• Ventimiglia : sempre più caro e pericoloso il viaggio dei migranti al confine Italia-Francia

    Confine Francia-Italia: migranti fermati, bloccati, respinti

    I respingimenti sono stati monitorati uno ad uno dagli attivisti francesi del collettivo della Val Roja “#Kesha_Niya” (“No problem” in lingua curda) e dagli italiani dell’associazione Iris, auto organizzati e che si danno il cambio in staffette da quattro anni a Ventimiglia per denunciare gli abusi.

    Dalle 9 del mattino alle 20 di sera si piazzano lungo la frontiera alta di #Ponte_San_Luigi, con beni alimentari e vestiti destinati alle persone che hanno tentato di attraversare il confine in treno o a piedi. Migranti che sono stati bloccati, hanno passato la notte in un container di 15 metri quadrati e infine abbandonati al mattino lungo la strada di 10 km, i primi in salita, che porta all’ultima città della Liguria.

    Una pratica, quella dei container, che le ong e associazioni Medecins du Monde, Anafé, Oxfam, WeWorld e Iris hanno denunciato al procuratore della Repubblica di Nizza con un dossier il 16 luglio. Perché le persone sono trattenute fino a 15 ore senza alcuna contestazione di reato, in un Paese – la Francia – dove il Consiglio di Stato ha stabilito come “ragionevole” la durata di quattro ore per il fermo amministrativo e la privazione della libertà senza contestazioni. Dall’inizio dell’anno i casi sono 18 mila, scrive il Fatto Quotidiano che cita dati del Viminale rilasciati dopo la richiesta di accesso civico fatta dall’avvocata Alessandra Ballerini.

    Quando sia nato Sami – faccia da ragazzino sveglio – è poco importante. Più importante è che il suo primo permesso di soggiorno in Europa lo ha avuto a metà anni Duemila. All’età di 10 anni. Lo mostra. È un documento sloveno. A quasi 20 anni di distanza è ancora ostaggio di quei meccanismi.

    A un certo punto è stato riportato in Algeria – o ci è tornato autonomamente – e da lì ha ottenuto un visto per la Turchia e poi la rotta balcanica a piedi. Per provare a tornare nel cuore del Vecchio Continente. Sami prende un foglio e disegna le tappe che ha attraversato lungo la ex Jugoslavia. Lui è un inguaribile ottimista. Ci riproverà la sera stessa convinto di farcela.

    Altri sono in preda all’ansia di non riuscire. Come Sylvester, nigeriano dell’Edo State, vestito a puntino nel tentativo di farsi passare da turista sui treni delle Sncf – le ferrovie francesi. È regolare in Italia. Ha il permesso di soggiorno per motivi umanitari, oggi abolito da Salvini e non più rinnovabile.

    «Devo arrivare in Germania perché mi aspetta un lavoro come operaio. Ma devo essere lì entro ottobre. Ho già provato dal Brennero. Come faccio a passare?», chiede insistentemente.

    Ventimiglia: le nuove rotte della migrazione

    Il flusso a Ventimiglia è cambiato. Rispetto ai tunisini del 2011, ai sudanesi del 2015, ma anche rispetto all’estate del 2018. Nessuno, o quasi, arriva dagli sbarchi salvo sporadici casi, mostrando plasticamente una volta di più come la cosiddetta crisi migratoria in Europa può cambiare attori ma non la trama. Oggi sono tre i canali principali: rotta balcanica; fuoriusciti dai centri di accoglienza in Italia in seguito alle leggi del governo Conte e ai tagli da 35 a 18-21 euro nei bandi di gare delle Prefetture; persone con la protezione umanitaria in scadenza che non lavorano e non possono convertire il permesso di soggiorno. Questa la situazione in uscita.

    In entrata dalla Francia si assiste al corto circuito del confine. Parigi non si fida dell’Italia, pensa che non vengano prese le impronte digitali secondo Dublino e inserite nel sistema #Eurodac. Perciò respinge tutti senza badare ai dettagli, almeno via treno. Incluse persone con i documenti che devono andare nelle ambasciate francesi del loro Paese perché sono le uniche autorizzate a rilasciare i passaporti.

    Irregolari di lungo periodo bloccati in Italia

    In mezzo ci finiscono anche irregolari di lungo periodo Oltralpe che vengono “rastrellati” a Lione o Marsiglia e fatti passare per nuovi arrivi. Nel calderone finisce anche Jamal: nigeriano con una splendida voce da cantante, da nove mesi in Francia con un permesso di soggiorno come richiedente asilo e in attesa di essere sentito dalla commissione. Lo hanno fermato gli agenti a Breil, paesotto di 2 mila anime di confine, nella valle della Roja sulle Alpi Marittime. Hanno detto che i documenti non bastavano e lo hanno espulso.

    Da settimane gli attivisti italiani fanno il diavolo a quattro con gli avvocati francesi per farlo rientrare. Ogni giorno spunta un cavillo diverso: dichiarazioni di ospitalità, pec da inviare contemporaneamente alle prefetture competenti delle due nazioni. Spesso non servono i muri, basta la burocrazia.

    Italia-Francia: passaggi più difficili e costosi per i migranti

    Come è scontato che sia, il “proibizionismo” in frontiera non ha bloccato i passaggi. Li ha solo resi più difficili e costosi, con una sorta di selezione darwiniana su base economica. In stazione a Ventimiglia bastano due ore di osservazione da un tavolino nel bar all’angolo della piazza per comprendere alcune superficiali dinamiche di tratta delle donne e passeurs. Che a pagamento portano chiunque in Francia in automobile. 300 euro a viaggio.

    Ci sono strutture organizzate e altri che sono “scafisti di terra” improvvisati, magari per arrotondare. Come è sempre stato in questa enclave calabrese nel nord Italia, cuore dei traffici illeciti già negli anni Settanta con gli “spalloni” di sigarette.

    Sono i numeri in città a dire che i migranti transitato, anche se pagando. Nel campo Roja gestito dalla Croce Rossa su mandato della Prefettura d’Imperia – l’unico rimasto dopo gli sgomberi di tutti gli accampamenti informali – da gennaio ci sono stabilmente tra le 180 e le 220 persone. Turn over quasi quotidiano in città di 20 che escono e 20 che entrano, di cui un minore.

    Le poche ong che hanno progetti aperti sul territorio frontaliero sono Save The Children, WeWorld e Diaconia Valdese (Oxfam ha lasciato due settimane fa), oltre allo sportello Caritas locale per orientamento legale e lavorativo. 78 minori non accompagnati da Pakistan, Bangladesh e Somalia sono stati trasferiti nel Siproimi, il nuovo sistema Sprar. Il 6 e il 12 luglio, all’una del pomeriggio, sono partiti due pullman con a bordo 15 e 10 migranti rispettivamente in direzione dell’hotspot di Taranto. È stato trasferito per errore anche un richiedente asilo a cui la polizia ha pagato il biglietto di ritorno, secondo fonti locali.

    Questi viaggi sono organizzati da Riviera Trasporti, l’azienda del trasporto pubblico locale di Imperia e Sanremo da anni stabilmente con i conti in rosso e che tampona le perdite anche grazie al servizio taxi per il ministero dell’Interno: 5 mila euro a viaggio in direzione dei centri di identificazione voluti dall’agenda Europa nel 2015 per differenziare i richiedenti asilo dai cosiddetti “migranti economici”.
    A Ventimiglia vietato parlare d’immigrazione oggi

    A fine maggio ha vinto le elezioni comunali Gaetano Scullino per la coalizione di centrodestra, subentrando all’uscente Pd Enrico Ioculano, oggi consigliere di opposizione. Nel 2012, quando già Scullino era sindaco, il Comune era stato sciolto per mafia per l’inchiesta “La Svolta” in cui il primo cittadino era accusato di concorso esterno. Lui era stato assolto in via definitiva e a sorpresa riuscì a riconquistare il Comune.

    La nuova giunta non vuole parlare di immigrazione. A Ventimiglia vige un’ideologia. Quella del decoro e dei grandi lavori pubblici sulla costa. C’è da completare il 20% del porto di “Cala del Forte”, quasi pronto per accogliere i natanti.

    «Sono 178 i posti barca per yacht da 6,5 a oltre 70 metri di lunghezza – scrive la stampa del Ponente ligure – Un piccolo gioiello, firmato Monaco Ports, che trasformerà la baia di Ventimiglia in un’oasi di lusso e ricchezza. E se gli ormeggi sono già andati a ruba, in vendita nelle agenzie immobiliari c’è il complesso residenziale di lusso che si affaccerà sull’approdo turistico. Quarantaquattro appartamenti con vista sul mare che sorgeranno vicino a un centro commerciale con boutique, ristoranti, bar e un hotel». Sui migranti si dice pubblicamente soltanto che nessun info point per le persone in transito è necessario perché «sono pochi e non serve».

    Contemporaneamente abbondano le prese di posizione politiche della nuova amministrazione locale per istituire il Daspo urbano, modificando il regolamento di polizia locale per adeguarsi ai due decreti sicurezza voluti dal ministro Salvini. Un Daspo selettivo, solo per alcune aree della città. Facile immaginare quali. Tolleranza zero – si legge – contro accattonaggio, improperi, bivacchi e attività di commercio abusivo. Escluso – forse – quello stesso commercio abusivo in mano ai passeurs che libera la città dai migranti.

    https://www.osservatoriodiritti.it/2019/07/24/ventimiglia-migranti-oggi-bloccati-respinti-francia-situazione/amp
    #coût #prix #frontières #asile #migrations #Vintimille #réfugiés #fermeture_des_frontières #France #Italie #danger #dangerosité #frontière_sud-alpine #push-back #refoulement #Roya #Vallée_de_la_Roya

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    Quelques commentaires :

    Les « flux » en sortie de l’Italie, qui entrent en France :

    Oggi sono tre i canali principali: rotta balcanica; fuoriusciti dai centri di accoglienza in Italia in seguito alle leggi del governo Conte e ai tagli da 35 a 18-21 euro nei bandi di gare delle Prefetture; persone con la protezione umanitaria in scadenza che non lavorano e non possono convertire il permesso di soggiorno. Questa la situazione in uscita.

    #route_des_Balkans et le #Decrét_Salvini #Decreto_Salvini #decreto_sicurezza

    Pour les personnes qui arrivent à la frontière depuis la France (vers l’Italie) :

    In entrata dalla Francia si assiste al corto circuito del confine. Parigi non si fida dell’Italia, pensa che non vengano prese le impronte digitali secondo Dublino e inserite nel sistema Eurodac. Perciò respinge tutti senza badare ai dettagli, almeno via treno. Incluse persone con i documenti che devono andare nelle ambasciate francesi del loro Paese perché sono le uniche autorizzate a rilasciare i passaporti.
    (...)
    In mezzo ci finiscono anche irregolari di lungo periodo Oltralpe che vengono “rastrellati” a Lione o Marsiglia e fatti passare per nuovi arrivi.

    #empreintes_digitales #Eurodac #renvois #expulsions #push-back #refoulement
    Et des personnes qui sont arrêtées via des #rafles à #Marseille ou #Lyon —> et qu’on fait passer dans les #statistiques comme des nouveaux arrivants...
    #chiffres

    Coût du passage en voiture maintenant via des #passeurs : 300 EUR.

    Et le #business des renvois de Vintimille au #hotspot de #Taranto :

    Il 6 e il 12 luglio, all’una del pomeriggio, sono partiti due pullman con a bordo 15 e 10 migranti rispettivamente in direzione dell’hotspot di Taranto. È stato trasferito per errore anche un richiedente asilo a cui la polizia ha pagato il biglietto di ritorno, secondo fonti locali.

    Questi viaggi sono organizzati da #Riviera_Trasporti, l’azienda del trasporto pubblico locale di Imperia e Sanremo da anni stabilmente con i conti in rosso e che tampona le perdite anche grazie al servizio taxi per il ministero dell’Interno: 5 mila euro a viaggio in direzione dei centri di identificazione voluti dall’agenda Europa nel 2015 per differenziare i richiedenti asilo dai cosiddetti “migranti economici”.

    –-> l’entreprise de transport reçoit du ministère de l’intérieur 5000 EUR à voyage...

  • Eritrea in caduta libera sui diritti umani

    L’Eritrea di #Isaias_Afewerki è oggi uno dei peggiori regimi al mondo. Dove la guerra con l’Etiopia è usata per giustificare un servizio militare a tempo indeterminato. E dove avere un passaporto è quasi un miraggio. Gli ultimi attacchi sono stati rivolti agli ospedali cattolici.

    Il rispetto dei diritti umani in Eritrea è solo un ricordo che si perde nei tempi. La lista di violazioni è lunga e gli esempi recenti non mancano. L’ultima mossa del regime di Isaias Afewerki, al potere dal 1991, è stata quella di ordinare la chiusura dei centri sanitari gestiti dalla Chiesa cattolica nel paese, responsabile di una quarantina tra ospedali e scuole in zone rurali che garantiscono sanità e istruzione alle fette più povere della popolazione. Ebbene, qualche giorno fa in questi luoghi si sono presentati militari armati che hanno sfondato porte e cacciato fuori malati, vecchi e bambini. E preteso l’esproprio coatto degli immobili.

    Il 29 aprile, quattro vescovi avevano chiesto di aprire un dialogo con il governo per cercare una soluzione alla crescente povertà e mancanza di futuro per il popolo. Mentre il 13 giugno sono stati arrestati cinque preti ortodossi ultrasettantenni.

    Daniela Kravetz, responsabile dei rapporti tra Nazioni Unite e Africa, ha riportato che il 17 maggio «trenta cristiani sono stati arrestati durante un incontro di preghiera, mentre qualche giorno prima erano finiti in cella 141 fedeli, tra cui donne e bambini». L’Onu chiede ora che «con urgenza il Governo eritreo torni a permettere la libera scelta di espressione religiosa».

    Guerra Eritrea-Etiopia usata come scusa per il servizio militare a tempo indeterminato

    L’ex colonia italiana ha ottenuto di fatto l’indipendenza dall’Etiopia nel 1991, dopo un conflitto durato trent’anni. E nonostante la recente distensione tra Asmara e Addis Abeba, la guerra tra le due nazioni continua a singhiozzo lungo i confini.

