• Tesla und die Abwasser-Grenzwerte : Fast so unverschämt wie Elon Musk
    https://taz.de/Tesla-und-die-Abwasser-Grenzwerte/!5995378
    Quand les élus préfèrent quelques postes d’emploi et versements d’impôts à la survie des espèces dont l’humaine de leur région. L’usine Tesla aux portes de Berlin met en danger l’approvisionnement en eau de toute la région.

    1.3.2024 von Jonas Wahmkow - Tesla leitet seit Jahren zu viel Phosphor und Stickstoff ins Abwasser ein. Der Fall zeigt: Das Unternehmen ist kein guter Partner für die Region.


    Monster in der Mark: Die Tesla-Fabrik in Grünheide bei Berlin Foto: Jochen Eckel/Imago

    Vor allem Brandenburger Po­li­ti­ke­r:in­nen sehen in Tesla einen Segen für die Region. Doch was sieht der Autobauer eigentlich in Grünheide, der idyllischen 9.000-Seelen-Gemeinde, in der es sich angesiedelt hat? Natur, die sich ausbeuten lässt, Infrastruktur, die die Allgemeinheit bereitstellt und Behörden, die alle Wünsche zu erfüllen haben – dieser Eindruck verfestigt sich zumindest angesichts der Nachricht, dass Tesla mit seinem Grünheider Werk seit Jahren die zulässigen Grenzwerte für Stickstoff und refraktäres Phosphor regelmäßig und teilweise bis zu einem Fünffachen überschreitet.

    Nach wiederholt ergebnislosen Abmahnungen und Du-Du-Briefen kündigte der zuständige Wasserverband Strausberg-Erkner (WSE) drastische Maßnahmen an: Auf einer außerordentlichen Sitzung am Freitag will der WSE die Abwasserversorgung einstellen, bis das Unternehmen die Grenzwerte wieder einhält. Das geht zumindest aus einer 27-Seitigen Beschlussvorlage hervor, über die zuerst der Stern berichtete.

    Ein Umweltskandal, wie das bereits dokumentierte Auslaufen von tausenden Litern Lacks oder flüssigen Aluminiums, ist der Fall nicht. Schließlich handelt es sich bei Stickstoff und Phosphor um Pflanzennährstoffe, die zu großen Teilen in Klärwerken herausgefiltert werden.

    Ein Großteil der Belastung stammt wahrscheinlich aus den Sanitärabwässern der Fabrik – längst arbeiten hier mehr Menschen, als in Grünheide wohnen. Die zusätzliche Nährstoffbelastung ist mittelfristig problematisch, weil sie das Algenwachstum begünstigt und die Gewässerqualität der Spree verschlechtert, aber sie stellt kein Gesundheitsrisiko dar.

    Tesla erwartet Loyalität

    Der Grund, warum der WSE derart Druck macht, ist ein anderer. Der Wasserverband verfügt über kein eigenes Klärwerk und leitet die gesamten Abwasser zum Klärwerk der benachbarten Berliner Wasserbetriebe (BWB) weiter. Nun fürchtet der WSE, es könnte selbst die Grenzwerte gegenüber den BWB überschreiten, was wiederum zu Vertragsstrafen in Millionenhöhe führen könnte.

    Die WSE äußert sich nicht zu dem Dokument, wird aber guten Grund gehabt haben, warum sie 2020 Höchstmengen für Stickstoff und Phosphor mit Tesla vertraglich festlegte. Doch das US-Unternehmen tut so, als hätte es den Vertrag nie gegeben und verwies als Reaktion auf die Enthüllung darauf, dass ja im Klärwerk flussabwärts alles in Ordnung sei.

    Noch dreister scheint sich der Konzern von Elon Musk gegenüber der WSE verhalten zu haben. Entweder ignorierte Tesla die Briefe komplett oder es gelobte Besserung, um nur wenige Wochen später die Grenzwerte wieder zu überschreiten, oder zweifelte die Glaubwürdigkeit des Labors an, bei dem der WSE die Proben analysieren ließ.

    Abschließend habe Tesla in seinem Schreiben „auf den Grundsatz der Loyalität“ verwiesen und „die Erwartung“ geäußert, „der WSE möge weiter zuwarten und Grenzwertüberschreitungen dulden“, heißt es in dem Dokument.

    Dem Autobauer seine Grenzen aufzeigen

    Die Selbstverständlichkeit, mit der Tesla Verträge bricht und sich wiederholt über geltendes Recht hinwegsetzt, und die Arroganz, mit der der Autobauer mit lokalen Behörden umgeht, wecken Zweifel daran, ob das Unternehmen tatsächlich jemals so etwas wie ein verantwortungsvoller Partner sein kann.

    Dabei ist die Region eine der niederschlagärmsten in Deutschland. Die wasserreichen Ökosysteme um die Fabrik sind hochempfindlich und Quelle für die Wasserversorgung von Berlin. Anstatt die notwendige Sensibilität für ihre natürliche Umgebung aufzubringen, legt Tesla feudale Gutsherren-Allüren an den Tag. Und rechnet damit, mit allen Regelverstößen durchkommen zu können.

