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  • Il gusto amaro delle nocciole

    L’odore si sente prima ancora di entrare: un miscuglio di cacao e nocciole tostate che risveglia ricordi d’infanzia. Dentro il capannone, un macchinario fa scivolare su un nastro pannelli di cialde concave, che vengono riempite una a una di crema di cioccolato. Su un nastro parallelo scorrono altre cialde, su cui sono fatte cadere delle nocciole intere. Il processo è totalmente meccanizzato. Ma a ogni fase due operai controllano che non ci siano sbavature: che la crema di cacao non tracimi, che le nocciole siano della giusta dimensione, che le forme siano perfette. Poi le cialde sono chiuse e i gusci sono inondati da due colate di cioccolato fuso e granella di nocciole. Alla fine del percorso, confezionati nel tipico incarto color oro, compaiono i Ferrero Rocher.

    La fabbrica della Ferrero è a due passi dal centro di Alba, la cittadina piemontese dove più di settant’anni fa cominciò l’attività di questa impresa familiare che ha conquistato il mondo. Dallo stabilimento escono alcuni dei suoi prodotti più famosi: oltre al celebre cioccolatino alla nocciola, i Kinder Bueno, le Tic Tac, i Mon Chéri. E naturalmente la Nutella, la crema spalmabile più venduta nel mondo.

    Quella della Ferrero è la storia di una famiglia di pasticcieri diventati proprietari di un’azienda che nel 2018 aveva un fatturato di 10,7 miliardi di euro, 94 società e 25 impianti produttivi sparsi in cinque continenti. Un’azienda che, nonostante le dimensioni e le ambizioni crescenti, rimane a gestione familiare: non si quota in borsa e vuole mantenere, per quanto possibile, un profilo basso e una discrezione quasi ossessiva. Rarissime sono le visite allo stabilimento concesse ai giornalisti. All’interno è vietato fare foto. Alcune linee di produzione non sono visitabili. “Gli impianti sono progettati e brevettati da personale interno alla ditta, in modo da impedire al massimo la diffusione di segreti industriali”, sottolinea all’inizio della visita un responsabile della comunicazione.

    Radici nel territorio
    La storia della Ferrero è simbolo e paradigma del capitalismo familiare italiano, un misto di inventiva e talento artigianale, capacità di crescita e valorizzazione del prodotto. Il capostipite Pietro Ferrero era un pasticciere di Alba con il dono della sperimentazione. È lui che, durante la seconda guerra mondiale, ha l’idea di usare le nocciole delle Langhe come sostituto del cioccolato, diventato troppo caro e difficile da reperire. Crea un pastone di cacao in polvere, olio di cocco e nocciole che commercializza sotto forma di tavolette con il nome di Giandujot.

    Il prodotto, che si può spalmare sul pane, va a ruba. Le richieste aumentano, le commesse si moltiplicano. Lui intensifica la produzione. Insieme al fratello Giovanni fonda un’industria di trasformazione. Nel 1952 la barretta diventa una miscela spalmabile venduta in vasetto con il nome di Supercrema. Si gettano così le basi per la nascita di quel prodotto di largo consumo che nel 1964 il figlio Michele chiamerà Nutella, creando un marchio destinato a imporsi come la crema al cioccolato per antonomasia.

    Diventato presidente a 32 anni dopo la morte del padre Pietro e poi dello zio Giovanni, Michele fa compiere all’azienda notevoli salti in avanti: inventa nuove linee di produzione (il Mon Chéri nel 1956, le Tic Tac nel 1969, gli Ovetti Kinder nel 1974, il Ferrero Rocher nel 1982), conquista mercati esteri (prima la Germania, poi la Francia, l’Irlanda, il Regno Unito, fino allo sbarco negli Stati Uniti e da lì in tutti i principali paesi fuori dall’Europa). Moltiplica il fatturato, mantenendo alcune regole: non indebitarsi, crescere senza lanciarsi in operazioni azzardate, conservare un rapporto solido con il territorio d’origine. Il cuore della produzione rimane ad Alba, anche se il quartier generale si sposta in Lussemburgo, paese noto per le politiche fiscali più flessibili.

    Lavoratore instancabile, rispettato dai suoi dipendenti – a cui garantisce premi di produzione generosi, cure mediche, asili nido e colonie estive per i figli –, fervente cattolico devoto alla Madonna di Lourdes, tanto da esigere che in ogni stabilimento nel mondo ce ne sia una statua, Michele muore nel 2015, a 89 anni. Al suo funerale ad Alba partecipano diecimila persone, venute a rendere omaggio al principale artefice del benessere della città: se le Langhe maledette raccontate da Beppe Fenoglio nel romanzo La malora sono oggi una regione dall’invidiabile agiatezza è soprattutto merito della Ferrero, che ha puntato sul territorio, distribuendo valore e ricchezza. Alba lo celebra intitolandogli la sua piazza principale, mentre le redini del gruppo passano nelle mani del figlio Giovanni. Quasi subito, l’erede annuncia una nuova politica aziendale, che rappresenta un ulteriore salto in avanti, basato anche sul superamento dei confini stabiliti dal padre: non fare acquisizioni, tenere i piedi saldi nel territorio, crescere ma con cautela.

    Olio di palma e zuccheri
    Dietro l’apparenza mite, Giovanni è più impetuoso. Pensa che per competere in un mercato globale bisogna diventare grandi. “Ogni generazione deve esplorare nuove frontiere e possibilmente portarsi oltre le colonne d’Ercole”, dice in un discorso durante Expo 2015 che diventa un manifesto programmatico. E così avvia una politica di grandi acquisizioni: nel 2015 rileva il gruppo dolciario britannico Thorntons per 112 milioni di sterline (157 milioni di euro), pochi mesi dopo compra il comparto delle caramelle di Nestlé Usa per 2,8 miliardi di dollari (2,3 miliardi di euro), poi il business dei biscotti della Kellogg company per 1,3 miliardi di dollari. Acquisisce per più di cento milioni di euro – è cronaca di poche settimane fa – la maggioranza della Ice Cream Factory Comaker, produttore spagnolo di gelati. Mentre molti marchi del made in Italy vengono ceduti a interessi stranieri, la Ferrero percorre la strada opposta: sfida i grandi gruppi sul loro stesso terreno, quello della competizione globale. La multinazionale di Alba oggi è il terzo gruppo dolciario del mondo e punta a crescere ancora. Giovanni Ferrero, con un patrimonio personale stimato da Forbes sui 22 miliardi di dollari, è l’uomo più ricco d’Italia.

    Voltando pagina rispetto al passato, il nuovo presidente ha impresso un’accelerazione destinata a modificare in modo sostanziale la struttura dell’azienda. Alla Ferrero non mancano i soldi per tentare anche alcune operazioni apparentemente rischiose: a guardare le acquisizioni, l’azienda si sta lanciando in settori teoricamente non molto appetibili, e da cui altri stanno uscendo, come quello dei prodotti alimentari ricchi di zuccheri. Ma la Ferrero ha dalla sua il successo della Nutella e di decine di altri prodotti che hanno resistito negli anni sia agli attacchi della concorrenza sia alla diffusione di consumi più attenti e critici.

    Quando, nell’immediato dopoguerra, Pietro ebbe l’idea di usare nella sua Supercrema le nocciole delle Langhe come sostituto del cioccolato, probabilmente non immaginava che avrebbe creato un prodotto di culto “mai di moda ma sempre alla moda, interclassista e intergenerazionale”, come scrive il giornalista Gigi Padovani nel suo libro Nutella. Un mito italiano (Rizzoli 2004).

    Ogni giorno nel mondo si consumano 350mila tonnellate di Nutella: secondo i calcoli della Ferrero, la produzione di un anno coprirebbe una distanza pari quasi a due volte la circonferenza del pianeta. Di sicuro la crema è conosciuta ovunque: è presente in 170 paesi. Il posto dove se ne consuma di più è la Germania. Seguono Francia e Italia, poi altri stati europei.

    Venerata da generazioni di consumatori, la Nutella rimane un mistero insondabile. I suoi ingredienti sono la cosa meno in linea con le attuali tendenze di consumo: 56 per cento di zucchero, circa il 20 per cento di olio di palma e poi emulsionanti vari. La crema non spicca per essere l’alimento più sano in circolazione. La Ferrero ne è consapevole: quando, nel 2012, una donna negli Stati Uniti l’ha chiamata in causa in una class action per “pubblicità ingannevole” – sostenendo di averla data alla figlia di quattro anni, convinta da uno spot che ne parlava come di un “alimento per una colazione equilibrata” – l’azienda di Alba ha accettato di pagare una multa di tre milioni di dollari. Ha poi cambiato la pubblicità e le etichette dei prodotti.

    Nonostante questo, la Nutella non solo resiste, ma cresce. Nel 2015 l’allora ministra francese dell’ecologia Ségolène Royal aveva osato affermare in tv che bisognava “smettere di mangiarla perché è causa di deforestazione”, ma è stata sommersa dalle critiche e ha dovuto scusarsi. Anche in Italia, dove la campagna contro l’olio di palma ha travolto come uno tsunami l’intera industria dolciaria, il prodotto di punta della Ferrero è stato risparmiato. Oggi la Nutella continua a esibire fieramente in etichetta quell’ingrediente vituperato, senza che la cosa scoraggi gli acquisti (per ribattere alle accuse contro l’olio di palma, responsabile della progressiva scomparsa della foresta del Borneo e potenzialmente cancerogeno se raffinato a elevate temperature, la Ferrero ha avviato un programma “olio di palma sostenibile”, assicurando che il suo prodotto è lavorato a temperature controllate e proviene da coltivazioni certificate e monitorate con i satelliti).

    Lavoro e sfruttamento
    Oggi si direbbe che la Nutella è un prodotto glocal, capace di mescolare sapientemente il locale con il globale. La fabbrica principale è ad Alba, ma le materie prime con cui la si confeziona vengono da mezzo pianeta: olio di palma dal sudest asiatico (Indonesia e Malesia), cacao dall’Africa occidentale e dall’Ecuador, zucchero da barbabietola europeo e da canna sudamericano. E poi le nocciole. Oggi la richiesta da parte dell’azienda è diventata gigantesca. “Usiamo nocciole che provengono da diverse aree del mondo”, sottolinea Marco Gonçalves, amministratore delegato della Ferrero Hazelnut company, la divisione dedicata alla nocciola. “La nostra politica è diversificare le fonti di approvvigionamento, ma il principale mercato di rifornimento rimane la Turchia”.

    Con circa il 70 per cento della produzione mondiale, la Turchia è la leader del mercato. Lungo le rive del mar Nero, a partire dalle zone a poca distanza da Istanbul fino al confine con la Georgia, i noccioleti dominano incontrastati il paesaggio. Sono 700mila ettari, fatti per lo più di appezzamenti di dimensioni ridotte, gestiti da piccoli proprietari che vendono a intermediari, i quali a loro volta rivendono agli esportatori e alle industrie di trasformazione.