    Sono ancora i rapporti con la vicina Etiopia, del resto, ad essere usati dal dittatore Afewerki per giustificare l’imposizione del servizio militare a tempo indeterminato. I ragazzi, infatti, sono arruolati verso i 17 anni e il servizio militare può durare anche trent’anni, con paghe miserabili e strazianti separazioni. Le famiglie si vedono portare via i figli maschi senza conoscerne la destinazione e i ragazzi spesso non tornano più.

    Le città sono prevalentemente abitate da donne, anziani e bambini. E per chi si oppone le alternative sono la prigione, se non la tortura. Uno dei sistemi più usati dai carcerieri è la cosiddetta Pratica del Gesù, che consiste nell’appendere chi si rifiuta di collaborare, con corde legate ai polsi, a due tronchi d’albero, in modo che il corpo assuma la forma di una croce. A volte restano appesi per giorni, con le guardie che di tanto in tanto inumidiscono le labbra con l’acqua.

    Eritrea: storia di un popolo a cui è vietato viaggiare

    l passaporto, che solo i più cari amici del regime ottengono una volta raggiunta la maggiore età, per la popolazione normale è un miraggio. Il prezioso documento viene consegnato alle donne quando compiono 40 anni e agli uomini all’alba dei 50. A quell’età si spera che ormai siano passate forza e voglia di lasciare il paese.

    Oggi l’Eritrea è un inferno dove tutti spiano tuttti. Un paese sospettoso e nemico d chiunque, diventato sotto la guida di Afewerki uno dei regimi più totalitari al mondo, dove anche parlare al telefono è rischioso.

    E pensare che negli anni ’90, quando l’Eritrea si separò dall’Etiopia, era vista come la speranza dell’Africa. Un paese attivo, pieno di potenziale, che si era liberato da solo senza chiedere aiuto a nessuno. Il mondo si aspettava che diventasse la Taiwan del Corno d’Africa, grazie anche a una cultura economica che gli altri stati se la sognavano.

    L’Ue investe in Etiopia ed Eritrea

    L’Unione europea sta per erogare 312 milioni di euro di aiuti al Corno d’Africa per la costruzione di infrastrutture che consentiranno di far transitare merci dall’Etiopia al mare, attraversando quindi l’Eritrea. Una decisione su cui ha preso posizione Reportes sans frontières, che chiede la sospensione di questo finanziamento ad un paese che, si legge in una nota, «continua a violare i diritti umani, la libertà di espressione e e di informazione e detiene arbitrariamente, spesso senza sottoporli ad alcun processo, decine di prigionieri politici, tra cui molti giornalisti».

    Cléa Kahn-Sriber, responsabile di Reporter sans frontières in Africa, ha dichiarato essere «sbalorditivo che l’Unione europea sostenga il regime di Afeweki con tutti questi aiuti senza chiedere nulla in cambio in materia di diritti umani e libertà d’espressione. Il regime ha più giornalisti in carcere di qualsiasi altro paese africano. Le condizioni dei diritti umani sono assolutamente vergognose».

    La Fondazione di difesa dei Diritti umani per l’Eritrea con sede in Olanda e composta da eritrei esiliati sta intraprendendo azioni legali contro l’Unione europea. Secondo la ricercatrice universitaria eritrea Makeda Saba, «l’Ue collaborerà e finanzierà la #Red_Sea_Trading_Corporation, interamente gestita e posseduta dal governo, società che il gruppo di monitoraggio dell’Onu su Somalia ed Eritrea definisce coinvolta in attività illegali e grigie nel Corno d’africa, compreso il traffico d’armi, attraverso una rete labirintica multinazionale di società, privati e conti bancari». Un bel pasticcio, insomma.

    Pericoloso lasciare l’Eritrea: il ruolo delle ambasciate

    Chi trova asilo in altre nazioni vive spiato e minacciato dai propri connazionali. Lo ha denunciato Amnesty International, secondo cui le nazioni dove i difensori dei diritti umani eritrei corrono i maggiori rischi sono Kenya, Norvegia, Olanda, Regno Unito, Svezia e Svizzera. Nel mirino del potere eritreo ora c’è anche un prete candidato al Nobel per la pace nel 2015, Mussie Zerai.

    «I rappresentanti del governo eritreo nelle ambasciate impiegano tutte le tattiche per impaurire chi critica l’amministrazione del presidente Afewerki, spiano, minacciano di morte. Chi è scappato viene considerato traditore della patria, sovversivo e terrorista».

    In aprile il ministro dell’Informazione, #Yemane_Gebre_Meskel, e gli ambasciatori di Giappone e Kenia hanno scritto su Twitter post minacciosi contro gli organizzatori e i partecipanti ad una conferenza svoltasi a Londra dal titolo “Costruire la democrazia in Eritrea”. Nel tweet, #Meskel ha definito gli organizzatori «collaborazionisti».

    Non va meglio agli esiliati in Kenya. Nel 2013, a seguito del tentativo di registrare un’organizzazione della società civile chiamata #Diaspora_eritrea_per_l’Africa_orientale, l’ambasciata eritrea ha immediatamente revocato il passaporto del presidente e co-fondatore, #Hussein_Osman_Said, organizzandone l’arresto in Sud Sudan. L’accusa? Partecipare al terrorismo, intento a sabotare il governo in carica.

    Amnesty chiede quindi «che venga immediatamente sospeso l’uso delle ambasciate all’estero per intimidire e reprimere le voci critiche».

    Parlando delle ragioni che hanno scatenato l’ultimo atto di forza contro gli ospedali, padre Zerai ha detto che «il regime si è giustificato facendo riferimento a una legge del 1995, secondo cui le strutture sociali strategiche come ospedali e scuole devono essere gestite dallo stato».

    Tuttavia, questa legge non era mai stata applicata e non si conoscono i motivi per cui all’improvviso è cominciata la repressione. Padre Zerai la vede così: «La Chiesa cattolica eritrea è indipendente e molto attiva nella società, offre supporto alle donne, sostegno ai poveri e ai malati di Aids ed è molto ascoltata». A preoccupare il padre, e non solo lui, sono ora «il silenzio dell’Unione europea e della comunità internzionale. Siamo davati a crimini gravissimi e il mondo tace».

    https://www.osservatoriodiritti.it/2019/07/04/eritrea-news-etiopia-guerra
    #droits_humains #Erythrée #COI #Afewerki #service_militaire #guerre #Ethiopie #religion #passeport #torture #totalitarisme #dictature #externalisation #UE #EU #aide_au_développement #coopération_au_développement #répression #Eglise_catholique

  • #Samos (Grecia): violenze e abusi sui minori nell’hotspot dell’isola

    Subiscono abusi fisici, psicologici, emotivi e vivono in container con adulti che non sono i loro genitori, quando dovrebbero andare in case famiglia. Succede ai minori non accompagnati nell’hotspot di Samos, Grecia. Lo denunciano l’ong Still I Rise e il libro di Nicolò Govoni.

    https://www.osservatoriodiritti.it/2019/06/20/samos-grecia-campo-profughi
    #Grèce #hotspot #abus #mineurs #enfants #enfance #île #violence

  • Migranti: un nuovo servizio per i “naufraghi” del deserto del #Sahara

    #Alarme_Phone_Sahara è un nuovo servizio gestito da attivisti africani ed europei per rintracciare i migranti persi nel deserto o respinti alle frontiere del #Niger con Libia e Algeria. Nasce dall’esperienza di Alarm Phone, numero di telefono per migranti a rischio naufragio. Un modo anche per denunciare l’esternalizzazione della gestione delle frontiere.

    Nessuno ha idea di quanti migranti attraversino le rotte del “mare di sabbia”, il Sahara. Non si sa nemmeno quanti muoiano nel viaggio. Si sa solo che il deserto, come il Mediterraneo, si è trasformato in una fossa comune come il mare che si estende a Nord della Libia. Il mare del Sahara è particolarmente tempestoso e frequentato in Niger, il crocevia di tutte le rotte desertiche.

    Nel Mediterraneo a partire dalla fine del 2011 è nata la campagna Boats4People, un coordinamento di attivisti a livello internazionale cha ha veleggiato dall’Italia alla Tunisia, in un viaggio simbolico per denunciare i naufragi quotidiani in quel tratto di Mediterraneo centrale.

    https://www.osservatoriodiritti.it/2019/06/07/migranti-sbarchi-libia-ong-deserto
    #désert #Libye #Algérie #migrations #asile #réfugiés #numéro_de_téléphone #sauvetage #ONG #alarm_phone #alarm_phone_Sahara

    ping @karine4 @isskein

    • Wie private Retter versuchen, Migranten aus der Todeszone zu holen

      Die Routen werden gefährlicher, Hilfe wird kriminalisiert: Experten zufolge sterben in der Wüste mindestens doppelt so viele Flüchtlinge wie im Mittelmeer. Ein Lehrer aus Niger will das nicht hinnehmen.

      Viel wird über die gefährliche Flucht über das Mittelmeer nach Europa gesprochen und gestritten, bei der immer wieder Menschen sterben. Es gibt jedoch eine Migrationsroute, die noch tödlicher ist: Die Sahara ist zum Massengrab für Migranten geworden.

      Niemand weiß, wie viele Menschen genau auf ihrem Weg durch die Wüste sterben. Doch Organisationen wie die Internationale Organisation für Migration (IOM) gehen davon aus, dass es mindestens doppelt so viele sind wie im Mittelmeer. Über 30.000 Menschen seien zwischen 2014 und 2018 in der Wüste verschwunden, schätzt die IOM. Vermutlich sind die Zahlen noch höher, denn die meisten Leichen werden nie gefunden.

      Die Sahara ist die größte Trockenwüste der Welt, etwa so groß wie die USA. Vom westafrikanischen Niger, dem Knotenpunkt für Migranten aus Westafrika, führen die Routen durch die Wüste über Algerien oder Libyen bis an die Mittelmeerküste. Die Gefahr, sich im endlosen Sand zu verirren oder in der Hitze zu verdursten, ist groß. Verschlimmert hat sich die Situation vor allem seit 2015 durch ein Gesetz, das Niger auf Druck der EU verabschiedete: das Verbot von Menschenschmuggel. Zuvor war es in dem Transitland ein normales Geschäft, Migranten von der Stadt Agadez - dem Tor zur Sahara - in Richtung Norden zu bringen.

      Doch die EU zahlte Millionen dafür, dass Niger die Migration in Richtung Europa eindämmte, indem es den Transport von Migranten für illegal erklärte. Rund 1 Milliarde Euro an Entwicklungshilfe wurden der Regierung in Niamey bis 2020 zugesagt - dafür sollte sie ihre Grenzen dicht machen. Wer heute dabei erwischt wird, Migranten gegen Geld zu befördern, muss mit Gefängnisstrafen von bis zu 30 Jahren rechnen.

      Dadurch sind zwar die offiziellen Zahlen derjenigen, die über Niger nach Nordafrika reisen, drastisch gesunken, laut IOM um etwa 79 Prozent. Aber: Verschwunden sind die Migranten nicht. Sie nehmen nur gefährlichere Wege, abseits der Grenzposten, weit entfernt von Dörfern und Wasserstellen. „Die Migranten kommen immer noch, aber sie nutzen alternative Wege, wo sie einem viel höheren Risiko ausgesetzt sind“, sagte eine IOM-Sprecherin dem SPIEGEL.

      Um etwas gegen das Sterben in der Wüste zu tun, haben Menschenrechtler in der Region Anfang 2017 begonnen, ein Netzwerk von Helfern entlang der Migrationsroute aufzubauen. Ihre Idee: ein Notfalltelefon für Menschen, die sich in der Sahara verirren. „Alarmphone Sahara“ heißt die Initiative, die im Mai 2018 ein kleines Büro in der Wüstenstadt Agadez eröffnet hat. Azizou Chehou leitet seit Februar das Büro der Initiative, die Teil eines Netzwerks aus Menschenrechtsgruppen in Afrika und Europa ist. Im Interview erzählt er von seiner Arbeit.

      SPIEGEL ONLINE: Herr Chehou, Sie tragen ein Handy bei sich, das Migranten anrufen können, wenn sie in der Wüste in Not geraten. Wann hat es das letzte Mal geklingelt?

      Chehou: Das war etwa vor einer Woche. Allerdings waren es nicht Migranten, die angerufen haben, sondern unser Kontaktmann in Assamaka. Er hatte eine Gruppe von Migranten in der Wüste gefunden. Einige von ihnen hatten alles verloren: ihr Geld, ihr Gepäck. Sie wollten, dass wir ihnen helfen.

      SPIEGEL ONLINE: Und was haben Sie gemacht?

      Chehou: Viel konnten wir leider nicht tun, dazu fehlen uns generell die Ressourcen. Wir haben ein Netzwerk aus etwa 20 Leuten in mehreren Dörfern und Städten, die an den Migrationsrouten Richtung Algerien und Libyen vorbeiführen. Die verteilen dort Notfallnummern an Migranten, die auf ihrem Weg dort Halt machen. Damit sie sich melden können, wenn sie in der Wüste in Not geraten. Das geht natürlich nur, wenn sie überhaupt Empfang haben. Unser Mann in Assamaka hat auch ein Motorrad, damit fährt er durch die Gegend und sucht nach Menschen, die irgendwo gestrandet sind. Wenn er eine Gruppe in der Wüste findet, sagt er Soldaten oder NGOs in der Nähe Bescheid. Wir haben keine eigenen Fahrzeuge für den Transport. Deshalb sind wir darauf angewiesen, dass andere mit ihren Trucks kommen und die Migranten in den nächsten Ort bringen.

      SPIEGEL ONLINE: Was erzählen Ihnen die Menschen, wieso sie in der Wüste stranden?

      Chehou: Viele werden von der algerischen Regierung abgeschoben. Soldaten bringen sie zum sogenannten Point Zero und setzen sie dort aus, manchmal mitten in der Nacht. Sie zeigen in eine Richtung und sagen: „Da ist der nächste Ort“. Die Migranten laufen los und verlieren auf dem Weg die Orientierung. Sie haben keine Kraft mehr oder verdursten. Oft sind auch Frauen und Kinder dabei.

      SPIEGEL ONLINE: Auch Fahrer setzen Migranten in der Wüste aus. Warum?

