recours aux armes à feu et du nombre de victimes n’était pas prévisible.

      « De telles dispositions risquent en effet d’entraîner une augmentation des pertes humaines à l’occasion de l’engagement desdits services dans des opérations sur la voie publique », prédisait ainsi la CNCDH dans un avis rendu le 23 février 2017 (https://www.legifrance.gouv.fr/jorf/id/JORFTEXT000034104875).

      Celui-ci s’inquiétait notamment du #flou de certaines formulations, comme l’alinéa autorisant l’usage des armes à feu contre les personnes « susceptibles de perpétrer, dans leur fuite, des atteintes à leur vie ou à leur intégrité physique ou à celle d’autrui ».

      « Il est à craindre que de telles dispositions ne conduisent à l’utilisation des armes à feu dans des situations relativement fréquentes de #courses-poursuites en zone urbaine, avertissait encore la commission, les fonctionnaires de police venant à considérer que le véhicule pourchassé crée, par la dangerosité de sa conduite, un risque pour l’intégrité des autres usagers de la route et des passants ».

      « Rien ne justifiait cet alignement du régime des #gendarmes sur celui des policiers, réaffirme aujourd’hui Magali Lafourcade. Les gendarmes sont formés au maniement des armes et, surtout, ils opèrent en zone rurale. » La secrétaire générale de la CNCDH pointe également un problème de formation des policiers qui s’est depuis aggravé.

      « Le niveau de recrutement des policiers s’est effondré, souligne-t-elle. Les jeunes sont massivement envoyés dans les zones difficiles dès leur sortie de l’école. Ils ne reçoivent aucun enseignement sur les biais cognitifs. Un jeune venant d’une zone rurale dans laquelle il n’aura quasiment jamais croisé de personne racisée peut donc très bien être envoyé dans un quartier dont il n’a pas les codes, la culture, la manière de parler et donc de s’adresser à des adolescents. Et l’#encadrement_intermédiaire est très insuffisant. Les jeunes policiers sont bien peu accompagnés dans des prises de fonction particulièrement difficiles. »

      Le Défenseur des droits avait lui aussi alerté, dans un avis publié le 23 janvier 2017 (https://juridique.defenseurdesdroits.fr/doc_num.php?explnum_id=18573), sur l’#instabilité_juridique créée par cette #réforme. « Le projet de loi complexifie le régime juridique de l’usage des armes, en donnant le sentiment d’une plus grande liberté pour les forces de l’ordre, au risque d’augmenter leur utilisation, alors que les cas prévus sont déjà couverts par le régime général de la légitime défense et de l’état de nécessité », écrivait-il.

      Ces différents dangers avaient également été pointés par la quasi-totalité de la société civile, que ce soient les syndicats ou les associations de défense des libertés. « Les services de police et de gendarmerie se considéreront légitimes à user de leurs armes – et potentiellement tuer – dans des conditions absolument disproportionnées », prédisait ainsi le Syndicat de la magistrature (SM) (https://www.syndicat-magistrature.fr/notre-action/justice-penale/1214-projet-de-loi-securite-publique--refusez-ce-debat-expedie). « Il est en effet dangereux de laisser penser que les forces de l’ordre pourront faire un usage plus large de leurs armes », abondait l’Union syndicale des magistrats (USM) (https://www.union-syndicale-magistrats.org/web2/themes/fr/userfiles/fichier/publication/2017/securite_publique.pdf).

      Du côté des avocats, le projet de loi avait rencontré l’opposition du Syndicat des avocats de France (SAF) (https://lesaf.org/wp-content/uploads/2017/04/11-penal-GT.pdf), ainsi que du barreau de Paris et de la Conférence des bâtonniers, qui affirmaient, dans un communiqué commun (https://www.avocatparis.org/actualites/projet-de-loi-relatif-la-securite-publique-le-barreau-de-paris-et-la-co) : « La réponse au mal-être policier ne peut être le seul motif d’examen de ce projet de loi et il importe que les conditions de la légitime défense ne soient pas modifiées. »

      « Ce projet de loi autorise les forces de l’ordre à ouvrir le feu dans des conditions qui vont augmenter le risque de #bavures sans pour autant assurer la sécurité juridique des forces de l’ordre », avertissait encore la Ligue des droits de l’homme (https://www.ldh-france.org/police-anonyme-autorisee-tirer).

      Désormais, les policiers eux-mêmes semblent regretter cette réforme, ou en tout cas reconnaître l’#incertitude_juridique qu’elle fait peser sur eux, en raison de sa formulation trop vague.

      Dans un article publié samedi 1er juillet, Le Monde (https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/07/01/syndicats-de-police-un-tract-incendiaire-d-alliance-et-d-unsa-police-revelat) rapporte en effet que, parmi les forces de l’ordre, circule un modèle de demande de #droit_de_retrait dans lequel l’agent annonce rendre son arme, en raison des « diverses appréciations » qui peuvent être faites de l’article 435-1 du Code de la sécurité intérieure, lesquelles sont susceptibles de « donner lieu à des poursuites pénales ».

      Dans ce document, le policer y annonce mettre son pistolet à l’armurerie et qu’il y restera « jusqu’à ce que [s]a formation continue [lui] permette de mieux appréhender les dispositions de cet article afin de ne pas être poursuivi pénalement dans l’éventualité où [il] devrai[t] faire feu ».

      Magali Lafourcade insiste de son côté sur les dégâts que cette réforme a pu causer dans une partie de la jeunesse. « L’expérience de la citoyenneté, du sentiment d’appartenir à une communauté nationale, du respect des principes républicains est une expérience avant tout sensible, affirme-t-elle. Elle passe par les interactions éprouvées avec les représentants de l’État. Plus les enfants de ces quartiers feront l’expérience de la #brutalité_policière, plus ça les enfermera dans la #défiance qu’ils ont déjà vis-à-vis de nos institutions. »

      https://www.mediapart.fr/journal/france/010723/mort-de-nahel-chronique-d-un-drame-annonce

  • Europe’s Inflation Outlook Depends on How Corporate Profits Absorb Wage Gains

    Higher prices so far mostly reflect increases in profits and import costs, but labor costs are picking up

    Rising corporate profits account for almost half the increase in Europe’s inflation over the past two years as companies increased prices by more than spiking costs of imported energy. Now that workers are pushing for pay rises to recoup lost purchasing power, companies may have to accept a smaller profit share if inflation is to remain on track to reach the European Central Bank’s 2-percent target in 2025, as projected in our most recent World Economic Outlook.

    Inflation in the euro area peaked at 10.6 percent in October 2022 as import costs surged after Russia’s invasion of Ukraine and companies passed on more than this direct increase in costs to consumers. Inflation has since retreated to 6.1 percent in May, but core inflation—a more reliable measure of underlying price pressures—has proven more persistent. This is keeping the pressure on the ECB to add to recent interest-rate rises even though the euro area slipped into recession at the start of the year. Policymakers raised rates to a 22-year high of 3.5 percent in June.

    As the Chart of the Week shows, the higher inflation so far mainly reflects higher profits and import prices, with profits accounting for 45 percent of price rises since the start of 2022. That’s according to our new paper, which breaks down inflation, as measured by the consumption deflator, into labor costs, import costs, taxes, and profits. Import costs accounted for about 40 percent of inflation, while labor costs accounted for 25 percent. Taxes had a slightly deflationary impact.

    In other words, Europe’s businesses have so far been shielded more than workers from the adverse cost shock. Profits (adjusted for inflation) were about 1 percent above their pre-pandemic level in the first quarter of this year. Meanwhile, compensation of employees (also adjusted) was about 2 percent below trend. This is not the same as saying that profitability has increased, as discussed in our paper.

    Previous episodes of surging energy prices suggest that labor costs’ contribution to inflation should grow going forward. In fact, it has already picked up over recent quarters. At the same time, the contribution from import prices has fallen since its peak in mid-2022.

    This lag in wage gains makes sense: wages are slower than prices to react to shocks. This is partly because wage negotiations are held infrequently. But after seeing their wages drop by about 5 percent in real terms in 2022, workers are now pushing for pay rises. The key questions are how fast wages will rise and whether companies will absorb higher wage costs without further increasing prices.

    Assuming that nominal wages rise at a pace of around 4.5 percent over the next two years (slightly below the growth rate seen in the first quarter of 2023) and labor productivity stays broadly flat in the next couple of years, businesses’ profit share would have to fall back to pre-pandemic levels for inflation to reach the ECB’s target by mid-2025. Our calculations assume that commodity prices continue to decline, as projected in April’s World Economic Outlook.

    Should wages increase more significantly—by, say, the 5.5 percent rate needed to guide real wages back to their pre-pandemic level by end-2024—the profit share would have to drop to the lowest level since the mid-1990s (barring any unexpected increase in productivity) for inflation to return to target.

    As noted in our recent review of the euro-area economy, macroeconomic policies thus need to remain tight to anchor expectations and maintain subdued demand. This would coax firms to accept a compression of the profit share and real wages could recover at a measured pace.

    https://www.imf.org/en/Blogs/Articles/2023/06/26/europes-inflation-outlook-depends-on-how-corporate-profits-absorb-wage-gains
    #inflation #multinationales #économie #profits #salaires #statistiques #chiffres

    • Euro Area Inflation after the Pandemic and Energy Shock: Import Prices, Profits and Wages

      We document the importance of import prices and domestic profits as a counterpart to the recent increase in euro area inflation. Through a novel consumption deflator decomposition, we show that import prices account for 40 percent of the average change in the consumption deflator over 2022Q1 – 2023Q1, while domestic profits account for 45 percent. The increase in nominal profits was largest in sectors benefiting from increasing international commodity prices and those exposed to recent supply-demand mismatches. While the results show that firms have passed on more than the nominal cost shock, and have fared relatively better than workers, the limited available data does not point to a widespread increase in markups. Looking ahead, assuming nominal wage growth of around 4.5 percent over 2023-24 – slightly below the level seen in Q1 2023 – and broadly unchanged productivity, a normalization of the profit share to the average level over 2015-19 will be necessary to achieve a convergence of inflation to target over the next two years. Monetary policy will thus need to remain restrictive to anchor expectations and maintain subdued demand such that workers and firms settle on relative price setting that is consistent with disinflation.

      https://www.imf.org/en/Publications/WP/Issues/2023/06/23/Euro-Area-Inflation-after-the-Pandemic-and-Energy-Shock-Import-Prices-Profits-a

  • #Canicules_marines : pendant que l’océan se consume…

    Des « #mégafeux » aquatiques et invisibles sévissent notamment du sud de l’Islande jusqu’en Afrique en ce mois de juin. Ces phénomènes extrêmes, prévus dans tous les modèles qui avaient anticipé une hausse de la #température moyenne de l’océan, constituent une bombe à retardement du #réchauffement.

    L’océan brûle. Littéralement, ou presque. Depuis plusieurs semaines, une #canicule_marine inouïe frappe l’#Atlantique_nord, du sud de l’Islande jusqu’en Afrique. Au large de l’Irlande et de l’Ecosse, elle est catégorisée « au-delà de l’#extrême » (soit 5 sur une échelle de 5) par l’administration océanographique américaine (NOAA). Les cartes mondiales affichent aussi une effrayante couleur rouge sang, tendant vers le noir, dans le #Pacifique, le long de l’Amérique centrale et autour du Japon. Et les courbes s’affolent, atteignant de nouveaux sommets jour après jour et faisant craindre des ravages dus à des tempêtes tropicales précoces, telle Bret, qui a frôlé la Martinique ce vendredi.

    Mercredi, la #température des millions de km² de l’#océan_Atlantique nord s’est envolée à 23,3 °C (soit +1,32 °C d’#anomalie). Du jamais-vu pour un mois de juin, de très loin. L’ensemble de l’océan mondial, lui, a également enregistré un nouveau record ce jour-là, avec 20,9 °C de moyenne. Les #données de ce début d’année défient l’entendement : entre mars et mai, la température à la #surface_de_l’océan a atteint un record absolu en 174 ans de mesures, dépassant de 0,83 °C la moyenne du XXe siècle, d’après la NOAA.

    De quoi donner le tournis aux scientifiques. Cette #surchauffe générale émaillée de canicules localisées (là où la température de surface est plus élevée que 90 % du temps pendant plus de cinq jours) arrive « très tôt dans l’année, est très rapide et de très grande ampleur. Ce qui est surprenant, même si nous savons que la tendance est à la hausse de la température de l’océan », pointe Jean-Pierre Gattuso, chercheur du CNRS au laboratoire d’océanographie de Villefranche-sur-Mer (Alpes-Maritimes).

    « L’océan encaisse, encaisse, encaisse »

    Selon le rapport spécial du Groupe d’experts intergouvernemental sur l’évolution du climat (Giec) sur les océans et la cryosphère paru en 2019, l’océan a absorbé plus de 90 % de la chaleur excédentaire émise par l’humanité depuis qu’elle embrase l’atmosphère en y envoyant des gaz à effet de serre (GES), essentiellement à cause de la combustion d’énergies fossiles. Car la capacité de l’eau à capter la chaleur est beaucoup plus forte que celle des continents. Et les climatologues estiment que, d’ici à 2100, l’océan absorbera deux à quatre fois plus de chaleur que pendant la période allant de 1970 à l’heure actuelle si le réchauffement planétaire est limité à 2°C (soit l’objectif affiché par l’accord de Paris de 2015), et jusqu’à cinq à sept fois plus si les émissions sont plus élevées.

    Résultat de cette surchauffe, la fréquence des #vagues_de_chaleur_marines a doublé depuis 1982 et leur intensité augmente. Dans le futur, prévient le Giec, elles seront vingt fois plus fréquentes avec un réchauffement de 2°C, et cinquante fois plus fréquentes si les émissions continuent d’augmenter fortement. Glaçant. « L’océan encaisse, encaisse, encaisse, et forcément les canicules marines s’intensifient, soupire Catherine Jeandel, chercheuse du CNRS au Laboratoire d’études en géophysique et océanographie spatiales. Ce qui est déprimant pour un chercheur, c’est de constater que tout ce qui est prévu dans les #modèles_climatiques depuis trente ans ou quarante ans se réalise. »

    Si les causes précises de la canicule marine inédite qui frappe l’Atlantique nord sont difficiles à établir, la raison de fond réside donc dans l’aggravation du #réchauffement_climatique dû aux activités humaines. Par ailleurs, « certaines conditions favorisent le développement de vagues de chaleur marines : une température de l’air élevée et l’absence de vent et de houle, qui empêche les eaux de surface de se mélanger avec les eaux profondes plus froides », indique Jean-Pierre Gattuso.

    La destruction de la faune et de la flore marines

    Le phénomène naturel #El_Niño, lui, qui se produit en moyenne tous les deux à sept ans pendant neuf à douze mois et fait son retour dans le Pacifique depuis ce printemps, « ne peut pas avoir de lien direct avec ce qui se passe dans l’Atlantique nord, mais en a sans doute avec ce qui se passe dans le Pacifique équatorial », estime l’océanographe et climatologue au CNRS Jean-Baptiste Sallée.

    Impossible de prédire pendant combien de temps vont se prolonger les canicules marines de ces derniers jours. Mais certaines « peuvent durer plusieurs mois », prévient le chercheur, pour qui « cette longévité est ce qui les rend particulièrement inquiétantes et dévastatrices pour les écosystèmes ». A ses yeux, la conséquence « la plus importante et alarmante » de ce que l’on pourrait qualifier d’#incendies_sous-marins est la destruction de la faune et de la flore marines. Ces « mégafeux » aquatiques et invisibles à nos yeux provoquent des mortalités de masse de certaines espèces. Surtout parmi celles qui ne peuvent pas se déplacer, comme les coraux, les herbiers marins ou les forêts de grandes algues brunes accrochées à des supports rocheux.

    En Méditerranée, après chaque canicule marine, notamment celles de l’été 2022 qui y ont été spectaculaires, « on constate des mortalités importantes d’une cinquantaine d’espèces (coraux, gorgones, algues, mollusques, oursins, posidonies…) tandis que celles qui le peuvent fuient », observe Jean-Pierre Gattuso. Par exemple, dans l’Atlantique, les poissons et cétacés se déplacent de la zone équatoriale vers le nord dans l’hémisphère nord et vers le sud dans l’hémisphère sud. « Ce qui est très injuste d’un point de vue éthique et géopolitique, car cette zone équatoriale est bordée essentiellement par des pays en voie de développement qui n’ont pas ou peu de responsabilité dans le changement climatique et qui vont être très affectés sur le plan de la sécurité alimentaire, alors que l’Islande et la Norvège voient arriver une abondance de poissons », poursuit le scientifique. Qui souligne aussi l’impact des vagues de chaleur marines sur le déplacement d’#espèces_invasives, telles que le poisson lapin ou le poisson lion arrivés en Méditerranée depuis la mer Rouge.

    Outre les ravages sur la #biodiversité, les canicules marines ont aussi des conséquences sur les #événements_extrêmes. « Une mer très chaude, c’est de l’eau qui s’évapore davantage, donc des tempêtes, ouragans et cyclones plus probables et plus forts », note ainsi Catherine Jeandel, pour qui la surchauffe de l’océan est « la bombe à retardement du réchauffement climatique ». Ainsi, ce vendredi, deux tempêtes tropicales assez imposantes pour avoir reçu des petits noms charmants, Bret et Cindy, étaient actives sur l’Atlantique, faisant trembler les îles antillaises. Soit une première pour un mois de juin depuis le début des observations en 1968.

    La surchauffe favorise la fonte de la glace de mer

    Par ailleurs, la surchauffe de l’océan, « par exemple dans l’Arctique, favorise la fonte de la glace de mer, ajoute Jean-Pierre Gattuso. Idem en Antarctique, où l’eau chaude érode la #calotte_polaire par en-dessous, ce qui peut complètement la déstabiliser. » Elle perturbe aussi les #courants_marins, car « si l’eau est chaude, elle devient moins dense et a donc moins tendance à plonger en profondeur, ce qui limite les échanges entre la surface et les eaux profondes et réduit l’alimentation en oxygène de ces dernières », ajoute Jean-Pierre Gattuso. Au fur et à mesure qu’on réchauffe l’océan, qui capte un quart du CO2 émis par l’homme, « il perd aussi en efficacité comme puits naturel de carbone », avertit Jean-Baptiste Sallée.