    Qui la produzione di nocciole risale a secoli fa: già nel 1403, prima della caduta dell’Impero romano d’oriente, si registravano scambi tra le zone del mar Nero e la capitale Costantinopoli. Nelle cittadine di Ordu e Giresun, cuore nevralgico e culla della produzione, la findik (nocciola, in turco) è regina. Immagini del frutto in guscio campeggiano ovunque, sui muri delle case, sulle vetrine di botteghe di intermediari che spuntano a ogni angolo, nei piccoli laboratori di trasformazione.

    Ogni incontro è preceduto da un rituale che si ripete sempre uguale, in cui all’ospite straniero viene offerto un piatto straripante di nocciole locali, immancabilmente definite le “più saporite e nutrienti del mondo”. Il frutto è un elemento essenziale dell’identità della regione. Alcuni ne esaltano le proprietà afrodisiache e, data l’abbondanza, lo somministrano in quantità anche al pollame d’allevamento per stimolare la riproduzione. Le nocciole raccolte in questa regione si vendono tostate, come granella per i dolciumi, pasta per i gelati. Si esportano in decine di paesi. Ma un acquirente spicca su tutti gli altri: la Ferrero. Se non ci fossero i frutti turchi, il gruppo piemontese avrebbe difficoltà a produrre le sue delizie.

    Suggellato di recente da un gemellaggio tra le città di Alba e di Giresun, il legame tra questa regione e l’azienda italiana somiglia a un matrimonio d’interesse: la Ferrero compra circa un terzo della produzione turca di nocciole, i produttori locali trovano nell’azienda piemontese un partner di cui non possono più fare a meno. Ma ultimamente la relazione soffre. Su un muro del villaggio di Aydindere, nell’entroterra, è comparsa una scritta: “Ferrero assassina di nocciole! Fuori dal nostro paese. Via le tue sporche mani dalle nostre nocciole”. Con toni meno aggressivi, molti puntano il dito contro la multinazionale italiana, accusata di gestire il mercato in un regime di monopolio. “Ferrero è il vero ministro dell’agricoltura”, dice Rifki Karabulut, direttore dell’unione degli ingegneri agricoli di Giresun, che offre supporto ai produttori. “È l’azienda italiana a stabilire i prezzi e a rendere gli agricoltori dipendenti dalle loro politiche”.

    Tra le rappresentanze agricole e gli industriali trasformatori, il coro è unanime: la Ferrero ha un potere sproporzionato e vuole mettere le mani sul settore, assumendo il controllo di tutta la filiera. Nel 2014 l’azienda ha acquisito la Oltan, primo gruppo turco nella commercializzazione delle nocciole, con più di 500 milioni di dollari di fatturato. L’impresa nata dalla fusione controlla oggi tra il venti e il trenta per cento del commercio mondiale di nocciole. La Commissione europea ha dato il via libera all’operazione, affermando che il gruppo non ha acquisito una posizione dominante nel mercato. Ma con questa mossa la Ferrero, oltre a garantirsi la fornitura, ha assunto un nuovo ruolo: non più semplice compratrice, ma anche venditrice di materia prima ai propri concorrenti.

    “Il mercato si concentrando sempre di più, con una manciata di aziende che di fatto possono dettare le condizioni”, sottolinea Dursun Oğuz Gürsoy, presidente dell’omonimo gruppo industriale che vende nocciole e prodotti trasformati sia ad altre industrie sia direttamente nei supermercati. Nella sua fabbrica subito fuori Ordu, questo signore sulla sessantina, “quarantadue anni d’esperienza nel settore”, analizza gli andamenti del mercato. “Oggi ci sono cinque grandi ditte esportatrici. Vent’anni fa erano 55. La Ferrero ha il potere di determinare il prezzo, perché ha i soldi e la capacità di mettere fuori gioco i concorrenti”. Ma la multinazionale del cioccolato sta giocando sporco o sta semplicemente facendo il suo mestiere, assicurandosi il rifornimento di una materia prima essenziale per i suoi prodotti? “Io farei la stessa politica aziendale, se fossi in loro”, ammette Gürsoy. “Il problema è che lo stato ha abdicato al suo ruolo di regolatore e in un regime di libero mercato il più forte inevitabilmente divora i più deboli”.

    Un settore in crisi
    Se gli industriali turchi fanno fatica a fronteggiare la concorrenza del gigante Ferrero, gli agricoltori appaiono ancora più indifesi. Elegantissimo in un completo scuro, l’immancabile foto di Atatürk sulla parete sotto la quale sono allineati diversi barattoli di vetro pieni di nocciole sgusciate, “le principali varietà della regione”, Nurittin Karan è il presidente dell’unione delle camere agricole di Giresun, organo di rappresentanza dei produttori presente in ogni provincia. “Gli appezzamenti sono diventati troppo piccoli, gli agricoltori stanno invecchiando, fertilizzanti e pesticidi aumentano continuamente di prezzo”, dice. “Ma la ragione principale della crisi attuale è la privatizzazione del settore, che ha favorito solo alcuni attori e ha messo in ginocchio i produttori”.

    Il tracollo della produzione turca di nocciole è andato di pari passo con le politiche di liberalizzazione introdotte dal governo di Recep Tayyip Erdoğan su pressione della Banca mondiale. Fino ai primi anni duemila, il raccolto era comprato da un ente parastatale, la Fiskobirlik, che si occupava poi di rivendere il prodotto sul mercato. Fondato nel 1938, questa specie di consorzio contava al suo interno 210mila agricoltori ed era di fatto “la più grande unione contadina del mondo”, sottolinea Karan. Finanziata dallo stato, la Fiskobirlik funzionava da ente regolatore e garantiva ai produttori un prezzo d’acquisto in linea con i costi e la resa media del raccolto.

    Le crisi del debito, la svalutazione della lira turca e la crescente scarsità di risorse hanno spinto il governo a smantellare il sistema e ridimensionare progressivamente il ruolo della Fiskobirlik. Da ente parastatale sovvenzionato con fondi pubblici è diventata un’unione privata, che agisce al pari di qualsiasi altro soggetto. Non avendo liquidità, ha smesso di essere un punto di riferimento per i produttori, che hanno cominciato a vendere a una pletora di intermediari incapaci di fare massa critica e quindi di determinare l’andamento del mercato. Risultato: gli agricoltori turchi, che producono il 70 per cento del totale mondiale di nocciole, non hanno più né la forza né la capacità organizzativa per imporre le loro condizioni. Nello spazio rimasto vuoto si è inserita la Ferrero, che grazie al suo potere d’acquisto ha gioco facile nell’imporre le proprie regole. “La Fiskobirlik era una realtà che dava unità ai produttori. Oggi è il mercato a definire i prezzi”, sottolinea Karan. “Così, lentamente ma inesorabilmente, si sta sbriciolando un settore redditizio che dava da vivere a una regione intera”.

    Dieci euro al giorno
    Alaaddin Yilmazer ricorda bene quei giorni d’estate in cui raccoglieva le nocciole nel campo di famiglia. “Insieme ai vicini, riempivamo sacchi di frutti. Era divertente: un’intera comunità partecipava a questo rito collettivo”. Intorno al villaggio di Çoteli, a un’ora di macchina da Giresun, le colline scoscese che declinano verso il mar Nero sono ricoperte da un unico manto di alberi di nocciolo. Il paesaggio è di una bellezza che toglie il fiato. Non è ancora epoca di raccolta ma tra le foglie si scorgono i primi fiori da cui sbocceranno i frutti. Grazie ai guadagni del loro campo di appena due ettari, i genitori di Alaaddin hanno potuto mandare lui e gli altri tre figli a studiare a Istanbul. Dopo essersi laureato e aver vissuto venticinque anni nella metropoli e all’estero, questo ingegnere di 43 anni ha deciso di cambiare vita. È tornato a casa, per accudire l’anziana madre e “condurre una vita meno frenetica” lavorando la terra. “Ma oggi riesco a vivere grazie alle nocciole solo perché sono single e ho poche pretese. Quella che era una miniera d’oro ormai vale ben poco”.

    Il villaggio non è vivo come un tempo: i giovani si contano sul palmo di una mano. La raccolta non è più un rito collettivo, ma un lavoro affidato a braccianti stagionali, che si riversano nella regione quando c’è richiesta di manodopera. “In estate qui arrivano decine di migliaia di persone. Sono per lo più curdi, famiglie intere provenienti dall’est”, racconta Yilmazer. Data la pendenza dei terreni, la raccolta meccanizzata è impossibile. Così, riuniti in squadre di 10-15, durante il mese del raccolto i braccianti trascorrono dieci-dodici ore al giorno abbarbicati sui declivi a riempire i sacchi, per una paga quotidiana che oscilla tra le 65 e le 85 lire turche (tra i 9,5 e i 12 euro al giorno). Il prezzo è stabilito in ogni villaggio e il reclutamento è affidato a intermediari che raggruppano le persone.

    Questi “caporali” – noti con il nome di dayıbaşı – sono figure imprescindibili del comparto agricolo turco. Da decenni organizzano il trasferimento dei migranti stagionali dall’est povero del paese verso i luoghi dove c’è richiesta. Si occupano di viaggio e alloggio, spesso in tende di fortuna vicino ai campi. Offrono insomma un servizio di intermediazione informale, in cambio del quale trattengono una parte del salario dei braccianti. Sulla spinta anche delle critiche internazionali, il governo sta cercando di regolamentare il settore. Oggi Ankara rilascia una specie di tesserino da dayıbaşı. Ha anche attivato un progetto per costruire alloggi temporanei per i lavoratori migranti e ha vietato l’impiego di minori di 16 anni. “Negli ultimi anni la situazione è migliorata, ma gli alloggi sono scarsi e ancora si vedono bambini nei noccioleti”, dice Yilmazer.

    “Noi non sfruttiamo i lavoratori nei campi”, s’infervora Osman Sarikahraman. A Ünye, cittadina a poca distanza da Çoteli, il presidente della locale unione delle camere agricole respinge le accuse mettendosi una mano sul cuore: “Come musulmani, non accetteremmo mai di sfruttare altre persone. Il problema è a monte. Il nostro prodotto è pagato troppo poco e la paga che diamo ai lavoratori è in linea con quello che ci viene dato come produttori. Se guadagnassimo di più, gli daremmo un salario più alto”.

    In quest’area della Turchia le rese dei campi sono scarse. Per quanto sottopagata, la manodopera finisce per avere un peso consistente sui costi. “La Ferrero si è impadronita della gallina dalle uova d’oro. Estrae ricchezza da questo territorio a un prezzo irrisorio e aggiunge valore altrove, fuori dai nostri confini”, lamenta Sarikahraman, accusando l’azienda italiana di una “politica neocoloniale”.

    La Ferrero non ignora i problemi in Turchia. “Il lavoro minorile esiste, è innegabile”, riconosce Gonçalves. “Stiamo lavorando insieme ai diversi soggetti e a varie agenzie internazionali come l’Organizzazione internazionale del lavoro per affrontare la questione in modo serio e trovare soluzioni di lungo periodo”. L’azienda si è data l’obiettivo di ottenere la tracciabilità totale delle sue nocciole entro il 2020. E ha avviato un programma per gli agricoltori, fornendogli assistenza e un supporto tecnico per aumentare le rese dei raccolti. Ma anche questo tentativo è visto con sospetto: da più parti si fa strada l’idea che l’azienda italiana voglia controllare in modo diretto la produzione, comprando i terreni o stabilendo una sorta di contract farming grazie al quale controllerebbe le modalità di coltivazione e trasformerebbe i produttori in subappaltatori senza molta autonomia.