      Chehou: Seitdem der Transport von Migranten kriminalisiert wurde, nehmen die Fahrer immer gefährlichere Routen. Wenn ihr Wagen auf der Strecke liegen bleibt, hauen viele ab und überlassen die Migranten sich selbst. Weil sie Angst haben, dass Soldaten sie finden und sie ins Gefängnis müssen. Als Lehrer bin ich vor einer Weile öfter in Dörfer in der Wüste gefahren, um dort Kinder zu unterrichten - auf dem Weg habe ich immer wieder Leichen von Menschen gesehen, die es nicht geschafft haben. Es ist eine Katastrophe.

      SPIEGEL ONLINE: Wer sind Ihre Kontaktleute in den Dörfern?

      Chehou: Das sind ganz unterschiedliche Menschen: Händler zum Beispiel, die für ihre Arbeit viel herumfahren. Wir haben aber auch NGO-Mitarbeiter, jemanden vom Roten Kreuz. Oder lokale Autoritäten in den Ortskomitees. Ich bin Journalist und arbeite beim Radio, daher kenne ich viele Leute in der Region. Die versuche ich zu überzeugen, bei uns mitzumachen. Vor ein paar Monaten haben wir in Agadez einen Workshop mit ihnen organisiert, um sie dafür auszubilden, Migranten zu helfen und ihre Situation zu dokumentieren. Wir haben ihnen Telefone gegeben, damit sie uns informieren und Bilder machen, wenn sie an Rettungsaktionen beteiligt sind. Ich halte das dann in unserem Büro in Agadez und auf unserer Internetseite fest. Allerdings ist die Kommunikation mit den Kontaktleuten nicht einfach: Mal ist das Telefonguthaben leer, oder die Verbindung bricht ab. Unsere Initiative hat kaum Geld, und wir kämpfen mit vielen Problemen.

      SPIEGEL ONLINE: Was passiert mit den Migranten, die gerettet werden?

      Chehou: Wenn sie in der Nähe der algerischen Grenze in den nächsten Ort gebracht werden, müssen sie dort ausharren, bis sie von der IOM zurück nach Agadez gebracht werden. Das kann manchmal Tage oder Wochen dauern. Und diese Menschen sind oft in einer schlimmen Verfassung: Sie sind tagelang ohne Wasser durch die Wüste geirrt, viele sind psychisch verwirrt. Neulich hatten wir eine Frau, die gerettet wurde und einfach wieder in die Wüste laufen wollte. Gerade in so kleinen Ortschaften wie Assamaka gibt es nicht genug Infrastruktur, um die Leute richtig zu versorgen. Unsere Freiwilligen versuchen dann, die Leute zu beruhigen, sie mit Wasser und Essen zu versorgen. Oder sich darum zu kümmern, dass Verletzte ins Krankenhaus gebracht werden. Wenn die Leute in Agadez ankommen, werden die meisten zurück in ihre Heimatländer geschickt.

      SPIEGEL ONLINE: Kommen die Migranten auf ihrem Weg Richtung Sahara auch zu Ihnen in das Büro in Agadez?

      Chehou: Das war unser Plan, denn wir wollen die Menschen besser auf die Gefahren in der Wüste vorbereiten. Wir verteilen Flyer, auf denen zum Beispiel steht, wie viel Wasser man mit auf die Reise nehmen sollte. Oder dass die Menschen ihre Familien informieren sollen, wenn sie losfahren, damit jemand informiert ist, wenn sie plötzlich verschwinden. Allerdings kommen kaum mehr Migranten durch Agadez. Wegen der verschärften Migrationsgesetze haben sie Angst, verhaftet zu werden. Die Schmuggler bringen sie in geheimen Verstecken außerhalb der Stadt unter. Die neuen Gesetze machen auch unsere Arbeit als Alarmphone sehr schwer, weil alles, das irgendwie mit Migration zusammenhängt, verboten ist. Weil ich Migranten helfe, habe ich Angst, irgendwann selbst deswegen ins Gefängnis zu kommen.

      https://www.spiegel.de/politik/ausland/alarmphone-sahara-wie-private-retter-versuchen-migranten-aus-der-todeszone-z

      ping @_kg_

    • Alarme Phone Sahara : un numéro d’appel d’urgence pour les migrants perdus dans le désert

      Sans le réseau d’Alarme Phone Sahara, plus d’une vingtaine de migrants n’auraient sans doute pas survécu à la panne de leur véhicule en plein désert du Sahara, estime l’association Alarme Phone Sahara.

      Le désert du Sahara fait partie des routes migratoires les plus dangereuses au monde. Il coûte la vie à tant de personnes que le Sahara a été baptisé « cimetière à ciel ouvert ». Selon les Nations unies, au moins 30 000 migrants ont disparu en le traversant entre 2014 et 2018. Le chiffre réel est sans doute encore plus élevé.

      Face à cette situation, un groupe d’activistes nigériens a décidé il y a environ deux ans de mettre en place un numéro d’appel d’urgence pour les migrants perdus dans le désert. C’est l’Alarme Phone Sahara (APS). Le numéro de cette hotline démarre par +227, soit l’indicatif du Niger, pays où le projet est basé. Mais l’APS dispose aussi de personnel au Mali, au Burkina Faso, au Togo, au Maroc et même en Allemagne et en Autriche.

      Lorsque quelqu’un appelle ce numéro gratuit, l’APS tente de faciliter l’opération de secours en alertant des personnes et des services de secours qui se trouvent à proximité ou du moins dans un périmètre qui permet d’aller à la rencontre du migrant en détresse.

      L’APS assure également une mission de sensibilisation, en donnant des informations fiables sur la traversée du Sahara à ceux qui souhaitent se lancer. Le site internet dispose d’une rubrique « conseils aux migrants », qui dresse notamment la liste des adresses et numéros de téléphones d’organisations d’aide dans la région. Le réseau cherche aussi à rendre compte de la réalité de la traversée, en documentant des cas d’accidents, d’abus ou de décès dans le désert.
      Les expulsions en Algérie

      Alarme Phone Sahara reçoit notamment des appels concernant des personnes perdues dans le désert après avoir été expulsé par l’Algérie, explique Chehou Azizou, un journaliste et ancien enseignant qui pilote l’APS depuis le début de l’année.

      Depuis l’Algérie, les migrants sont souvent emmenés vers un endroit appelé « point zéro », un lieu à la frontière avec le Niger. Les autorités algériennes les déposent parfois au milieu de la nuit, en leur pointant simplement du doigt la direction de la première localité nigérienne. Celle-ci s’appelle Assamaka et se trouve à environ 15 kilomètres, mais sous la chaleur étouffante et sans eau, la mission s’avère souvent mortelle.

      Par ailleurs, depuis que le trafic et le transport de migrants sont devenus des crimes après le vote d’une loi au Niger en 2015, les conducteurs prennent des routes de plus en plus dangereuses. Et quand leur véhicule tombe en panne, beaucoup prennent simplement la fuite, selon Chehou Azizou. Les migrants sont alors livrés à eux-mêmes et pour beaucoup condamnés à mort par manque d’orientation, d’eau et de nourriture.

      Ressources limitées

      Alarme Phone Sahara dispose d’un réseau d’une vingtaine de personnes réparties dans différentes villes sur la route migratoire vers l’Algérie et la Libye. Celles-ci distribuent le numéro de la hotline aux migrants qui passent.

      L’un des membres de l’APS utilise aussi sa moto pour tourner dans le désert, à la recherche de personnes en détresse. Quand il trouve des migrants, il alerte l’ONG la plus proche ou les autorités pour les secourir, car l’APS ne dispose pas de véhicules propres pour mener ces opérations de sauvetage.

      Cette année, le réseau a organisé un atelier à Agadez pour former ses membres à aider les migrants et à rendre compte de ce qu’ils vivent. Les participants ont reçu des téléphones portables pour appeler l’APS et pour prendre des photos lorsqu’ils sont impliqués dans une opération de secours. Néanmoins, le système de communication reste un problème majeur. Les téléphones n’ont plus de crédit ou le réseau est mauvais, soit autant de problèmes qui pourraient être réglés avec davantage de moyens, mais le budget de l’APS est limité.

      La peur des poursuites

      Au début, l’APS avait préparé des flyers pour les distribuer à Agadez. Ces dépliants comprenaient des informations sur les quantités d’eau à prévoir pour le voyage et le conseil de contacter sa famille avant de partir.

      Mais d’après Chehou Azizou, quasiment plus personne ne passe par Agadez depuis que la loi anti-passeurs est entrée en vigueur au Niger. Les trafiquants cachent les migrants en dehors de la ville par peur de se faire arrêter par les autorités.

      « Tout ce qui est lié d’une manière ou d’une autre à la migration » est désormais prohibé. Au mieux, estime Chehou Azizou, Alarme Phone Sahara va continuer à travailler dans des conditions difficiles. Au pire, il risque lui-même d’aller en prison.

      >>Infos utiles : les numéros d’urgence de l’Alarme Phone Sahara sont +227 80 29 68 26 ou +227 85 75 2676

      https://www.infomigrants.net/fr/post/21002/alarme-phone-sahara-un-numero-d-appel-d-urgence-pour-les-migrants-perd

  • #Pfas, il veleno nel sangue: cosa sono, acqua contaminata e danni alla salute

    Vicenza, Verona, Padova, Treviso: in Veneto i Pfas stanno avvelenando il sangue dei cittadini. Lo hanno confermato Arpav, scienziati e Asl. Ecco cosa sono i Pfas e come hanno fatto a colpire già 350 mila persone


    https://www.osservatoriodiritti.it/2019/04/03/pfas-cosa-sono-acqua-effetti-salute

    #pollution #eau #Italie #santé #polyfluoroalkyles #perfluoroalkyles #substances_chimiques

  • UN envoy fears ’new crisis’ for Rohingya Muslims if moved to remote Bangladesh island

    A United Nations human rights investigator on #Myanmar has voiced deep concern at Bangladesh’s plan to relocate 23,000 Rohingya refugees to a remote island, saying it may not be habitable and could create a “new crisis”.

    https://www.abc.net.au/news/2019-03-12/un-envoy-fears-new-crisis-for-rohingya-muslims/10890932
    #réfugiés #îles #île #Bangladesh #rohingya #réfugiés_rohingya #asile #migrations #Birmanie

    • Polly Pallister-Wilkins signale sur twitter (https://twitter.com/PollyWilkins/status/1105366496291753984) le lien à faire avec le concept de #penal_humanitarianism (#humanitarisme_pénal)

      Introducing the New Themed Series on Penal Humanitarianism

      Humanitarianism is many things to many people. It is an ethos, an array of sentiments and moral principles, an imperative to intervene, and a way of ‘doing good’ by bettering the human condition through targeting suffering. It is also a form of governance. In Border Criminologies’ new themed series, we look closer at the intersections of humanitarian reason with penal governance, and particularly the transfer of penal power beyond the nation state.

      The study of humanitarian sentiments in criminology has mainly focused on how these sensibilities have ‘humanized’ or ‘civilized’ punishment. As such, the notion of humanism in the study of crime, punishment, and justice is associated with human rights implementation in penal practices and with normative bulwark against penal populism; indeed, with a ‘softening’ of penal power.

      This themed series takes a slightly different approach. While non-punitive forces have a major place in the humanitarian sensibility, we explore how humanitarianism is put to work on and for penal power. In doing so, we look at how muscular forms of power – expulsion, punishment, war – are justified and extended through the invocation of humanitarian reason.

      In the following post, Mary Bosworth revisits themes from her 2017 article and addresses current developments on UK programmes delivered overseas to ‘manage migration’. She shows that through an expansion of these programmes, migration management and crime governance has not only elided, but ‘criminal justice investment appears to have become a humanitarian goal in its own right’. Similarly concerned with what happens at the border, Katja Franko and Helene O.I. Gundhus observed the paradox and contradictions between humanitarian ideals in the performative work of governmental discourses, and the lack of concern for migrants’ vulnerability in their article on Frontex operations.

      However, in their blog post they caution against a one-dimensional understanding of humanitarianism as legitimizing policy and the status quo. It may cloud from view agency and resistance in practice, and, they argue, ‘the dialectics of change arising from the moral discomfort of doing border work’. The critical, difficult question lurking beneath their post asks what language is left if not that of the sanctity of the human, and of humanity.

      Moving outside the European territorial border, Eva Magdalena Stambøl however corroborates the observation that penal power takes on a humanitarian rationale when it travels. Sharing with us some fascinating findings from her current PhD work on EU’s crime control in West Africa, and, more specifically, observations from her fieldwork in Niger, she addresses how the rationale behind the EU’s fight against ‘migrant smugglers’ in Niger is framed as a humanitarian obligation. In the process, however, the EU projects penal power beyond Europe and consolidates power in the ‘host’ state, in this case, Niger.

      Moving beyond nation-state borders and into the ‘international’, ‘global’, and ‘cosmopolitan’, my own research demonstrates how the power to punish is particularly driven by humanitarian reason when punishment is delinked from its association with the national altogether. I delve into the field of international criminal justice and show how it is animated by a humanitarian impetus to ‘do something’ about the suffering of distant others, and how, in particular, the human rights movement have been central to the fight against impunity for international crimes. Through the articulation of moral outrage, humanitarian sensibilities have found their expression in a call for criminal punishment to end impunity for violence against distant others. However, building on an ethnographic study of international criminal justice, which is forthcoming in the Clarendon Studies in Criminology published by Oxford University Press, I demonstrate how penal power remains deeply embedded in structural relations of (global) power, and that it functions to expand and consolidate these global inequalities further. Removed from the checks and balances of democratic institutions, I suggest that penal policies may be more reliant on categorical representations of good and evil, civilization and barbarity, humanity and inhumanity, as such representational dichotomies seem particularly apt to delineate the boundaries of cosmopolitan society.

      In the next post I co-wrote with Anette Bringedal Houge, we address the fight against sexual violence in conflict as penal humanitarianism par excellence, building on our study published in Law & Society Review. While attention towards conflict-related sexual violence is critically important, we take issue with the overwhelming dominance of criminal law solutions on academic, policy, and activist agendas, as the fight against conflict-related sexual violence has become the fight against impunity. We observe that the combination of a victim-oriented justification for international justice and graphic reproductions of the violence victims suffer, are central in the advocacy and policy fields responding to this particular type of violence. Indeed, we hold that it epitomizes how humanitarianism facilitates the expansion of penal power but take issue with what it means for how we address this type of violence.