    Comment stopper cette machine infernale ? Comment éteindre les flammes sous la marmite d’eau bouillante qu’est devenue la planète ? Les chercheurs interrogés par Libération sont unanimes : la seule solution « est connue, il s’agit de réduire drastiquement les émissions de gaz à effet de serre ». Donc d’« arrêter de subventionner l’extraction des énergies fossiles, de faire des sports d’hiver dans les Emirats, et au contraire d’enfourcher son vélo au lieu de prendre sa voiture…, énonce Catherine Jeandel. Si vous lisez les rapports du Giec, les solutions, vous les avez. Il faut nous écouter, c’est tout. »

    L’océan a « accumulé la chaleur, elle est là, sa température est déjà déterminée. Même si on n’émet plus de gaz à effet de serre en 2050, on ne reviendra pas aux niveaux de températures océaniques de 1850, c’est impossible, expose Jean-Pierre Gattuso. Mais on peut arrêter son réchauffement : en respectant un scénario d’émissions compatible avec le seuil fixé par l’accord de Paris, l’augmentation de la température est totalement stoppée et reste stable, constante. C’est quand même un message positif. » A condition que les opinions publiques et les responsables politiques sortent enfin du #déni.

    https://www.liberation.fr/environnement/climat/pendant-que-locean-se-consume-20230623_M2PIQOI535BPRCGPITA6THMD44
    #mer #océan #canicule #climat #changement_climatique

    via @isskein

  • 330.000 personnes entrées illégalement en Europe en 2022 ? Attention à ce chiffre trompeur

    Frontex n’a pas compté 330.000 personnes entrées illégalement sur le territoire européen en 2022. C’est pourtant ce qu’a affirmé le président du Rassemblement national Jordan Bardella le 16 janvier, en déclarant s’appuyer sur une note de l’agence européenne en charge de la surveillance des frontières publiée le 13 janvier. En réalité, l’agence a recensé non pas 330.000 personnes, mais 330.000 entrées irrégulières dans l’Union européenne sur l’année. Comme l’a expliqué Frontex à l’AFP, « une même personne peut traverser plusieurs fois la frontière » et ainsi être comptabilisée à plusieurs reprises. Par ailleurs, plusieurs spécialistes interrogés soulignent les limites de ce chiffre et de la hausse de 64% mesurée par Frontex. De son côté, l’Organisation internationale pour les migrations (OIM) a décompté 187.000 personnes entrées illégalement en 2022 en Europe, soit une hausse de 24% par rapport à 2021. Un « chiffre bien plus fiable pour rendre compte des arrivées réelles » selon plusieurs chercheurs.

    « On est allés beaucoup trop loin dans notre politique d’immigration ». Dans une interview sur la chaîne CNews le 16 janvier, le président du Rassemblement National (RN) Jordan Bardella a fustigé la politique migratoire française et européenne, dénonçant un gouvernement français qui selon lui « renonce à maîtriser ses frontières » et « contrôler sa politique d’immigration ».

    Sur quoi repose l’argumentaire de l’eurodéputé ? Sur de nouveaux chiffres issus d’une note publiée le 13 janvier par Frontex, l’agence européenne chargée du contrôle des frontières de l’Union Européenne.

    « Le rapport de Frontex sorti il y a quelques jours rappelle qu’il y a eu 64% d’entrées illégales supplémentaires sur le territoire européen dans les pays de l’Union européenne, c’est-à-dire 330.000 personnes qui sont rentrées de manière illégale », déclare ainsi l’eurodéputé du RN.

    D’autres publications en ligne ont aussi dénoncé sur Twitter ce supposé laisser-faire : « L’agence d’hôtesses d’accueil Frontex nous fait savoir qu’elle a déroulé le tapis rouge à 330000 clandestins au cours de l’année 2022 », déclare un tweet du 13 janvier partagé plus de 300 fois.

    330.000 passages, et non 330.000 personnes

    Mais que dit cette note ? L’agence de contrôle des frontières a bien annoncé une hausse de 64% des entrées illégales par rapport à 2021. Un chiffre annoncé par Frontex comme au plus haut depuis 2016. « Il s’agit de la deuxième année consécutive avec une forte augmentation du nombre d’entrées irrégulières », a-t-elle affirmé dans son communiqué.

    Mais Frontex n’a donc pas décompté 330.000 personnes, mais 330.000 passages illégaux. L’agence comptabilise en effet uniquement le nombre d’entrées irrégulières détectées sur le territoire européen, et non le nombre de personnes entrées illégalement. Concrètement, cela signifie qu’"une même personne peut traverser plusieurs fois la frontière et ainsi être comptabilisée à plusieurs reprises", est-il indiqué dans la note.

    L’agence a de nouveau confirmé ce point auprès de l’AFP le 13 janvier : « nous indiquons le nombre d’entrées illégales enregistrées, et non le nombre de personnes, alors qu’une personne peut traverser illégalement les frontières de l’Union européenne plusieurs fois ».
    « Des récits de migrants qui ont tenté cinq, dix, vingt fois, c’est extrêmement fréquent »

    Comment est effectué ce chiffrage ? Frontex indique que « la personne doit effectivement franchir la frontière extérieure et entrer dans l’Union européenne » pour que ce passage soit comptabilisé.

    L’agence affirme ainsi décompter chaque fois qu’une personne est détectée par les autorités mais n’est pas appréhendée, mais aussi chaque fois où une personne est arrêtée et renvoyée de l’autre côté de la frontière par les garde-frontières.

    Dès lors, plusieurs entrées peuvent être comptabilisées pour une personne qui a tenté de franchir la frontière à plusieurs reprises. Selon le chercheur au CNRS et spécialiste des migrations Thomas Lacroix, ce type de fréquence n’est pas inhabituel. « Des récits de migrants qui ont tenté cinq, dix, vingt fois, c’est extrêmement fréquent », a-t-il indiqué à l’AFP le 18 janvier, faisant référence à des travaux réalisés notamment à la frontière entre la Serbie et la Croatie.

    De même, une personne peut franchir les frontières de l’Union européenne à plusieurs reprises mais à des points d’entrée différents. C’est notamment le cas des migrants entrant dans l’Union Européenne par la Grèce depuis la Turquie puis sortent de l’UE par les Balkans avant d’y entrer de nouveau par la Croatie ou la Hongrie.
    Les chiffres de l’OIM, « bien plus fiables pour rendre compte des arrivées réelles » irrégulières

    D’autres statistiques remettent en perspective les chiffres avancés par Frontex. C’est le cas de l’organisation internationale pour les migrations (OIM), l’organisme des Nations Unies chargé des migrations, qui décompte chaque année le nombre d’arrivées illégales sur le territoire européen via sa plateforme Displacement Tracking Matrix.

    En 2022, l’instance, qui compile à la fois ses propres données de terrain, les données des autorités nationales et les données obtenues dans les médias, a comptabilisé"187.993 personnes migrantes et réfugiées entrées illégalement en Europe", comme l’a détaillé l’OIM dans un mail à l’AFP le 18 janvier.

    Soit une hausse de 24% par rapport à 2021, moins importante que celle calculée par Frontex concernant les détections.

    « Ce chiffre est bien plus fiable pour rendre compte des arrivées réelles », souligne Thomas Lacroix. Contrairement à Frontex, l’OIM, dont les chiffres s’avèrent plus stables à travers le temps, tente d’éviter les problèmes de doublons. Un exemple : l’OIM ne comptabilise pas les personnes voyageant dans la région des Balkans.

    L’organisation part en effet du principe que ces arrivées « sont déjà incluses dans les chiffres des arrivées pour la Grèce, la Bulgarie ou Chypre », comme elle l’a expliqué à l’AFP. « Comme une même personne peut traverser plusieurs frontières terrestres de l’UE et de pays non membres de l’UE en se déplaçant dans la région, il n’y a aucun moyen d’éviter un double comptage ».

    Interrogé par l’AFP le 19 janvier, l’OIM explique en partie cette hausse par un « assouplissement des restrictions aux frontières » après la fin des restrictions sanitaires. Elle note que le « nombre global d’arrivées se situe dans la même fourchette que pour la période 2017-2019 », tout en étant « bien inférieur aux arrivées de 2015-2016 » au plus fort de la crise migratoire.

    Beaucoup de ces entrées irrégulières peuvent par ailleurs être le fait de réfugiés pouvant légalement demander l’asile dans l’Union Européenne, rappelle l’OIM.

    Appelé à comparer ses chiffres avec ceux de l’OIM, Frontex n’avait pas répondu aux demandes de l’AFP sur ce point au moment de la publication de cet article.

    https://i.imgur.com/CApAv5N.png

    64% d’augmentation ? Les chiffres de Frontex et leurs limites

    Ce n’est pas la première fois qu’une telle confusion entoure les chiffres de Frontex. En octobre 2022, Libération avait déjà vérifié un article d’Europe 1, dans lequel la radio indiquait que « 228.000 personnes [avaient] franchi la frontière européenne en toute clandestinité » sur les neuf premiers mois de l’année.

    L’association Désinfox Migrations, qui lutte contre les infox entourant l’immigration, avait aussi alerté sur Twitter face à cette mauvaise interprétation des chiffres de Frontex et avait appelé à « relativiser » ces chiffres.

    Plus globalement, les chiffres de Frontex sont aussi contestés par de nombreux observateurs.

    « Les chiffres Frontex doivent être pris avec précaution », souligne Tania Racho, chercheuse-associée à l’Université Paris-Saclay en droit européen et consultante pour l’initiative Désinfox Migrations à l’AFP le 17 janvier. Cette dernière décrit des « chiffres trompeurs », qui « ne permettent pas réellement de savoir combien de personnes ont franchi les frontières ».

    « Frontex est juge et partie. Ce ne sont pas des données indépendantes », explique de son côté Virginie Guiraudon, directrice de recherche au CNRS à Sciences Po Paris à l’AFP le 17 janvier. « Frontex, ce n’est pas Eurostat [service de la Commission européenne chargé de l’information statistique à l’échelle communautaire, NDLR] ».

    Certains spécialistes interrogés soulignent les limites de la hausse de 64% annoncée par Frontex. « Il y a une interprétation hâtive qu’il faut vérifier : c’est de dire que les chiffres sont en forte augmentation », soutient Thomas Lacroix. « Frontex publie ces chiffres pour justifier l’augmentation de leur propre budget. Cela leur sert à la fois à justifier les augmentations passées et à demander des augmentations futures ».

    Le budget de l’agence, en quasi-constante augmentation depuis son lancement en 2005, a atteint 754 millions d’euros en 2022, soit plus du double que son enveloppe de 2020 (364 millions d’euros).

    Dans sa note, l’agence rappelle d’ailleurs son rôle dans la protection des frontières européennes, en soulignant que « l’augmentation constante du nombre de franchissements irréguliers démontre la nécessité de disposer d’un corps de garde-frontières et de garde-côtes européens fort et efficace, avec Frontex en tant que soutien solide des États membres ».
    Une augmentation des moyens de détection de Frontex

    Thomas Lacroix comme Tania Racho soulignent par ailleurs que la hausse des détections peut dès lors aussi en partie s’expliquer par la forte augmentation de ses « moyens humains et budgétaires ». Utilisation de drones, de caméras de surveillance, augmentation des effectifs : « cette augmentation est aussi corrélée à l’augmentation des moyens de Frontex », explique Tania Racho.

    Un point tout de même nuancé par Virginie Guiraudon, qui explique que les données sont aussi fournies par les autorités gouvernementales, et ne proviennent pas uniquement de Frontex : « L’augmentation du budget de Frontex est très importante, mais les garde-frontière de Frontex ne sont que 1500 personnes », rappelle-t-elle, expliquant que la hausse des moyens peut expliquer à moyen terme la hausse des détections, mais pas d’une année sur l’autre.

    « Cela ne veut pas dire que ces chiffres ne disent rien et ne donnent pas des tendances », indique-t-elle par ailleurs, tout en appelant comme les autres chercheurs interrogés à la plus grande vigilance face à ces chiffres.

    https://factuel.afp.com/doc.afp.com.337976P
    #chiffres #statistiques #asile #migrations #passages #personnes #seeing_double #Frontex #arrivées #entrées_irrégulières

    ajouté à ce fil de discussion autour des doubles/triples comptages :
    https://seenthis.net/messages/705957

  • Wind and solar overtake fossil generation in the EU

    New data from energy think tank Ember shows that wind and solar produced more EU electricity than fossil fuels in May, for the first full month on record. Almost a third of the EU’s electricity in May was generated from wind and solar (31%, 59 TWh), while fossil fuels generated a record low of 27% (53 TWh).

    https://i.imgur.com/sRTT46u.png
    https://ember-climate.org/press-releases/wind-and-solar-overtake-fossil-generation-in-the-eu

    #énergie_solaire #énergie_éolienne #énergie #UE #EU #production #parts #Union_européenne #statistiques #évolution #graphique #chiffres #enfin_une_bonne_nouvelle (?)

  • Surmortalité 2022 : l’Insee montre que les jeunes meurent trop !

    Le 22 décembre 2020, je montrais déjà en vidéo que le bilan de la crise Covid-19 du point de vue de la mortalité était trop faible pour justifier la moindre panique, et certainement pas les mesures prises. Le 13 septembre 2021, je montrais, en vidéo, grâce aux travaux que nous avons menés avec Steve Ohana et Alexandra Henrion-Caude, que la vaccination des jeunes en Israël s’est immédiatement accompagnée d’une forte hausse de mortalité. Nos travaux furent censurés. Dès le 22 mars 2022, j’ai tenté d’alerter en vidéo, que les campagnes de vaccination partout en Europe ont été très fréquemment accompagnées de hausses de mortalité sur toutes les tranches d’âge concernées. Nous savons depuis plus d’un an que les jeunes meurent trop. Ce mardi 6 juin 2023 va peut-être amorcer une brèche dans le mur de la Doxa de la crise Covid-19, puisque l’article de l’Insee titre sur la surmortalité observée en 2022, même chez les jeunes. On ne peut plus accuser le méchant virus tueur. Il va falloir apporter des réponses.

    https://www.youtube.com/watch?v=4P-Bxl-5g9I

    Trop de morts 
    Le titre de la publication de l’Insee "53 800 décès de plus qu’attendus en 2022 : une surmortalité plus élevée qu’en 2020 et 2021", annonce la couleur. On se demande alors 
    • si le modèle qui permet de calculer une surmortalité est pertinent, puisqu’on trouve de la surmortalité tout le temps ; 
    • à quoi est due la surmortalité de 2022 


    L’entrée en matière de l’article est encore plus surprenante : "En 2022, les décès observés ont nettement dépassé ceux attendus en l’absence d’épidémie de Covid-19 ou d’autres événements inhabituels tels que des épisodes de grippe ou de fortes chaleurs, etc." 

    Mais alors, est-on sûr que ce qui a été appelé “décès du Covid-19” en 2020 était vraiment pertinent, ou faut-il le remettre en question ? Puisque visiblement, même quand on arrête de compter du Covid-19, il y a toujours autant de morts, même plus… 

    Certaines de ces questions sont posées et d’autres soigneusement évitées par l’Institut. La recherche de la vérité semble se limiter à ce qu’on est capable d’admettre ou à ce qui ne vexe personne. 

    Un “modèle” qui se trompe tout le temps 

    L’Insee nous informe que la surmortalité persiste. Autrement dit, le nombre de morts est plus important que ce qu’a prévu son modèle. Pour poursuivre la réflexion, il serait peut-être temps de se demander si son modèle qui a fait pousser des cris d’orfraie en 2020 était pertinent. Voilà le graphique de l’article : 

    La courbe bleue correspond aux décès observés et la courbe rouge aux décès attendus. On voit bien que les décès observés sont bien au-dessus de l’attendu depuis 3 ans. J’ai montré dans mon livre “Covid-19 : ce que révèlent les chiffres officiels” un certain nombre de problèmes découlant du choix de ce modèle. Déjà l’Insee a testé plusieurs modèles, mais a choisi celui qui minimise les décès attendus, autrement dit celui qui donne la plus grosse surmortalité possible pour 2020. C’est un choix inhabituel et qui n’est pas neutre. Il participe à augmenter la peur. 

    Aujourd’hui, un autre problème se voit comme le nez au milieu de la figure. Normalement pour faire un modèle, on prend une partie des données à notre disposition, puis on vérifie qu’il fonctionne sur d’autres données à disposition. Or, ce modèle est construit à partir de toute la période 2010-2019. Il n’y a donc aucune donnée pour le valider.

    De fait, cela revient à annoncer que ce modèle est forcément le meilleur sans vérification, et de conclure directement qu’il y a une surmortalité en 2020. Chacun peut voir aujourd’hui que le modèle construit sur la tendance 2010-2019 ne s’est jamais vérifié depuis. Ni en 2020, ni en 2021, ni en 2022. Autrement dit, il est faux tout le temps. Il serait peut-être temps d’avouer que toutes les conclusions tirées de ce modèle ont toujours été fausses et que ce sont les taux de mortalité entre 2016 et 2019 qui étaient exceptionnellement bas. Les hivers doux et l’absence de canicule de ces années-là ont biaisé le résultat. 2020, 2021 et 2022 ont donc des mortalités plus hautes que des années de mortalité basse. On ne peut rien dire d’autre. La panique n’était pas justifiée et il n’y a jamais eu d’hécatombe. Ni en France, ni nulle part. 

    Les morts Covid incohérents pour cacher l’abandon 
    L’article persiste dans l’idée de la surmortalité de 2020 en disant que la hausse des décès est due au Covid-19. On peut lire : “La surmortalité, soit l’excédent de décès observés par rapport à ceux attendus, a été un peu plus forte en 2022 (8,7 %) qu’en 2021 (6,9 %) et 2020 (7,8% ). Pourtant, probablement grâce à la vaccination et à l’immunité collective, l’épidémie de Covid-19 a été moins meurtrière en 2022”.

    Cette phrase n’a absolument rien à faire dans une étude de l’Insee. L’Insee n’a aucun moyen de savoir de quoi sont décédés les Français. Ce sont Santé Publique France et le CépidC qui publient des études à ce sujet. Or les méthodes de collecte de données de Santé Publique France et du CépidC ne sont pas du tout dans les standards de l’institut. L’Insee n’a pas la main sur la qualité des données et sur ce que l’on peut en dire. C’est donc une erreur de les considérer justes, sans plus de recul. Cela les valide et c’est lourd de conséquence sur la psychose. 

    Pourtant l’article fournit toutes les armes pour comprendre que les données des “décès Covid-19” sont parfaitement bidons. Elles ne sont pas le fruit d’un protocole de collecte fiable lié à une enquête scientifiquement contrôlée, mais découlent de règles administratives. C’est donc de la bureaucratie et pas de la science. 