    Piano di espansione
    Gonçalves nega che ci sia un tentativo di prendere il controllo della terra – “Non è nelle nostre intenzioni” – ma è consapevole che la Ferrero non ha una buona reputazione in Turchia. Non è un caso che l’azienda stia diversificando le fonti di approvvigionamento, sostenendo la coricoltura (la produzione di nocciole) in altre aree del mondo, dal Cile – dove ha comprato quattromila ettari di terra, che gestisce direttamente – al Sudafrica, dalla Georgia alla Serbia. In Italia, secondo produttore mondiale, la Ferrero ha lanciato il progetto Nocciola Italia, per aumentare le superfici coltivate di circa 20mila ettari, passando dagli attuali 70mila ad almeno 90mila, anche in regioni dove le nocciole non sono un prodotto tipico come l’Abruzzo, il Molise, l’Umbria e la Toscana.

    Con i suoi 22mila ettari, quasi un terzo del totale nazionale, la provincia di Viterbo è la principale area di produzione italiana di nocciole. È da tempo immemore che qui gli alberi sono presenti nelle aree di sottobosco: gli storici narrano che gli antichi romani bruciavano legno di nocciolo nei sacrifici al dio Giano e lo impiegavano per le torce augurali in occasione delle nozze. Ma la produzione intensiva è cominciata negli anni cinquanta del secolo scorso ed è aumentata negli anni ottanta, quando è cresciuta la domanda dell’industria: in queste aree le rese sono alte, tra i venti e i trenta quintali a ettaro, il doppio o il triplo di quelle turche. I bassi costi di gestione e la possibilità di raccogliere a macchina rendono la coltivazione redditizia, soprattutto se paragonata ad altre colture. Quando va a produzione, dopo circa cinque anni, un ettaro di noccioleto può garantire un utile annuo fino a cinquemila euro, cifra tutt’altro che piccola nel comparto agricolo italiano.

    Anche grazie al sostegno della regione Lazio, la Ferrero punta ad aumentare qui le superfici di altri diecimila ettari entro il 2025. Così nuovi impianti stanno proliferando, occupando zone dove normalmente gli alberi non c’erano. “Questo piano sta portando alla radicale trasformazione del paesaggio e a un’irreversibile perdita di biodiversità”, dice Famiano Crucianelli, ex sottosegretario del ministero degli esteri, oggi presidente del biodistretto della via Amerina e delle Forre, un’area che interessa tredici comuni della bassa Tuscia e dei monti Cimini. “La nocciola è una grande risorsa per questa zona, ma va coltivata nel rispetto dell’ambiente. Qui si fa un uso eccessivo di chimica e si sta compromettendo un territorio intero, convertendolo in una monocoltura”.

    Il piano di espansione ha portato a una polarizzazione senza precedenti: da una parte il biodistretto e un pezzo di società civile più sensibile ai temi ambientali, dall’altra le principali organizzazioni dei produttori, che accusano i primi di avere una visione romantica dell’agricoltura e di non conoscere i fondamentali della produzione.

    “La nocciola è la coltura che richiede meno trattamenti in assoluto”, sostiene Pompeo Mascagna, presidente di Assofrutti, la principale Organizzazione di produttori (Op) della zona, che ha stretto un accordo pluriennale con la Ferrero per consegnare all’azienda piemontese il 75 per cento della produzione. “Trovo assurdo parlare di monocoltura, quando abbiamo 22mila ettari coltivati a nocciola su 260mila totali nella provincia di Viterbo, è meno del nove per cento. Poi, certo, in alcune aree come il lago di Vico, la concentrazione è più alta”.

    Percorrendo le strade che costeggiano il lago, i filari di noccioli si susseguono senza soluzione di continuità. Molti alberi sono di dimensioni ridotte, piantati di recente, a conferma che l’interesse della Ferrero sta imprimendo un’accelerazione al processo. Da un balcone naturale che permette allo sguardo di spaziare sulla caldara vulcanica, lo specchio d’acqua appare circondato da quest’unica coltivazione.

    “L’aumento della produzione negli ultimi anni ha portato a una pesante eutrofizzazione delle acque, determinata dalla presenza di fosforo e azoto, che sono elementi costitutivi di fertilizzanti e pesticidi. Oggi il lago di Vico è in uno stato comatoso”, spiega Giuseppe Nascetti, direttore del dipartimento di ecologia e biologia dell’università della Tuscia. Nel suo studio, il professore mostra delle mappe che registrano l’andamento delle sostanze nelle acque del lago, con la conseguente variazione della flora e della fauna. Il docente, che ha condotto studi trentennali nell’area, lancia oggi un avvertimento: “Bisogna considerare produzioni più sostenibili, ragionare insieme a tutti i soggetti interessati per portare avanti un sistema di sviluppo più in equilibrio con l’ambiente. Abbiamo parlato con la Ferrero qualche anno fa, per lanciare un progetto pilota con effetti meno negativi sull’ambiente, ma alla fine non se n’è fatto nulla”.

    Il dilemma sembra quello ricorrente in agricoltura: la scelta tra un modello di produzione che garantisce un buon reddito agli agricoltori ma ha un certo tipo di impatto e uno con rese minori ma più in armonia con il territorio. “Qui nella Tuscia la Ferrero persegue una logica estrattiva, non valorizza il nostro prodotto e si rifiuta di comprare nocciole biologiche, orientando tutta la produzione verso il convenzionale e l’uso pesante di fitofarmaci”, continua Crucianelli.

    Merce indistinta
    Per politica aziendale, la Ferrero non compra nocciole biologiche e richiede percentuali talmente basse di cimiciato – una piccola variazione di gusto determinata dall’azione delle cimici sul frutto – che è necessario sottoporre gli alberi a diversi trattamenti. “La nostra priorità sono gli alti standard qualitativi, perché ai consumatori vogliamo dare sempre il meglio”, afferma Gonçalves. Il manager non esclude un cambio di rotta sul biologico in futuro, consapevole che l’aspetto ambientale sarà sempre più un elemento decisivo nelle scelte di acquisto. “Il consumatore medio oggi ha un’altra idea di qualità rispetto al passato. Se il mercato si evolve in questa direzione, sicuramente lo seguiremo. In alcune parti del mondo stiamo testando metodi di coltivazione più naturali. Nel viterbese, in collaborazione con l’università, stiamo per cominciare un progetto per misurare le conseguenze sulla biodiversità della coltivazione di nocciole. È un percorso lungo, ma l’abbiamo avviato”.

    In verità, il rapporto che l’azienda di Alba ha qui con la produzione ricorda per certi versi quello che ha in Turchia: controllo delle varie fasi della filiera, ma scarsa valorizzazione del prodotto in sé. Nel 2012 la Ferrero ha acquisito il gruppo Stelliferi, principale azienda di commercializzazione di nocciole in guscio e semilavorati, con un’operazione simile a quella conclusa successivamente con la Oltan in Turchia. Non ha tuttavia creato impianti di trasformazione come quelli di Sant’Angelo dei Lombardi, in provincia di Avellino, o di Balvano (Potenza), aperti dal patron Michele all’indomani del terremoto del 1980. Così, la nocciola viterbese è una pura commodity, una merce indistinta, che lascia il territorio per essere trasformata altrove.

    Anche se è nella lista dei prodotti a denominazione di origine protetta (dop) stilata dal ministero dell’agricoltura, la varietà “tonda gentile romana” è del tutto sconosciuta ai più. Risultato della mancanza di politiche pubbliche, della scarsa imprenditorialità locale e del disinteresse mostrato finora dalla multinazionale di Alba, l’assenza di impianti di trasformazione mostra in modo paradossale come la principale area italiana di coltivazione della nocciola non dia alcun valore aggiunto al suo prodotto di punta.

    Manuela De Angelis è l’eccezione che conferma la regola. La sua Dea Nocciola acquista nocciole “locali e rigorosamente biologiche” e le usa per produrre creme spalmabili, che poi vende con il marchio del distributore nei supermercati italiani ed esteri. “Già diversi anni fa, mio padre sosteneva che l’unico modo per valorizzare una risorsa è trasformarla. Qui purtroppo è una cultura che ancora manca”, racconta questa imprenditrice quarantenne mentre mostra il suo impianto di duemila metri quadri a Gallese, non lontano dall’uscita autostradale di Magliano Sabina. “All’inizio noi scrivevamo sulle nostre etichette ‘nocciole della Tuscia’. Ma poi abbiamo visto che non funzionava perché nessuno capiva il senso di quest’indicazione e abbiamo cambiato la dicitura in ‘nocciole italiane’”.

    De Angelis ha visto crescere l’azienda di famiglia. Il fatturato aumenta di anno in anno e nuovi canali si aprono. “Ma rimaniamo una nicchia nella nicchia, neanche lontanamente paragonabile alla Ferrero. Noi operiamo in tutta un’altra filiera, che per il momento ci sta premiando: abbiamo scelto il biologico e il locale”.

    In un mondo sempre più esigente in termini di rispetto dell’ambiente e sempre più attento ai valori nutrizionali e agli effetti del cibo sulla salute, la Ferrero sembra aver scelto una sua personale terza via: aumentare il più possibile la sostenibilità e la tracciabilità delle filiere, ma mantenere immutata la composizione dei prodotti, anche se gli ingredienti sono sempre meno in linea con le tendenze di consumo. Una filosofia che appare confermata dalle nuove operazioni lanciate dal gruppo su entrambe le sponde dell’Atlantico.

    Giovanni Ferrero rimane ottimista, fiducioso che la sua famiglia abbia creato un mito che la ripara dalle contingenze del presente. Mentre porta avanti la sua strategia globale di acquisizioni a suon di miliardi, sembra sussurrare agli scettici: che mondo sarebbe senza Nutella?

    https://www.internazionale.it/reportage/stefano-liberti/2019/06/21/nutella-gusto-amaro-nocciole-ferrero
    #noisettes #Ferrero #industrie_agro-alimentaire #Turquie #Nutella #Italie #exploitation #travail #huile_de_palme #alimentation #Stefano_Liberti

  • The victory of Mozambican farmers against the soya empire

    In 2011 the Mozambican government launched Africa’s largest agro-industrial development plan. The so-called #ProSavana aimed to turn 14 million hectares of land in the #Nacala corridor, in the north of the country, into a huge #monoculture, mainly soybean for the Chinese market. The development of the area would have been entrusted to Brazilian entrepreneurs coming directly from Mato Grosso.