      In the final post of this series, Teresa Degenhardt offers a discomforting view on the dark side of virtue as she reflects on how penal power is reassembled outside the state and within the international, under the aegis of human rights, humanitarianism, and the Responsibility to Protect-doctrine. Through the case of Libya, she claims that the global north, through various international interventions, ‘established its jurisdiction over local events’. Through what she calls a ‘pedagogy of liberal institutions’, Degenhardt argues that ‘the global north shaped governance through sovereign structures at the local level while re-articulating sovereign power at the global level’, in an argument that, albeit on a different scale, parallels that of Stambøl.

      The posts in this themed series raise difficult questions about the nature of penal power, humanitarianism, and the state. Through these diverse examples, each post demonstrates that while the nation state continues to operate as an essential territorial site of punishment, the power to punish has become increasingly complex. This challenges the epistemological privilege of the nation state framework in the study of punishment.

      However, while this thematic series focuses on how penal power travels through humanitarianism, we should, as Franko and Gundhus indicate, be careful of dismissing humanitarian sensibilities and logics as fraudulent rhetoric for a will to power. Indeed, we might – or perhaps should – proceed differently, given that in these times of pushback against international liberalism and human rights, and resurgent religion and nationalism, humanitarian reason is losing traction. Following an unmasking of humanitarianism as a logic of governance by both critical (leftist) scholars and rightwing populism alike, perhaps there is a need to revisit the potency of humanitarianism as normative bulwark against muscular power, and to carve out the boundaries of a humanitarian space of resistance, solidarity and dignity within a criminology of humanitarianism. Such a task can only be done through empirical and meticulous analysis of the uses and abuses of humanitarianism as an ethics of care.

      https://www.law.ox.ac.uk/research-subject-groups/centre-criminology/centreborder-criminologies/blog/2019/03/introducing-new

    • Most Rohingya refugees refuse to go to #Bhasan_Char island – Xchange survey

      Nearly all Rohingya refugees asked about relocating to a silt island in the Bay of Bengal refused to go, a new survey reveals.

      According to a new report published by the migration research and data analysis outfit Xchange Foundation, the vast majority of their respondents (98.4%) ‘categorically refused’ to go to Bhasan Char, while 98.7% of respondents were aware of the plan.

      From the over 1,000 respondents who expressed their opinion, concerns were raised about their safety, security and placement in a location further from Myanmar.

      Decades long limbo

      The findings obtained by the recent Xchange Foundation Report entitled ‘WE DO NOT BELIEVE MYANMAR!,’ chart the protracted living conditions and uncertain future of almost three quarters of a million recent Rohingya refugees living in Cox’s Bazar region of Bangladesh. Accumulated together with previous generations of Rohingya, there are approximately 1.2m living across over a dozen camps in the region.

      This is the sixth survey carried out by the Xchange Foundation on the experiences and conditions facing Rohingya refugees.

      The region has been host to Rohingya refugees for just over the last three decades with the recent crackdown and massacre by the Myanmar military in August 2017 forcing whole families and communities to flee westward to Bangladesh.

      While discussions between the Bangladeshi and Myanmar government over the repatriation of recent Rohingya refugees have been plagued by inertia and lukewarm commitment, the Bangladeshi government has been planning on relocating over 100,000 Rohingya refugees to the silt island of Bhasan Char in the Bay of Bengal. This process was expected to take place in the middle of April, according to a Bangladeshi government minister.

      State Minister for Disaster and Relief Management Md Enamur Rahman, told the Dhaka Tribune ‘Prime Minister Sheikh Hasina has instructed last week to complete the relocation 23,000 Rohingya families to Bhashan Char by Apr 15.’

      Is it safe?

      Numerous humanitarian organisations including Human Rights Watch, have expressed their concerns over the government’s proposals, saying there are few assurances that Rohingya refugees will be safe or their access to free movement, health, education and employment will be secured.

      HRW reported in March that the Bangladeshi authorities had issued assurances that there wouldn’t be forcible relocation but that the move was designed to relieve pressure on the refugee camps and settlements across Cox’s Bazar.

      The move would see the relocation of 23,000 Rohingya families to a specially constructed complex of 1,440 housing blocks, equipped with flood and cyclone shelter and flood walls. The project is estimated to have cost the Bangladeshi government over €250 million.

      To prepare the island, joint efforts of British engineering and environmental hydraulics company HR Wallingford and the Chinese construction company Sinohydro, have been responsible for the construction of a 13km flood embankment which encircles the island.

      When asked by the Xchange survey team one Male Rohingya of 28 years old said, ‘We saw videos of Bhasan Char; it’s not a safe place and also during the raining season it floods.’ An older female of 42 said, ‘I’m afraid to go to Bhasan Char, because I think there is a risk to my life and my children.’

      https://www.youtube.com/watch?v=DM8wlvLddnw

      Threat of flooding

      Bhasan Char or ‘Thengar Char,’ didn’t exist 20 years ago.

      The island is understood to have formed through gradual silt deposits forming a island around 30km from the Bangladeshi mainland. Until now, human activity on the island has been very minimal with it being largely used for cattle and only reachable by a 3.5 hour boat trip.

      But, the island is subject to the tides. It is reported that the island loses around 5,000 square acres of its territory from low to high tide (15,000 – 10,000 acres (54 square kilometres) respectively).

      This is worsened by the threat of the monsoon and cyclone season which according to HRW’s testimony can result in parts of the island eroding. This is recorded as being around one kilometre a year, ABC News reports.

      Golam Mahabub Sarwar of the Bangladeshi Ministry of Land, says that a high tide during a strong cyclone could completely flood the island. This is exemplifed by the 6 metre tidal range which is seen on fellow islands.

      New crisis

      The UN Envoy Yanghee Lee has warned that the Bangladesh government goes through with the relocation, it could risk creating a ‘new crisis’.

      Lee warned that she was uncertain of the island was ‘truly habitable’ for the over 23,000 families expected to live there.

      The Special Rapporteur to Myanmar made the comments to the Human Rights Council in March, saying that if the relocations were made without consent from the people it would affect, it had, ‘potential to create a new crisis.’

      She stressed that before refugees are relocated, the United Nations, ‘must be allowed to conduct a full technical and humanitarian assessment’ as well as allowing the beneficiary communities to visit and decide if it is right for them.

      https://www.newsbook.com.mt/artikli/2019/05/07/most-rohingya-refugees-refuse-to-go-to-bhasan-char-island-xchange-survey/?lang=en

    • Rohingya Refugees to Move to Flood-Prone Bangladesh Island

      Thousands of Rohingya living in Bangladesh refugee camps have agreed to move to an island in the #Bay_of_Bengal, officials said Sunday, despite fears the site is prone to flooding.

      Dhaka has long wanted to move 100,000 refugees to the muddy silt islet, saying it would take pressure off the overcrowded border camps where almost a million Rohingya live.

      Some 740,000 Rohingya fled Myanmar in August 2017 in the face of a military crackdown, joining 200,000 refugees already in makeshift tent settlements at Cox’s Bazar.

      Relocations begin soon

      Bangladesh’s refugee commissioner, Mahbub Alam, said officials overseeing the relocation would be posted to #Bhashan_Char_island in the next few days.

      Approximately 6,000-7,000 refugees have expressed their willingness to be relocated to Bhashan Char, Alam told AFP from Cox’s Bazar, adding that “the number is rising.”

      He did not say when the refugees would be moved, but a senior Navy officer involved in building facilities on the island said it could start by December, with some 500 refugees sent daily.

      Bangladesh had been planning since last year to relocate Rohingya to the desolate flood-prone site, which is an hour by boat from the mainland.

      Rights groups have warned the island, which emerged from the sea only about two decades ago, might not be able to withstand violent storms during the annual monsoon season.

      In the past half-century, powerful cyclones have killed hundreds of thousands of people in the Meghna river estuary where the island is located.

      Rohingya leaders would be taken to Bhashan Char to view the facilities and living conditions, Alam said.

      Safety facilities built on the island include a 9-feet (3 meter) high embankment along its perimeter to keep out tidal surges during cyclones, and a warehouse to store months’ worth of rations, he added.

      Overcrowding in camp

      Rohingya father-of-four Nur Hossain, 50, said he and his family agreed to relocate to #Bhashan_Char after they were shown video footage of the shelters.

      “I have agreed to go. The camp here (at Leda) is very overcrowded. There are food and housing problems,” the 50-year-old told AFP.

      There was no immediate comment from the U.N., although Bangladeshi officials said they expect a delegation would visit the island in the next few weeks.

      https://www.voanews.com/south-central-asia/rohingya-refugees-move-flood-prone-bangladesh-island

    • Bangladesh : des réfugiés rohingyas acceptent de partir sur une île

      Des milliers de Rohingyas vivant dans des camps de réfugiés au Bangladesh ont accepté de partir pour une île isolée du golfe du Bengale, ont annoncé dimanche les autorités, en dépit des risques d’inondations.

      Dacca a depuis longtemps fait part de son intention de transférer 100.000 réfugiés musulmans rohingyas des camps de réfugiés surpeuplés, près de la frontière birmane, vers un îlot de vase boueux et isolé du golfe du Bengale.

      Le gouvernement du Bangladesh y voit une solution pour résoudre le problème des camps de réfugiés surpeuplés où vivent près d’un million de Rohingyas.

      Environ 740.000 Rohingyas ont fui la Birmanie pour le Bangladesh en 2017 pour échapper à une répression militaire massive. Ils ont rejoint les quelque 200.000 réfugiés vivant déjà dans le district bangladais frontalier de Cox’s Bazar (sud-est).

      Le commissaire bangladais aux réfugiés, Mahbub Alam, a indiqué que des fonctionnaires seront détachés, dans les prochains jours, afin de superviser cette installation.

      « Environ 6.000 à 7.000 réfugiés ont déjà exprimé leur volonté d’être réinstallés à Bhashan Char », a déclaré Alam à l’AFP depuis Cox’s Bazar, affirmant que « leur nombre est en augmentation ».

      Il n’a cependant pas donné de chiffres sur le nombre de réfugiés qui seront ainsi déplacés.

      Selon un officier supérieur de la marine qui participe à la construction d’installations sur l’île, cette opération pourrait débuter en décembre et environ 500 réfugiés seraient envoyés quotidiennement sur cette île située à une heure de bateau de la terre ferme la plus proche.

      Des groupes de défense des droits affirment que Bhashan Char est susceptible d’être submergée lors des moussons.

      Au cours des cinquante dernières années, de puissants cyclones ont fait des centaines de milliers de morts dans l’estuaire de la rivière Meghna, où l’île se situe.

      Des responsables rohingyas seront conduits à Bhashan Char afin d’y découvrir les installations et leurs conditions de vie, a affirmé M. Alam.

      Des responsables locaux ont assuré qu’une digue de trois mètres a été construite autour de l’île pour la protéger de la montée des eaux en cas de cyclone.

      Nur Hossain, un réfugié rohingya, père de quatre enfants, a déclaré que sa famille et lui ont accepté de partir pour Bhashan Char après avoir vu des images vidéo des abris.

      « Le camp ici (à Leda) est très surpeuplé. Il y a des problèmes de nourriture et de logement », a déclaré à l’AFP cet homme de 50 ans.

      L’ONU n’a jusqu’à présent pas fait de déclaration à ce sujet. Des responsables bangladais ont cependant déclaré qu’une délégation des Nations unies se rendra sur l’île au cours des prochaines semaines.

      https://www.courrierinternational.com/depeche/bangladesh-des-refugies-rohingyas-acceptent-de-partir-sur-une

    • Rohingya: il Bangladesh vuole trasferirli su un’isola sperduta e pericolosa

      Le violenze dell’esercito del Myanmar avevano costretto centinaia di migliaia di Rohingya a rifugiarsi in Bangladesh nel 2017. E quando ancora un rientro nelle loro terre d’origine sembra lontano, Dacca cerca di mandarne 100 mila su un’isola remota e pericolosa nel Golfo del Bengala

      Non sono bastate le violenze dell’esercito del Myanmar e degli estremisti buddisti, che nell’agosto 2017 hanno costretto centinaia di migliaia di Rohingya a rifugiarsi in Bangladesh. E non bastano neanche le condizioni precarie in cui vivono nei fatiscenti campi profughi gestiti da Dacca. Il dramma di questa popolazione, che secondo le Nazioni Unite è una delle minoranze più perseguitate al mondo, non sembra avere fine.

      La scorsa settimana il governo del Bangladesh ha annunciato che alla fine di novembre inizierà il trasferimento di 100 mila rifugiati Rohingya a Bhasan Char, una remota isola nel Golfo del Bengala. Per le autorità questa mossa sarebbe necessaria a causa del «disperato sovraffollamento» nei campi di Cox’s Bazar, una città al confine con la ex-Birmania, che ora ospita oltre 700 mila sfollati. Ma la scelta della nuova collocazione ha sollevato una serie di preoccupazioni per la salute e la sicurezza dei Rohingya che verranno trasferiti.

      Rohinghya in Bangladesh: l’isola in mezzo al nulla

      Yanghee Lee, relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Myanmar, che ha visitato l’isola nel gennaio 2019, ha espresso seri dubbi e preoccupazioni sul fatto che «l’isola sia davvero abitabile». Bhasan Char, infatti, è soggetta frequentemente ad inondazioni e cicloni. Lee ha anche avvertito che «un trasferimento mal pianificato e senza il consenso degli stessi rifugiati, creerebbe una nuova crisi per i Rohingya».

      Il governo di Dacca ha spiegato che tutte le ricollocazioni a Bhasan Char saranno rigorosamente volontarie e che oltre 7 mila rifugiati hanno già accettato di trasferirsi. Non sappiamo, però, se questi Rohingya siano effettivamente consapevoli dell’isolamento e della pericolosità del contesto in cui andranno a vivere. L’isola, infatti, è a ore di navigazione dalla terraferma e le condizioni del mare non sono delle migliori. Durante il periodo dei monsoni i pochi residenti sono bloccati in mezzo alle acque per lunghi periodi.

      Rohingya a rischio sussistenza

      Sebbene le autorità abbiano migliorato le infrastrutture a Bhasan Char, per cercare di contrastare i rischi di inondazioni e costruito più di 1.400 edifici per ospitare gli sfollati, l’isola non ha un adeguato sistema di agricoltura e le attività commerciali sono quasi inesistenti. Inoltre vanno aggiunte le difficoltà per quanto riguarda l’istruzione e la sanità. Problematiche già presenti nei campi di Cox’s Bazar, che nei mesi scorsi avevano anche lanciato l’allarme del radicalismo islamico.