    En mars-avril 2020, le nombre de décès estampillés “Covid-19”, que l’on voit dans les 2 courbes bleues est quasiment égal à la surmortalité en rouge. L’Insee n’a pas le droit d’en conclure que c’est le Covid-19 qui tue. Comme je le rappelle dans mon livre, sur cette période, les français n’ont pas été soignés. En l’occurrence, toute personne qui était malade ne pouvait pas recevoir de traitement.

    En effet, un malade de Covid-19 est une personne qui peut avoir n’importe quel symptôme : toux, fièvre, maux de tête, perte de goût ou d’odorat, frissons, douleurs musculaires, fatigue, nausée, vomissement, ou même diarrhée. Tous les malades pouvaient donc être considérés Covid-19.

    Or, il était dit que le Covid-19 n’avait pas de traitement. Les malades de toutes les pathologies, soupçonnés Covid-19, n’ont pas été soignés. On a d’ailleurs observé un effondrement de l’utilisation des médicaments, notamment des antibiotiques. 

    Quand on ne soigne pas les gens, ils survivent moins bien. 
    Parallèlement, la maladie étant réputée non soignable, de nombreuses personnes âgées, sur simple soupçon de Covid-19, ont reçu une injection de médicament palliatif, notamment le Rivotril, en lieu et place des soins habituels. 

    Or, quand on accompagne les plus âgés vers le décès, ils ont tendance à mourir un peu plus. 

    Il est donc parfaitement normal d’observer une hausse de décès pendant une période où on ne soigne pas les personnes âgées et où on les accompagne vers le décès. Toutes ces personnes âgées ont été “déclarées décédées du Covid-19”, aussi bien auprès de Santé Public France, via la source SiVIC, qu’auprès du CépidC via les certificats de décès. 

    Le non-soin pour les personnes âgées malades et l’utilisation du Rivotril, explique très bien aussi la mortalité d’octobre 2020 attribuée au Covid-19. On rappelle que c’est exactement la période de la vaccination anti-grippale, qui donne exactement les symptômes de ce que l’on appelle “Covid-19”. 

    Au creux de l’hiver, entre décembre 2020 et janvier 2021, ou entre janvier et février 2022, on voit bien que la mortalité estampillée Covid-19, en bleu, n’a rien à voir avec la surmortalité, en rouge. Il n’y a pas plus de décès que d’habitude sur la période, mais plein de décès sont attribués au Covid-19 quand même. Ce n’est pas logique et nous fait comprendre que tout est affaire d’enregistrement. 

    Le site ScanSanté nous permet de connaître les pathologies des personnes hospitalisées ces dernières années. Les patients enregistrés comme “Covid-19” à l’hôpital, ont été placés dans le Groupement Homogène de Malades (GHM) “Infections et inflammations respiratoires”.

    On voit que le nombre de malades chaque année de cette pathologie est d’environ 50 000. Depuis l’arrivée de la codification “Covid-19”, le nombre de malades d’infections et inflammations respiratoires est passé à 266 000 en 2020 et 309 000 en 2021. C’est une explosion ! Or, on remarque que dans le même temps, le nombre de malades de toutes les autres pathologies respiratoires, que ce soit les infections ou même les problèmes chroniques, s’est effondré !

    Depuis le Covid-19, il y a bien moins de #bronchites, d’ #asthme, de #pneumonies, de #pleurésies, de #bronchopneumopathies chroniques, d’ #œdèmes pulmonaires, de maladies pulmonaires interstitielles, de #bronchiolites, de #tuberculoses et de #grippes ! Finalement, ce qu’on appelle Covid-19 c’est un transfert de codage. Le Covid-19 correspond à toutes les maladies respiratoires habituelles qui ont juste changé de nom. C’est pour cela que les statistiques ne sont pas cohérentes. On a juste compté n’importe quoi.

    C’est donc normal que l’hiver, quand les Français sont malades comme d’habitude, on trouve plein de décès estampillés Covid-19, puisqu’on met dans la case Covid-19 tous les morts habituels, ce sont les courbes bleues. Il n’y a donc pas plus de décès que d’habitude en hiver, la courbe rouge reste près de 0. 

    En revanche, depuis que presque tous les Français sont vaccinés, mais surtout, que le "pass sanitaire" n’existe plus, on ne teste plus personne et on n’attribue presque plus de décès au Covid-19. La cassure se voit très clairement pile à la fin du "pass sanitaire" en mars 2023. Depuis ce moment, il meurt trop de Français, mais on a cessé d’accuser arbitrairement le Covid-19, alors que c’était le non-soin, l’abandon, tout particulièrement des plus âgés, qui les tuait. 

    Les jeunes décèdent trop ! 
    L’article dévoile que les Français meurent trop. Même les jeunes. Sur ce graphique on observe la surmortalité chaque année. Même si je remets en cause le niveau global de surmortalité, cela ne change pas le fait qu’il y a plus décès en 2022 qu’en 2020, surtout chez les jeunes. L’année de la grande pandémie qui a ravagé l’humanité en 2020 a engendré une sous-mortalité chez les jeunes. Comme on le voit avec les bâtons bleus. Cela valait vraiment le coup de paniquer. Mais, depuis 2021, il y a trop de morts par rapport à ce qui est prévu, comme le matérialisent les bâtons jaunes. Le nombre de morts devient très élevé en 2022, en rose. Ainsi tant que la pandémie ravageait l’humanité, les jeunes mourraient moins que d’habitude, alors que, maintenant qu’ils sont vaccinés et que le virus a disparu, il meurent bien plus.

    L’article ne regarde pas les dates des campagnes de vaccination des jeunes afin de comprendre de quoi ils meurent. Pourtant, toutes ces données sont publiques. J’ai d’ailleurs fait le travail et je le mets à disposition de tous. 

    Si la surmortalité de 2021, n’est pas aussi forte que 2022, c’est notamment parce que la surmortalité ne démarre pas avant juillet. Il n’y a pas de surmortalité des jeunes avant le début de la vaccination anti-Covid-19. C’est bizarre. 

    Pour le voir, j’ai découpé l’année du 1er juillet au 30 juin. Sur ce graphique, je calcule le cumul des décès standardisés des 15-24 ans en France chaque année. La courbe verte va du 1er juillet 2020 au 30 juin 2021. On voit qu’on a alors enregistré une belle sous-mortalité. Depuis qu’on vaccine, la tendance a changé. La courbe bleue du 1er juillet 2021 au 30 juin 2022 est largement au-dessus. C’est une grosse rupture. La courbe orange qui démarre depuis juillet 2022 suit la même tendance : les jeunes meurent trop !

    On fait exactement le même constat pour les 25-49 ans : ils meurent plus depuis qu’on les vaccine que pendant la prétendue pandémie !  

    Si vous faites tourner mes programmes, vous trouverez les mêmes résultats pour l’Allemagne, l’Autriche, la Croatie, l’Espagne, la Grèce, la Hongrie, l’Italie, les Pays-Bas, la Pologne ou la Suisse. 

    Vous trouverez également qu’on observe des hausses de mortalité, pile pendant les campagnes de vaccination. Il serait temps de vérifier tout ça non ? 

    Enfin, l’article de l’Insee s’étonne que “Chez les femmes âgées de 15 à 34 ans, la surmortalité est particulièrement élevée en 2022 (16 %), alors qu’elle était modérée en 2021 (3 %). La surmortalité des hommes du même âge a également augmenté (8 %, contre 3 % en 2021).”

    De même, Christine MacKoi a montré que la mortalité néonatale précoce a explosé pour les bébé nés en juin 2021, c’est-à-dire, pile pendant la vaccination des femmes enceintes. 157 bébés nés en juin 2021 sont décédés dans les 6 jours après la naissance contre 111 attendus.

    La mortalité néonatale précoce arrive surtout quand les femmes accouchent prématurément. Si la vaccination a rendu malade des femmes enceintes, il est possible que certaines aient accouché prématurément, entraînant la perte du bébé. 

    Finalement, grâce à cet article de l’Insee, on apprend officiellement que le modèle de surmortalité n’a jamais été vérifié en 3 ans. Toutes les conclusions fondées sur ce modèle sont donc fausses. On apprend également que la mortalité Covid n’a rien à voir avec la surmortalité. Donc, ce qui a été appelé “décès Covid-19” a toujours été du n’importe quoi. De la bureaucratie et pas de la science. Pour finir, l’Insee admet dorénavant que les jeunes meurent trop. Un peu trop en 2021 et beaucoup trop en 2022. La réalité est que les jeunes meurent beaucoup trop depuis la moitié de l’année 2021. 

    Nous n’avons plus qu’à espérer que ce papier soit la première brèche qui fasse s’écrouler le discours de la peur et la propagande qui empêche les victimes de parler. Le combat pour la vérité est loin d’être fini.

    Source, tableaux, liens : https://www.francesoir.fr/opinions-tribunes/chaillot-surmortalite-2022-insee-montre-que-les-jeunes-meurent

    #économie #chiffres #statistiques #Insee #covid #coronavirus #sars-cov-2 #maladie #manipulation #fumisterie #santé #sante #décoder #population #morts #surmortalité #décès #bureaucratie #Covid-19 #antibiotiques #soins #codage #rivotril #jeunes

  • L’affare CPR, un sistema che fa gola a detrimento dei diritti

    Sono 56 i milioni di euro previsti complessivamente, nel periodo 2021-2023, dagli appalti per affidare la gestione dei #Centri_di_Permanenza_per_il_Rimpatrio (CPR) ai soggetti privati. Costi da cui sono esclusi quelli relativi alla manutenzione delle strutture e del personale di polizia. Cifre che fanno della detenzione amministrativa una filiera molto remunerativa che, non a caso, ha attratto negli ultimi anni gli interessi economici di grandi multinazionali e cooperative. La privatizzazione della gestione è, infatti, uno degli aspetti più controversi di questa forma di detenzione senza reato e ne segna un ulteriore carattere di eccezionalità: il consentire che su quella privazione della libertà personale qualcuno possa trarne profitto.

    Ad illustrare questa situazione è la Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti civili (CILD), che questa mattina a Roma ha presentato un nuovo rapporto sul tema, intitolato “L’affare CPR. Il profitto sulla pelle delle persone migranti”, all’interno del quale grande attenzione è stata dedicata alle multinazionali #Gepsa e #ORS, alla società #Engel s.r.l. e alle Cooperative #Edeco-Ekene e #Badia_Grande che hanno contribuito, negli anni recenti, a fare la storia della detenzione amministrativa in Italia.

    Una storia tutt’altro che nobile fatta di sistematiche violazioni dei diritti delle persone detenute, con la possibilità per gli enti gestori di massimizzare -in maniera illegittima- i propri profitti anche a causa della totale assenza di controlli da parte delle pubbliche autorità. Nel Rapporto, infatti, si dà ampio spazio alla denuncia delle condizioni di detenzione che rischiano di configurarsi come inumane e degradanti e alla strutturale negazione dei diritti fondamentali dei detenuti. Il diritto alla salute, alla difesa, alla libertà di corrispondenza non sono, infatti, tutelati all’interno dei CPR: luoghi brutali che consentono ai privati di speculare sulla pelle dei reclusi, grazie anche alla totale assenza di vigilanza da parte del pubblico.

    “Da sempre questi centri – ha dichiarato Arturo Salerni, presidente di CILD – hanno rappresentato un buco nero per l’esercizio dei diritti da parte delle persone trattenute. Essi rappresentano un buco nero anche sotto il profilo delle modalità e dell’entità della spesa, a carico dell’erario, a fronte delle gravi carenze nella gestione e delle condizioni in cui si trovano a vivere i soggetti che incappano nelle maglie della detenzione amministrativa, ovvero della privazione della libertà in assenza di qualunque ipotesi di reato. Il proposito del governo di aumentarne il numero è il frutto di scelte dettate da un approccio tutto ideologico che non trova fondamento nell’analisi del fenomeno. L’esperienza degli ultimi 25 anni, a prescindere dalla gestione pubblica o privata dei centri, ci dice che bisogna guardare a forme alternative e non coercitive per affrontare la questione delle presenze irregolari sul territorio nazionale, che bisogna accompagnare le persone in percorsi di regolarizzazione e di emersione, cancellando l’obbrobrio della detenzione senza reato”.

    https://cild.eu/blog/2023/06/08/laffare-cpr-un-sistema-che-fa-gola-a-detrimento-dei-diritti

    Une #carte localisant les lieux de rétention administrative en Italie :


    #cartographie

    Pour télécharger le rapport :
    https://wp-buchineri.cild.eu/wp-content/uploads/2023/06/ReportCPR_2023.pdf

    #rapport #CPR #CILD #détention_administrative #rétention #business #privatisation #Italie #multinationales #coopératives #profits #droits_humains #CIE

    –—

    ajouté au fil de discussion sur la présence d’ORS en Italie :
    https://seenthis.net/messages/884112

    lui-même ajouté à la métaliste autour de #ORS, une #multinationale #suisse spécialisée dans l’ « #accueil » de demandeurs d’asile et #réfugiés :
    https://seenthis.net/messages/802341

    • “L’affar€ CPR”: un rapporto di CILD mette alla sbarra gli enti gestori

      Il profitto sulla pelle delle persone migranti

      Nel giugno scorso la Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili (CILD) ha pubblicato un accurato rapporto dal titolo “L’affar€ CPR: il profitto sulla pelle delle persone migranti” 1, che analizza la gestione dei Centri di Permanenza per i Rimpatri (CPR) italiani da parte delle principali cooperative e imprese private che ne detengono o ne hanno detenuto l’appalto, vincendo i diversi bandi di gara istituiti dalle prefetture.

      Introdotta formalmente nel 1998 2 la detenzione amministrativa in Italia prevedeva inizialmente la facoltà per i questori, qualora non fosse possibile eseguire immediatamente l’espulsione delle persone extracomunitarie, di disporne il trattenimento per un massimo di 20 giorni (prorogabile di ulteriori 10) all’interno dei CPTA, Centri di Permanenza Temporanea e di Assistenza.

      Nel 2008 3, i CPTA diventano Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE), e, nel 2009 4, i termini massimi di trattenimento vengono estesi a 180 giorni, per poi venire portati a 18 mesi nel 2011 5. Nel 2017 6, la c.d legge Minniti-Orlando ha ulteriormente modificato la denominazione di tali centri, rinominandoli Centri di Permanenza per i Rimpatri (CPR). Infine, il decreto Lamorgese del 2020 ha emendato alcune disposizioni, riducendo i termini massimi di trattenimento a 90 giorni per cittadini stranieri il cui paese d’origine ha sottoscritto accordi in materia di rimpatri con l’Italia 7.

      Inizialmente, i CPTA erano gestiti dall’ente pubblico Croce Rossa Italiana, e già all’ora diverse organizzazioni della società civile avevano denunciato le pessime condizioni di trattenimento, l’inadeguatezza delle infrastrutture e il sovraffollamento. In seguito al “pacchetto sicurezza” varato dal Ministro Maroni nel 2008, la situazione si aggrava, con la progressiva tendenza dello Stato a cercare di contenere i costi il più possibile. Così, diverse cooperative iniziano a partecipare ai bandi di gara, proponendo offerte a ribasso ed estromettendo la Croce Rossa. Infine, dal 2014, non solo le cooperative ma anche grandi multinazionali che già gestiscono centri di trattenimento in tutta Europa, iniziano a presentarsi e vincere i diversi bandi per l’assegnazione della gestione dei CPR.

      Multinazionali che si aggiudicano gare d’appalto proponendo ribassi aggressivi, a totale discapito dei diritti umani delle persone trattenuti. L’esempio più lampante è l’assistenza sanitaria, in quanto nei CPR, non è il SSN ad esserne competente, bensì l’ente gestore. Infine, nel triennio 2021-2023, le prefetture competenti hanno bandito gare d’appalto per la gestione dei 10 CPR presenti in Italia, complessivamente, per 56 milioni di euro, da sommare al costo del personale di polizia e la manutenzione delle strutture.

      Tra le principali imprese messe alla sbarra dal Report di CILD ci sono:

      Gruppo ORS (Organisation for Refugees Services). Multinazionale con sede a Zurigo, gestisce oltre 100 strutture di accoglienza e detenzione tra Svizzera, Austria, Germania e Italia. Sebbene risulti iscritta nel registro delle imprese dal 2018, ha iniziato la sua attività economica in Italia solo nel 2020. Nel 2019, si aggiudica l’appalto per la gestione del CPR di Macomer, in Sardegna (sebbene risultasse ancora “inattiva”). Nel 2020, gestisce il Cas di Monastir (Sardegna), due centri d’accoglienza a Bologna nel 2021, alcuni Cas a Milano, il CPR di Roma (Ponte Galeria) e quello di Torino.

      Nel centro di Macomer, personale medico ha denunciato l’assenza di interventi da parte delle autorità competenti in seguito a diversi episodi che hanno visto i trattenuti mettere a rischio la propria sicurezza. Inoltre, a più riprese è stata riportata l’impossibilità di effettuare ispezioni all’interno del centro da parte del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Infine, un’avvocata che seguiva diversi clienti trattenuti, ha denunciato la sporcizia e l’inadeguatezza delle visite mediche di idoneità, che ha portato, tra l’altro, al trattenimento di soggetti affetti da gravi forme di diabete e soggetti sottoposti a terapia scalare con metadone, condizioni incompatibili con la detenzione amministrativa.

      Nel CPR di Roma è stata più volte denunciata l’insufficienza di personale, l’inadeguatezza dei locali di trattenimento (per esempio, l’assenza di luce naturale) e l’assenza della possibilità, per le persone recluse, di svolgere qualsiasi attività ricreativa. Anche a Torino, la delegazione CILD in visita ha riportato l’illegittimo trattenimento di persone soggette a terapia scalare con metadone, alto tasso di autolesionismo e abuso di psicofarmaci e tranquillanti somministrati.

      Cooperativa EKENE. Cooperativa sociale padovana che nel corso degli ultimi 10 anni ha spesso cambiato nome (nata come Ecofficina, poi Edeco 8 e infine Ekene), in quanto spesso al centro di inchieste giornalistiche, interrogazioni parlamentari e procedimenti giudiziari legati ad una cattiva gestione di alcuni centri d’accoglienza, come lo SPRAR di Due Carrare (Padova), dove la Procura di Padova aveva aperto un’indagine per truffa e falso in atto pubblico, tramutatasi in una maxi indagine estesasi ad alcuni vertici della Prefettura di Padova, per gare truccate e rivelazioni di segreto d’ufficio.