    When they realized they would have lost their ancestral lands, local farmers put up a great mobilisation, which proved very successful.

    https://www.internazionale.it/video/2018/05/16/mozambican-farmers-soya
    #résistance #Mozambique #agriculture #soja #Chinafrique #Chine #Brésil #terres #accaparement_de_terres #vidéo

    • #Soyalism

      I n a world struck by climate change and overpopulation, food production control is increasingly becoming a huge business for a handful of giant corporations. Following the industrial production chain of pork, from China to Brazil through the United States and Mozambique, the documentary describes the enormous concentration of power in the hands of these Western and Chinese companies. This movement is putting out of business hundreds of thousands of small producers and transforming permanently entire landscapes. Launched in United States at the end of the Seventies, the system has been exported across the world, especially in large-populated countries such as China. From waste-lagoons in North Carolina to soybeans monoculture developed in the Amazon rainforest to feed animals, the movie describes how the expansion of this process is jeopardizing the social and environmental balance of the planet.

      https://www.soyalism.com

      #film #documentaire

      Trailer :
      https://www.youtube.com/watch?v=pwwAqllgwYg

      #Stefano_Liberti

    • La vittoria dei contadini del Mozambico contro l’impero della soia

      “In Mozambico non c’è abbastanza terra, abbiamo già conflitti tra di noi. Se verranno gli investitori stranieri, i conflitti peggioreranno. La terra appartiene ai mozambicani”, dice Costa Estevão, presidente dell’unione contadina di Nampula.

      Nel 2011 il governo mozambicano ha lanciato il più grande piano di sviluppo agroindustriale dell’Africa. Il ProSavana mirava a trasformare 14 milioni di ettari di terreno in monocolture da esportazione. L’area interessata era il corridoio di Nacala, nel nord del paese.

      Il suo sviluppo sarebbe stato affidato a imprenditori brasiliani venuti dal Mato Grosso, lo stato del Brasile trasformato negli anni ottanta nel principale produttore di soia al mondo. I contadini mozambicani, informati che avrebbero perso le proprie terre, hanno messo in piedi una grande mobilitazione e hanno vinto.

      Questo video, disponibile anche in inglese, è stato realizzato con il sostegno del Pulitzer center on crisis reporting. È uno spin-off di Soyalism, un documentario di Stefano Liberti ed Enrico Parenti sull’industria globale della carne e le monocolture correlate in giro per il pianeta.

      https://www.internazionale.it/video/2018/05/16/contadini-mozambico-soia
      #vidéo

  • I signori del cibo: chi decide cosa arriva sulla nostra tavola

    “Pochi grandi gruppi controllano la produzione, la commercializzazione e la distribuzione del cibo che mangiamo”, spiega Stefano Liberti. “Queste industrie trattano il cibo come se fosse un giacimento di petrolio. Si cerca di produrre il più possibile al minor costo possibile, a scapito della qualità degli alimenti, dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori che operano nella catena alimentare”.
    Stefano Liberti, autore del libro I signori del cibo. Viaggio nell’industria alimentare che sta distruggendo il pianeta (Minimum fax 2016), ha seguito la filiera di quattro prodotti alimentari – la carne di maiale, la soia, il tonno in scatola e il pomodoro concentrato – per scoprire come si sta trasformando il mercato globale del cibo.

    http://www.internazionale.it/video/2017/02/07/liberti-cibo
    #alimentation #finance #spéculation #chaîne_alimentaire #Stefano_Liberti #porc #soja #thon #tomates #globalisation #mondialisation

    • I signori del cibo. Viaggio nell’industria alimentare che sta distruggendo il pianeta

      Dopo A Sud di Lampedusa e il successo internazionale di Land grabbing, Stefano Liberti ci presenta un reportage importante che segue la filiera di quattro prodotti alimentari – la carne di maiale, la soia, il tonno in scatola e il pomodoro concentrato – per osservare cosa accade in un settore divorato dall’aggressività della finanza che ha deciso di trasformare il pianeta in un gigantesco pasto.
      Un’indagine globale durata due anni, dall’Amazzonia brasiliana dove le sconfinate monoculture di soia stanno distruggendo la più grande fabbrica di biodiversità della Terra ai mega-pescherecci che setacciano e saccheggiano gli oceani per garantire scatolette di tonno sempre più economiche, dagli allevamenti industriali di suini negli Stati Uniti a un futuristico mattatoio cinese, fino alle campagne della Puglia, dove i lavoratori ghanesi raccolgono i pomodori che prima coltivavano nelle loro terre in Africa.
      Un’inchiesta che fa luce sui giochi di potere che regolano il mercato del cibo, dominato da pochi colossali attori sempre più intenzionati a controllare ciò che mangiamo e a macinare profitti monumentali.

      http://www.minimumfax.com/libri/scheda_libro/779

    • Le #capitalisme raconté par le #ketchup

      La force d’un système économique tient à sa capacité à s’insinuer dans les moindres replis de l’existence, et en particulier dans nos assiettes. Une banale boîte de concentré de tomate contient ainsi deux siècles d’histoire du capitalisme. Pour son nouvel ouvrage, Jean-Baptiste Malet a mené une enquête au long cours sur quatre continents. Une géopolitique de la « malbouffe » dont il présente ici un tour d’horizon inédit.

      Dans la salle d’un restaurant décorée d’ours et de cobras empaillés, au cœur de la vallée de Sacramento, en Californie, un homme mord dans son hamburger face à une bouteille de ketchup. M. Chris Rufer, patron de la Morning Star Company, règne sur la filière mondiale de la tomate d’industrie. Avec trois usines seulement, les plus grandes du monde, son entreprise produit 12 % du concentré de tomate consommé sur la planète.

      « Je suis une sorte d’anarchiste, explique M. Rufer entre deux bouchées. C’est pourquoi il n’y a plus de chef dans mon entreprise. Nous avons adopté l’autogestion » — une « autogestion » où l’informatique remplace les cadres, mais qui ne prévoit pas que les travailleurs contrôlent le capital de l’entreprise. Mécène du Parti libertarien (1), M. Rufer laisse aux employés le soin de se répartir les tâches qui échoient encore à des êtres humains. Dans les ateliers de la ville de Williams, la Morning Star transforme chaque heure 1 350 tonnes de tomates fraîches en concentré. Lavage, broyage et évaporation sous pression sont entièrement automatisés.

      Traversé continuellement d’un essaim de camions tractant des doubles bennes de fruits rouges, l’établissement est le plus compétitif du monde. Il fonctionne en trois-huit et n’emploie que soixante-dix travailleurs par rotation. L’essentiel des ouvriers et des cadres ont été éliminés, remplacés par des machines et des ordinateurs. De ce traitement de « première transformation » sortent de grandes caisses contenant différentes qualités de concentré.

      Mises en conteneurs, elles circuleront sur tous les océans du globe. On les retrouvera, aux côtés de barils de concentré chinois, dans les mégaconserveries napolitaines qui produisent l’essentiel des petites boîtes de concentré vendues par la grande distribution européenne. Les usines dites « de seconde transformation » des pays scandinaves, d’Europe de l’Est, des îles Britanniques ou de Provence emploieront également du concentré importé comme ingrédient dans leur nourriture industrielle — ratatouille, pizzas surgelées, lasagnes... Ailleurs, ce produit pourpre et visqueux, mélangé à de la semoule ou à du riz, entre dans les recettes populaires et les mets traditionnels, du mafé à la paella en passant par la chorba. Le concentré de tomate est le produit industriel le plus accessible de l’ère capitaliste : on le trouve sur la table des restaurants branchés de San Francisco comme sur les étals des villages les plus pauvres d’Afrique, où il se vend parfois à la cuillère, comme dans le nord du Ghana, pour l’équivalent de quelques centimes d’euro (lire « Des produits chinois frelatés pour l’Afrique »).

      Toute l’humanité mange de la tomate d’industrie. En 2016, 38 millions de tonnes de ce légume-fruit (2), soit environ un quart de la production totale, ont été transformés ou mis en conserves. L’année précédente, chaque Terrien avait en moyenne absorbé 5,2 kilos de tomates transformées (3). Ingrédient central de la « malbouffe » (4) autant que de la diète méditerranéenne, la tomate transcende les clivages culturels et alimentaires. Elle n’est soumise à aucun interdit. Les civilisations du blé, du riz et du maïs décrites par l’historien Fernand Braudel ont aujourd’hui cédé la place à une seule et même civilisation de la tomate.

      Lorsqu’il presse le flacon Heinz pour couvrir ses frites d’une nouvelle giclée de ketchup, produisant ce bruit caractéristique que des milliards d’oreilles ont appris à reconnaître depuis l’enfance, M. Rufer n’a sans doute en tête ni la composition de la sauce ni son histoire mouvementée. Si, malgré sa couleur rouge, le « tomato ketchup » n’a pas le goût de la tomate, c’est que sa teneur en concentré varie entre 30 % et... 6 % selon les fabricants, pour 25 % de sucre en moyenne. Aux États-Unis, il s’agit de sirop de maïs (génétiquement modifié, la plupart du temps). Mis en cause dans l’épidémie d’obésité qui frappe le pays, omniprésent dans l’alimentation industrielle des Américains, ce « glucose-fructose » coûte moins cher que les sucres de canne ou de betterave. Dopés à l’amidon modifié, aux épaississants et aux gélifiants comme la gomme xanthane (E415) ou la gomme de guar (E412), les pires ketchups représentent l’aboutissement d’un siècle de « progrès » agroalimentaire.

      Dans les usines de M. Rufer comme dans toutes les installations de transformation du globe, l’essentiel de la technologie vient d’Italie. Née au XIXe siècle en Émilie-Romagne, l’industrie de la tomate a connu une expansion planétaire. C’est en émigrant, à la fin du XIXe siècle, que des millions d’Italiens diffusent l’usage culinaire de la tomate transformée et stimulent les exportations de conserves tricolores vers l’Argentine, le Brésil, les États-Unis. En Italie, durant la période fasciste, la boîte en fer symbolise la « révolution culturelle » inspirée du futurisme qui exalte la civilisation urbaine, les machines et la guerre. La tomate en conserves, nourriture de l’« homme nouveau », conjugue ingénierie scientifique, production industrielle et conservation de ce qui a été cultivé sur la terre de la patrie. En 1940 se tient à Parme la première « Exposition autarcique des boîtes et emballages de conserve », un événement qui fait la fierté des hiérarques du régime. La couverture de son catalogue montre une boîte de conserve frappée des lettres AUTARCHIA. L’autarcie verte, la voie économique suivie par le fascisme, rationalise et développe l’industrie rouge. « De nos jours, deux aliments globalisés de la restauration rapide, le plat de pâtes et la pizza, contiennent de la tomate. C’est là, en partie, l’héritage de cette industrie structurée, développée, encouragée et financée par le régime fasciste », souligne l’historien de la gastronomie Alberto Capatti.

      Apparues au XIXe siècle aux États-Unis, la boîte de soupe à la tomate Campbell’s et le flacon rouge Heinz — dont il se vend annuellement 650 millions d’unités à travers le monde — rivalisent avec la bouteille de Coca-Cola pour le titre de symbole du capitalisme. Fait méconnu, ces deux marchandises ont précédé l’automobile dans l’histoire de la production de masse. Avant que Ford n’assemble des automobiles sur des chaînes de montage, les usines Heinz de Pittsburgh, en Pennsylvanie, fabriquaient déjà des conserves de haricots à la sauce tomate sur des lignes de production où des tâches telles que le sertissage des boîtes étaient automatisées. Des photographies de 1904 montrent des ouvrières en uniforme Heinz travaillant sur des lignes de production : les bouteilles de ketchup s’y déplacent sur un rail. Un an plus tard, Heinz vend un million de bouteilles de ketchup. En 1910, il produit quarante millions de boîtes de conserve et vingt millions de bouteilles de verre. L’entreprise est alors la plus importante multinationale américaine (5).