      Nell’ultimo periodo, infatti, nelle strutture dove hanno trovato rifugio i Rohingya scappati dal Myanmar sono proliferate centinaia di scuole coraniche gestite da Hefazat-e-Islam, un gruppo estremista locale fondato nel 2010, che in passato ha organizzato numerose proteste di piazza. Questa organizzazione, finanziata da alcuni Paesi del Golfo, ha di fatto riempito il vuoto educativo imposto da Dacca, che ha vietato alla minoranza musulmana di frequentare gli istituti locali.

      Chi sono i Rohingya e perché sono perseguitati

      I Rohingya sono un popolo invisibile. Di fede musulmana, dall’ottavo secolo vivono nel Nord-Ovest del Myanmar, ma non vengono considerati ufficialmente un’etnia dal governo. Proprio per questo non hanno alcun diritto e la maggior parte di loro non ha cittadinanza nel paese guidato dal premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi. Senza il diritto di avere cure mediche e istruzione, non possono possedere nulla e non possono avere più di due figli.

      Si è tornato a parlare della loro drammatica situazione nell’agosto di due anni fa, a causa delle persecuzioni dei militari birmani, che li hanno costretti ad un esodo nel vicino Bangladesh. Le poche testimonianze di prima mano arrivate in quei giorni del 2017 parlavano di brutalità inaudite e quotidiane: centinaia di morti, stupri, mine, sparizioni, villaggi dati alle fiamme e torture.

      Rohingya: il difficile ritorno in Myanmar

      Negli ultimi due anni, il governo del Myanmar ha negato la sua colpevolezza per le atrocità commesse e ha vietato alle organizzazioni e agli osservatori internazionali, incluso il relatore speciale delle Nazioni Unite Lee, di accedere nello stato Rakhine, dove la maggior parte dei Rohingya viveva prima dello spargimento di sangue del 2017.

      Proprio per queste ragioni, un ritorno in sicurezza in patria per la popolazione musulmana sembra, per ora, molto difficile. Lo stesso Lee, a settembre, ha dichiarato che il Paese della Suu Kyi «non ha fatto nulla per smantellare il sistema di violenza e persecuzione contro i Rohingya».

      https://www.osservatoriodiritti.it/2019/10/31/rohingya-myanmar-bangladesh-perseguitati

    • Rohingya relocation to #Bhashan_Char to begin next week

      The first batch of Rohingyas would be shifted to Bhashan Char next week from overcrowded camps in Cox’s Bazar as part of the Bangladesh government’s plan to relocate 100,000 Rohingyas temporarily to the island until permanent repatriation to their homeland in Myanmar.

      “The exact date for shifting the first batch of Rohingyas to Bhashan Char has not been fixed yet but preparations have been taken to send the first group next week. First, a small group of Rohingyas will be relocated to the island and the process will continue,” said #Commissioner_of_Rohingya_Refugee_Repatriation_Commission (#RRRC) and Additional Secretary Shah Rezwan Hayat.

      These displaced Rohingya people are believed to have become a security threat to regional peace and the host communities as many of them have got involved in criminal activities, and drug and arms trading, reports UNB.

      Seeking support from big countries to find a durable solution to the Rohingya crisis, Foreign Minister AK Abdul Momen on October 7 last said, “We’ve long been saying that uncertainty might be created in the region if the Rohingya crisis is not resolved."

      The government has information that trafficking of girls and children was taking place and traffickers share images of girls and children through smartphones using high-speed internet as part of trafficking, he said.

      Nur Mohammad Shikdar, general secretary of Ukhiya Rohingya Repatriation Movement Committee, said: “The relocation process could have been started long ago had a vested quarter of them not gone against the move at the provocation of some international organisations.”

      He stressed the need for implementation of the government plan to relocate 100,000 Rohingyas to Bhashan Char.

      Visiting the camps and talking to some Rohingyas, the UNB correspondent found a greater number of Rohingya people willing to be shifted to Bhashan Char due to uncertainty over their repatriation to their homeland.

      A resident and also leader of a shade in Kutupalong Rohingya Camp said, wishing anonymity, “They’re going through unimaginable suffering as some Rohingya criminals torture them. They want to return to their own country and are also ready to be shifted to Bhashan Char and stay there until the repatriation begins.”

      As part of the government move to relocate Rohingyas to Bhashan Char, a delegation of Rohingya leaders along with the representatives of 22 local and international NGOs have visited Bhashan Char recently.

      Saiful Islam Kalim, executive director of local a NGO, said, “The propaganda against Bhashan Char is totally false and fabricated. I myself visited Bhashan Char. Had I not visited the island I might have been confused with the propaganda. The government has created a wonderful environment there for Rohingyas where many NGOs have expressed their keenness to work with Rohingyas.”

      There is a lack of a conducive environment in Myanmar and two repatriation attempts have failed as Rohingyas are not feeling comfortable with the environment in Rakhine.

      Bangladesh urged the global community to convince Myanmar to bring changes in Rakhine and implement the repatriation arrangements.

      Bangladesh is now hosting over 1.1 million Rohingyas and most of them have entered the country since August 25, 2017.

      Bangladesh and Myanmar signed a repatriation deal on November 23, 2017.

      On January 16, 2018, Bangladesh and Myanmar inked a document on “Physical Arrangement”, which was supposed to facilitate the return of Rohingyas to their homeland. But no Rohingya has been repatriated so far.

      https://www.thefinancialexpress.com.bd/national/rohingya-relocation-to-bhashan-char-to-begin-next-week-16067

    • Rohingya relocation to #Bhashan_Char to begin next week

      The first batch of Rohingyas would be shifted to Bhashan Char next week from overcrowded camps in Cox’s Bazar as part of the Bangladesh government’s plan to relocate 100,000 Rohingyas temporarily to the island until permanent repatriation to their homeland in Myanmar.

      “The exact date for shifting the first batch of Rohingyas to Bhashan Char has not been fixed yet but preparations have been taken to send the first group next week. First, a small group of Rohingyas will be relocated to the island and the process will continue,” said #Commissioner_of_Rohingya_Refugee_Repatriation_Commission (#RRRC) and Additional Secretary Shah Rezwan Hayat.

      These displaced Rohingya people are believed to have become a security threat to regional peace and the host communities as many of them have got involved in criminal activities, and drug and arms trading, reports UNB.

      Seeking support from big countries to find a durable solution to the Rohingya crisis, Foreign Minister AK Abdul Momen on October 7 last said, “We’ve long been saying that uncertainty might be created in the region if the Rohingya crisis is not resolved."

      The government has information that trafficking of girls and children was taking place and traffickers share images of girls and children through smartphones using high-speed internet as part of trafficking, he said.

      Nur Mohammad Shikdar, general secretary of Ukhiya Rohingya Repatriation Movement Committee, said: “The relocation process could have been started long ago had a vested quarter of them not gone against the move at the provocation of some international organisations.”

      He stressed the need for implementation of the government plan to relocate 100,000 Rohingyas to Bhashan Char.

      Visiting the camps and talking to some Rohingyas, the UNB correspondent found a greater number of Rohingya people willing to be shifted to Bhashan Char due to uncertainty over their repatriation to their homeland.

      A resident and also leader of a shade in Kutupalong Rohingya Camp said, wishing anonymity, “They’re going through unimaginable suffering as some Rohingya criminals torture them. They want to return to their own country and are also ready to be shifted to Bhashan Char and stay there until the repatriation begins.”

      As part of the government move to relocate Rohingyas to Bhashan Char, a delegation of Rohingya leaders along with the representatives of 22 local and international NGOs have visited Bhashan Char recently.

      Saiful Islam Kalim, executive director of local a NGO, said, “The propaganda against Bhashan Char is totally false and fabricated. I myself visited Bhashan Char. Had I not visited the island I might have been confused with the propaganda. The government has created a wonderful environment there for Rohingyas where many NGOs have expressed their keenness to work with Rohingyas.”

      There is a lack of a conducive environment in Myanmar and two repatriation attempts have failed as Rohingyas are not feeling comfortable with the environment in Rakhine.

      Bangladesh urged the global community to convince Myanmar to bring changes in Rakhine and implement the repatriation arrangements.

      Bangladesh is now hosting over 1.1 million Rohingyas and most of them have entered the country since August 25, 2017.

      Bangladesh and Myanmar signed a repatriation deal on November 23, 2017.

      On January 16, 2018, Bangladesh and Myanmar inked a document on “Physical Arrangement”, which was supposed to facilitate the return of Rohingyas to their homeland. But no Rohingya has been repatriated so far.

      https://www.thefinancialexpress.com.bd/national/rohingya-relocation-to-bhashan-char-to-begin-next-week-16067

  • C’était 2009... Stefano Cucchi mourrait en #détention_préventive en #Italie...

    #Stefano_Cucchi: How one death in custody has become the symbol of police brutality in Italy

    The death in custody of 31-year-old Stefano Cucchi has brought the abuse of police power under scrutiny in Italy. After losing her brother and enduring the subsequent trial, Ilaria Cucchi is now receiving harassment and online threats from police officers. Sociologists say Stefano’s case is not isolated and ask what the country will do to clean up its policing.


    https://lacuna.org.uk/justice/stefano-cucchi-how-one-death-in-custody-has-become-the-symbol-of-police-b
    #violences_policières

    #Film: #On_My_Skin

    Stefano Cucchi is a young building surveyor who, after being found in possession of some packs of hashish and 2 grams of cocaine, is brought to Regina Coeli prison in Rome. During precautionary custody, Cucchi, after losing a large amount of weight and being apparently beaten up, dies suddenly in unclear circumstances. This brings his family, led by his sister Ilaria, to start a battle for the truth and to try to find out the responsibles of Stefano’s death.


    https://en.wikipedia.org/wiki/On_My_Skin_(2018_film)
    https://www.youtube.com/watch?v=tI9wa-Y9O8s

    #sulla_mia_pelle

    ping @davduf @albertocampiphoto @wizo

    • Sentenza Cucchi, l’associazione Stefano Cucchi Onlus «Mai più casi del genere»

      «In questi anni la famiglia Cucchi ha sempre creduto nella giustizia. Proprio per questo ha lottato con dignità e compostezza e, malgrado ci siano voluti dieci anni, è riuscita ad arrivare alla verità». L’associazione Stefano Cucchi Onlus, nata nel 2017 per volere di Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, morto a 31 anni mentre era nelle mani dello Stato e che oggi vede al lavoro attivisti e attiviste «dalla parte degli ultimi» commenta così la sentenza emessa dalla prima Corte d’Assise di Roma al termine del cosiddetto “processo bis” sulla morte di Stefano.

      «Con Ilaria e Fabio e tutta l’associazione Stefano Cucchi saremo sempre in prima linea affinché questi casi non accadano mai più», dicono dall’associazione Stefano Cucchi Onlus.

      «Forse ora Stefano potrà riposare in pace e forse anche i miei genitori avranno un po’ di sollievo», dice Ilaria subito dopo la lettura della sentenza che vede due dei carabinieri imputati condannati a 12 anni per omicidio preterintenzionale, come autori del «violentissimo pestaggio» che ha portato alla morte di Stefano, e altri due carabinieri a pene minori per falso.

      «Era una verità talmente evidente, negata per troppo tempo», dice il legale della famiglia, Fabio Anselmo, vicepresidente dell’associazione. «Dieci anni di vita che abbiamo perso tutti. Vedremo la sentenza, ma Stefano è morto a causa, per colpa e responsabilità di chi l’ha picchiato».

      «Grazie al lavoro di tutti coloro che ci hanno creduto. Ringrazio anche tutti gli uomini e donne in divisa che insieme a noi hanno combattuto affinché venisse fatta giustizia», aggiunge Ilaria Cucchi.

      «Non abbiamo mai voluto vendetta. Non abbiamo mai voluto qualcuno da incolpare», dice il papà di Stefano, Giovanni. «Non volevamo un colpevole qualsiasi. Volevamo i veri colpevoli».

      «Un pensiero a tutti coloro che ci sono stati accanto e che hanno aiutato a raggiungere finalmente questo momento di verità e giustizi», dice la mamma di Stefano, Rita. «Abbiamo visto una giustizia che per la prima volta si può definire tale. Oggi Stefano può iniziare a riposare in pace».

      https://www.stefanocucchi.it/sentenza-cucchi-lassociazione-stefano-cucchi-onlus-mai-piu-casi-del-ge

    • Stefano Cucchi pestato a morte dai carabinieri: la sentenza del processo bis

      Dopo dieci anni di attesa e battaglia da parte della famiglia di Stefano Cucchi, la Corte d’Assise di Roma identifica i colpevoli per la morte del 31enne romano: in primo grado condanne a 12 anni per omicidio preterintenzionale ai carabinieri #Alessio_Di_Bernardo e #Raffaele_D'Alessandro.

      Dieci gli anni di attesa, dodici quelli di condanna. A distanza di due lustri da quel 27 ottobre del 2009, quando si apprese della morte del 31enne romano Stefano Cucchi, una sentenza della Corte d’Assise di Roma identifica dei colpevoli: i carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro sono stati condannati con l’accusa di omicidio preterintenzionale. Si tratta di una sentenza di primo grado, nel processo bis sul caso Cucchi, su cui i legali dei condannati hanno già manifestato l’intenzione di ricorrere in appello. Un processo, questo, che si è aperto dopo le dichiarazioni del carabiniere Francesco Tedesco, che raccontò del pestaggio subito da Stefano in caserma.

      Dieci anni di attesa e di lotta da parte della famiglia Cucchi.

      «Stefano è stato ucciso, lo sapevamo. Forse adesso potrà riposare in pace e i miei genitori vivere più sereni», ha detto Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano.

      Stefano Cucchi: sentenza con condanne al processo bis

      Parla di dieci ani di dolore la sorella di Stefano, l’avvocato Ilaria Cucchi, che dalla morte del fratello, insieme ai genitori, ha iniziato una battaglia senza sosta, per ottenere giustizia e fare luce sulle reali motivazioni di quella tragica fine. Una lotta che si è conclusa, almeno per ora, con una sentenza che vede condannati a 12 anni i carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, inoltre interdetti in perpetuo dai pubblici uffici.