      Nel 2016, diversi giornalisti e ricercatori avevano ripetutamente denunciato il sovraffollamento e la malnutrizione di diversi centri in gestione alla cooperativa, come l’ex Caserma Prandina, il centro di Bagnoli e Cona (VE), dove, nel 2017, la donna venticinquenne Sandrine Bakayoko è morta per una trombosi polmonare, quando all’interno del centro erano ospitate più di 1.300 persone, in una situazione di sovraffollamento e forte carenza di personale. Nel 2016, è stata espulsa da Confcooperative Veneto, con l’accusa di gestire l’accoglienza seguendo un modello che guardava al business a discapito della qualità dei servizi.

      Tuttavia, nel 2019 si aggiudica l’appalto del CPR di Gradisca d’Isonzo, a Gorizia in FVG, un appalto da circa 5 milioni di euro per un anno, attualmente in proroga tecnica. Dalla riapertura nel 2019, il CPR di Gradisca è quello dove si sono verificati più decessi. Dal 2019, quattro persone sono decedute, due per complicazioni in seguito all’abuso di farmaci, e due suicidi. Ciò mette in risalto la malagestione delle visite di idoneità all’ingresso, nonché l’inadeguatezza delle condizioni di trattenimento. Inoltre, diversi avvocati hanno denunciato la difficoltà nello svolgere colloqui coi trattenuti, e come le persone trattenute non venissero nemmeno informate del diritto a fare domanda d’asilo una volta entrate in Italia.
      Nel dicembre 2021 Ekene si aggiudica anche la gestione del CPR di Macomer.

      ENGEL ITALIA S.R.L. Società costituita nel 2012 con sede legale a Salerno. Nata come ente gestore nel settore alberghiero, presto inizia ad occuparsi di strutture d’accoglienza per persone richiedenti asilo nella zona di Capaccio-Paestum. Sebbene sia una società fallibile dal 2020, è riuscita ad ottenere la gestione del CPR di Palazzo San Gervasio (Basilicata) e Via Corelli (Milano), grazie alla cessione di un ramo dell’azienda ad una società terza, Martinina s.r.l, con la stessa persona come amministratrice unica.

      Già nel 2014, Engel era stata al centro della cronaca per la discutibile gestione del centro di accoglienza di Capaccio-Paestum, dove agli ospiti non venivano erogati beni di prima necessità come cibo e vestiti. Era stata denunciata anche l’assenza di corsi d’italiano e l’irregolarità nell’erogazione del pocket money. Inoltre, molti ospiti avevano denunciato abusi e maltrattamenti all’interno del centro.

      Nel 2018 Engel si aggiudica l’appalto del CPR di Palazzo San Gervasio, con un ribasso sul prezzo d’asta del 28,60%, che ha gestito fino al marzo 2023. Fin da subito, il Garante nazionale per le persone private della libertà, in seguito ad una visita al centro, ne aveva denunciato le pessime condizioni: assenza di locali comuni, trattenuti costretti a consumare i pasti in piedi, e la presenza di solo tre docce comuni. Gli ambienti di pernotto, privi di un sistema di isolamento, risultavano caldissimi d’estate e molto freddi d’inverno.

      Sebbene il centro sia stato chiuso a metà del 2020 per lavori e riaperto a febbraio 2021, secondo CILD le condizioni continuerebbero ad essere critiche. Continua a mancare un locale mensa, e in stanze da 25mq sono ospitate fino ad 8 persone. Inoltre, anche per Palazzo San Gervasio è stata denunciata l’inadeguatezza delle visite di idoneità al trattenimento e la difficoltà per i trattenuti di avere accesso alla corrispondenza coi propri avvocati.

      Anche nel CPR di Milano, per il quale Engel ha ottenuto l’appalto nel 2021 e nel 2022, sono state denunciate le terribili condizioni dei locali, e l’incredibile numero di gabbie e reti di ferro, che danno l’impressione di isolamento estremo, non solo dall’esterno ma anche dal personale all’interno del centro. Anche il cibo e i letterecci erogati risultano di pessima qualità.

      GEPSA. Multinazionale francese che dal 2011 inizia ad investire in Italia nel campo dell’accoglienza, si aggiudica diversi appalti proponendo una strategia aggressiva, con un ribasso sulle basi d’asta dal 20% al 30%. Dal 2014 al 2017 gestisce il CIE di Ponte Galeria, dal 2014 al 2017 il CIE di Milano e dal 2015 al 2022 il CIE di Torino. Dal 2011 al 2014 avrebbe dovuto gestire anche il CIE e CARA di Gradisca d’Isonzo, ma l’aggiudicazione è stata annullata dal TAR del Friuli-Venezia Giulia per la mancanza di requisiti adeguati delle imprese facenti parti della rete.

      Del CPR di Torino, era stata denunciata l’eccessiva militarizzazione e la carenza di personale civile, nonché l’assenza di relazioni tra trattenuti ed operatori, che non entravano quasi mai nelle aree di detenzione. In particolare, Il Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura, in seguito ad una visita al centro, aveva denunciato come i trattenuti fossero costantemente sorvegliati da personale militare, che stavano letteralmente in mezzo tra trattenuti ed operatori, con funzioni di sorveglianza, ma senza interagire coi primi. Sempre nel CIE di Torino, sono stati riportati numerosi casi di malasanità, assenza di personale medico e la presenza di locali per l’isolamento dei trattenuti, che, secondo ASGI, poteva protrarsi fino a 5 mesi, in maniera del tutto arbitraria e illegittima.
      Durante gli anni della gestione Gepsa, nel CPR di Torino si sono verificate due morti e numerosi casi di autolesionismo e rivolta.

      BADIA GRANDE. Cooperativa sociale fondata nel febbraio 2007, con sede legale a Trapani, e presto si impone come colosso nel settore dell’accoglienza migranti nel Sud d’Italia, vincendo numerose gare d’appalto, soprattutto nel siciliano. Dal 2018 al 2022 gestisce il CPR di Bari-Palese e dal 2019 al 2020 quello di Trapani Milo. Nel 2021, diverse fonti giornalistiche denunciano la mala gestione del CPR di Bari, e diverse personalità dipendenti della cooperativa vengono rinviate a giudizio per casi di frode nell’esecuzione del contratto d’affidamento, in particolare nell’assistenza sanitaria e le misure di sicurezza sul lavoro.

      Anche per la gestione del CPR di Trapani la cooperativa viene indagata per frode nelle pubbliche forniture e truffa. Inoltre, in una visita nel 2019, il Garante nazionale riscontra l’assenza di vetri in molte finestre, assenza di porte e separatori che garantiscano la privacy nell’accesso ai servizi igienici, e l’assenza di locali per il consumo dei pasti, che i trattenuti sono obbligati a consumare sui letti o in piedi.

      Il rapporto si conclude con un’accurata riflessione sull’istituto della detenzione amministrativa, e su come ciò si sia dimostrata terreno fertile per “una pericolosissima extraterritorialità giuridica”, in cui non trovano applicazione neanche quei principi costituzionali che dovrebbero considerarsi inderogabili”. Infine, CILD sostiene che, sebbene la detenzione amministrativa abbia progressivamente creato un sistema che consente ad enti privati di “fare profitto sulla pelle delle persone detenute”, la soluzione non sarebbe la gestione dei CPR da parte del settore pubblico, bensì il superamento del sistema della detenzione amministrativa, da collocare in un quadro più ampio di gestione del fenomeno migratorio attraverso politiche più aperte verso la regolarizzazione degli ingressi, per motivi di lavoro, familiari o di protezione internazionale.

      https://www.meltingpot.org/2023/08/laffare-cpr-un-rapporto-di-cild-mette-alla-sbarra-gli-enti-gestori

    • Le prefetture non controllano i Cpr. Inchiesta su appalti e gestione

      Dall’esame delle offerte di gara presentate da diversi enti gestori dei centri per il rimpatrio emergono carte false o promesse inverosimili. Da Nord a Sud, il monitoraggio pubblico latita. Mentre si vuole esportare il modello in Albania.

      Protocolli falsi o palesemente inverosimili negli appalti milionari indetti dalle prefetture per la gestione dei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr). Dai corsi di chitarra e computer al bricolage fino ai gruppi di lettura: sono alcune delle promesse irrealizzabili che gli enti gestori di alcuni Cpr italiani hanno indicato nero su bianco per aggiudicarsi le gare pubbliche. Con il benestare (e il mancato controllo) prefettizio.

      “Un quadro estremamente preoccupante considerando che questi appalti intaccano diritti fondamentali delle persone”, spiega la professoressa Nicoletta Parisi, ex membro dell’Autorità nazionale anticorruzione (Anac) che ha analizzato i documenti inediti ottenuti tramite accesso civico da Altreconomia. Per il Governo Meloni, invece, un modello da replicare anche in Albania. A #Gjader, stando agli annunci del governo, entro il 20 maggio sarà operativo un Cpr da 144 posti.

      Emblematico è il caso di Ekene, ente che gestisce i Cpr di #Macomer (NU) e #Gradisca_d’Isonzo (GO). Nell’offerta tecnica – quel documento in cui si illustra come verrà gestito il centro- presentata il 18 novembre 2019 per la struttura friulana, la cooperativa promette di realizzare spettacoli, attività di bricolage e pittura per gli “ospiti”. Offre la “presenza di console per videogiochi” e di “interazione con la comunità dei gamer” con la possibilità di incontri alla “fiera dell’elettronica di Pordenone”. E poi gruppi di lettura e cineforum organizzati con l’assessorato alla Cultura di Gradisca che avrebbe dovuto anche favorire l’esposizione delle “tele dipinte a mano dagli ospiti”.

      “Ekene ci aveva contattato per collaborare su un’altra struttura del territorio e noi non avevamo assentito -spiega la sindaca, Linda Tomasinsig-. Non ci hanno mai scritto per il Cpr né poi contattato per realizzare queste attività”. Ma proprio sull’efficienza “degli accordi con soggetti istituzionali volti alla realizzazione di iniziative ricreative, sociali e religiose”, si legge nei documenti di gara, la cooperativa ha ottenuto il punteggio più alto tra i concorrenti.

      Ekene, che non ha risposto alle nostre richieste di chiarimento, gestisce il centro di Gradisca dal 18 novembre 2019 e oggi è alla terza “proroga tecnica”: la nuova gara d’appalto è ancora aperta dal 22 febbraio 2022. Intanto, dal gennaio 2020 a oggi, nella struttura sono morte quattro persone. La prefettura scrive ad Altreconomia di aver svolto una sola ispezione a inizio febbraio 2023. Il risultato? “Gli esiti non sono tutt’oggi ancora consolidati in un documento finale”. Anche in Sardegna i controlli sono pochi.

      La prima ispezione della prefettura di Nuoro nel Cpr di #Macomer è del 23 febbraio 2023, a tre anni dalla sua apertura. A quell’accesso ne è seguito solo un altro, il 17 gennaio 2024: nel verbale si dà conto dello svolgimento nel centro di attività ricreativa e dell’utilizzo di “colori a tempera, ‘das’ e palloni”. “Da quanto ho visto non succede niente di tutto questo”, spiega la deputata di Alleanza Verdi-Sinistra Francesca Ghirra, che a fine marzo di quest’anno ha visitato la struttura con l’associazione Naga e la rete Mai più lager-No ai Cpr. La prefettura elenca tra le attività svolte anche “esami universitari con Uni Sassari”. L’ateneo ha scritto ad Altreconomia di non avere avuto alcun contatto con la struttura.

      La cooperativa Ekene promette però nell’offerta tecnica corsi di formazione oltre che “attività ludico-ricreative e laboratoriali” e presenta protocolli siglati con quattro associazioni per realizzarle. La prima è la “#World_Promus” di Catania, con un codice fiscale che risulta inesistente. E poi altri tre enti con sede però nel padovano: #Tuendelee (molto vicina alla stessa Ekene), l’#International_online_university e l’associazione #Spes, con il compito di fare una presunta informativa sui rimpatri volontari. Quella che dovrebbe essere la rappresentante legale (Spes non compare in nessuno dei diversi elenchi di associazioni consultati online) dichiara di non aver mai svolto attività nella struttura.

      Nell’offerta tecnica di Macomer lo stretto legame con Padova e il Cpr di Gradisca è forte. Quasi tutto il personale individuato per essere operativo nella struttura sarda risulterebbe infatti residente in Veneto. E alcuni nomi tornano in entrambi documenti presentati da Ekene sia a #Nuoro sia a #Gorizia nel 2019: quelli del medico e del responsabile del magazzino. Che è #Roberto_La_Rosa, rinviato a giudizio per omicidio colposo insieme all’ex rappresentante legale di Ekene #Simone_Borile, a seguito della morte di #Vakhtang_Enukidze, avvenuta nel Cpr friulano il 18 gennaio 2020.

      Il ministro dell’Interno #Matteo_Piantedosi ha dichiarato il 19 febbraio 2024 che ci sono “sistemi di monitoraggio continui rispetto alle condizioni basilari di vita nei Cpr” e che “il richiedente asilo non è previsto che sia trattenuto all’interno delle strutture”. Secondo i dati forniti ad Altreconomia dallo stesso ministero dell’Interno, invece, sono 256 i richiedenti protezione internazionale reclusi tra gennaio 2023 e febbraio 2024.

      Anche i nomi delle aziende individuate per fornire i pasti ritornano in entrambe le offerte tecniche: contattate da Altreconomia, però, hanno spiegato che non coprono la Sardegna o non hanno forniture attive a Macomer. La #Vi&Vi Srl, addirittura, è fallita a inizio 2022. “Questa distanza geografica rilevabile dagli atti -spiega Maria Teresa Brocchetto, avvocata amministrativista e socia dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi)- così come l’impossibilità materiale della prestazione offerta sollevano gravi dubbi sull’effettiva capacità di controllo di ciò che avviene nel centro sardo, sulla qualità delle forniture e sulle connesse responsabilità”.

      Spostandosi a #Bari, invece, l’ente #La_Mano_di_Francesco_Ets, con sede a Favara (AG), scrive nell’offerta tecnica che “per le peculiarità che caratterizzano il Cpr” sono stati coinvolti “enti selezionati con cura per la loro serietà ed affidabilità”. Su 14 protocolli presentati alla prefettura, dieci riguardano associazioni che operano a quasi 700 chilometri da Bari, soprattutto nell’agrigentino, dove si trova la ha sede dell’ente gestore.

      Uno prevede lo sviluppo di “attività riparative a favore della collettività”, sottoscritto con l’Ufficio per l’esecuzione penale esterna del ministero della Giustizia. E poi c’è l’azienda #Cyan_Developer di Taranto per corsi di computer. “Non conosco l’ente gestore e non ho firmato protocolli”, dichiara il titolare #Angelo_Cimino. Altreconomia non ha potuto verificare la veridicità degli altri accordi perché la prefettura ha inviato solo i quattro “ritenuti pertinenti al servizio oggetto di gara”.

      “La stazione appaltante non può selezionare solo alcuni elementi dell’offerta tecnica perché è come se la modificasse -sottolinea Parisi, ex membro dell’Anac-. Se uno fosse effettivamente falso, non si può escludere che l’intera offerta diventi inammissibile”. Anche la pertinenza di quelli che abbiamo potuto consultare è problematica.

      Il primo è semplicemente la ricevuta dell’invio della pec con la quale #La_Mano_di_Francesco aveva richiesto la collaborazione dell’Asl (che ci ha confermato di non aver siglato alcun accordo), il secondo riguarda l’#Efal_Salento per “attività di formazione e aggiornamento professionale”. L’accordo è a firma dell’ex presidente #Gregorio_Dell’Anna, ma #Sandro_Renis, che ricopre la carica da fine febbraio 2023, dichiara ad Altreconomia di essere all’oscuro di tutto.

      Una terza associazione, #Anas_Puglia, avrebbe dovuto realizzare attività “di promozione di politiche dell’immigrazione”. Il referente #Luigi_Favia dichiara che non è mai entrato nel Cpr. Infine, “#Avetrana_Soccorso” doveva svolgere “attività di trasporto sanitario”. Ma la sede dell’associazione è in provincia di Taranto, a quasi due ore d’auto da Bari. Dell’unica ispezione della prefettura nel centro dall’insediamento del nuovo gestore, avvenuto il 6 novembre 2023, “gli esiti sono ancora in via di definizione”.

      Nel Cpr di Trapani, dove per la Corte europea dei diritti dell’uomo le condizioni di vita sono “degradanti”, la prefettura ha svolto una sola visita ispettiva il 29 agosto 2023

      A Trapani, invece, #Consorzio_Hera e #Vivere_Con, attuali enti gestori del Cpr, hanno allegato più di 50 protocolli all’offerta tecnica, esaminati da Altreconomia insieme all’Asgi e alla Clinica legale migrazioni e diritti dell’Università di Palermo. Sono previste attività sportive “per eliminare le barriere di genere e la segregazione dei migranti trattenuti” aumentando “autopercezione e immagine di sé” ma almeno due accordi presenterebbero date incompatibili con le sottoscrizioni: quello siglato nel 2021 con l’#Asd_Pallavolo ‘95 Mazara del Vallo porta la firma di un presidente che si era dimesso tre anni prima. Idem, da riscontri online, sull’Asd Mazara calcio.

      Altri protocolli, invece, siglati per attività in Cas e Sprar sono stati usati anche per il Cpr. “Un aspetto che la prefettura avrebbe dovuto verificare in sede di gara”, sottolinea Parisi. Un problema che ritorna anche con le attività ludiche. Viene previsto un corso di chitarra acustica per “24 incontri dalla durata di un’ora e mezza circa” ma l’unica associazione, tra quelle firmatarie dei protocolli, che li prevede espressamente è “#L’arrotino_e_l’ombrellaio”: nell’accordo non si cita il Cpr e il rappresentante conferma di non esserci mai entrato.

      Le ispezioni svolte in nove Cpr, secondo quanto riferito dalle prefetture, sono state 33. Il 30% a Palazzo San Gervasio (11 nel periodo 2019-2024), a seguire Milano (sei tra il 2020 e il 2023), Bari (sei tra il 2022 e il 2023), Roma (tre, 2022-agosto 2023). Due a Macomer (2020-2024) e Caltanissetta (2023). Solo una a Brindisi (2023-2024), Trapani e Gradisca d’Isonzo (non specificato il periodo). Di queste, sono stati inviati ad Altreconomia e Asgi 24 verbali

      Lo stesso vale per l’assistenza religiosa: suor #Alessandra_Martin è la direttrice dell’associazione #Casa_della_Comunità_Speranza, che compare in uno dei protocolli (senza data): “Sono la presidente da sei anni e non ho mai visto quel documento -spiega-. Il paradosso è che nel 2023 ho chiesto per due volte alla prefettura di entrare nel Cpr senza poterlo fare”.