      Dans le sillage de la vague néolibérale des années 1980, et grâce à l’invention des conditionnements aseptiques (traités pour empêcher le développement de micro-organismes), qui ouvrent la voie aux flux intercontinentaux de produits alimentaires, les géants tels que Heinz ou Unilever sous-traitent progressivement leurs activités de transformation de tomates. Désormais, les multinationales du ketchup, de la soupe ou de la pizza se fournissent directement auprès de « premiers transformateurs » capables de fournir du concentré industriel à très bas coût et en très grande quantité. En Californie, en Chine et en Italie, quelques mastodontes transforment à eux seuls la moitié des tomates d’industrie de la planète. « Si les Pays-Bas, où s’est implantée une usine Heinz gigantesque, sont le premier exportateur de sauces et de ketchup en Europe, ils ne produisent pas de tomates d’industrie, précise le trader uruguayen Juan José Amézaga. Tout le concentré employé dans les sauces qu’exportent les Pays-Bas ou l’Allemagne est produit à partir de concentré d’importation en provenance de diverses parties du monde. Les fournisseurs peuvent se trouver en Californie, en Europe ou en Chine. Cela fluctue en fonction des périodes de l’année, des taux de change, de l’état des stocks et des récoltes. »

      Premier producteur mondial de concentré de tomate, la Californie ne compte que douze usines de transformation. Toutes sont titanesques. Elles fournissent à elles seules la quasi-totalité du marché intérieur nord-américain et exportent vers l’Europe des concentrés vendus parfois moins cher que les concentrés italiens ou espagnols. À la différence des « tomates de bouche », destinées au marché de frais, les variétés buissonnantes de « tomates d’industrie » ne sont pas tuteurées. Parce que le soleil dispense une énergie abondante et gratuite, elles poussent exclusivement en plein champ, contrairement aux cultures sous serre qui alimentent les étals toute l’année. En Californie, les récoltes débutent parfois dès le printemps et s’achèvent, comme en Provence, à l’automne.

      « Améliorées » depuis les années 1960 par des généticiens, les tomates de l’agro-industrie sont conçues d’emblée pour faciliter leur transformation ultérieure. La science qui guide l’organisation du travail intervient aussi en amont, au cœur même du produit. L’introduction d’un gène a par exemple permis d’accélérer les cueillettes manuelles et rendu possibles les récoltes mécaniques. Tous les fruits de la filière mondiale se détachent de leur pédoncule d’une simple secousse. Bien qu’aujourd’hui les tomates d’industrie du marché mondial soient majoritairement de variétés dites « hybrides », la purée de tomates est entrée dans l’histoire comme le tout premier aliment OGM commercialisé en Europe (6).

      Avec sa peau épaisse qui craque sous la dent, la tomate d’industrie supporte les cahots des voyages en camion et le maniement brutal par les machines. Même placée au fond d’une benne sous la masse de ses congénères, elle n’éclate pas. Les grands semenciers ont veillé à ce qu’elle contienne le moins d’eau possible, contrairement aux variétés de supermarché, aqueuses et donc inadaptées à la production de concentré. L’industrie rouge se résume au fond à un cycle hydrique perpétuel et absurde : d’un côté, on irrigue massivement les champs dans des régions où l’eau est rare, comme la Californie ; de l’autre, on transporte les fruits dans des usines pour évaporer l’eau qu’ils contiennent afin de produire une pâte riche en matière sèche.

      https://www.monde-diplomatique.fr/2017/06/MALET/57599

      Un article qui date de 2017, avec une infographie de @odilon... je mets ici pour archivage

  • La globalizzazione del maiale

    La tesi di questo libro è semplice da riassumere: la produzione di cibo è sempre più lontana dai luoghi del suo consumo perché dipende soprattutto dalle logiche della finanza. #Stefano_Liberti, giornalista d’inchiesta, la espone con ricchezza di esempi e ritmo di racconto, seguendo le filiere di quattro prodotti globali: carne suina, soia, tonno in scatola e pomodoro concentrato.

    http://www.internazionale.it/opinione/giuliano-milani/2016/10/22/i-signori-del-cibo-recensione
    #livre #viande #soja #thon #tomate #alimentation #agriculture #nourriture #finance #mondialisation #globalisation

  • L’accordo tra Europa e Turchia sui migranti è miope e ipocrita

    Con questa non trascurabile somma si potevano fare molte altre cose: predisporre un meccanismo generale di accoglienza al livello europeo; mettere in piedi reali e funzionanti corridoi umanitari per un numero di persone assai più elevato delle 72mila previste dall’accordo; creare le condizioni per un sistema virtuoso in cui s’investiva sull’inserimento dei profughi nella società. Ma quelle sarebbero state scelte di lungimiranza, di un’entità politica con una chiara visione strategica. L’Unione ha intrapreso una strada diversa, più miope e assai meno nobile: girare le spalle e pagare altri.

    http://www.internazionale.it/opinione/stefano-liberti/2016/03/22/accordo-europa-turchia-migranti
    #Turquie #asile #migrations #réfugiés #UE #Europe #externalisation #push-back #refoulement #politique_migratoire #accord
    #hypocrisie #Stefano_Liberti #coût

  • #Calais migrants : life in the #Jungle – video

    Away from the chaotic scenes on Calais’s motorways and ports, the migrant camp known as the ’new Jungle’ is growing fast and showing signs of becoming a permanent fixture. The Guardian spent three weeks following the lives of a few of its 3,000 residents, rare in-depth access that reveals a growing human cost of the crisis, and the challenges facing refugees and migrants trying to reach Britain

    http://www.theguardian.com/uk-news/video/2015/jul/27/calais-migrants-jungle-camp-video?CMP=share_btn_tw
    #vidéo #jungle #campement #asile #migration #réfugiés

  • #Borderline, viaggio in sei video sulle frontiere europee più usate dai migranti

    Un reportage a puntate attraverso le porte d’ingresso in Europa che somigliano sempre più a un fronte di guerra con sensori, telecamere termiche, radar e droni. Da oggi, ogni settimana.

    http://www.internazionale.it/storia/migranti-europa-mediterraneo
    #reportage #migration #asile #vidéo #Stefano_Liberti #asile #réfugiés #itinéraire_migratoire #parcours_migratoire #frontière
    cc @reka

  • Traduction du texte de Stefano Liberti paru en italien dans Internazionale :
    http://www.internazionale.it/reportage/2014/12/03/il-grande-affare-dei-centri-d-accoglienza

    Chronique #Italie | #Stefano_Liberti : Le grand #business des centres d’#accueil en Italie

    L’histoire du système d’accueil en Italie est faite d’attentes interminables, de coûts disproportionnés et d’une approche toujours basée sur l’urgence, quelles que soient les circonstances. En 2011, le gouvernement de Berlusconi et de Roberto Maroni avait décrété l’Urgence Afrique du Nord, en réponse aux Printemps arabes. 63 000 personnes avaient débarqué dans la péninsule. Un système d’accueil extraordinaire, censé fonctionner parallèlement au système ordinaire, a été mis en place. L’urgence a officiellement pris fin en février 2013. Mais aujourd’hui, avec les conséquences de la crise syrienne et de la situation dramatique en Libye -160 000 personnes sont arrivées en Italie en 2014- « on se retrouve à la case départ » explique le journaliste Stefano Liberti dans un long reportage. Avec son aimable autorisation, nous en publions ici la traduction effectuée par Nora Bernardi.


    http://www.asile.ch/vivre-ensemble/2015/04/16/chronique-italie-stefano-liberti-le-grand-business-des-centres-daccueil-en-ita
    #mafia #asile #réfugiés #centres_d'accueil #SPRAR #CARA
    cc @reka

  • L’ultimo inganno per i migranti

    L’idea di istituire in alcuni paesi africani dei campi dove esaminare le richieste d’asilo verso l’Unione europea è sempre più dibattuta a Bruxelles e nelle varie capitali. Lanciata dal governo italiano durante il suo semestre di presidenza nel 2014 con il nome di “processo di Khartoum”, la proposta ha raccolto l’adesione del ministro dell’interno tedesco Thomas de Maizière e dei governi francese e austriaco. In linea teorica, tale idea avrebbe alcuni risvolti positivi: come ha sottolineato Luigi Manconi, presidente della commissione diritti umani del senato, che ne è un sostenitore, essa “permetterebbe di evitare l’attraversamento illegale del Mediterraneo, con i rischi che comporta, e distribuire i richiedenti asilo in Europa secondo quote equilibrate di accoglienza”. Ma siamo sicuri che questo sia l’obiettivo principale di chi l’ha lanciata? E, soprattutto, siamo sicuri che sia praticabile?

    http://www.internazionale.it/opinione/stefano-liberti/2015/03/18/immigrazione-europa-africa
    #externalisation #asile #migration #Afrique_du_Nord #arnaque #réfugiés #Europe #UE #Forteresse_Europe #Stefano_Liberti

  • Traduction de l’italien (article original: http://www.internazionale.it/reportage/2015/01/13/seimila-euro-per-essere-abbandonati-in-mezzo-al-mare)
    À #Mersin, « port-fantôme » des migrants, par #Stefano_Liberti.

    Shaadi fume et attend : assis dans le hall de l’hôtel qui est devenu sa deuxième maison, il allume une cigarette après l’autre, regarde nerveusement son téléphone portable en attendant un appel. « Le bruit court qu’il en part un demain », dit-il sur un ton qui hésite entre espoir et résignation. Il vient d’avoir trente-quatre ans, il a une femme et deux enfants qu’il a laissés à Damas. C’est un ancien comptable, avec le sourire éteint d’un employé triste, et il a déjà versé six mille dollars aux passeurs pour s’embarquer à bord d’un navire qui l’emmènera directement en Italie, et « de là en Allemagne, où il obtiendra l’asile politique et fera venir sa famille ».


    http://dormirajamais.org/mersin
    cc @reka
    #cargo_fantôme #bateau_fantôme #migration #asile #Turquie #Mersin #réfugiés #Forteresse_Europe #Méditerranée #abandon #mourir_en_mer #dérive #mer

  • #Stefano_Liberti. Land grabbing is growing, but so is awareness

    After winning the Indro Montanelli Award in 2010 with ’A sud di Lampedusa’ (South of Lampedusa), the journalist Stefano Liberti wrote the first report on the phenomenon of land grabbing. Three years after its publication it makes the point of what is changing, the players, forgotten misdeeds and the role of public opinion.

    http://magazine.expo2015.org/en/sustainability/stefano-liberti.-land-grabbing-is-growing--but-so-is-awareness
    #accaparement_des_terres #terres
    cc @odilon

  • #Italie : un #cargo_fantôme à la dérive avec 450 migrants à bord

    Un #navire_marchand transportant 450 immigrés clandestins et abandonné par son équipage dérivait dans la nuit de jeudi à vendredi près des côtes italiennes, en #panne de machines.


    http://www.leparisien.fr/faits-divers/un-cargo-abandonne-par-son-equipage-se-dirige-vers-les-cotes-italiennes-0

    #abandon #mourir_en_mer #dérive #migration #asile #réfugiés #mer #Méditerranée

    Mais, ARRGHHH... arrêtons de parler de #clandestins, car, à bord, il y aura probablement passablement de syriens, donc des #réfugiés_présumés
    –-> @reka : le concept de #réfugié_présumé est intéressant, Vivre Ensemble l’utilise toujours plus, je peux t’en dire plus, si tu veux, il a été forgé par un juriste dont je ne me rappelle plus le nom, mais que je peux facilement retrouver...