      Giunge l’assoluzione per l’accusa di omicidio, invece, per Francesco Tedesco, l’imputato che fece luce sulle percosse subite da Stefano in caserma la notte in cui fu arrestato perché trovato in possesso di 25 grammi di hashish, qualche grammo di cocaina e farmaci anti-epilettici scambiati per pasticche di ecstasy.

      Per Tedesco, diventato teste d’accusa quando nel 2018 raccontò quello che aveva visto nella caserma Casilina, dove avvenne il pestaggio di Stefano, rimane la condanna a 2 anni e sei mesi per falso, così come per Roberto Mandolini, comandante interinale della stazione Appia, condannato a 3 anni e otto mesi e interdetto per cinque anni dai pubblici uffici. Assolti, invece, Vincenzo Nicolardi, Tedesco e Mandolini dall’accusa di calunnia.
      Processo Cucchi: la sentenza per i medici

      Stefano Cucchi fu arrestato il 22 ottobre del 2009, ma morì una settimana dopo nel reparto detenuti dell’ospedale Sandro Pertini di Roma. I giudici della Corte d’Assiste d’Appello di Roma hanno deciso l’assoluzione per il medico Stefania Corbi, «per non aver commesso il fatto». Mentre le accuse sono prescritte per il primario del reparto di medicina protetta dell’ospedale, Aldo Fierro, e altri tre medici, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo.

      Il processo ai medici del Pertini era iniziato con l’accusa di abbandono d’incapace. Nel 2013 furono poi condannati per il reato di omicidio colposo, successivamente assolti in appello. Ma l’iter processuale ricomincia con un primo intervento della Cassazione che rimandò indietro il processo. I giudici della Corte d’Appello, dunque, confermarono l’assoluzione, impugnata poi dalla Procura generale. La Cassazione rinviò nuovamente disponendo una nuova attività dibattimentale conclusasi giovedì 14 novembre con un’assoluzione e quattro prescrizioni.

      Ed è proprio a questa prescrizione che i difensori dei condannati si appellano nel dichiarare le intenzioni di fare ricorso in appello. «Come si concilia – sono le parole di Giosuè Bruno Naso, legale di Mandolini – questa sentenza sul piano tecnico-giuridico col fatto che oggi stesso la corte d’Assise d’Appello ha dichiarato la prescrizione per i medici?».

      La storia di Stefano Cucchi raccontata da Acad

      «La fine di Stefano Cucchi comincia dal momento in cui i carabinieri lo arrestano al Parco degli acquedotti nel quartiere Casilino di Roma per detenzione di sostanze stupefacenti […] Durante i giorni del ricovero la famiglia del giovane non ha mai potuto vederlo perché l’amministrazione penitenziaria impediva qualsiasi contatto. Stefano morirà alle 6,45 del 22 ottobre 2009 dopo una via crucis giudiziaria e sanitaria durata quasi una settimana».

      È quanto si legge nel dossier “Anomalia Italia”, redatto da Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa, uno strumento a disposizione delle famiglie, e, grazie al numero verde (800.58.86.05), di chiunque ritenga di aver subito un abuso da parte di appartenenti alle forze dell’ordine.

      Le assoluzioni, arrivate nel 2016, nel primo processo, che aveva visto come imputati i medici del Pertini, gli infermieri e le guardie penitenziarie, ignorando di fatto il ruolo dei carabinieri che avevano arrestato Cucchi, sembravano aver messo una pietra tombale sulla battaglia portata avanti dalla famiglia Cucchi.

      Ma successivamente arrivò l’inchiesta bis, un altro processo con le rilevazioni del carabiniere Francesco Tedesco, che ammise il pestaggio subìto da Stefano. «Fu un’azione combinata – si legge nel verbale di un interrogazione del 9 luglio 2108 – Cucchi prima iniziò a perdere l’equilibrio per il calcio di D’Alessandro poi ci fu la violenta spinta di Di Bernardo che gli fece perdere l’equilibrio provocandone una violenta caduta sul bacino. Anche la successiva botta alla testa fu violenta, ricordo di aver sentito il rumore».

      Vlad, il vademecum legale contro gli abusi in divisa

      “Stefano Cucchi: il caso che ha cambiato la storia degli abusi”. È l’ultimo capitolo di Vlad, un vademecum che tenta di ricostruire le normative da cui gli abusi traggono origine, redatto nel 2018 da Acad insieme ad Alterego – Fabbrica dei diritti.

      «Il processo Cucchi-bis ha cambiato la storia dei processi in Italia sul tema degli abusi in divisa», si legge nel vademecum, al capitolo dedicato al caso Cucchi.

      «Appresa la notizia della morte di Stefano, fu lo stesso Tedesco a presentare una formale nota di servizio dove raccontava i fatti accaduti in quella notte. Nota di servizio consegnata al suo superiore Roberto Mandolini. Nota di servizio scomparsa nel nulla».

      https://www.osservatoriodiritti.it/2019/11/18/stefano-cucchi-sentenza-condanne-storia-processo

  • Donne e carcere: popolazione carceraria femminile vittima di discriminazione

    Le donne carcerate sono condannate a una doppia pena: circa 2.400 persone detenute in piccoli spazi all’interno di istituti maschili per mancanza di spazi e fondi. E poi ci sono le difficoltà legate ai figli, alla famiglia e alla burocrazia per poter cercare un riscatto attraverso il lavoro


    https://www.osservatoriodiritti.it/2019/02/14/donne-carcerate-popolazione-carceraria-femminile-storie-detenute
    #femmes #prisons #emprisonnement #Italie #double_peine

  • #Migrantes: il viaggio di Bianchini diventa un fumetto

    Migrantes è un libro basato su una vera avventura. Quella vissuta da #Flaviano_Bianchini, il fondatore di Source International che ha condiviso la rotta dei migranti centroamericani attraversando il Messico senza passaporto. I disegni sono di Giovanni Ballati


    https://www.osservatoriodiritti.it/2019/01/16/migrantes-libro-bianchini-fumetto
    #livre #BD #migrations #frontières #Mexique #USA

  • Desaparecidos: ecco “dove vanno le persone scomparse” in Messico

    «#A_dónde_van_los_desaparecidos» è uno dei progetti di ricerca giornalistica più coraggiosi del 2018 in America Latina. Che ha permesso di scoprire nuove fosse comuni e di rivelare la «logica» che sta dietro a tante sparizioni in Messico. Un lavoro fatto di verifica, studio e ricerca sul campo nei luoghi della morte


    https://www.osservatoriodiritti.it/2019/01/07/desaparecidos-messico-chi-sono-significato-sparizioni
    #disparitions #Mexique #corps #identification #fosses_communes #décès #journalisme #presse #médias #mort

  • Armi italiane nel mondo: dove finiscono e chi colpiscono

    Bombe per decine di milioni di euro all’Arabia Saudita, che le usa nella guerra in Yemen. E le armi italiane finiscono pure in Nord Africa, Turchia e in tanti altri paesi del Medio Oriente. Un commercio che vede tra i protagonisti la #Rwm_Italia (della #Rheinmetall) e le autorità italiane che lo permettono. Una situazione così grave che gli attivisti hanno presentato un esposto.

    Più di 45 milioni di euro di bombe all’Arabia Saudita. Una fornitura che rappresenta un record non solo per la piccola azienda di Domusnovas in Sardegna, dove la Rwm Italia produce bombe aeree del tipo MK 82. MK83 e MK84 per conto della multinazionale tedesca Rheinmetall, ma per l’intera produzione italiana di ordigni.

    Un dato che, considerata la rilevanza a livello manifatturiero e soprattutto la criticità del destinatario e utilizzatore finale, dovrebbe apparire in chiara evidenza nella Relazione destinata al Parlamento. Di cui, invece, non si trova menzione nella “Relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento per l’anno 2017” pubblicata – in totale silenzio (nemmeno un tweet per annunciarla) – lo scorso venerdì 4 maggio sul sito del Senato (ma non ancora disponibile su quello della Camera).
    Armi italiane in Medio Oriente e Nord Africa

    Della Relazione sul controllo del commercio di armi ci siamo in parte già occupati, commentando alcune anticipazioni offerte, in modo alquanto insolito, dal direttore dell’Unità nazionale per le autorizzazioni dei materiali di armamento (Uama), Francesco Azzarello, con una sua intervista all’Ansa. Ma i dati che emergono dal documento ufficiale sono molto più preoccupanti di quelli finora anticipati.

    Innanzitutto perché, degli oltre 10,3 miliardi di euro di autorizzazioni all’esportazione di materiali d’armamento rilasciate nel 2017 dal governo Gentiloni, il 57,5% è destinato a Paesi non appartenenti all’Ue o alla Nato e prevalentemente ai paesi del Medio Oriente e Nord Africa. Ma soprattutto perché tra i principali destinatati figurano nazioni belligeranti, monarchie assolute, regimi autoritari irrispettosi dei diritti umani, governi fortemente repressivi.

    L’esatto opposto di quello che ci si aspetterebbe: ai sensi della normativa nazionale che regolamenta questa materia, la legge 185 del 1990, le esportazioni di armamenti «devono essere conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia» e dovrebbero essere regolamentate «secondo i principi della Costituzione repubblicana che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» (art. 1).
    Guerra in Yemen e regimi: le armi italiane nel mondo

    L’elenco di questi Paesi è impressionante. Si comincia con il Qatar (4,2 miliardi di euro), a cui sono state fornite da Fincantieri quattro corvette, una nave per operazioni anfibie e due pattugliatori e in aggiunta il sistema di combattimento e missilistico della Mbda: un intero arsenale bellico che la sottosegretaria di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri, onorevole Maria Elena Boschi, nella sezione di sua competenza liquida sbrigativamente come una mera «fornitura di navi e di batterie costiere».

    Segue l’Arabia Saudita (52 milioni), a cui vanno aggiunti altri 245 milioni di euro per gli Efa “Al Salam” e i Tornado “Al Yamamah” riportati nei programmi intergovernativi.

    E poi Turchia (266 milioni), Pakistan (174 milioni), Algeria (166 milioni), Oman (69 milioni), Iraq (55 milioni), Emirati Arabi Uniti (29 milioni), Giordania (14 milioni), Malaysia (10 milioni), Marocco (7,7 milioni), Egitto (7,3 milioni), Tunisia (5,5 milioni), Kuwait (2,9 milioni), Turkmenistan (2,2 milioni).
    #Pakistan #Algérie #Oman #Irak #EAU #Emirats_Arabes_Unis #Jordanie #Malaysie #Maroc #Birmanie #Egypte #Tunisie #Kuwaït #Turkmenistan

    Come ha rilevato con un comunicato la Rete italiana per il Disarmo, «il risultato è evidente: gli affari “armati” dell’industria a produzione militare italiana si indirizzano sempre di più al di fuori dei contesti di alleanze internazionali dell’Italia verso le aree più problematiche del mondo».

    Armi all’Arabia Saudita: «Violati i diritti umani»

    Soprattutto le forniture di armamenti all’Arabia Saudita sono state oggetto di specifiche denunce da parte delle associazioni pacifiste italiane ed europee. Si tratta di forniture – non va dimenticato – che il Parlamento europeo ha chiesto con tre specifiche risoluzioni di interrompere ponendo un embargo sugli armamenti destinati all’Arabia Saudita «visto il coinvolgimento del paese nelle gravi violazioni del diritto umanitario accertato dalle autorità competenti delle Nazioni Unite» (risoluzione del Parlamento europeo sulle esportazioni di armi del 13 settembre 2017).

    Insieme all’’European Center for Constitutional and Human Rights (Ecchr) e all’organizzazione yemenita per i diritti umani Mwatana, lo scorso 18 aprile la Rete Italiana per il Disarmo ha presentato una denuncia penale alla Procura della Repubblica italiana di Roma.
    Autorità e Rwm Italia: chiesta apertura indagine

    Nella denuncia si chiede che venga avviata un’indagine sulla responsabilità penale dell’Autorità italiana che autorizza le esportazioni di armamenti (Unità per le autorizzazioni dei materiali d’armamento – Uama) e degli amministratori della società produttrice di armi Rwm Italia S.p.A. per le esportazioni di armamenti destinate ai membri della coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita coinvolti nel conflitto in Yemen.

    La denuncia è estremamente dettagliata e riporta il caso di un raid aereo effettuato l’8 ottobre 2016, verosimilmente dalla coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita, che ha colpito il villaggio di Deir Al-Hajari, nello Yemen nord-occidentale, distruggendo la casa della famiglia Houssini e uccidendo sei persone, tra cui una madre incinta e quattro bambini. Sul luogo dell’attacco sono stati rinvenuti dei resti di bombe e un anello di sospensione prodotti da Rwm Italia.
    Rheinmetall nel mirino dell’azionariato critico

    Le associazioni non si sono limitate alla denuncia. Per sensibilizzare l’opinione pubblica la Fondazione Finanza Etica (Ffe) ha partecipato lo scorso 8 maggio a Berlino all’assemblea degli azionisti della Rheinmetall, l’azienda che controlla la Rwm Italia.

    All’assemblea era presente, in rappresentanza delle associazioni pacifiste italiane, Francesco Vignarca, coordinatore di Rete Disarmo. Numerose anche le organizzazioni tedesche che, acquistando azioni della Rheinmetall, hanno potuto partecipare all’assemblea dei soci: tra le altre va ricordata la banca cattolica Bank für Kirche und Caritas (presente in rappresentanza del network SfC-Shareholder for Change), Urgewald, Campact, varie associazioni cattoliche ed Ecchr (European Centre for Constitutional and Human Rights).

    Particolarmente significativo l’intervento di Bonyan Gamal, in cui l’attivista yemenita di Mwatana ha descritto la tragica morte della famiglia Houssini, suoi vicini di casa, centrati da una bomba prodotta dalla Rwm Italia.
    Mons. Zedda su Rwm Italia: «No a produzione di armi»

    Una presa di posizione quanto mai significativa è venuta dal vescovo di Iglesias, monsignor Giovanni Paolo Zedda. Il prelato è titolare della diocesi di cui fa parte Domusnovas, dove ha sede la fabbrica della Rwm Italia. Dopo aver ricordato nel suo messaggio la «gravissima situazione occupativa» nell’iglesiente, monsignor Zedda evidenzia che «la gravissima situazione economico-sociale non può legittimare qualsiasi attività economica e produttiva, senza che ne valutiamo responsabilmente la sostenibilità, la dignità e l’attenzione alla tutela dei diritti di ogni persona».