      Ancor più eclatante l’accordo con la #Parrocchia_Maria_SS_Ausiliatrice di Trapani: il parroco, monsignor #Antonino_Adragna, sarebbe andato in pensione cinque mesi prima della firma avvenuta nel dicembre 2021. Gli enti gestori non hanno risposto alle nostre richieste relative a quali attività si svolgano nel centro. Nel Cpr in cui le condizioni di vita erano “degradanti” -parole dei giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo dello scorso 7 febbraio- la prefettura ha svolto una sola visita ispettiva il 29 agosto 2023.

      Dal Cpr di Trapani è stato trasferito in quello di Roma #Ousmane_Sylla, 22enne guineano morto suicida il 5 febbraio 2024. Il centro è gestito da #Ors_Italia Srl che, per la mancata applicazione delle attività previste dai protocolli, è stata multata di 23mila euro dalla prefettura a seguito di un’ispezione del 16 novembre 2023.

      Un sistema che fa acqua da tutte le parti. Con la propaganda governativa che si scioglie di fronte ai numeri: a gennaio 2024 sono appena 462 le persone transitate nei Cpr (a gennaio 2023 erano stati 559). Quasi il 50% è di origine tunisina. Impressionante: benché nei centri l’anno scorso siano transitate persone di 45 cittadinanze e i tunisini rappresentino poco più del 10% degli sbarchi del 2023, una persona trattenuta su due proviene dalla Tunisia -spiega l’avvocato Maurizio Veglio-. Sempre di più lo Stato bersaglio delle politiche repressive e liberticide dell’Italia”.

      Non ci sono stati inviati i documenti relativi alle gare di #Brindisi e #Palazzo_San_Gervasio (PZ). I rispettivi enti gestori - #Consorzio_Hera (già analizzata su Trapani) e #Officine_Sociali (in gara anche a #Gorizia in cordata con #Martinina_Srl, sotto indagine per la gestione dei Cpr di #Potenza e #Milano, di cui a metà aprile è stata annunciata la temporanea chiusura)- ritengono che l’invio possa ledere il know how aziendale. “Stiamo predisponendo il ricorso al Tar per ottenerli -spiega l’avvocato Nicola Datena-. Visto il quadro preoccupante, la trasparenza è il minimo”. Le due cooperative sono ancora in gara, a metà aprile, per aggiudicarsi gli oltre 150 milioni di euro per la gestione dei centri in Albania. Vite in appalto, senza controllo, anche oltre il mar Adriatico.

      https://altreconomia.it/le-prefetture-non-controllano-i-cpr-inchiesta-su-appalti-e-gestione

      #sous-traitance #statistiques #2024

  • L’ultima frontiera

    Dall’inizio del 2022 Medici per i Diritti Umani (MEDU) è presente nella cittadina di Oulx, in alta Val di Susa, con il progetto Frontiera Solidale. Il progetto ha l‘obiettivo di garantire assistenza medica alle migliaia di persone che attraversano la frontiera alpina nord-occidentale per raggiungere la Francia. Il team di Medu, composto da una coordinatrice, un medico, un mediatore culturale e alcuni volontari/e, opera tre giorni a settimana presso l’ambulatorio allestito e messo a disposizione dall’associazione Rainbow for Africa all’interno del rifugio Fraternità Massi.

    Nei nove mesi presi in considerazione dal report (luglio 2022 - marzo 2023), 8.928 persone sono transitate al rifugio Fraternità Massi. Di queste 4.193 persone hanno avuto accesso a un triage presso l’ambulatorio del rifugio – allestito e messo a disposizione dall’associazione Rainbow for Africa e 1.214 sono state visitate in modo approfondito dal team di MEDU.

    Con il presente report MEDU torna a documentare con dati, analisi e testimonianze, il fenomeno migratorio alla frontiera alpina occidentale e a formulare raccomandazioni, chiedendo che venga garantita la tutela dei dritti fondamentali – in particolare il diritto alla salute e l’accesso alla protezione - delle persone migranti e richiedenti asilo nei paesi di transito e in particolare nelle zone di frontiera, a prescindere dalla loro condizione giuridica.

    https://mediciperidirittiumani.org/report-oulx-2023

    #rapport #MEDU #frontière_sud-alpine #asile #migrations #frontières #chiffres #statistiques #Italie #France #Hautes-Alpes #Val_de_Suse

    • L’ultima frontiera. Un nuovo web-report di MEDU dalla frontiera alpina occidentale

      Il nuovo web-report di Medici per i Diritti Umani (MEDU) si basa su un periodo di osservazione e assistenza di 9 mesi – da luglio 2022 a marzo 2023 – dove sono transitate al rifugio “Fraternità Massi”, a Oulx in Alta Val di Susa, 8.928 persone. Di queste, 633 erano donne, pari al 7% della popolazione transitante, mentre 1.017 erano minori, rappresentando il 12% della popolazione.

      L’organizzazione umanitaria e di solidarietà internazionale da inizio del 2022 fornisce assistenza medica alle migliaia di persone migranti diretti in Francia presso l’ambulatorio allestito dall’associazione Rainbow for Africa (R4A) presso il rifugio.

      Il rapporto a cura di Elda Goci e Federica Tarenghi spiega il contesto della frontiera attraverso testimonianze dirette, analisi e dati, nell’intento di far capire quanto la solidarietà sia un fattore determinante nel sostenere l’ultima parte di viaggio delle persone migranti.

      «Oulx – scrivono le autrici – rappresenta una delle ultime tappe di un lungo viaggio, che può durare dai 2 ai 6 anni e che può costare dai 2 agli 8 mila euro. Un viaggio che collega l’Afghanistan, la Siria, l’Iran e molti paesi africani con i paesi del nord Europa e dell’Europa centrale, attraverso valichi alpini che superano i 1800 metri di quota».
      Alcuni numeri

      Se nel 2022 le principali nazionalità transitate a Oulx sono rappresentate da persone provenienti dalla Rotta balcanica – soprattutto afgani (2.527), marocchini (1.972) e iraniani (1.476) -, nel corso dei primi mesi del 2023 si è assistito ad un significativo aumento dei migranti provenienti dalla rotta del Mediterraneo centro-meridionale con imbarco dalla Tunisia, che sempre più si configura come un Paese sia di emigrazione che di transito, dove violenze e abusi ai danni dei migranti sub-sahariani vengono perpetrati in modo drammaticamente ricorrente. In aumento risulta inoltre il numero di donne provenienti dall’Africa sub-sahariana, soprattutto dalla Costa d’Avorio. Un aumento che, ad una prima osservazione degli indicatori di tratta, fa temere l’esistenza di una rete di sfruttamento capillare e strutturata. Si susseguono inoltre gli arrivi di donne in stato di gravidanza – solitamente rimaste incinte durante il viaggio, senza aver effettuato alcun controllo lungo la rotta – e di donne che hanno abortito o sono accompagnate da neonati e bambini nati in viaggio.

      Per tutti, il viaggio migratorio è foriero di rischi legati sia alla natura che alla condotta dei corpi militari, paramilitari e di polizia addetti al controllo delle frontiere di diversi stati dei Balcani che spesso si rendono responsabili di gravi violazioni dei diritti umani. Se attraversare i confini di Bosnia, Croazia, Serbia e Slovenia spesso significa andare incontro ad abusi e violenze di diverso tipo, i rischi non terminano una volta entrati nel territorio dell’Unione Europea. La militarizzazione della frontiera alpina rappresenta infatti un ulteriore fattore di rischio per l’incolumità delle persone, ormai a un passo dalla meta.

      Le difficoltà sono ancora maggiori per alcune categorie di persone vulnerabili, tra cui le persone con problemi di salute e disabilità e i minori. Questi ultimi spesso vengono respinti dalla polizia di frontiera francese, nonostante affermino di aver dichiarato la minore età.
      Il progetto “Frontiera Solidale” e il rifugio “Fraternità Massi”

      Il rapporto illustra l’importanza del rifugio “Fraternità Massi”, un edificio di solidarietà, assistenza e cura gestito in maniera coordinata da un pool di professionisti e volontari, ognuno con compiti specifici assegnati in base all’esperienza, alle competenze alle finalità dell’organizzazione di appartenenza.

      All’interno del rifugio operano la Fondazione Talità Kum, ente gestore dell’immobile, che mette a disposizione due operatori responsabili dell’accoglienza delle persone migranti e del soddisfacimento dei loro bisogni primari. Essi operano 24 ore su 24, 7 giorni su 7, in due turni di lavoro, per un totale di 10 professionisti. L’associazione Rainbow for Africa, che mette a disposizione le infrastrutture e le attrezzature sanitarie, i farmaci, il personale formato da infermieri specializzati (ogni notte e per tutto l’anno) e la presenza di medici volontari. L’associazione MEDU, che fornisce assistenza sanitaria garantendo la presenza di un medico, di una coordinatrice e di un mediatore linguistico – culturale. In particolare, il medico si occupa sia di fornire assistenza sanitaria ai pazienti che di coordinare le attività sanitarie svolte dalle organizzazioni e dai medici volontari presenti presso il rifugio. Diaconia valdese, offre orientamento legale garantendo la presenza di un’operatrice legale. L’organizzazione umanitaria NutriAid, che mette a disposizione la consulenza di pediatri, farmaci e un ambulatorio pediatrico. Inoltre, una rete di volontariato valsusino si occupa di raccogliere abiti, soprattutto invernali, da mettere a disposizione delle persone migranti, nonché di orientare quest’ultime ai servizi locali e fornire un ascolto diretto a coglierne le esigenze e i bisogni singoli e collettivi. Infine, la rete si occupa di sensibilizzare le persone migranti sui rischi legati alla montagna, soprattutto nei mesi invernali. Per ciò che attiene alle strutture accoglienti – spiegano le autrici – oltre alla realtà del rifugio Massi occorre menzionare il rifugio autogestito Yallah, occupato nel giugno 2022 e situato a Cesana, tra Oulx e Claviere.

      Sono state 4.193 le persone che hanno avuto accesso a un triage presso l’ambulatorio del rifugio e 1.214 quelle visitate in modo approfondito dal team medico. Le principali patologie trattate all’interno della clinica di frontiera sono malattie sviluppate durante il viaggio quali infezioni cutanee – in primis scabbia -, micosi, ferite infette, bronchiti, ustioni da congelamento o da carburante, traumi fisici e lesioni ai piedi.

      Nei paesi attraversati – Turchia, Serbia, Bosnia per la rotta balcanica o Libia e Tunisia per quella mediterranea – i migranti non ricevono assistenza, a causa dell’assenza o carenza di personale nei campi profughi informali e istituzionali o dell’impossibilità di accedere alle strutture sanitarie pubbliche e private.

      Elevata inoltre è la percentuale di persone con sintomi da stress post-traumatico quali insonnia, pensieri disturbanti e intrusivi, incubi, attacchi di panico, inappetenza, astenia, cefalea e difficoltà di concentrazione, esito dei trattamenti inumani e degradanti subiti, nella maggior parte dei casi ad opera del regime talebano, dai gendarmi libici e dalle autorità tunisine.

      Particolare rilievo assume poi il tema delle dipendenze, in particolare da farmaci quali il Pregabalin (Lyrica) e il Clonazepam (Rivotril), spesso sovra-prescritti lungo il viaggio o in luoghi di detenzione quali carceri e CPR per la gestione dell’insonnia, dell’agitazione e dello stress. Meno rilevante numericamente ma degna di particolare rilievo è la presenza di persone con vulnerabilità sanitarie e disabilità, spesso preesistenti nel paese di origine, che si sono messe in viaggio con la speranza di trovare assistenza e cure adeguate.
      Le prassi illegittime in frontiera e non solo

      Nel rapporto un contributo è redatto dall’operatrice della Diaconia Valdese che illustra le diverse prassi illegittime raccontate dalle persone incontrate allo sportello legale al rifugio “Fraternità Massi”. Elevato, ad esempio, è il numero di minori stranieri non accompagnati respinti al confine a causa del precedente fotosegnalamento come maggiorenni allo sbarco. Spesso è proprio questa la motivazione del transito verso la Francia: essere stati inseriti in un CAS per adulti in Italia e il non sentirsi riconosciuti nei propri diritti rappresenta un incentivo a partire.

      Uguali per tutti sono le difficoltà incontrate al confine italo-francese dove i controlli alla frontiera e i pushbacks quotidiani rendono pericoloso e difficile l’attraversamento. Continua a non essere possibile la manifestazione della volontà di chiedere asilo in territorio francese di confine, così come difficile è
      ogni altro tipo di comunicazione con le forze di polizia a causa della barriera linguistica, soprattutto nei casi in cui la persona necessiti di assistenza medica o di spiegare con calma la propria situazione. I respingimenti riguardano infatti non solo richiedenti asilo ma anche cittadini regolarmente soggiornanti che vengono fermati per l’assenza di anche solo uno dei requisiti previsti dalla Francia al fine di accedere al territorio. Per esempio, la prenotazione dell’hotel che giustifica la permanenza turistica in Francia per una persona in possesso di passaporto e permesso di soggiorno rappresenta una clausola di esclusione all’accesso. Ciò fa riflettere se si pensa che la sospensione della libertà di movimento è strumentalmente giustificata e illegittimamente rinnovata ogni sei mesi per ragioni di sicurezza.

      Altrettante difficoltà sono riscontrate per chi intende chiedere protezione internazionale in Italia: presentare domanda di asilo presso la Questura di Torino è una procedura dalle modalità e tempistiche estenuanti: dai 2 ai 6 mesi per poter prendere un appuntamento ed ulteriori 4-5 mesi per formalizzare la domanda di asilo. Mesi nei quali non è possibile accedere ai diritti fondamentali e al sistema nazionale di accoglienza.

      Nella parte finale del web-report, a fronte del quadro descritto dalle autrici, MEDU torna a formulare alcune raccomandazioni, chiedendo con forza che venga garantita la tutela dei diritti fondamentali – in particolare il diritto alla salute e l’accesso alla protezione – delle persone migranti e richiedenti asilo nei paesi di transito e in particolare nelle zone di frontiera, a prescindere dalla loro condizione giuridica.

      https://www.meltingpot.org/2023/05/lultima-frontiera

  • Voir #Calais et mourir, 367 fois

    Nouvelle série. Depuis 1999, la frontière franco-britannique tue et tue encore. « Les Jours » remontent le fil d’un #carnage silencieux et éminemment politique.

    Le lundi 11 janvier 1999, un homme irakien est retrouvé mort dans l’enceinte du port de Douvres, en Angleterre. Caché sous la remorque d’un poids lourd, au niveau des essieux, il venait à peine de franchir la frontière franco-britannique quand les secousses du camion l’ont déséquilibré. Tombé à terre, il a été immédiatement happé et écrasé par les roues. L’identité de cet homme n’est pas connue, pas plus que son histoire personnelle. Sans la vigilance de quelques citoyens britanniques, son décès serait sans doute passé inaperçu.

    Il ne s’agit pourtant pas d’un événement isolé. Depuis cette nuit d’hiver, 367 migrants sont morts entre la zone frontière franco-belge et le Royaume-Uni. C’est ce qu’ont dénombré Les Jours dans un travail aussi inédit qu’exceptionnel. Nom, prénom, âge, nationalité, parcours migratoire, circonstances du décès, photos… Nous avons cherché et compilé pendant plusieurs années toutes les informations possibles sur les exilés disparus le long de cette frontière maritime. Notre « Mémorial de Calais », à découvrir ci-dessous, recense les victimes pour qu’on ne les oublie pas. Il décompte les morts parce que ces vies comptent.

    https://i.imgur.com/HN4orG8.png
    (#paywall)
    https://lesjours.fr/obsessions/calais-migrants-morts/ep1-memorial

    #frontières #asile #migrations #réfugiés #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #Manche #France #Angleterre #UK #visualisation #statistiques #chiffres #Maël_Galisson #mémoriel

    ping @visionscarto

  • RAPPORT 2022 SUR LES CENTRES ET LOCAUX DE RÉTENTION ADMINISTRATIVE

    Rapport commun sur les centres de rétention administrative : Chiffres clés, bilan et analyse de la situation des personnes enfermées dans les centres et locaux de rétention administrative (#CRA et #LRA).

    Fortes de leur travail quotidien d’accompagnement juridique des personnes étrangères dans les centres de rétention administrative (#CRA), nos cinq associations (Forum réfugiés, France terre d’asile, le Groupe SOS Solidarités – Assfam, La Cimade et Solidarité Mayotte) sont en première ligne pour constater et rendre compte des situations dans ces lieux de #privation_de_liberté.

    En 2022, 43.565 personnes ont été enfermées, au mépris de leurs droits, dans les centres de rétention de l’hexagone et d’outre-mer.

    https://www.lacimade.org/publication/rapport-2022-sur-les-centres-et-locaux-de-retention-administrative
    #rétention #France #rapport #2022 #La_Cimade #Cimade #détention_administrative #chiffres #statistiques #migrations #asile #réfugiés #enfermement #centres_de_rétention_administrative #lieux_de_rétention_administrative

  • Respingimenti alla frontiera con la Slovenia: i dati che smontano gli annunci del governo

    A fine 2022 il Viminale aveva prefigurato la ripresa delle riammissioni dei migranti, già dichiarate illegittime. Lubiana si è però rifiutata di accettarle nel 90% dei casi. Le autorità di frontiera hanno dovuto perciò virare sui provvedimenti di espulsione: oltre 650 in pochi mesi, di cui 500 a carico di cittadini afghani tecnicamente inespellibili

    Le “riammissioni” dei migranti verso la Slovenia annunciate dal governo italiano a fine 2022 sono state un flop. Dati inediti trasmessi dal Viminale ad Altreconomia mostrano infatti che quasi tutte quelle “proposte” dall’Italia tra dicembre 2022 e metà marzo 2023 sono state rifiutate da Lubiana: ben 167 sulle 190 “tentate” dalle autorità di frontiera italiane.
    “L’annuncio trionfale delle riammissioni rivela la sua autentica natura -commenta Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà di Trieste e membro della rete RiVolti ai Balcani-: un annuncio politico volutamente vago che celava la consapevolezza che quelle pratiche erano e restano illegali”.