  • #Stefano_Liberti. Il land grabbing è in crescita, ma cresce anche la consapevolezza

    Dopo aver vinto nel 2010 il premio Indro Montanelli con ’A sud di Lampedusa’, il giornalista Stefano Liberti ha scritto il primo reportage sul fenomeno del land grabbing. A tre anni dalla sua pubblicazione facciamo il punto su cosa sta cambiando, i protagonisti, le colpe dimenticate, il ruolo dell’opinione pubblica.

    http://magazine.expo2015.org/cs/Exponet/it/sostenibilita/stefano-liberti.-il-land-grabbing-e-in-crescita--ma-cresce-anche-
    #land_grabbing #accaparement_des_terres #terres
    cc @odilon

  • Il grande affare dei centri d’accoglienza

    Sono passati tre anni dall’inizio dell’“emergenza Nordafrica” e oggi siamo al punto di partenza. Nell’ultimo anno – complici la guerra in Siria e la situazione drammatica sul terreno in Libia – i flussi via mare sono ricominciati. Dall’inizio del 2014 a oggi, in Italia sono arrivati 160mila immigrati, la maggior parte soccorsa dai mezzi navali dell’operazione Mare nostrum, inaugurata il 18 ottobre 2013 dal governo italiano dopo la morte di circa 600 migranti in due naufragi al largo di Lampedusa e chiusa ufficialmente il 1 novembre scorso.

    http://www.internazionale.it/reportage/2014/12/03/il-grande-affare-dei-centri-d-accoglienza
    #business #argent #centres_d'accueil #migration #asile #réfugiés #Italie #Stefano_Liberti
    cc @albertocampiphoto

    @Reka: c’est un article de @StefanoLiberti... une petite traduction sur VisionsCarto?

  • Frontières et migrations - Frontières et migrations - UNIGE
    http://www.unige.ch/sciences-societe/geo/frontieres-migrations/fr

    Du 16 au 28 septembre 2014

    Frontières et migrations

    Chercheurs, praticiens et artistes
    croisent leurs regards

    Conférences, expositions, film et théâtre

    CARTOGRAPHIES TRAVERSES est un dispositif à la croisée des sciences humaines et de l’art, issu d’un atelier de cartographie expérimental et participatif. Cet atelier a réuni à Grenoble, entre mai et juin 2013, douze voyageurs, alors demandeurs d’asile ou réfugiés, trois artistes, Fabien Fischer, Lauriane Houbey et Marie Moreau, association ex.C.es, deux chercheuses en géographie, Sarah Mekdjian et Anne-Laure Amilhat-Szary (Laboratoire PACTE-Projet EUborderscapes), Coralie Guillemin à l’organisation et Mabeye Deme à la photographie.

    Voyageurs, artistes et chercheurs abordent la cartographie comme une technique créative de relevés d’expériences. Les cartes produites avec et par les voyageurs évoquent des souvenirs de parcours et d’épopées migratoires. CARTOGRAPHIES TRAVERSES est à la fois un atelier, un terrain de recherche, une installation.

    #cartographie_radicale #cartographie_narrative #art #cartographie

  • Le coltivazioni dei terreni che gli investitori stranieri controllano nei paesi più poveri - operazione comunemente chiamata #Landgrabbing - se fossero usati per nutrire gli abitanti del posto, potrebbero mettere fine alla malnutrizione. Lo rivela la rivista scientifica Environment Research Letters, che il 26 giugno scorso ha pubblicato uno studio curato da un gruppo di ricercatori italo -americani. Ne abbiamo parlato con #Stefano_Liberti, autore del libro «Land Grabbing. Come il mercato delle terre crea il nuovo colonialismo» (Edizioni Minimum Fax)

    #terres #accaparement_des_terres

    @odilon... mais c’est en italien
    :-(

    Avec Stefano Liberti, qui a écrit ce livre:
    https://seenthis.net/messages/131543

  • Nouveau #film de #Stefano_Liberti : vient de sortir en Italie...

    Container 158, vita quotidiana nel campo rom più grande d’Europa
    –-> Container 158 : la vie quotidienne dans le camp rom plus grand d’Europe

    http://www.redattoresociale.it/Multimedia/Video/Dettaglio/448322/Container-158-vita-quotidiana-nel-campo-rom-piu-grande-d-Europa

    #Container_158 #Roms #Rome

    Voir aussi la page officielle du film :
    http://www.zalab.org/progetti-it/73

    Il campo attrezzato di Via Salone a Roma è il campo rom più grande d’Europa. All’interno vivono 1200 persone – rom di varia origine (rumeni, serbi, montenegrini, bosniaci). Il campo è fuori dal raccordo anulare, non è collegato con i mezzi pubblici e non ha alcuno spazio comune. La distanza tra i container dove vivono le famiglie è di circa due metri. I bambini vanno la mattina a scuola in istituti molto lontani grazie a un servizio di pulmini – date le distanze e dato il traffico mattutino, impiegano anche due ore e arrivano quasi sempre in ritardo di almeno un’ora. Il documentario segue la quotidianità del campo: i bambini che vanno a scuola; gli adolescenti che trascorrono le giornate a non far nulla (molti non hanno nessun documento; sono nati in Italia ma non hanno la nazionalità, quella di origine dei genitori l’hanno perduta in seguito all’implosione dell’ex Jugoslavia); gli uomini e le donne adulti che cercano di arrabattarsi con lavori di fortuna.

    #documentaire

    • Container 158

      L’avete mai visto un “villaggio attrezzato” per Rom? Un recinto che sorge nel nulla, tra ferrovia e autostrada, fuori dal raccordo anulare, con il primo bar a 3 km. Recinti e video-sorveglianze invece 24 ore su 24. Nel campo di via Salone, uno dei campi per soli Rom del comune di Roma, il più grande d’Europa, una ventina di km sull’A24 e la Tiburtina, non c’è alcun servizio pubblico. E’ troppo pericoloso camminare su strade senza marciapiede per i bambini. Il servizio di pulmini impiega due ore facendoli arrivare con al meno un ora di ritardo a scuola diventando facili bersagli delle maestre.

      Bisogna vederlo il documentario “Container 158” di Stefano Liberti e Enrico Parenti, che sarà proiettato in anteprima oggi al Festival Internazionale del Film di Roma (ore 11.00 am presso la sala MAXXI, ingresso libero). Per vedere sulla pelle delle famiglie la discriminazione istituzionale, quella orchestrata dall’ex sindaco Alemanno & co, ma ancora oggi dall’amministrazione di Roma che continua ad attuare la politica dei campi: la segregazione su base etnica per la quale l’Italia fu varie volte condannata dal Consiglio d’Europa.

      1200 persone – tutti rom – raggruppati insieme (perché rom). Di varie origine: serbi, montenegrini, bosniaci, reduci del conflitto bosniaco e dall’implosione dell’ex Jugoslavia, ancora inspiegabilmente apolidi, senza passaporti e senza possibilità di richiedere la cittadinanza italiana. Container accatastati come in un gioco “Lego” solo che qua ci vivono intere famiglie e lo spazio tra i container non supera i due metri. In quello della famiglia di Miriana Halilovic, in 22.5 metri quadri, dalla nascita dei gemelli a luglio 2013 vivono in sei. Tre anni in una roulotte, in un campo sovraffollato senza alcuna certezza di aver un giorno accesso ad un alloggio adeguato o all’edilizia popolare.

      Il documentario si addentra nella quotidiana sopravvivenza in quel carcere invisibile. Remi il meccanico ambulante senza officina che aspetta che qualcuno gli porti una macchina o un motorino da aggiustare; Giuseppe che all’alba va in giro col furgone a cercare il ferro, tradizionale settore del riciclaggio e “differenziata” artigianale del metallo dove spiccano i Rom. E Brenda che avrebbe da piccola voluto fare la dottoressa ma oggi diciottenne non ha né documenti, né cittadinanza, né prospettiva. Tutte storie che palesano l’ipocrisia dell’amministrazione comunale che chiede sempre ai Rom di integrarsi, mentre li rinchiude in campi a parte, fuori da tutto e da tutti, distanti kilometri dalla prima scuola e dal primo panificio. Ti confino ai margini, ma ti devi integrare.

      C’è qualcosa di dolce però in questo documentario, girato da dentro, come se i registi avessero anche loro vissuto in un container, frequentato le albe gelide o il sole bollente dalla minuscola apertura che in una casa si chiamerebbe finestra ma qua è una fessura; lavato i vestiti in una bacinella di plastica, o giocato a calcio con bimbi non più a disagio davanti alla cinepresa. Per restituire le voci vere, le parole e frustrazioni di quei ragazzi pieni di sogni infranti su quei recinti. Bambini che si sentono italiani e Rom, non sanno “cosa significhi la parola “zingari” solo che è quella che loro (i gagé, NdA) ci appiccicano addosso”. Belle quelle riprese, camera in pugno, che seguono alle spalle bimbi liberi farsi strada tra le erbe folli delle periferie, tra binari, rottami e parcheggi. Non-luoghi, dove crescere un’infanzia discriminata.

      Flash di poesia anche. Una bimba-principessa sorge dalle pozzanghere, un gingostyle danzato con le nonne, l’operazione salvataggio di un cucciolo, la scuola marinata, il nulla della giornata che si afferra. La fantasia richiesta per inventare una sopravvivenza tra riciclaggi e lavori di fortuna, l’arrabattarsi di uomini parcheggiati da millenni, rimasti liberi.

      Container 158, prodotto da ZaLab e realizzato con il sostegno di Open Society Foundations e con il patrocinio di Amnesty international Italia, Consiglio d’Europa – ufficio di Venezia, Associazione 21 Luglio - è da vedere: dà immagini alla discriminazione mai cessata contro questo popolo. Oggi ancora dalle autorità italiane, nel cuore dell’Europa.

      http://diversamente.comunita.unita.it/2013/11/12/container-158

    • ’’Container 158’’, bambini rom raccontano la vita nei campi con ironia
      –> « container 158 », les enfants roms racontent leur vie dans les camps avec ironie

      Famiglie numerose con il sogno di una casa e di una vita normale. L’umanità che vive dentro i container del grigio campo Rom di via di Salone si lascia immortalare nel film di Liberti e Parenti

      http://www.redattoresociale.it/Notiziario/Articolo/449239/Container-158-bambini-rom-raccontano-la-vita-nei-campi-con-ironia

    • I soliti zingari di merda

      Non è per una sorta di captatio benevolentiae che penso che questo post non riceverà molti commenti, non aprirà nessun dibattito, non sarà ritweetato, etc… Magari pone male la questione, magari è pieno di luoghi comuni, magari è semplicemente sciatto, etc… Ma la mia idea è che se c’è una cosa di cui non frega nulla veramente a nessuno in Italia è questa.

      http://www.minimaetmoralia.it/wp/i-soliti-zingari-di-merda

  • Tiré du livre de Stefano LIBERTI, A Sud di Lampedusa. Cinque anni di viaggi sulle rotte migratorie .
    http://www.minimumfax.com/libri/scheda_libro/201

    Voici des extraits, malheureusement en italien, mais peut-être que certains arrivent à lire quand même...