    «In particolare, non si può omologare la produzione di beni necessari per la vita con quella che sicuramente produce morte. Tale è il caso delle armi che – è purtroppo certo – vengono prodotte nel nostro territorio e usate per una guerra che ha causato e continua a generare migliaia di morti».

    E, in merito ai piani proposti dalla Rwm Italia per ampliare la fabbrica, monsignor Zedda afferma con chiarezza: «Qualunque idea di conservazione o di allargamento di produzione di armi è da rifiutare». Un messaggio che è stato accolto con grande attenzione dai partecipanti al convegno “Pace, lavoro, sviluppo”, che proprio in quei giorni si teneva a Iglesias per riflettere anche sulle prospettive di una possibile riconversione della fabbrica delle bombe.


    https://www.osservatoriodiritti.it/2018/05/15/armi-italiane-nel-mondo-arabia-saudita-yemen
    #armes #Italie #armement #commerce_d'armes #Arabie_Saoudite #Yémen #Turquie
    cc @albertocampiphoto

    • Armi italiane in Yemen: Governo del Cambiamento alla prova

      Il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, vuole vederci chiaro sull’esportazione di armi italiane verso Arabia Saudita e altri Paesi coinvolti nel conflitto in Yemen. E si dichiara pronta a bloccare le vendite di armi «verso Paesi in guerra o verso altri Paesi che potrebbero rivenderle a chi è coinvolto». Nel frattempo, però, servirebbe più trasparenza.

      Il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, ha annunciato ieri l’intenzione, «laddove si configurasse una violazione della legge 185 del 1990», di interrompere le esportazioni di armamenti a Paesi coinvolti in conflitti bellici. L’annuncio, pubblicato sulla sua pagina Facebook, fa seguito a una serie di dichiarazioni rilasciate nei giorni scorsi da diversi parlamentari del Movimento 5 Stelle (M5S) ed in particolare dal suo leader politico, Luigi Di Maio.

      Al termine della riunione della Cabina di Regia per l’Italia internazionale, il ministro dello Sviluppo economico, Di Maio, aveva infatti affermato:

      «Non vogliamo, ad esempio, continuare ad esportare armi verso Paesi in guerra o verso altri Paesi che, a loro volta, potrebbero rivenderle a chi è coinvolto in un conflitto bellico».

      Una dichiarazione salutata positivamente da alcuni parlamentari del M5S che hanno annunciato di voler avviare iniziative parlamentari «per imprimere un cambiamento anche in questo settore».
      Trenta chiede chiarimenti su esportazione armi italiane

      Ma torniamo alla dichiarazione del ministro della Difesa. A fronte delle «immagini di quel che accade in Yemen ormai da diversi anni», Elisabetta Trenta annuncia innanzitutto di aver chiesto «un resoconto dell’export, o del transito di bombe o altri armamenti dall’Italia all’Arabia Saudita». Il ministro, specificando agli organi di stampa che «fino ad ora, erroneamente, si era attribuita la paternità della questione al ministero della Difesa, mentre la competenza è del ministero degli Affari Esteri (Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento-UAMA)», comunica di aver inviato «venerdì scorso una richiesta di chiarimenti, sottolineando – laddove si configurasse una violazione della legge 185 del 1990 – di interrompere subito l’export e far decadere immediatamente i contratti in essere».

      Si tratta, evidenzia, di «contratti firmati e portati avanti dal precedente governo» (leggi Armi italiane ai regimi autoritari). La titolare della Difesa annuncia infine di aver «allertato il collega Moavero, che sono certa si interesserà quanto prima dell’argomento». Al momento, dal ministero degli Esteri non risulta alcuna risposta. Ma la dichiarazione della Trenta evidenzia un’attenzione, finora inedita, da parte di un organo governativo, da non sottovalutare.
      Rete Disarmo e Amnesty su armi italiane vendute all’estero

      La Rete italiana per il Disarmo, che per anni insieme a diverse altre organizzazioni della società civile ha sollevato in varie sedi la questione, ha salutato positivamente la presa di posizione della ministro Trenta sulla questione delle vendite di bombe italiane all’Arabia Saudita, evidenziando che «va nella giusta direzione e verso l’unica e sola soluzione sensata e umana: lo stop di qualsiasi fornitura militare».

      https://www.osservatoriodiritti.it/2018/09/18/armi-italiane-in-yemen-arabia-saudita

    • Triplicherà la produzione la fabbrica di bombe in Sardegna che rifornisce i sauditi

      L’azienda tedesca investe sulle sue filiali all’estero per aggirare il blocco di forniture a Riyadh imposto da Angela Merkel

      #Rwm verso l’ampliamento. Il comitato di riconversione e Italia Nostra Sardegna in piazza per protestare: «Il comune di Iglesias non ci ascolta»

      La Rwm, la fabbrica di bombe situata a Domusnovas in Sardegna, triplicherà la sua produzione e amplierà le sue strutture su un territorio che rientra sotto il comune di Iglesias. È prevista la costruzione di due nuovi reparti produttivi; a giorni verrà pubblicata l’autorizzazione sull’albo pretorio comunale.

      Secondo Italia Nostra Sardegna, la richiesta di autorizzazione all’ampliamento è stata formulata in modo che i due reparti impiegati nel processo di miscelazione, caricamento e finitura di materiali esplodenti non vengano inquadrati come impianti chimici, così da eludere le valutazioni di Impatto ambientale e il coinvolgimento della Regione Sardegna. Con i due nuovi reparti la produzione passerà da 5 mila a 15 mila bombe l’anno.

      La Rwm è tristemente famosa per le forniture all’Arabia Saudita, che utilizza gli ordigni per bombardare i civili in Yemen nella guerra contro i ribelli sciiti Houthi che ormai va avanti dal 2015. La fabbrica è una filiale dell’azienda tedesca di armamenti Rheinmetall, il cui presidente Papperger già a maggio scorso dichiarava durante il consiglio di amministrazione il rinnovo di investimenti per il sito di Domusnovas. Gli investimenti sono arrivati e l’ampliamento ha ricevuto l’autorizzazione.

      In circa 18 mesi i lavori dovrebbero essere conclusi: a dare la tempistica approssimativa era stato proprio l’amministratore delegato di Rwm, Fabio Sgarzi, in un’intervista a La Nuova Sardegna lo scorso luglio. Proprio in quel periodo, infatti, la società aveva presentato la richiesta di ampliamento per la quale lo scorso 3 novembre è scaduta la prima fase autorizzativa.

      «Non possiamo essere complici di una tale sciagura» dichiara Arnaldo Scarpa, portavoce del Comitato di riconversione, che giovedì 8 novembre era in piazza assieme all’associazione Italia Nostra Sardegna per un sit in di protesta. Lo scorso luglio le due associazioni si sono costituite nella Conferenza dei Servizi, in cui vengono presi in considerazione gli interessi pubblici, per richiedere la necessità di una valutazione di impatto ambientale. Ma questa volta non sono stati ascoltati: in assenza di pareri contrari, la procedura di ampliamento va avanti. «Diventa così ancora più importante la protesta” continua Scarpa “Stiamo valutando gli estremi per un ricorso al Tar».

      È dal 2016 che la Rwm prova ad ampliarsi nel territorio di Iglesias: due anni fa, infatti, la società aveva richiesto l’autorizzazione per la costruzione di un nuovo campo per i test. Ma questa richiesta è al momento bloccata in fase istruttoria presso la regione Sardegna, in attesa di una Valutazione di impatto ambientale, istanza fortemente voluta dall’associazione Italia Nostra Sardegna. Fino ad ora, denunciano le associazioni, la politica locale non ha preso una posizione, sostenendo che l’approvazione o il rigetto delle autorizzazioni di ampliamento siano questioni puramente tecniche di competenza del Suap (Sportello unico per le attività produttive). «Ci siamo rivolti direttamente al Sindaco di Iglesias, al responsabile del Suap e al responsabile del procedimento del comune di Iglesias, speriamo che in questi giorni la situazione possa essere ribaltata” conclude Scarpa «la lotta non violenta continua e con maggiore motivazione».

      I progetti di espansione peraltro vanno nella direzione contraria a quella indicata dalla cancelliera tedesca Angela Merkel, che in relazione al caso Kashoggi ha minacciato di sospendere il commercio di armi con l’Arabia Saudita. Di fatto però la Merkel sa benissimo che in mancanza di una regolamentazione definita sulle filiali all’estero, le grosse aziende tedesche di armi possono continuare a commerciare impunite.

      La Rheinmetall infatti sta implementando gli investimenti sulle sue due più grosse succursali all’estero: da un lato procede all’ampliamento della sarda Rwm e dall’altra ha appena ricevuto una grossa offerta dalla compagnia della difesa saudita Sami (Saudi Arabian Military Industries) per la sudafricana Rdm (Rheinmetall Denel Munition). Secondo una fonte anonima riportata dalla Reuters l’offerta ammonterebbe a un miliardo di dollari e riguarderebbe Denel, l’azienda che dal 2008 si è legata in una join venture con la Rheinmetall Waffe Munition tedesca e che attualmente detiene il 49% della filiale sudafricana. In tale modo i sauditi, con una quota di minoranza, entrerebbero di diritto nel consiglio di amministrazione e riuscirebbero ad impossessarsi di una grossa parte della fabbrica.

      Se nelle dichiarazioni politiche viene messa in discussione la possibilità di commerciare con l’Arabia Saudita, nei fatti quando si parla di affari milionari, la solidarietà tra i vari paesi coinvolti risulta più compatta che mai.

      https://www.dirittiglobali.it/2018/11/triplichera-la-produzione-la-fabbrica-di-bombe-in-sardegna-che-riforn
      #Allemagne

    • Armi italiane vendute all’estero per rilanciare il “Sistema Paese”

      Il Governo del Cambiamento non ha intenzione di rinunciare alla vendita di armi italiane in Medio Oriente. Tanto che per il sottosegretario alla Difesa Tofalo si tratta di un business «da sfruttare al massimo». Con buona pace dei diritti umani violati dall’Arabia Saudia nella guerra in Yemen. Società civile e Comuni, invece, chiedono un’inversione di rotta

      Ha preso il via domenica scorsa Idex 2019 (International Defence Exhibition), l’esposizione biennale di sistemi militari di Abu Dhabi giunta alla quattordicesima edizione. Un salone che rappresenta il punto di riferimento per i ricchi acquirenti del Medio Oriente e, soprattutto, per le aziende produttrici di armamenti.

      Come annunciato (leggi Marina militare: dalla Spezia al Medio Oriente per affari di guerra), la Marina Militare ha voluto inviare ad Abu Dhabi la fregata Margottini per arricchire con le sue tecnologie belliche il salone Navdex, che si tiene in contemporanea a Idex.

      Tra le 1.235 aziende di 57 Paesi, la presenza italiana è rilevante: 31 aziende, tra cui oltre ai colossi #Leonardo (ex #Finmeccanica) e #Fincantieri, figurano i produttori di bombe (#Simmel_Difesa del gruppo francese #Nexter), di “armi leggere” (#Beretta, #Benelli, #Tanfoglio, #Fiocchi, ma anche la meno nota #Mateba), di “materiali da difesa” di ogni tipo e soprattutto di sistemi elettronici tra cui spicca #Hacking_Team, l’azienda sospettata di essere coinvolta nello spionaggio di Giulio Regeni (con relative proteste dell’azienda) e anche nel caso dell’omicidio del giornalista saudita Jamal Khashoggi.

      In breve, un ampio campionario dell’arsenale bellico italiano, pesante e leggero, con tanto di associazione di rappresentanza, l’Aiad (Federazione Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza), la cosiddetta “Confindustria degli armamenti”, capitanata dal suo presidente Guido Crosetto che è anche coordinatore nazionale di Fratelli d’Italia.

      Armi italiane vendute all’estero: occasione da “sfruttare”

      In questo contesto non poteva certo mancare la visita di un rappresentante del governo italiano: vi ha infatti partecipato il sottosegretario alla Difesa, l’onorevole pentastellato Angelo Tofalo. Per non far passare inosservata la sua presenza, il sottosegretario ha voluto dedicare al salone militare un ampio scritto sulla sua pagina Facebook con tanto di foto ricordo della visita agli stand ed in particolare del suo incontro con Mohammed bin Zayed Al Nahyan, il Principe erede dell’Emirato di Abu Dhabi e delegato per il ministero della Difesa.

      Un resoconto entusiasta, in cui il sottosegretario parla di Idex 2019 nei termini di «una grande opportunità per stabilire e rafforzare cooperazioni con i principali attori dell’area», di «un’occasione da sfruttare al massimo» e, soprattutto, del suo ruolo «per sostenere le nostre eccellenze (…) per affermare il “made in Italy” nel mercato internazionale». «Anche questo vuol dire fare politica, quella buona, e gli interessi dell’Italia», chiosa Tofalo.

      Dichiarazioni in perfetto stile “commesso viaggiatore” dell’industria militare italiana. Quanto questo risponda al suo ruolo di sottosegretario alla Difesa, il cui compito principale sarebbe quello di assicurare la sicurezza del nostro Paese a fronte della minaccia che queste monarchie rappresentano (ne parlo più sotto), non è dato di sapere.

      In sfregio alle violazioni e ai crimini di guerra

      La partecipazione di Tofalo a Idex 2019 è un messaggio molto chiaro: il governo Conte non intende rinunciare agli affari militari e coglie l’occasione del salone di Abu Dhabi per rafforzare i legami con le monarchie del Golfo. Manifestando così il suo appoggio politico all’intervento militare che vede protagonisti gli Emirati Arabi insieme ai sauditi in Yemen.

      Un sostegno inammissibile alla luce della relazione dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani dell’agosto scorso che documenta come tutte le parti implicate nel conflitto nello Yemen stiano commettendo “crimini di guerra”. E in totale disprezzo della risoluzione 2018/2853 del Parlamento europeo che lo scorso ottobre ha esortato tutti gli Stati membri dell’Ue ad «astenersi dal vendere armi e attrezzature militari all’Arabia Saudita, agli Emirati Arabi Uniti e a qualsiasi membro della coalizione internazionale, nonché al governo yemenita e ad altre parti del conflitto».