    Per comprendere ragioni e proporzioni della bolla propagandistica “esplosa” alla frontiera orientale occorre fare un passo indietro al dicembre del 2022, quando cioè il Viminale diffonde tramite agenzie la notizia di una nuova direttiva finalizzata al “rafforzamento dei controlli sui flussi della rotta balcanica”. Viene prefigurata la ripresa delle riammissioni -cioè dei respingimenti- verso la Slovenia, con tanto di invito rivolto ai prefetti di Trieste, Gorizia e Udine di “adottare iniziative volte a dare ulteriore impulso all’attività di vigilanza sulla fascia di confine”.

    Non è il ministro Piantedosi a firmare quella “direttiva” ma la sua capa di gabinetto, la prefetta Maria Teresa Sempreviva. Lo schema sembra voler replicare quanto già visto nella primavera 2020, quando al Viminale c’era Luciana Lamorgese, il suo capo di gabinetto era Piantedosi e il prefetto di Trieste si chiamava Valerio Valenti, appena nominato Commissario governativo “all’emergenza migranti”. Sappiamo come è andata a finire: quasi 1.300 persone riammesse “informalmente” (https://altreconomia.it/rotta-balcanica-nel-2020-record-di-respingimenti-dallitalia-verso-la-sl), cioè senza avere in mano alcun provvedimento scritto, tra maggio e dicembre di quell’anno, in forza di una circolare ministeriale a firma di Piantedosi -mai resa pubblica- che si richiamava al contestato accordo bilaterale tra Italia e il Paese di confine datato 1996, mai ratificato dal Parlamento, in contrasto con la Costituzione. Dietro l’espressione burocratica delle “riammissioni” c’erano in realtà veri e propri respingimenti a catena, con le persone, richiedenti asilo inclusi, spostate come pacchi tra le polizie di frontiera, per finire poi scaricate nell’arco di poche ore in Bosnia ed Erzegovina. Nel gennaio 2021, con un’ordinanza di capitale importanza, il tribunale di Roma, per mano della giudice Silvia Albano e sulla base di un ricorso presentato dalle avvocate e socie Asgi Caterina Bove e Anna Brambilla, dichiarò la grave illegittimità di quelle riammissioni-respingimenti (https://altreconomia.it/i-respingimenti-italiani-in-slovenia-sono-illegittimi-condannato-il-min), costringendo il Viminale a fare un’imbarazzata marcia indietro: l’Italia aveva consapevolmente esposto le persone a “trattamenti inumani e degradanti” lungo la rotta balcanica e a “torture” in Croazia. E nessuno dei governi che si sono succeduti da allora ha mai riconosciuto il carattere illegale di quelle procedure, come ben racconta anche il film “Trieste è bella di notte” dei registi Andrea Segre, Stefano Collizzolli e Matteo Calore.

    Trascorsi nemmeno due anni dall’ordinanza di Roma, a dicembre 2022 arriva come detto l’annuncio della nuova “circolare Sempreviva”, tanto pubblicizzata a bocconi e virgolettati estratti sui media quanto sottratta nella sua interezza all’opinione pubblica. L’accesso civico presentato da Altreconomia nei mesi scorsi è stato infatti negato dal gabinetto del ministro dell’Interno per presunte ragioni di cooperazione di polizia e del “concreto pregiudizio” alla “integrità dei rapporti internazionali” con Slovenia e Austria. Ancora una volta rifacendosi al decreto ministeriale Lamorgese del marzo 2022 che ha dato un colpo durissimo alla trasparenza lungo le frontiere.

    I dati ottenuti oggi chiariscono la natura propagandistica di quegli annunci. Ma c’è di più. In questo scenario prossimo alla farsa si inserisce infatti anche Lubiana. Interpellata sulle ragioni del “no” opposto alle riammissioni tentate dall’Italia, la polizia slovena, per bocca del rappresentante Drago Menegalija, ci ha fatto sapere che il “motivo principale del rifiuto di riammissione […] è la mancanza di prove presentate nella richiesta di riammissione alla polizia slovena in relazione al fatto che i migranti avrebbero (precedentemente) soggiornato nel territorio della Slovenia”. Aggiungendo poi che “in base all’accordo tra i Paesi, i rimpatri avvengono continuamente” e che “l’accordo definisce chiaramente i criteri in base ai quali possiamo accogliere solo i migranti che sono entrati in Italia attraverso la Slovenia, che sono stati fermati nella fascia di confine e che non hanno fatto richiesta di protezione internazionale in Italia”.

    L’avvocata Caterina Bove aiuta a capire le ragioni del mutato atteggiamento della Slovenia: “Quel Paese non ha alcun interesse a riammettere sul proprio territorio coloro che sono giunti in Italia -spiega-. Il cambio di governo da un lato e l’ingresso della Croazia nell’area Schengen (avvenuto il primo gennaio 2023) dall’altro, consentono ora alla Slovenia di ricoprire un ruolo più ‘leggero’ nel contrasto ai flussi, ricevendo una minore pressione dall’Europa. Questo escamotage le consente di tenere anche i buoni rapporti con l’Italia, senza troppo colpo ferire. Tanto sa che le persone non intendono fermarsi lì”.

    La risposta della polizia slovena, pur orientata a preservare le relazioni diplomatiche con l’Italia (“The relations between the police forces of both countries are very good”, si legge nella risposta), fa però trasparire alcuni aspetti importanti. Il primo, secondo Gianfranco Schiavone, è l’”evidente preoccupazione rispetto all’operato della polizia italiana”. “La nota slovena evidenzia infatti come le riammissioni, secondo il diritto interno di quello Stato, non possono avere seguito quando non sia stata provata la provenienza degli stranieri dal territorio sloveno né soprattutto quando gli stranieri abbiano manifestato l’intenzione di chiedere protezione internazionale in Italia. Con tale risposta le autorità slovene mettono una pietra tombale sulla questione, lampante dal punto di vista giuridico, ma mai ammessa formalmente dalle autorità italiane, che è tassativamente proibita la riammissione degli stranieri che intendono chiedere asilo in Italia. L’abnorme numero delle tentate riammissioni chieste da parte italiana, pressoché tutte rigettate, fa emergere un quadro oscuro sull’operato italiano poiché, a seconda degli ordini politici del momento, stranieri che si trovano nella medesima condizione giuridica finiscono per subire trattamenti completamente diversi; così al medesimo cittadino afghano può accadere di accedere alla domanda di asilo oppure di vedersi oggetto di una tentata la riammissione illegittima in Slovenia, o infine essere espulso dall’Unione europea con provvedimento delle autorità italiane benché inespellibile”.

    Quella di Schiavone non è una forzatura. Non potendo compiere le riammissioni ordinate dall’alto perché palesemente illegali ma essendo costrette al contempo a dar l’idea del “pugno duro”, le autorità di frontiera hanno dovuto così virare sui provvedimenti di espulsione. Lo dimostrano i dati relativi ai provvedimenti di espulsione e allontanamento trasmessi ad Altreconomia dalla prefettura di Trieste: tra la fine del 2022 e il primo trimestre 2023 ne sono stati adottati oltre 650, di cui oltre 500 a carico di persone in fuga dall’Afghanistan e giunte a Trieste dalla “rotta balcanica”. Un numero impressionante se confrontato con i mesi precedenti e che risponde appunto alla necessità di dar seguito, anche solo sulla carta, alle indicazioni governative. Indicazioni disposte a tutto, anche a negare l’evidente bisogno di protezione di persone tecnicamente inespellibili, e che sollevano forti dubbi sulla corretta attività informativa in tema di diritto d’asilo condotta dalle autorità di frontiera.

    Schiavone parla di una dinamica “sconcertante”. “In primo luogo va evidenziata la radicale illegittimità dei provvedimenti di espulsione che sono stati emanati”. Il Testo unico sull’immigrazione prevede infatti che “in nessun caso può disporsi l’espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione”. Di più: la norma aggiunge che “Non sono ammessi il respingimento o l’espulsione o l’estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura o a trattamenti inumani o degradanti”. “Questa disposizione è di inequivoca interpretazione dal momento che l’espressione ‘in nessun caso’ rappresenta un divieto assoluto che non ammette eccezioni di sorta -chiarisce Schiavone-. L’indiscutibile condizione di estremo pericolo in cui si trova oggi qualsiasi cittadino afghano che sia fuggito dal suo Paese configura l’assoluta proibizione di emettere nei suoi confronti un provvedimento di espulsione verso il suo Paese. Tutto ciò era pienamente noto alla prefettura di Trieste che però ha agito in contrasto con la normativa e alla quale andrebbe dunque chiesto di fornire precise spiegazioni di tale condotta”.

    “Una motivazione che immagino potrebbe essere avanzata da quella amministrazione al fine di sostenere le proprie scelte -non si nasconde Schiavone- è che i cittadini afghani, pur essendo palesemente persone con chiaro bisogno di protezione, non avevano manifestato alle autorità di frontiera la loro volontà di chiedere protezione internazionale in Italia e che, fallita la loro tentata riammissione in Slovenia, l’unica ‘via d’uscita’ per le autorità italiane era stata quella di emettere nei confronti di questi stranieri un provvedimento di espulsione confidando che tutti gli interessati si sarebbero dispersi, come in effetti è accaduto. Una simile motivazione è radicalmente infondata e semmai solleva ulteriori gravi interrogativi su che cosa sia accaduto ancora una volta alla sempre inquieta frontiera italo-slovena nell’inverno 2022-2023. Oltre ai già evidenziati profili di illegittimità dei provvedimenti per inespellibilità degli stranieri verso il loro Paese appare necessario sapere se a quegli stranieri sia stata fornita o no l’assistenza e l’informazione sull’esercizio dei loro diritti che il diritto dell’Unione europea prevede”.

    Il presidente dell’Ics di Trieste si rifà al “Manuale comune ad uso delle autorità competenti degli Stati membri per lo svolgimento del controllo di frontiera sulle persone” diramato dalla Commissione europea. È lì dentro, nel cosiddetto Manuale Schengen, che si evidenzia come “un cittadino di Paese terzo deve essere considerato un richiedente asilo/protezione internazionale se esprime in un qualsiasi modo il timore di subire persecuzioni o danni gravi facendo ritorno al proprio Paese di origine o nel paese in cui aveva precedentemente la dimora abituale”. È una sottolineatura importante perché “l’intenzione di chiedere protezione internazionale non deve essere manifestata in una forma particolare”. Non occorre dunque che la parola “asilo” sia pronunciata espressamente: “l’elemento determinante è l’espressione del timore di quanto potrebbe accadere in caso di ritorno”.

    Non si può strumentalmente fraintendere l’eventuale silenzio delle persone in transito: “L’attività della polizia di frontiera deve essere orientata perciò a escludere ogni ragionevole dubbio sull’esistenza di una situazione di pericolo verso persone che potrebbero non formulare in modo esplicito la domanda di protezione in modo diretto, perché vogliono ad esempio proseguire il viaggio per raggiungere famigliari o parenti in altri Paesi, come è noto accade per gran parte dei rifugiati che entrano in Italia”, aggiunge ancora Schiavone.

    Affinché sia effettivo il diritto di chiedere asilo o protezione alla frontiera (dovrebbe valere via terra così come via mare) e di presentare la relativa domanda il prima possibile, continua il Manuale Schengen, “le autorità di frontiera devono informare i richiedenti, in una lingua che possa essere da loro sufficientemente compresa, delle procedure da seguire (come e dove presentare la domanda), nonché dei loro diritti e doveri, incluse le conseguenze possibili dell’inosservanza dei loro obblighi e di una mancata collaborazione con le autorità”.

    Gli fa eco l’avvocata Anna Brambilla: “Che tipo di informativa legale viene fatta a queste persone in arrivo dalla Slovenia e per le quali è adottato un provvedimento di espulsione? Dai dati ottenuti possiamo concludere che delle due l’una: o le autorità italiane non fanno un’informativa adeguata oppure tentano di riammettere nell’altro territorio persone che non dovrebbero essere espulse”.

    “Il riferimento all’obbligo di informare gli stranieri delle possibili conseguenze dell’inosservanza dei loro obblighi di cooperazione con le autorità è un elemento cruciale per valutare la corretta condotta delle forze di polizia di frontiera -riprende Schiavone-. Ci sono chiari motivi per ritenere che la condotta della polizia di frontiera terrestre a Trieste nella gestione dell’ammissione al territorio degli stranieri con chiaro bisogno di protezione sia stata impostata su un modus operandi assai lontano rispetto a quello prescritto dalle indicazioni sopra riportate. Non sappiamo come sono stati condotti i colloqui con gli stranieri, se e quanti erano i mediatori in servizio nelle diverse lingue e quale informazione sia stata fornita agli stranieri. Ciò che sappiamo è che nessun osservatore terzo indipendente è mai stato ammesso a quella frontiera e che anche la presenza di funzionari dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati è stata, almeno in alcuni periodi, assai intermittente”.

    Quello che è certo è che centinaia di persone alla frontiera hanno affrontato in questi mesi le sorti più diverse. Ma non per l’applicazione di norme -e delle loro relative garanzie- quanto per l’obbedienza a ordini e umori del governo: “La certezza del diritto è totalmente assente -denuncia Schiavone-. Siamo in una sorta di terra di nessuno dove ogni irregolarità diviene sempre possibile e l’arbitrio diventa l’unica certezza”.

    https://altreconomia.it/respingimenti-alla-frontiera-con-la-slovenia-i-dati-che-smontano-gli-an
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  • Ucraina: un nuovo modello d’accoglienza?

    A oltre un anno e mezzo dall’inizio della guerra, un’analisi di come le persone le persone in fuga dall’invasione russa sono state accolte dagli stati europei

    l 24 febbraio 2022, con l’inizio dell’invasione russa in Ucraina, l’Europa si è trovata a far fronte non solo al conflitto scoppiato alle sue porte, ma anche a uno straordinario afflusso di profughi in fuga. Per la maggior parte donne, anziani e bambini (agli uomini sopra i 18 anni è vietato uscire dall’Ucraina) costretti a scappare verso i confini di Polonia, Romania, Ungheria, Moldavia. Da subito gli stati membri dell’Unione europea hanno trovato un accordo per gestire l’arrivo di milioni di cittadini ucraini alle frontiere, decidendo misure straordinarie di accoglienza e protezione, mettendo a disposizione personale specializzato, stanziando fondi aggiuntivi e cambiando destinazione ad altri. A oltre un anno e mezzo di distanza, è possibile tracciare un bilancio di questo nuovo modello, mai applicato prima, analizzando punti di forza e criticità.
    Quanti rifugiati ucraini sono stati accolti in Italia e in Europa dall’inizio del conflitto?

    Dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina, il 24 febbraio 2022, il flusso di rifugiati in fuga verso i paesi europei è stato in costante ascesa. Secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) al 25 aprile 2023 la stima delle persone che hanno attraversato i confini è di 8.174.779. Tra questi i rifugiati ucraini che hanno chiesto la protezione temporanea in Ue sono 5.047.700. L’Unhcr precisa però che si tratta di una stima, nel conteggio potrebbero essere incluse anche registrazioni multiple della stessa persona in due o più paesi Ue; registrazioni incomplete o registrazioni di rifugiati che si sono trasferiti poi al di fuori dell’Europa.

    Tra i paesi europei che hanno accolto il maggior numero di persone spicca la Polonia con la cifra record di 1.583.000, seguono la Germania (922.657) e la Repubblica Ceca (504.107). In Italia fino ai primi quattro mesi del 2023 sono stati registrati 173.813 rifugiati ucraini. Secondo i dati della Protezione civile italiana nella maggior parte dei casi si tratta di donne (92.413) e minori (49.456). Gli uomini adulti sono31.944.
    Che tipo di protezione hanno ricevuto e perché costituisce un “unicuum”?

    Per i profughi ucraini, per la prima volta, è stata applicata la direttiva 55/2001 (recepita in Italia con il decreto legislativo 7 aprile 2003, n. 85) sulle norme minime per la concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati. Si è trattato di una decisione storica e unica, che segna un precedente importante per la protezione di chi scappa da una zona di conflitto: la direttiva, infatti, era stata elaborata all’indomani della guerra del Kosovo ma negli ultimi vent’anni non era mai entrata in vigore, nonostante fosse stata evocata spesso in passato, per casi come la Siria o l’Afghanistan.

    Nella pratica, ha permesso di dare una protezione immediata e temporanea alle persone in fuga. La procedura eccezionale consente infatti di ovviare alle lungaggini burocratiche del sistema d’asilo. L’obiettivo è alleviare la pressione sui sistemi nazionali di protezione e consentire agli sfollati di godere di diritti armonizzati in tutta l’Ue. Tra questi diritti rientrano il soggiorno, l’accesso al mercato del lavoro e agli alloggi, l’assistenza medica e l’accesso all’istruzione per i minori.

    L’applicazione della direttiva è stata decisa il 4 marzo 2022, quando il Consiglio dell’Ue giustizia affari interni ha approvato, su proposta della Commissione europea, la decisione di esecuzione (UE) 2022/382 che accertava l’esistenza di un afflusso massiccio di sfollati dall’Ucraina. La tutela è stata accordata in tutti gli Stati membri. La decisione ha previsto la possibilità per i cittadini dell’Ucraina e loro familiari in fuga dal Paese di risiedere e muoversi nel territorio dell’Unione europea e di essere accolti.

    Nel concreto, la protezione temporanea è stata applicata alle persone sfollate dall’Ucraina a partire dal 24 febbraio 2022 incluso. E, in particolare, ai cittadini ucraini residenti nel paese prima del 24 febbraio 2022; agli apolidi e cittadini di paesi terzi, che beneficiavano di protezione internazionale o di protezione nazionale equivalente in Ucraina prima del 24 febbraio 2022 e ai familiari delle predette categorie di persone. Sono stati esclusi gli stranieri temporaneamente residenti nel paese, come per esempio gli studenti universitari o i lavoratori stagionali. La protezione temporanea, inizialmente prevista per un anno, è già stata prorogata fino al marzo 2024 e può essere ulteriormente prorogata fino al 2025.
    Come è stata organizzata l’accoglienza in Italia?

    Per far fronte agli arrivi dall’Ucraina l’Italia ha decretato lo stato di emergenza e deciso di affidare la sua gestione al Dipartimento della Protezione Civile, che ha predisposto un Piano per l’accoglienza e l’assistenza dei profughi. Il sistema prevede diverse forme di supporto tra loro complementari, che integrano quanto ordinariamente previsto per richiedenti asilo e rifugiati. I cittadini ucraini sono stati infatti accolti in parte negli alberghi, nelle strutture Cas (centri di accoglienza straordinaria) gestiti dalle prefetture e nel Sai (Sistema di accoglienza e integrazione), costituito dalla rete degli enti locali con il supporto delle realtà del terzo settore, ulteriormente potenziata, con 8.000 posti aggiuntivi.