    «Questo libro non parla di trafficanti e di scafisti. O meglio, ne parla solo in misura marginale. E non perché queste figure non esistano. Ma perché non sono loro il nocciolo della questione. Loro non sono altro che un sottoprodotto delle rotte migratorie, che si viene a definire a partire da uno specifico bisogno: quello della mobilità e della crescita personale che spinge migliaia di donne e di uomini a cercarsi un futuro e un altrove e a sfidare le sempre più articolate misure di contrasto attuate dagli stati del Nord»

    Stefano LIBERTI, A Sud di Lampedusa. Cinque anni di viaggi sulle rotte dei migranti, Minimum Fax, 2011, p.10.

    «A suo dire [a dire di Gaoussou, il capo di un sindacato di pescatori a Dakar], la realtà era semplice: era l’Unione Europea, con le sue politiche, a costringere i ragazzi a emigrare. ’L’Europa non può restare indifferente di fronte a questa tragedia. Soprattutto, non può chiudere un occhio quando le sue barche ci rubano il pesce e lamentarsi poi che i nostri ragazzi vadano alle Canarie’. Il ragionamento era lineare. Quelle piroghe che un tempo erano servite a pescare ora venivano usate per andare in Spagna. Quei ragazzi che una volta erano pescatori ora erano diventati scafisti e immigranti illegali. L’Europa insisteva sulle mafie e fingeva di ignorare che alcune delle cause che la tiravano direttamente in ballo. Addossava alle reti dei trafficanti responsabilità che non era in grado di assumersi. A Mbour la crisi era visibile, la voglia di andaresene palpabile, il desiderio di lasciarsi alle spalle una quotidianità difficile evidente negli occhi di quei pescatori che, alla chiusura del mercato, non andavano più a festeggiare nei bar del villaggio, ma se ne tornavano mestamente a casa, facendo il calcolo di quanti soldi avevano perso quel giorno. La spiegazione di Gaoussou faceva tornare tutto: gli sbarchi alle Canarie non erano che un gigantesco contrappasso, la vendetta di un’Africa saccheggiata, i cui figli si riversavano nelle terre di coloro che li saccheggiavano, quasi a esigere una forma di compensazione»

    Stefano LIBERTI, A Sud di Lampedusa. Cinque anni di viaggi sulle rotte dei migranti, Minimum Fax, 2011, pp.25-26.

    «Secondo [Armand Rousselot, responsabile della sede a Dakar dell’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni], il problema era più complesso di come lo presentava Gaoussou. Era vero che i prescatori erano a secco, era innegabile che il settore ittico attraversava una crisi profonda. Ma la colpa non era solo dei pescherecci europei (e asiatici, aggiunse lui) che pescavano in modo illegale. La colpa era in parte degli stessi pescatori senegalesi, che spesso per ottenere migliori risultati avevano usato la dinamite, distruggendo i fondali e l’ecosistema»

    Stefano LIBERTI, A Sud di Lampedusa. Cinque anni di viaggi sulle rotte dei migranti, Minimum Fax, 2011, p.28.

    «Gli intrappolati non sono una prerogativa di Dirkou. Dal Marocco all’Algeria, dal Mali alla Mauritania, fino in Libia, sono decine di migliaia a condividere questo destino di viaggiatori costretti alla stanzialità. Non possono andare avanti, perché sono a corto di soldi. Non possono tornare a casa, perché la loro famiglia si è indebitata per sostenere le spese di viaggio. I giorni per loro scorrono sempre uguali, in attesa di un qualche miracoloso rivolgimento degli eventi. Alcuni si rassegnano, si inseriscono negli interstizi dell’economia del luogo, magari mettono su famiglia. Altri, i più ostinati, non si arrendono. Continuano a coltivare i loro sogni; bramano l’Europa, afferrano ogni barlume di informazione che possa sostenere il loro miraggio. Vista dal di fuori, la loro insistenza ha un che di folle. Ma in realtà è, in molti casi, la loro unica arma di difesa. ’Non abbiamo alternative. Siamo costretti a continuare a sperare’, mi disse un giorno Sylvain, un robustao camerunese di due metri che avevo incrociato sulle rotte»

    Stefano LIBERTI, A Sud di Lampedusa. Cinque anni di viaggi sulle rotte dei migranti, Minimum Fax, 2011, p.74.

    «I migranti frequentano luoghi precisi, si riuniscono in posti definiti. Lungo le rotte si è creata una specie di topografia del transito, per cui il viaggiatore conosce a menadito quali sono i punti di riparo; quali sono le città dove è opportuno fermarsi; dove sono i propri connazionali»

    Stefano LIBERTI, A Sud di Lampedusa. Cinque anni di viaggi sulle rotte dei migranti, Minimum Fax, 2011, p.76.

    «A differenza dei discorsi ufficiali che si fanno in tutto il Nord Africa, dalla Libia al Marocco passando per l’Algeria, in cui i sub-sahariani vengono stigmatizzati in quanto portatori di miseria e malattie, l’emigrazione di transito genera ricchezza e occupazione»

    Stefano LIBERTI, A Sud di Lampedusa. Cinque anni di viaggi sulle rotte dei migranti, Minimum Fax, 2011, p.115.

    «L’idea di attaccare le recinzioni che circondano Ceuta e Melilla si era rivoltata contro gli africani come un boomerang. Volevano fare un atto di forza, commuovere il mondo mostrando la propria disperazione; avevano invece creato la percezione di un’orda barbarica pronta a riversarsi da sud verso nord. Sotto la pressione di un’opinione pubblica terrorizzata, il governo socialista spagnolo di José Luis Rodriguez Zapatero aveva chiesto a Rabat di intervenire in maniera decisa, promettendo ampie contropartite politiche e finanziarie e una certa acquiescenza nel caso più che probabile in cui i suoi uomini avessero usato metodi poco ortodossi. […] Ma l’attacco a Ceuta e Melilla aveva segnato un punto di svolta, la rottura di un equilibrio già di per sé piuttosto instabile. L’Europa non poteva permettere una tale sfrontatezza. E nemmeno poteva il Marocco, che ne approfittò per ottenere un doppio risultato: liberarsi degli stranieri e compiacere i ricchi vicini del nord»

    Stefano LIBERTI, A Sud di Lampedusa. Cinque anni di viaggi sulle rotte dei migranti, Minimum Fax, 2011, pp.116-117.

    «’C’è una cos ache non capisco’, aveva detto il presidente del ghetto maliano. ’Gli europei hanno bisogno delle nostre braccia per la loro agriccoltura, ma fanno di tutto per non farci entrare. Non è una contraddizione?’ Gli abitanti di Maghnia avevano individuato il cuore del problema, l’antitesi apparente tra la condanna del lavoro nero e la necessità di praticarlo, la schizofrenia di un’Europa che aveva bisogno dei migranti ma spendeva soldi a valanga per impedirne l’arrivo. Era la consapevolezza di questa dissociazione che spingeva molti di loro a non demordere: nonostante fossero rimasti a metà strada, bloccati per mesi o anni in una terra che non li voleva, continuavano a cullare il sogno europeo. Ritenevano di potersi infilare nelle maglie aperte di questa contraddizione; di poterla scardinare dall’interno. Mossi da una specie di idealismo romantico, molti si consideravano pionieri alla scoperta di nuovi orizzonti. In quest’ottica rovesciavano, come in un gioco di specchi deformanti, la percezione miserabilistica che gli europei davano della loro esperienza. I loro non erano ’viaggi della speranza’ o ’della disperazione’. Erano ’spedizioni’. Loro non erano ’dannati’, ma ’avventurieri’. Tra orgoglio personale e volontà di riscatto, i candidati all’Europa – anche se bloccati, prostratti, condannati a vivere in tendopoli improvvisate – non si dichiaravano mai sconfitti. A volte sviluppavano un bizzarro meccanismo di sfida, in virtù del quale si compiacevano delle difficoltà che incontravano: tanto più insormontabili erano gli ostacoli che si frapponevano tra loro e la meta, tanto più straordinario sarebbe stato il successo finale. L’avventura verso l’Europa sembrava assumere così il senso del viaggio iniziatico, la traversata del deserto che trasformava l’adolescente in uomo adulto. A questo si aggiungeva il senso di rivalsa: in molto leggevano l’emigrazione come una compensazione, la riscossa dell’Africa verso un’Europa che l’aveva prima sfruttata, poi abbandonata. ’Quelli che vedete adesso’, ci disse lucido 32métiers, ’sono gli effetti delle vostre politiche: se smetteste di fare concorrenza sleale ai prodotti africani, se smetteste di spogliare i nostri paesi delle loro ricchezze, se manteneste gli impegni assunti al momento della decolonizzazione, finananziando progetti di sviluppo, noi forse non partiremmo. Ma la verità è che voi volete che partiamo’».

    Stefano LIBERTI, A Sud di Lampedusa. Cinque anni di viaggi sulle rotte dei migranti, Minimum Fax, 2011, pp.119-120.

    Nelle parole cariche di rancore degli abitanti di Maghnia, l’Europa sembrava assumere una duplice e opposta valenza. Era il sogno e l’incubo. Era il nemico da abbattere, ma anche l’amico che ti porge la mano. Era la patria dell’uomo bianco, colonista e sfruttatore. Ma anche il luogo delle aspirazioni realizzate. Era il passato violento, ma anche il futuro carico di prospettive. Questa antinomia attrazione-repulsione emergeva chiara dai discorsi dei migranti, che la percepivano come una cosa normale, un dato di fatto".

    Stefano LIBERTI, A Sud di Lampedusa. Cinque anni di viaggi sulle rotte dei migranti, Minimum Fax, 2011, p.120.

    «Il percorso era tracciato: andare, lavorare, accumulare e investire. Il fatto che alcuni di loro finissero inghiottiti dal mare o rimanessero bloccati a metà strada non li preoccupava. Esorcizzavano le paure ignorandole. E mostravano tutti un’ostinazione al limite dell’incoscienza. Risoluti ad andare fino in fondo, gli ’avventurieri’ non consideravano nemmeno lontanamente la possibilità di non arrivare a destinazione. ’Non ci fermeremo mai. Se ci picchiano e ci sbattono in galera, torneremo ancora più convinti. Se ci rimpatriano in venti, torneremo in duecento’. 32métiers aveva le idee chiare»

    Stefano LIBERTI, A Sud di Lampedusa. Cinque anni di viaggi sulle rotte dei migranti, Minimum Fax, 2011, p.121.