      Sulla questione dello Yemen il sedicente governo del Cambiamento quindi si mostra non solo in perfetta continuità con i governi che l’hanno preceduto (leggi Armi italiane in Yemen: Governo del Cambiamento alla prova), ma anzi intende incentivare le forniture belliche perché – come spiega il sottosegretario Tofalo – «in questo settore, quando viene a crearsi un bisogno, accade che tanti competitor sono pronti a inserirsi e affermare le proprie tecnologie e prodotti». E per promuovere l’export armato sta pensando «ad una a grande fiera sull’Industria della Difesa, magari a Milano», scrive Tofalo nel suo post.
      Armi sviate alle milizie in Yemen

      Tutto questo avviene a pochi giorni di distanza dalla pubblicazione di un rapporto in cui Amnesty International documenta che «gli Emirati Arabi Uniti sono diventati il principale fornitore di veicoli blindati, sistemi di mortaio, fucili, pistole e mitragliatrici a milizie presenti in Yemen che compiono crimini di guerra e altre gravi violazioni dei diritti umani in modo del tutto impunito».

      Non solo. Amnesty evidenzia che «i gruppi armati destinatari finali di questi loschi traffici – tra cui i “Giganti”, la “Cintura di sicurezza” e le “Forze di elite” – sono addestrati e finanziati dagli Emirati Arabi Uniti ma non rispondono ad alcun governo». Alcuni di loro sono stati accusati di crimini di guerra, anche nel corso della recente offensiva contro la città portuale di Hodeidah e nella gestione del sistema di prigioni segrete nel sud dello Yemen».
      Guerra in Yemen: anche gli Usa ci ripensano

      Accuse confermate da un’inchiesta della CNN che documenta come Arabia Saudita e Emirati Arabi hanno trasferito armamenti di fabbricazione americana a combattenti legati ad al Qaeda, alle milizie salafite e ad altre fazioni attive nella guerra nello Yemen. Arabia Saudita e Emirati Arabi «hanno usato le armi prodotte dagli Stati Uniti come una forma di valuta per comprare la lealtà delle milizie e delle tribù, rafforzare i rapporti con gruppi armati scelti e influenzare il complesso panorama politico», riporta la CNN.

      Anche a fronte di queste inchieste, nei giorni scorsi la Camera degli Stati Uniti ha votato per porre fine al coinvolgimento militare e al sostegno di Washington alla coalizione a guida saudita nello Yemen. Un fatto rilevante, sia per il ruolo fondamentale di sostegno degli Stati Uniti alla coalizione a guida saudita nel conflitto yemenita, sia perché la risoluzione è passata grazie al voto anche di 18 rappresentanti repubblicani (248 voti a favore, 177 contrari): è la prima volta che la Camera approva una risoluzione del “War Powers Act” da quando la legge è stata emanata nel 1973.
      Le città italiane: basta armi italiane all’Arabia Saudita

      Il blocco delle forniture belliche all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti è stato ripetutamente richiesto, oltre che dal Parlamento europeo (leggi Basta armi ai sauditi, lo chiede l’Europa), anche da numerose associazioni della società civile italiana (da Amnesty International Italia a Fondazione Finanza Etica, dal Movimento dei Focolari a Oxfam Italia, dalla Rete della Pace alla Rete Italiana per il Disarmo e Save the Children Italia che ieri ha diffuso un nuovo appello). E sta trovando il sostegno da parte di numerose amministrazioni comunali.

      La mozione per fermare le forniture belliche è partita da Assisi, “Città della pace”, dove nel novembre scorso è stata approvata all’unanimità nel consiglio comunale. È poi approdata a Cagliari (la città dal cui porto e aeroporto partono le bombe della serie MK 80 fabbricate dalla Rwm Italia di Domusnovas e destinate all’Arabia Saudita), dove il consiglio comunale lo scorso 8 gennaio ha approvato un ordine del giorno che sollecita l’applicazione delle legge 185/90, che vieta la produzione e la vendita di armi ai Paesi in guerra. Sono seguite le mozioni approvate nei consigli comunali di Verona e di Bologna.

      È quindi approdata nell’assemblea capitolina che lo scorso 12 febbraio ha approvato la mozione “Stop bombe per la guerra in Yemen”. La mozione impegna la giunta, tra l’altro, a:

      «Promuovere, insieme agli altri comuni convergenti su questi intenti, alle associazioni e ai comitati di cittadini interessati, ogni azione perché il Governo e il Parlamento Italiano diano attuazione ai principi costituzionali e alle risoluzioni del Parlamento Europeo, bloccando l’esportazione di armi e articoli correlati, prodotti in Italia, destinate all’Arabia Saudita e a tutti i Paesi coinvolti nel conflitto armato in Yemen».

      Un’iniziativa importante, che andrebbe replicata in tutte le città e comuni d’Italia.

      Per riportare all’attenzione nazionale il tema delle esportazioni di armamenti, segnaliamo il convegno “Produzione e commercio di armamenti: le nostre responsabilità”, che si terrà il 1° marzo a Roma (iscrizione obbligatoria entro il 22 febbraio).

      https://www.osservatoriodiritti.it/2019/02/22/armi-italiane-vendute-all-estero-yemen-arabia-saudita

    • No all’allargamento della #RWM a #Iglesias

      La Tavola Sarda della Pace prende atto della decisione dell’Amministrazione comunale di Iglesias che autorizza d’ufficio l’allargamento della fabbrica di armamenti RWM, con la costruzione di due nuove linee di produzione che porteranno lo stabilimento a triplicare la capacità produttiva. Poiché tutto ciò è avvenuto con scarsa trasparenza, nessuna apertura ad un dibattito pubblico che coinvolga le popolazioni locali, nessuna considerazione dei documenti a tale scopo presentati da comitati ed organizzazioni della società civile, intende prendere posizione su questo grave fatto.

      Da oltre tre anni ormai la RWM, succursale italiana della multinazionale degli armamenti Reinhmetal a maggioranza tedesca e con sede a Berlino, vende i suoi micidiali ordigni all’Arabia Saudita, che li utilizza per i bombardamenti a tappeto contro i centri abitati e le popolazioni civili dello Yemen, che hanno fino ad oggi causato oltre 10mila vittime, in un’emergenza umanitaria gravissima, amplificata dalla mancanza di acqua e cibo e dalla conseguente epidemia di colera che ha colpito la popolazione. Il Governo italiano in carica, come peraltro quello precedente, continua ad ignorare l’applicazione della legge 185 del 1990 che fa divieto alla vendita e al transito sul suolo italiano di armi dirette a paesi in guerra o che violino i diritti umani. La monarchia saudita non sfugge ad entrambi i criteri, in quanto viola i diritti umani (il caso Khashoggi è solo la punta dell’iceberg, le donne continuano ad essere pesantemente discriminate) e bombarda la popolazione yemenita con le bombe prodotte nella fabbrica RWM situata nei territori dei Comuni di Domusnovas e Iglesias.

      Essendo fermamente avversi ad ogni guerra, violenza e discriminazione, pensiamo che questo devastante e illecito commercio d’armi vada fermato e, nel rispetto del diritto ad un lavoro dignitoso, vadano con urgenza ricercate soluzioni di sviluppo ecosostenibile sul territorio sardo.

      Per questo chiediamo che il Sindaco di Iglesias Mauro Usai riconsideri la decisione presa troppo frettolosamente, che il Presidente della Giunta Francesco Pigliaru intervenga in modo chiaro utilizzando le prerogative della Regione, che il Governo italiano aderisca all’embargo proposto dall’Unione Europea sulla vendita d’armi all’Arabia Saudita.

      https://www.arci.it/no-allallargamento-della-rwm-a-iglesias
      #Sardaigne

    • Rwm nel #Sulcis. Fabbrica delle bombe giorni decisivi per l’ampliamento

      Il momento è decisivo. In questi due giorni si gioca la fase clou della partita per l’ampliamento della “fabbrica delle bombe” sarde. Così è spesso chiamato lo stabilimento di Rwm Italia situato nel Sulcis, in bilico fra il comune di Domusnovas e quello di Iglesias. La ragione è semplice. L’impianto è specializzato – come si evince dal sito ufficiale – nella produzione di «sistemi antimine, testate missilistiche, dispositivi elettronici con spolette». In particolare, ordigni Mk-80. I cui frammenti, con tanto di codici identificativi – come documenta da anni Avvenire – sono stati ritrovati sul territorio yemenita dopo i bombardamenti della coalizione a guida saudita.

      Riad, del resto, è tra i clienti principali della Rwm Italia. Proprio da quest’ultima, nel 2016, ha ricevuto un “mega-ordine” da 411 milioni di euro. A cui si sono sommate, nel periodo successivo, commesse più piccole, tutte già autorizzate. Le richieste hanno fatto aumentare di oltre il 50 per cento il fatturato dell’azienda in un biennio. I ricavi delle vendite sono passati da 48,1 milioni di euro nel 2015 a 90 milioni di euro. Al contempo, però, esso ha innescato una “maratona produttiva”.

      L’impianto sardo lavora ormai h 24, sette giorni su sette. Nemmeno questo, però, sembra essere sufficiente per soddisfare la domanda. Da qui, l’idea di un’espansione. Dal 2016, nell’ambito di un piano di investimenti da 40 milioni di euro, Rwm Italia ha presentato al Comune di Iglesias dodici pratiche di ampliamento. La sorte della più significativa di queste si conoscerà domani. Ieri, è scaduto il termine per la presentazione di “osservazioni” relative all’effetto sul territorio dell’autorizzazione per la costruzione di due nuovi siti nella regione iglesiente da parte dei diversi enti locali.

      Solo domani, però, data la concomitanza della festa, si saprà se queste sono state effettivamente inoltrate. In caso affermativo, le parti ne dovranno discutere in una riunione ad hoc già prevista per giovedì. Il mancato recapito di rimostranze, invece, equivarrebbe a un via libera all’ampliamento, senza necessità di una valutazione dell’impatto ambientale. A quel punto, Rwm Italia potrebbe raddoppiare o triplicare la produzione, passando dall’attuale media annuale di 5mila ordigni a 10 o 15mila. Certo, tale espansione avrebbe anche ricadute in termini di occupazione.

      Un problema non da poco in un’aerea depressa come il sud della Sardegna che, nel 2017, s’è aggiudicato il penultimo posto nella classifica italiana per Pil pro capite. Dal 2015 al 2017, sono stati assunti altri 37 nuovi dipendenti, raggiungendo quota 171, in buona parte con contratti a termine o interinali. «Siamo pienamente consapevoli del dramma della disoccupazione che tanto ferisce la nostra terra – spiega Cinzia Guaita, del Comitato riconversione Rwm –. Eventuali nuove assunzioni, tuttavia, aumenterebbero una produzione eticamente inaccettabile e totalmente incompatibile con la legislazione italiana, che consente la produzione di armi solo per fini difensivi.

      Non solo. Finirebbero per incrementare ulteriormente l’esercito dei precari e, poi, dei disoccupati. In caso di blocco dell’export a Riad, i contratti sarebbero soggetti a immediata risoluzione». Nato il 15 maggio 2017, il Comitato – a cui aderiscono venti tra associazioni, fondazioni, singole persone di diverse orientamento – si batte per la riconversione dell’impianto. In occasione della scadenza di ieri, in collaborazione con Italia Nostra, ha rivolto forti appelli agli enti locali perché approfondissero le conseguenze ambientali dell’ultimo ampliamento. «Lottiamo pacificamente per un lavoro sostenibile e umano. In questo anno e mezzo, abbiamo promosso incontri con esperti per trovare insieme alternative per tutti i dipendenti della fabbrica – spiega il portavoce Arnaldo Scarpa –. Soluzioni non assistenziali, pacifiche, sostenibili e foriere di duraturo sviluppo nel nostro territorio».

      «Dobbiamo costruire pezzi di pace nei territori, invertendo il processo di un’economia armata che fa cadere sui lavoratori, ultimo anello della catena, un peso di coscienza insostenibile», conclude Guaita. Curioso che una delle partite decisive per Rwm si giochi proprio proprio l’indomani del moto di indignazione mediatica per la morte per fame della piccola yemenita Amal. Mentre la foto della bimba scompare dai social, il flusso di armi occidentali verso i teatri di guerra, prosegue.

      https://www.avvenire.it/attualita/pagine/rwm-si-prepara-a-ingrandirsi-fino-a-15mila-bombe-lanno

    • La fabbrica di bombe e armi si amplia: reportage della tv di Stato tedesca

      Il primo canale della tv di Stato tedesca continua a interessarsi al Sulcis, e in particolare alla fabbrica di bombe di #Domusnovas. Ieri, in prima serata, sulla Ard è andato in onda un dettagliato servizio firmato da Philipp Grüll e Karl Hoffmann (qui il video completo con un’intervista al vescovo di Iglesias, Giovanni Paolo Zedda). Al centro ci sono gli ampliamenti previsti – e già in corso, come si capisce dalle immagini – della sede locale della Rwm (di proprietà del colosso tedesco #Rheinmetall). Undici gli interventi diversi – autorizzati dal Comune di Iglesias – che porteranno all’aumento della produzione di bombe e armi, impiegate, come documentato anche da un’inchiesta del New York Times nello Yemen. Più volte, inutilmente, il Parlamento europeo ha approvato risoluzioni contrarie ell’export di armi verso i paesi in conflitto. Ma di fatto produzione e carichi non si sono mai fermati. E ora arriva il rilancio. Alle proteste di pacifisti e dello stesso presidente della Regione, Francesco Pigliaru, si contrappongono i lavoratori e chi sostiene la linea “se non qui si produrranno altrove”.

      https://www.sardiniapost.it/cronaca/la-fabbrica-di-bombe-e-armi-si-amplia-il-servizio-della-tv-di-stato-ted

    • Iglesias, la fabbrica di bombe Rwm raddoppia: ok del Comune per l’ampliamento dello stabilimento

      La fabbrica di bombe, al centro di tantissime polemiche nel corso degli ultimi anni dopo che si è scoperto che gli ordigni qui prodotti venivano utilizzato contro i civili in Yemen, non lascia la Sardegna, anzi raddoppia.

      https://www.vistanet.it/cagliari/2018/11/14/iglesias-la-fabbrica-di-bombe-rwm-raddoppia-ok-del-comune-per-lampliamento-