    All’accoglienza ordinaria di Cas e Sai è stata affiancata la cosiddetta “accoglienza diffusa”. Con il Decreto-legge n. 21 del 21 marzo 2022 sono state, infatti, individuate ulteriori modalità di accoglienza da realizzare attraverso il supporto dei Comuni, dei soggetti del terzo settore e del privato sociale. L’11 aprile 2022 è stato pubblicato un bando per individuare le strutture idonee a fornire i servizi di assistenza e tra queste è stata prevista per la prima volta anche la coabitazione presso famiglie. L’avviso pubblico prevedeva 15mila posti. Successivamente, il Decreto-legge n. 50 del 17 maggio 2022 ha previsto la possibilità di incrementare le disponibilità di altre forme di accoglienza diffusa per ulteriori 15mila posti. Alla fine hanno avuto esito positivo 29 manifestazioni di interesse, per un totale di 17.012 posti offerti.

    Accanto al potenziamento delle strutture è stato anche pensato un contributo di sostentamento per i profughi che hanno trovato una sistemazione autonomamente, cioè al di fuori del sistema di accoglienza, ospitati da parenti e conoscenti, o prendendo in affitto un’abitazione. La somma prevista è stata di 300 euro mensili, a cui si aggiungono 150 euro nel caso della presenza nel nucleo familiare di un minore.

    Quanto ai numeri effettivi dell’accoglienza in Italia, a fronte di un numero alto di persone che hanno varcato la frontiera con il nostro paese ( oltre 173mila circa) solo il 10 per cento ha chiesto di essere ospitato nelle strutture di accoglienza italiane. Stando ai dati del ministero dell’Interno, a marzo 2023, su 173.456 ucraini in Italia, 11.755 sono ospitati nei Cas e 2.121 nei centri Sai. La maggior parte dei profughi si è appoggiata presso la rete di conoscenti e familiari già presenti nel nostro paese. Alcuni, dopo i primi mesi, hanno fatto ritorno in Ucraina, nelle zone meno colpite dal conflitto. Stabilire quanti siano con precisione però è difficile, dal momento che i cittadini ucraini possono muoversi liberamente.
    Quali fondi sono stati investiti?

    Subito dopo l’inizio del conflitto in Ucraina la Commissione europea ha adottato misure immediate a sostegno degli Stati membri per supportarli nell’accoglienza dei profughi in fuga. Innanzitutto, la Commissione ha stanziato oltre 3,5 miliardi di euro di pagamenti anticipati agli Stati europei per l’assistenza (REACT-EU). In maniera altrettanto repentina il Consiglio dell’Unione Europea ha adottato modifiche legislative per consentire di reindirizzare le risorse provenienti dai fondi della politica di coesione e dal fondo di aiuti europei agli indigenti (Fead) per aiutare i rifugiati ucraini.

    Su proposta della Commissione, gli Stati membri hanno avuto, infatti, la possibilità di utilizzare i fondi rimanenti dei fondi di coesione del periodo di programmazione 2014-2020 per fornire il sostegno di emergenza. Il Consiglio ha inoltre adottato una modifica dei fondi per gli affari interni per il periodo 2014-2020 e del Fondo Asilo, migrazione e integrazione per il periodo 2021-2027, per fornire risorse supplementari ai profughi ucraini. In totale l’Unione europea ha fornito finanziamenti aggiuntivi per un totale di 13,6 miliardi di euro nell’ambito dei pacchetti CARE e FAST-CARE, un miliardo di euro è stato riprogrammato nell’ambito dei fondi di coesione e 400 milioni di euro sono stati messi a disposizione nell’ambito dei fondi per gli affari interni.

    All’aiuto finanziario si è affiancato un supporto operativo: 200 membri del personale di Frontex sono stati impiegati nella gestione delle frontiere. Europol ha inoltre inviato personale e agenti distaccati per effettuare controlli di sicurezza secondari in cinque Stati membri e in Moldova.

    Per quanto riguarda l’Italia, secondo una ricostruzione del quotidiano Il Sole 24 ore, dal 24 febbraio 20220 il nostro paese ha speso o ha impegnato 754 milioni di euro per l’accoglienza dei profughi ucraini. «Sono serviti per l’assistenza sanitaria, l’ospitalità negli alberghi, il contributo di sostentamento per chi ha trovato una sistemazione autonoma, le spese dei Comuni per i servizi sociali, i minori non accompagnati, l’accoglienza nei Cas (centri di accoglienza straordinaria) e l’accoglienza diffusa tramite gli enti del Terzo settore» spiega il giornale finanziario.
    Perché si parla di doppio standard rispetto agli altri rifugiati?

    L’applicazione della direttiva 55/2001, per la prima volta nella storia europea, ha determinato un trattamento diverso per i cittadini ucraini in fuga dal conflitto nel paese rispetto ai profughi e richiedenti asilo di nazionalità diverse in cerca di protezione in Europa. Per questo esperti e studiosi non hanno esitato a parlare di un doppio standard di accoglienza e protezione e della creazione di rifugiati di serie A e di serie B.

    I rifugiati ucraini sono stati accolti, grazie un modello straordinario di protezione immediata, che ha consentito anche una libertà di movimento all’interno dell’Ue. Per altre persone in fuga, invece, le frontiere dell’Unione Europea sono rimaste sigillate. Per esempio, per i numerosi cittadini afgani in fuga dalle persecuzioni del regime dei talebani. Non solo, nella stessa applicazione della direttiva 55/2001 si è deciso di fare distinzione tra le persone in fuga: sono state ammessi alla protezione temporanea, infatti, solo i cittadini ucraini, gli stranieri che in Ucraina avevano un permesso di soggiorno di lungo periodo e i titolari di protezione internazionale. Sono stati esclusi i cittadini di paesi terzi che avevano un permesso di breve periodo, come i lavoratori stagionali o gli studenti. Un trattamento così selettivo che ha fatto alzare la voce a diverse organizzazioni umanitarie impegnate nella tutela dei diritti delle persone straniere.
    Come viene finanziata l’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati in Italia?

    Il sistema di accoglienza in Italia è articolato su due livelli. Dopo lo sbarco i migranti vengono dapprima ospitati presso gli hotspot – dove viene effettuata l’identificazione, il fotosegnalamento e vengono effettuati i primissimi interventi di assistenza materiale e sanitaria. Subito dopo, le persone vengono trasferite nelle strutture attivate dalle Prefetture sull’intero territorio nazionale, chiamate Cas (centri per l’accoglienza straordinaria). La seconda accoglienza è invece assicurata nel Sai (Sistema di accoglienza e integrazione, ex Siproimi ed ex Sprar) una rete di strutture attivate mediante progetti realizzati dagli enti locali. I progetti di accoglienza vengono finanziati con le risorse messe a disposizione dal Ministero dell’interno attraverso il Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo.

    Queste risorse provengono in parte da fondi europei, tra cui quelli del Fondo asilo migrazione e integrazione (Fami), che nel periodo 2021-2027 destina all’Italia oltre mezzo miliardo di euro (512 milioni 623 mila euro). Una parte di queste risorse fanno parte del “Sistema Comune Europeo di Asilo (CEAS)” e hanno tra gli obiettivi quello di garantire la corretta informazione per i migranti dopo la fase di identificazione; il miglioramento della performance della commissione nazionale Asilo (CNA) e delle commissioni territoriali (CCTT); l’incremento della capacità di primissima accoglienza dei fenomeni legati alla tratta di esseri umani, il potenziamento dei servizi a favore dei minori non accompagnati.

    Parte delle risorse è poi dedicata alla “migrazione legale e all’integrazione” e prevede stanziamenti per formazione linguistica, istruzione, prevenzione del lavoro sommerso e progetti di inclusione. Infine, una dotazione dei fondi è destinata alle operazioni di rimpatrio forzato, alla formazione del personale coinvolto nelle attività di frontiera e ad azioni per realizzare misure di rimpatrio volontario assistito.
    Ci sono, a livello europeo ed italiano, elementi dell’accoglienza Ucraina che possono essere replicati o applicati all’intero sistema di accoglienza?

    Secondo diversi esperti quello attivato per la prima volta per i profughi ucraini è un modello di accoglienza nuovo e replicabile per affrontare il fenomeno migratorio. Come sottolinea un dossier del Centro studi e ricerche Idos, in collaborazione con Confronti e l’istituto studi politici S.Pio V, le novità sono state tante: «ai profughi dall’Ucraina è stato riconosciuto fin da subito il diritto di scegliere la città (o il Paese europeo) in cui fermarsi, cercare un lavoro, affittare un alloggio, iscrivere i figli a scuola, accedere al Sistema sanitario nazionale e ricevere cure e vaccinazioni: un passo avanti di grande rilievo nell’accesso ai diritti sociali e che andrebbe esteso a tutti i profughi e richiedenti asilo, nell’interesse non solo loro ma di tutta la società», si legge nel rapporto.

    Non solo, ma per la prima volta l’accoglienza domestica (o in famiglia) è entrata a far parte della programmazione ordinaria. Infine, i profughi ucraini sono stati autorizzati a cercare sistemazioni autonome, ricevendo direttamente un contributo monetario. Tutti elementi che hanno contribuito a non gravare sul sistema ordinario di accoglienza. Per questo le organizzazioni che si occupano di tutela dei diritti dei migranti hanno chiesto più volte di fare tesoro di questa esperienza e provare a replicare il modello per tutti i richiedenti asilo.

    Non sono mancate, però, anche le criticità. In particolare, l’eccessiva burocrazia non ha permesso di attivare in tempi celeri alcuni dei progetti che erano stati approvati. Tra questi anche le accoglienze presso le famiglie italiane. «Per non disperdere le ottime innovazioni introdotte dall’Italia, urge snellire quanto più possibile le procedure di attuazione del piano di accoglienza e mettere a sistema il modello sperimentato con gli ucraini – spiega ancora Idos – estendendo il trattamento finora riservato solo a loro a tutte le persone che arrivano in cerca di protezione da conflitti e pericoli concreti per la loro sopravvivenza».

    https://www.slow-news.com/societa/ucraina-accoglienza-modello-lue

    #réfugiés_ukrainiens #Ukraine #réfugiés #migrations #modèle #asile #accueil #statistiques #Italie #double_standard #Europe #unicuum

    ping @karine4

  • Les mineurs isolés doivent être protégés, pas refoulés !
    ALERTE PRESSE

    Vendredi 21 avril 2023

    Les mineurs isolés doivent être protégés, pas refoulés !

    Depuis le 17 avril, l’Anafé, Médecins du Monde, Amnesty International France, La Cimade et Médecins sans Frontières suivent avec attention la situation à la frontière franco-italienne entre #Vintimille et #Menton, et notamment en ce qui concerne la protection des #mineurs_isolés.

    Au moins une cinquantaine d’entre eux ont rejoint un gymnase à Menton en fin de matinée le 19 avril dans l’attente d’une prise en charge par le département. Avant d’y être transférés, ces mineurs avaient été enfermés (de quelques heures à 2 jours) dans des locaux privatifs de liberté attenants au poste de la #police_aux_frontières de Menton pont Saint-Louis. Cet #enfermement est contraire à la Convention internationale des #droits_de_l’enfant. Nous avons été informés qu’au moins 5 mineurs ont été refoulés vers l’Italie jeudi matin en toute illégalité car ils auraient dû être protégés par l’Aide sociale à l’enfance. Nos associations demandent aux autorités de respecter la Convention internationale des droits de l’enfant, dont la France est signataire, et d’appliquer les procédures prévues dans l’accueil provisoire d’urgence.

    Les mineurs isolés doivent être admis systématiquement et sans délai sur le territoire français. Les autorités compétentes à la frontière doivent donc prendre toutes les mesures et garanties spécifiques pour assurer l’effectivité de leurs droits, leur protection, en particulier la conduite d’un entretien individuel, la notification des droits dans une langue comprise par l’enfant, la désignation sans délai d’un administrateur ad hoc et la possibilité de formuler une demande d’asile.

    Nous rappelons que ces mineurs sont des enfants en danger qu’il faut protéger.

    Signataires :
    Amnesty International France
    Anafé
    La Cimade
    Médecins du Monde
    Médecins sans frontières

    Complément d’informations

    Tous les jours, des dizaines de personnes exilées sont interpellées, privées illégalement de liberté et refoulées à Menton. Parmi elles se trouvent des mineurs isolés, mais également des familles et des demandeurs d’asile. Nos organisations dénoncent des procédures expéditives, qui ne respectent pas les droits de ces personnes, notamment le droit de demander l’asile, d’avoir accès à un interprète, à un avocat et à un médecin. Ces personnes sont enfermées avant d’être refoulées sans examen de leurs situations individuelles - ce qui est illégal. D’après les chiffres transmis par les autorités, 30 146 personnes ont ainsi été refoulées à Menton pont Saint-Louis suite à un refus d’entrée en 2021, parmi lesquelles 1 108 mineurs isolés.

    http://www.anafe.org/spip.php?article673
    #MNA #mineurs #enfants #enfance #frontière_sud-alpine #asile #migrations #réfugiés #PAF #France #Italie #push-backs #refoulements #chiffres #statistiques

  • #Immigration et #délinquance : réalités et perceptions

    Le projet de loi sur l’immigration qui devait être débattu au Parlement proposait de « rendre possible l’éloignement d’étrangers constituant une menace grave pour l’ordre public ». Une manière, peut-être, de répondre aux inquiétudes persistantes de ceux qui, dans les enquêtes d’opinion, estiment que l’immigration aggrave la délinquance. Pourtant, les études réalisées dans différents pays concluent sans ambiguïté que les immigrés ne sont pas à l’origine d’une augmentation des taux d’infraction dans les pays d’accueil. Et si les étrangers en situation irrégulière ont une probabilité plus forte de commettre des #vols, un meilleur accès au #marché_du_travail peut résorber cet écart. La surreprésentation des immigrés dans les #statistiques officielles mais aussi le traitement médiatique de la délinquance permettent de comprendre l’écart entre perceptions et #réalité. Lorsque les médias adoptent un traitement plus neutre de l’origine nationale ou étrangère des auteurs présumés d’infractions, les inquiétudes à l’égard de l’immigration se réduisent. C’est en tout cas ce que montre l’expérience allemande en la matière.

    http://www.cepii.fr/CEPII/fr/publications/lettre/abstract.asp?NoDoc=13737
    #criminalité #migrations #perception #médias

    –---

    voir aussi le décryptage de @vivre :
    Comment s’explique la surreprésentation des étrangers dans la criminalité ?
    https://asile.ch/2012/10/06/andre-kuhn-comment-sexplique-la-surrepresentation-des-etrangers-dans-la-crimin
    https://seenthis.net/messages/511003
    #André_Kuhn

  • « La régularisation des sans-papiers n’induit pas d’appel d’air »

    Alors que le gouvernement envisage de faciliter la régularisation de certains travailleurs sans-papiers, l’économiste espagnol détaille les diverses conséquences d’une telle mesure

    Dans une étude publiée en février 2018 et actualisée en 2022 (https://www.dropbox.com/s/izdbk59busoja78/Spanish_regularization_Rev_v1.pdf?dl=0), les économistes Joan Monras (Réserve fédérale de San Francisco), Elias Ferran (université de Valence) et Javier Vazquez-Grenno (université de Barcelone) ont analysé les conséquences d’une vaste régularisation de 600 000 migrants extra-européens décidée par le gouvernement socialiste espagnol en 2005.

    Vous êtes coauteur d’une étude sur les conséquences de la régularisation de 600 000 personnes en Espagne en 2005. Un des principaux enseignements de ces travaux est qu’une régularisation massive n’induit pas d’appel d’air…

    En 2004, on estimait qu’il y avait presque un million de sans-papiers en Espagne. La mesure de régularisation a bénéficié à environ 600 000 personnes. Mais elle n’a provoqué aucun appel d’air en Espagne. Pour s’en rendre compte, nous nous sommes intéressés aux chiffres des ressortissants extra-européens vivant en Espagne. Et on a constaté que ces chiffres n’avaient pas bougé.

    Par exemple, si on regarde les Equatoriens, il n’y a pas eu de changement, puisque leur nombre total s’établit autour de 400 000, en 2004 comme en 2008. Dans le même intervalle de temps, le nombre de Marocains a augmenté de 150 000, mais sans aucune rupture perceptible dans la tendance après l’adoption de la mesure de régularisation, ce qui laisse penser que d’autres facteurs, indépendants de cette mesure, ont joué.

    On peut expliquer cette absence d’appel d’air notamment par le fait que la mesure de régularisation visait les personnes déjà présentes en Espagne puisque, pour en bénéficier, il fallait remplir des conditions comme être présent depuis déjà au moins six mois dans le pays et avoir un contrat pour au moins les six prochains mois.

    Nous pensons même que la régularisation a pu jouer en défaveur de flux nouveaux, puisqu’elle a été accompagnée d’un renforcement des contrôles de l’inspection du travail visant à combattre le travail au noir, ce qui a pu rendre plus difficile l’embauche de travailleurs sans papiers. Nous restons toutefois prudents sur les effets à long terme de la mesure car, dès 2008, l’Espagne a été touchée par la crise économique, ce qui a pu avoir pour effet de diminuer la demande de travail.

    Des constats similaires ont-ils été faits dans d’autres pays ?

    En 1986, les Etats-Unis ont adopté l’Immigration Reform and Control Act (IRCA), une amnistie qui a permis à quelque trois millions d’immigrés de régulariser leur situation. Des articles de recherche ont regardé si cette loi avait provoqué une augmentation de l’immigration et ils trouvent que non. Ce n’est pas une vérité absolue, cela dépend certainement des contours de la politique mise en œuvre et du contexte économique, mais on a des exemples variés, en Espagne et aux Etats-Unis, qui trouvent que la régularisation n’induit pas d’appel d’air.

    Comment la régularisation peut-elle être un frein au travail au noir ?

    Si la régularisation est accompagnée d’un renforcement des contrôles de l’inspection du travail, cela a pour effet d’augmenter le coût du travail au noir. En outre, en exigeant des personnes un contrat de travail d’au moins six mois pour être régularisées, la mesure décidée par le gouvernement espagnol a incité des travailleurs à sortir du travail au noir. Cela est particulièrement visible dans le secteur du ménage à domicile.