    «E mi ritrovai a rimuginare su quella frase che mi aveva detto alcuni mesi prima, in una situazione opposta ma molto simile, un ragazzo ghanese che avevo incontrato in fondo al deserto del Sahara e non aveva voluto raccontarmi la sua storia. ’Voi giornalisti venite qua, fate il vostro servizio e poi tornate nelle vostre comode case. A noi cosa cambia? Voi vi fate belli con i vostri articoli, noi rimaniamo merce per l’esposizione delle vostre parole»

    Stefano LIBERTI, A Sud di Lampedusa. Cinque anni di viaggi sulle rotte dei migranti, Minimum Fax, 2011, pp.134-135.

    «’Io spero di sbagliarmi, ma ormai sono convinto di una cosa: l’Europa chiude le frontiere non perché non vuole gli immigrati, ma perché vuole che arrivi gente docile, senza diritti e quindi incapace di avanzare rivendicazioni» [disse Fiston Massamba, segretario del Consiglio dei migranti sub-sahariani in Marocco]".

    Stefano LIBERTI, A Sud di Lampedusa. Cinque anni di viaggi sulle rotte dei migranti, Minimum Fax, 2011, p.141.

    «Nell’esporre gli obiettivi di Frontex, Arias [vicedirettore di Frontex] indicò che essa doveva provvedere a ’rafforzare il controllo dei confini’, ’aiutare gli stati membri nell’organizzazione di voli congiunti di rimpatrio di immigrati clandestini’, ’creare un network di cooperazione tra le varie guardie di frontiera nazionali’ e ’fare analisi di rischio e di gestione dei flussi migratori’. Ma nonostante la circolazione delle informazioni, malgrado il mondo globalizzato, tutti questi ambiziosi obiettivi non sembravano supportati da una grande conoscenza di quanto avveniva sul terreno. Così, quando Arias spiegò che mezzo milione di cittadini sub-sahariani erano pronti a imbarcarsi dalle coste della Mauritania verso le isole Canarie, gli chiesi cosa lo portasse a fare una stima di questo tipo. Lui ci pensò un secondo e poi rispose laconico: ’Bè, lo abbiamo letto sulla stampa spagnola’. Rimasi allibito. Le informazioni a cui si riferivano erano quelle dei grandi giornali occidentali, le cui fonti erano magari gli stessi funzionari europei. Era un serpente che si mordeva la coda. Ancora una volta, ebbi la sensazione di far parte di un gioco perverso: la stampa scrive che c’è un’invasione in atto sulla base di indicazioni fornite dai governi. L’opinione pubblica si convince che esiste un’emergenza. I governi o le agenzie europee mettono in piedi mezzi di contrasto e li giustificano sostenendo che le loro informazioni dettagliate provengono dai media. Il fatto che il numero degli arrivi sulle coste europee fosse ogni anno nell’ordine di qualche decina di migliaia di persone – ossia l’equivalente di un villaggio del ragusano o dell’Andalusia – non sembrava interessare nessuno. Il meccanismo era lanciato; la macchina era ripartita. L’emergenza immigrazione esigeva lo spiegamento di possenti mezzi.»

    Stefano LIBERTI, A Sud di Lampedusa. Cinque anni di viaggi sulle rotte dei migranti, Minimum Fax, 2011, pp.148-149.

    «Mi chiesi se non fosse, questo dell’immigrazione verso l’Europa e del suo contrasto, solo un grande teatrino. Da dove veniva questa sindrome dell’emergenza? Come si era diffusa questa idea di un’invasione immenente che andava fermata? Mi chiesi quanto anche noi giornalisti avessimo avuto e continuassimo ad avere una responsabilità nel dare forma e alimentare quello che mi pareva un gigantesco bluff. Il giornalista spagnolo mandato dal suo direttore in fondo alla Mauritania aveva tutto l’interesse a parlare di ’esodo biblico’ e a dar voce a chiunque avesse un approccio catastrofista, perché così il suo direttore non gli avrebbe rinfacciato di essere andato lì per niente. Era una grande mistificazione di cui facevamo parte anche noi, lì in quel momento, venuti a Varsavia [nella sede della Frontex] con il biglietto pagato da Bruxelles ad ascoltare funzionari incompetenti. Anche noi avremmo dovuto giustificare la trasferta ai nostri rispettivi direttori, anche noi avremmo scritto delle storie, anche noi avremmo finito per parlare dell’emergenza immigrazione. Anche noi ci saremmo resi responsabili, in qualche modo, della definizione della ’Fortezza Europa’, dell’edificazione di quel castello dalle pareti di cartone la cui inconsistenza si misurava proprio lì, in quella stanza uguale a mille altre di un grattacielo senza identità nel centro di Varsavia»

    Stefano LIBERTI, A Sud di Lampedusa. Cinque anni di viaggi sulle rotte dei migranti, Minimum Fax, 2011, p.150.

    «Non so cosa mi facesse sentire così vicino a quel ragazzo. In fin dei conti, lo conoscevo appena. Avevamo passato una mezz’ora insieme, fuori dal cybercafé di Istanbul. Avevamo parlato del più e del meno. Poi, quando ci eravamo separati, io gli avevo dato il mio numero di telefono, un po’ per solidarietà, un po’ per quella morbosità giornalistica che ti fa identificare tutte le persone che incontri in altrettanti fonti di informazioni»

    Stefano LIBERTI, A Sud di Lampedusa. Cinque anni di viaggi sulle rotte dei migranti, Minimum Fax, 2011, p.170.

    «Di nuovo mi stupii della naturalezza con cui Sindou mi parlava degli scafisti, che descriveva come semplici fornitori di servizi. ’Se chiami a casa tua un idraulico, non lo paghi certo prima che finisca il lavoro’. Il paragone era calzante: il passeur era colui che ti risolveva i problemi. Era la guida necessaria, la persona che conosceva strade e trucchi per farti arrivare sano e salvo dall’altra parte»

    Stefano LIBERTI, A Sud di Lampedusa. Cinque anni di viaggi sulle rotte dei migranti, Minimum Fax, 2011, p.178.

    «Tra il 2000 e il 2001, gli africani cominciarono a essere un problema. La Turchia attraversava una grave crisi economica. Il valore della lira turca crollava giorno dopo giorno. Chi aveva capitali, li metteva al sicuro all’estero. L’economia stagnava. In questo contesto, la presenza africana divenne un ottimo capro espiatorio: diversi per aspetto e per abitudini, quasi sempre incapaci di parlare il turco, i sub-sahariani si adattavano perfettamente allo stereotipo che li voleva tutti dediti ad attività poco pulite, delinquenti, trafficanti, spacciatori. Uno stereotipo che non era coltivato solo dal turco della strada ma anche dalle élite. A quel punto, il debole governo di Bulent Ecevit decise di affrontare il problema. Non potendoli espatriare, a causa degli alti costi dell’operazione, adottò un sistema ’alla marocchina’. Ai primi di luglio del 2001, ordinò una vasta retata per le strade di Istanbul. Furono tutti messi su pullman e condotti alla frontiera. Qui, a bordo di piccole barche, vennero scaricati sulla sponda greca del fiume Evros. Ankara sosteneva, in modo del tutto irragionevole, che i clandestini erano entrati in Turchia dalla Grecia e che pertanto avava tutto il diritto di rispedirli indietro. Senza pensarci due volte, i greci arrestarono i malcapitati. Li trattennero una notte, poi li fecero salire su una barca e li depositarono dall’altra parte del confine. I turchi li rispedirono in Grecia. I greci intimarono loro di tornare indietro. E così via, in un estenuante ping-pong che si concluse dopo circa un mese con il ritorno a Istanbul dei migranti, più terrorizzati e paranoici che mai»

    Stefano LIBERTI, A Sud di Lampedusa. Cinque anni di viaggi sulle rotte dei migranti, Minimum Fax, 2011, p.181.

    «Nel corso degli anni, la frontiera europea è andata moltiplicandosi in una panoplia di sottofrontiere. Come una cipolla, la fortezza si è coperta di diversi strati: c’è il nucleo dei paesi di Schengen, all’interno dei quali si circola liberamente; ci sono gli aspiranti Schengen, i membri dell’Unione sotto osservazione, ancora non ammessi nel club esclusivo della libera circolazione. E ci sono poi i paesi della prefrontiera: l’Ucraina, il Marocco, la Libia, la Turchia. A questi, con politiche diverse, Bruxelles promette aiuti e fondi. Con questi firma accordi di vario tipo, chiedendo in cambio di svolgere per lei i compiti più sgradevoli: bloccare i flussi, respingere gli immigranti con ogni mezzo. L’obiettivo non dichiarato è creare un cordone sanitario, una zona grigia talmente estesa e poco vivibile che la meta diventa irraggiungibile, che il gioco finisce per non valere più la candela. E’ in questi paese, nei ghetti che si trasformano in parcheggi per uomini in transito, che spesso gli immigrati si ritrovano bloccati, ad accarezzare un’idea d’Europa del tutto immaginaria ma che per loro diventa una fissazione»

    Stefano LIBERTI, A Sud di Lampedusa. Cinque anni di viaggi sulle rotte dei migranti, Minimum Fax, 2011, p.184.

    «Lampedusa in sé era stata una delusione, ma era stata anche una conferma. Non c’erano gli immnigrati per strada, non c’erano i ghetti. Non era l’isola meticcia che mi aspettavo. Ma c’era qualcos’altro, che mi rafforzava nelle mie convinzioni: quell’armamentario dell’accoglienza, asettico ma efficace, quel meccanismo di gestione consolidato e ripetitivo (molo-CPT-nave) rappresentava la logica conseguenza di tutto ciò che avevo visto dall’altra parte del Mediterraneo. Era l’altra faccia dell’esternalizzazione attuata nella riva sud. Lì si bloccavano i migranti, si creavano ghetti che diventavano trappole, si sottoponevano i viaggiatori a un estenuante gioco dell’oca fatto di retate e rimpatri; qui, semplicemente, li si inquadrava in un percorso quasi standardizzato. Un filo rosso univa quanto avevo trovato al di là del mare e quanto trovavo qui, da questa parte, su questo piccolo scoglio che era parte del mio paese. Dopo aver delegato ai paesi terzi la gestione dei flussi, l’Europa delegava ancora: non più agli stati del Nord Africa, ma al suo avamposto estremo, il suo più remoto luogo di frontiera. Era un’esternalizzazione all’interno, il livello finale di una complessa e articolata struttura a strati, di cui avevo appena osservato lo stadio ultimo. Era come la punta di una grande piramide. Con un problema in più: date le condizioni del luogo, considerate le esigenze di una piccola isola che viveva di turismo e aveva paura che l’ ’emergenza immigrazione’ rovinasse la sua fama di paradiso, bisognava fare tutto di nascosto. Si nascondevano gli immigrati, si nascondevano gli sbarchi, si nascondeva il centro di permanenza temporanea, si nascondevano persino le barche che arrivavano. Tutto doveva avvenire in un modo poco vistoso. Tutto doveva essere gestito nella più assoluta discrezione»

    Stefano LIBERTI, A Sud di Lampedusa. Cinque anni di viaggi sulle rotte dei migranti, Minimum Fax, 2011, p.196.

    #migration #Stefano_Liberti