    Beaucoup des personnes qui ont été régularisées étaient des femmes de ménage d’origine extra-européenne qui travaillaient de façon non déclarée au domicile de particuliers. La régularisation a provoqué une hausse très importante du nombre d’entre elles qui étaient déclarées, passé de 60 000 à 160 000.

    Toutefois, à moyen terme, le chiffre dans ce secteur est retombé autour de 110 000. Nous pensons que, une fois régularisées, ces travailleuses ont saisi des opportunités dans d’autres secteurs, notamment dans les hôtels-restaurants ou le nettoyage en entreprise. Mais il est également possible qu’une fraction de ces travailleurs soit retournée sur le marché informel.

    Vous battez aussi en brèche l’idée répandue selon laquelle le recours à la main-d’œuvre immigrée tire les salaires vers le bas…

    La régularisation de travailleurs peut exercer, dans un premier temps, une pression à la baisse sur les salaires puisque l’offre de travail se trouve augmentée mais, dans le même temps, en régularisant leur situation, les immigrés ont accès à plus d’opportunités de travail et cela augmente leur pouvoir de négociation avec les entreprises. Nous estimons que cette capacité de négociation peut leur permettre d’obtenir des niveaux de salaire plus élevés d’environ 20 % en moyenne. A long terme, ces deux effets se conjuguent et il n’y a pas de changement substantiel sur le niveau des salaires. Cela fait écho aux résultats de l’économiste et Prix Nobel d’économie David Card qui s’était intéressé à l’exode depuis le port cubain de Mariel dans les années 1980, lorsque quelque 1 250 000 Cubains avaient rejoint Miami.

    En revanche, vous montrez que les bénéfices sont manifestes pour les finances publiques…

    Nous avons calculé que, pour chaque migrant régularisé, les cotisations patronales ont augmenté de 4 000 euros en moyenne par an. Toutefois, nous avons aussi constaté que le travail au noir n’a pas disparu. Passé une première période au cours de laquelle le travail au noir a reculé, celui-ci reprend car des entreprises cherchent toujours à échapper aux cotisations sociales, et des travailleurs peuvent être intéressés par des salaires plus élevés car non soumis à l’impôt sur le revenu.

    Mais cette réalité dépasse la question des travailleurs migrants. En Espagne, le marché informel est très important et concerne les travailleurs espagnols eux-mêmes, dans des secteurs comme le bâtiment ou le tourisme. En cela, les migrants n’ont pas une attitude différente de celle des natifs.

    https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/04/07/la-regularisation-des-sans-papiers-n-induit-pas-d-appel-d-air_6168644_3232.h
    #sans-papiers #régularisation #migrations #appel_d'air #économie #Espagne #chiffres #statistiques #travail_au_noir #salaires #travail

    ping @karine4

  • Principio di non-refoulement è solo un articolo che non viene rispettato

    Quello che emerge dal quinto rapporto del network Protecting Rights at Borders (PRAB) “Picchiati, puniti e respinti” 1, è l’ennesima immagine drammatica di quanto accade alle porte esterne dell’Unione Europea, alla porte di quella comunità che ha tra i suoi principi fondativi (e fondamentali) la protezione e il rispetto dei diritti dell’uomo.

    Stando dunque alla pubblicazione di PRAB, nel 2022 sono state raccolte segnalazioni di pushback da oltre 5.756 persone. Le pratiche di respingimento, messe in atto dalle forze dell’ordine dei Paesi d’ingresso all’Europa, sono pratiche sistematiche ed estremamente violente che violano la normativa internazionale ed europea.


    Inoltre, per ribadire quanto le pratiche di respingimento vadano contro i diritti i diritti dell’uomo, la Convenzione di Ginevra del 1951, con l’articolo 33, stabilisce il principio di non-refoulement (non respingimento).

    «1. Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche.

    2. La presente disposizione non può tuttavia essere fatta valere da un rifugiato se per motivi seri egli debba essere considerato un pericolo per la sicurezza del paese in cui risiede oppure costituisca, a causa di una condanna definitiva per un crimine o un delitto particolarmente grave, una minaccia per la collettività di detto paese»

    Si tratta di un principio fondamentale del diritto internazionale. È importate sottolineare che per effetto della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, tale principio si applica indipendentemente dal fatto che la persona sia stata riconosciuta rifugiata e/o dall’aver formalizzato o meno una diretta domanda di protezione.

    Le pratiche messe in atto dalle forze dell’ordine alle frontiere della cosiddetta fortezza europea e al proprio interno, sono in violazione del diritto della stessa Europa. Ricordiamo l’articolo 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea:

    «Protezione in caso di allontanamento, di espulsione e di estradizione.
    1. Le espulsioni collettive sono vietate.
    2. Nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti»

    È evidente come ancora una volta l’obbligo nel quadro giuridico contraddice la realtà.

    Dal lavoro di PRAB emerge che vi è un sistematico uso di respingimenti. Il report ne riporta quasi 6mila, ma i numeri complessivi sono sicuramente più alti dal momento che questi sono solamente dati raccolti da testimonianze dirette. Nelle due zone di confine dove è più alto il transito di persone migranti tra Italia e Francia (Oulx e Ventimiglia), i respingimenti sono una pratica sempre più comune.

    Ad esempio, se si guarda il numero di serie presente sulla documentazione ufficiale (Refus d’entree) consegnata alle persone respinte dalla polizia di frontiera francese nel 2022, emerge che i numeri sono estremamente più elevati: a Ventimiglia sono 17.749 le persone respinte e a Oulx oltre 3.600. Questi dati sono importanti in quanto sottolineano come le pratiche di respingimento e le barriere d’accesso siano molto più diffuse e si verificano su scala molto più ampia di quella registrata da PRAB.

    Anche in altri territori italiani l’uso sistematico dei respingimenti è in aumento. “Assistiamo a continue riammissioni lungo i porti adriatici dall’Italia alla Grecia e a respingimenti verso l’Albania. Si tratta di trattamenti inumani, come la confisca e la distruzione degli effetti personali, la svestizione forzata e l’esposizione a temperature estreme. Il governo italiano cerca di negare che ciò avvenga. Ma la situazione sembra peggiorare“, conferma Erminia Rizzi di ASGI.

    Nella maggior parte dei casi i respingimenti avvengono in maniera violenta. Sono tantissime le testimonianze che raccontano come la polizia di frontiera si sia comportata in modo brutale: manganellando le persone migranti, confiscando tutti i loro effetti personali per poi distruggerli, negando loro acqua e cibo, obbligandoli a restare svestiti a temperature estreme.

    Uno dei confini in cui le violenze sono all’ordine del giorno è ancora quello che separa la Croazia dalla Bosnia. Ma le numerose violazioni dei diritti umani che erano state denunciate e riportate dalle persone solidali che lottano quotidianamente contro tali pratiche, sono state messe da parte nel momento in cui la Croazia è entrata ufficialmente nella zona Schengen. Per l’ennesima volta le istituzioni Europee hanno chiuso gli occhi di fronte alle molteplici violazioni e violenze: ancora una volta i diritti umani sono stati sacrificati per raggiungere compromessi politici ed economici.

    Il 2022 è stata un anno di grandi contrasti per quanto riguarda la solidarietà e l’accoglienza: le persone che fuggivano dalla guerra in Ucraina sono state accolte mentre le persone migranti provenienti da paesi africani e/o mediorientali sono stati respinte: vi sono due pesi e due misure basate sul profilo etnico, cosa che viola la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Nel 2022 l’Unione Europea ha applicato per la prima volta una direttiva speciale per concedere un permesso temporaneo da chi scappa dalla guerra. Non si tratta di una nuova direttiva poiché risale al 2001 ma prima di quest’anno non era mai stata applicata. Il rapporto PRAB dichiara che l’attivazione di tale direttiva è una decisione storica ma basata su un doppio standard: benvenuti a un confine, respinti ad un altro. Questa è la realtà ai confini della fortezza Europa.

    Charlotte Slente, Segretaria generale della Danish Refugee Council, afferma che «la pratica di chiudere un occhio sulle violazioni dei diritti umani alle frontiere dell’UE deve essere interrotta. È giunto il momento di sostenere, rispettare e far rispettare i diritti di coloro che si trovano alle porte dell’Europa, indipendentemente dal loro Paese di appartenenza. Per anni sono state raccolte prove sulle pratiche di respingimento. Le prove sono innegabili. Questo schema non deve essere visto in modo isolato. Fa parte di una più ampia crisi dello Stato di diritto. La crisi alle frontiere dell’UE non è una crisi di numeri. È invece una crisi di dignità umana e di volontà politica, dovuta alla mancata attuazione dei quadri giuridici esistenti e all’applicazione delle sentenze giudiziarie».

    Con il 2023 è giunto il momento di porre fine alla pratica illecita e discriminatoria di chiudere gli occhi sulle violazioni dei diritti umani alle frontiere dell’Unione Europea. Il rapporto si conclude con cinque richieste: rispetto diritti umani e dignità umana a tutte le frontiere; porre fine all’uso sistematico dei respingimenti; introduzione di meccanismi di monitoraggio indipendenti alle frontiere; prevalenza di una cultura dei diritti rafforzata dal coraggio politico per sostenere le persone bisognose di protezione; apertura di percorsi d’entrata sicuri e legali.

    Sono tutte richieste più che lecite che dovrebbero esser già applicate. Ma il 2023 è veramente l’anno in cui tali richieste verranno accettate?

    Nell’anno in cui, solo per rimanere in Italia, il governo Meloni rivendica come legittimi i respingimenti al confine con la Slovenia, gli accordi con la Libia e ha deciso di stanziare oltre 40 milioni di euro per costruire nuovi CPR, è veramente l’anno in cui i governi degli Stati UE smetteranno di sacrificare i diritti umani per scopi politici ed economici?

    https://www.meltingpot.org/2023/03/principio-di-non-refoulement-e-solo-un-articolo-che-non-viene-rispettato

    #refoulements #push-backs #migrations #asile #réfugiés #frontières #frontière_sud-alpine #2022 #rapport #Balkans #route_des_Balkans #chiffres #statistiques #violence #droits_humains

    • #Protecting_Rights_at_Borders: Beaten, punished and pushed back

      The fifth Protecting Rights at Borders report (#PRAB) reconfirms a pattern of a systematic use of pushbacks at EU Borders. The study recorded incidents involving 5.756 persons between 1 January and 31 December 2022.

      It appears evident that EU Member States continue making access to international protection as difficult as possible. These practises are systemic and integrated into countries’ border control mechanisms although they are in strict violation of EU law. The newly released PRAB report shows that many of those victims who were pushed back were not merely prevented from crossing a border. The data collected outlines that they were “welcomed” at the EU with a denial of access to asylum procedures, arbitrary arrest or detention, physical abuse or mistreatment, theft or destruction of property.

      Nationals from Afghanistan, Syria and Pakistan reported most frequently being the victim of pushbacks and in 12% of the recorded incidents children were involved. This data is unfortunately only the top of the iceberg.

      “The practice of turning a blind eye to human rights violations at EU borders must be stopped. It is high time to uphold, respect and enforce the rights of those at Europe’s doorstep, irrespective of their country of nationality. All people have the right to ask for international protection in the EU. For years, DRC jointly with its PRAB partners and many other actors, has been recording evidence on pushback practices. The evidence is undeniable,” says Secretary General of DRC, Charlotte Slente.

      Access to international protection, within the EU, is far from safeguarded - not merely due to a systematic use of pushbacks across EU borders or the unwillingness to let boats disembark, but also due to other policy developments.

      “This pattern should not be seen in isolation. It is part of a wider Rule of Law crisis. The crisis at the EU’s borders is not one of numbers. Instead, it is a crisis of human dignity and political will, created due to failure to implement existing legal frameworks and enforce judicial rulings”, says Charlotte Slente.

      Preventing access to territory with all means

      “In Greece, pushbacks at land and sea borders remain a de facto general policy, as widely reported including by UN bodies. However, instead of effectively investigating such allegations, Greek Authorities have put in place a new mechanism which does not ensure the guarantees of impartiality and effectiveness. At the same time, NGOs and human rights defenders supporting victims of alleged pushback remain under pressure and find themselves increasingly targeted", says Konstantinos Vlachopoulos of GCR.

      In Italy the systematic use of pushbacks is increasing.

      "We are witnessing continuous readmissions along the Adriatic ports from Italy to Greece and rejections to Albania. What we hear about is inhuman treatment, such as confiscation and destruction of personal belongings, forced undressing, and exposure to extreme temperatures. The Italian government tries to deny that this is happening. But the situation seems to be getting worse”, says Erminia Rizzi of ASGI.

      Welcome at one border, pushed back at another

      The situation is not equal at all EU borders. There are double standards based on ethnic profiling and they violate international human rights law. 2022 was the year that the EU provided protection – at least on paper – to 4.9 million people who entered the EU from Ukraine. The triggering of the Temporary Protection Directive was a historic decision.

      “In February 2022, Poland has opened its borders to admit large numbers of Ukrainian nationals fleeing war. Temporary protection was given to numerous persons seeking protection from the war in Ukraine. This welcoming approach of the Polish authorities did not affect the situation at the Polish-Belarusian border, where a humanitarian crisis continues since August 2021. There, third-country nationals are everyday violently pushed back, irrespective of their vulnerability or asylum claims”, says Maja Łysienia, SIP Strategic Litigation Expert.

      More information on the pushback data recorded by PRAB partners, the litigation cases brought to national and European courts related to border violence, as well as an analysis of current policy dimensions, can be found in PRAB V here: https://pro.drc.ngo/resources/news/prab-beaten-punished-and-pushed-back

      https://reliefweb.int/report/world/protecting-rights-borders-beaten-punished-and-pushed-back

    • Les chiffres à la #frontière_sud-alpine (#Italie / #France) :

      The number of pushbacks from France to Italy recorded through the PRAB project, for instance, also represents a fraction of the overall number of persons reporting pushbacks to Diaconia Valdese’s outreach teams. In Ventimiglia and Oulx in Italy, Diaconia Valdese has records of as many as 2,703 persons, and 2,583 persons, respectively, who reported experiencing pushbacks. If compared to other available statistics, even higher pushback numbers were recorded at the borders between Italy and France in 2022: In Ventimiglia, Italy, at least 17,7491 persons were pushed back by French Authorities, while in Oulx, Italy, it was at least 3,6902 persons.

      (p.4)

      #Ventimille #Oulx #Hautes-Alpes #Alpes_maritimes #Briançon

    • Le sistematiche violazioni dei diritti umani ai confini europei: VI report della rete #PRAB

      Recentemente, un video pubblicato dal New York Times (https://www.nytimes.com/2023/05/19/world/europe/greece-migrants-abandoned.html) ha rivelato respingimenti illegali di persone migranti dalla Grecia, sollevando un’ampia eco mediatica. La gravità delle accuse ha suscitato la reazione di Ylva Johansson (https://www.politico.eu/article/commission-ylva-johansson-greece-migrant-deportation), Commissaria europea agli Affari interni, che ha definito tali pratiche come “deportazioni”, e del primo ministro greco, Mitsotakis, che le ha giudicate “inaccettabili” (https://edition.cnn.com/videos/tv/2023/05/23/amanpour-greek-prime-minister-kyriakos-mitsotakis.cnn). Tuttavia, organizzazioni non governative e grassroots denunciano da anni la sistematicità delle violazioni dei diritti umani delle persone migranti ai confini europei.

      Nel Report What we do in the shadows, il VI report del network PRAB, sono state raccolte migliaia di testimonianze riguardanti le azioni compiute dalle forze di frontiera nei confronti dei potenziali richiedenti asilo, tra cui respingimenti, aggressioni e furti. In alcuni casi, tali azioni mettono a rischio la vita delle persone coinvolte, e ci sono anche situazioni in cui queste azioni si sono tradotte in tragiche perdite umane, come nei respingimenti dalla Polonia alla Bielorussia o nel caso di Fatima, una giovane ragazza di 23 anni uccisa dalla polizia macedone al confine tra la Macedonia del Nord e la Grecia a metà aprile, il giorno in cui l’Agenzia Europea Frontex ha iniziato la propria missione operativa nel paese balcanico.

      Migliaia di testimonianze raccolte nel VI report di PRAB

      Durante il periodo gennaio-aprile 2023, sono stati registrati un totale di 10.691 casi individuali di persone respinte alle frontiere europee. Di questi, 1.611 hanno partecipato a interviste approfondite da parte di uno dei partner PRAB per registrare i dati demografici, le rotte migratorie e le violazioni dei diritti a cui sono stati esposti.

      - Abusi fisici e aggressioni: Il 62% delle persone ha denunciato abusi fisici e/o aggressioni al confine tra Ungheria e Serbia, mentre il 54% ha segnalato lo stesso al confine tra Grecia e Turchia.

      - Coinvolgimento dei minori: Il 16% dei respingimenti riguardava minori, di cui il 9% viaggiava con la famiglia e il 7% era costituito da minori non accompagnati o separati dalla famiglia.

      - Mancato accesso alle procedure di asilo: Nel 44% dei casi registrati al confine tra Croazia e Bosnia-Erzegovina, nell’88% dei casi al confine tra Ungheria e Serbia e nell’85% dei casi al confine tra Italia e Francia, è stato segnalata la impossibilità di accesso alle procedure di asilo.

      Questo rapporto, insieme a molti altri, evidenzia ancora una volta le violazioni dei diritti che si verificano quotidianamente alle frontiere europee.

      I respingimenti e la brutalità della polizia sono di fatto uno strumento per la gestione delle frontiere, l’impunità è la norma e le vie della giustizia per le vittime sono scarse o inesistenti.

      Sulla base di un imperativo umanitario – che mira a salvare vite umane – negli ultimi anni, molte persone e organizzazioni umanitarie hanno sostenuto le persone in movimento. Mentre alcuni hanno contribuito a fornire l’accesso ai servizi di base, tra cui cibo, alloggio e assistenza medica, altri hanno intrapreso azioni legali per contestare le violazioni dei diritti alle frontiere dell’UE. Alcuni Stati membri europei hanno iniziato o continuano a criminalizzare coloro che forniscono assistenza, con l’obiettivo di porre fine alla solidarietà con le persone in movimento. In alcuni Paesi europei questa situazione si è ulteriormente aggravata, prendendo di fatto di mira i difensori dei diritti umani. Salvare vite umane non è solo un dovere morale, è un obbligo legale nel diritto internazionale dei diritti umani.

      https://www.asgi.it/primo-piano/le-sistematiche-violazioni-dei-diritti-umani-ai-confini-europei-vi-report-della

      #Protecting_Right_At_Border