    Umso wichtiger ist es, Tesla seine Grenzen aufzuzeigen. Ob die Einstellung der Abwasserversorgung seitens der WSE, die Entscheidung der Bür­ge­r:in­nen gegen die Erweiterung des Werksgeländes oder die Baumbesetzung am Donnerstagmorgen unweit der Fabrik: Auf den Konzern und seine Fabrik muss Druck ausgeübt werden.

    #Allemagne #Brandebourg #Tesla #pollutiin #eau #corruption

  • Rotta balcanica: i sogni spezzati nella Drina
    https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Rotta-balcanica-i-sogni-spezzati-nella-Drina-229948

    Nelle acque del fiume Drina, in Bosnia Erzegovina, decine di migranti sono morti nel tentativo di avvicinarsi al sogno di una vita migliore in quell’Europa che li respinge. Volontari del Soccorso alpino di Bijeljina e attivisti sono impegnati nel difficile recupero dei corpi

    • Rotta balcanica : i sogni spezzati nella Drina

      Nelle acque del fiume Drina, in Bosnia Erzegovina, decine di migranti sono morti nel tentativo di avvicinarsi al sogno di una vita migliore in quell’Europa che li respinge. Volontari del Soccorso alpino di Bijeljina e attivisti sono impegnati nel difficile recupero dei corpi.

      “Finora non mi è mai capitato di sognare uno dei corpi ritrovati, non ho mai avuto incubi. Proprio mai. Credo sia una questione di approccio. Soltanto chi non ha la coscienza pulita fa incubi”, afferma Nenad Jovanović, 37 anni, membro della squadra del Soccorso alpino di Bijeljina.

      Negli ultimi sei anni, Jovanović ha partecipato alle operazioni di recupero di oltre cinquanta corpi di migranti nell’area che si estende dal villaggio di Branjevo alla foce del fiume Drina [nella Bosnia orientale], tutti di età inferiore ai quarant’anni, annegati nel tentativo di entrare in Bosnia Erzegovina dalla Serbia, per poi proseguire il loro viaggio verso altri paesi europei, in cerca di un posto sicuro per sé e per i propri familiari.

      “Ogni volta che scoppia un nuovo conflitto in Medio Oriente, in Afghanistan, Iraq o altrove, assistiamo ad un aumento degli arrivi di migranti in cerca di salvezza nei paesi dell’Unione europea. Purtroppo, per alcuni di loro la Drina si rivela un ostacolo insormontabile. Il loro è un destino doloroso che può capitare a chiunque”, spiega Nenad Jovanović.

      Durante le operazioni di recupero dei corpi, Jovanović più volte è stato costretto a gettarsi nel fiume in piena, rischiando la propria vita.

      “Recentemente abbiamo recuperato il corpo di un uomo proveniente dall’Afghanistan. Era in acqua da circa un anno. I pescatori che per primi lo avevano notato non erano nemmeno sicuri che si trattasse di un corpo umano. Potete immaginare lo stato in cui si trovava”, afferma Jovanović.

      Un suo collega, Miroslav Vujanović, si sofferma sull’aspetto umano del lavoro del soccorritore. “A prescindere dallo stato di decomposizione, cerchiamo in tutti in modi possibili di recuperare il corpo nelle condizioni in cui lo troviamo. Nulla deve essere perso, nemmeno i vestiti. Perché siamo tutti esseri umani. Nel momento del recupero di un corpo magari non pensi alla sua identità, cerchi di fare il tuo lavoro in modo professionale e basta. Poi però quando torni a casa e vedi tua moglie e i figli, inizi a chiederti chi fosse quell’uomo e se anche lui avesse una famiglia. È del tutto normale riflettere su queste cose. Sono però pensieri intimi, che tendiamo a tenere dentro”.

      I volontari del Soccorso alpino di Bijeljina hanno partecipato anche alle operazioni di ricerca e assistenza alle popolazioni colpite dal terremoto nella regione di Banovina (in Croazia) nel 2020 e alle vittime del terremoto che l’anno scorso ha devastato la Turchia. In tutte queste operazioni sono stati costretti ad utilizzare le attrezzature prese in prestito o noleggiate, perché le autorità locali non rispettano gli accordi di cooperazione stipulati con altri paesi. Del resto, la Bosnia Erzegovina è il paese delle assurdità. Lo confermano anche i nostri interlocutori, aggiungendo che a volte si sentono incompresi anche dai loro familiari.

      “Mia moglie spesso si chiede come io possa fare questo lavoro. Oppure invito ospiti a casa per la celebrazione del santo della famiglia, e proprio quando stiamo per tagliare il pane tradizionale, mi chiama la polizia dicendo di aver trovato un cadavere nella Drina. Quindi, mi scuso con gli ospiti, chiedo loro di rimanere e vado a fare il mio lavoro. Non è un lavoro facile, ma per me la più grande soddisfazione è sapere che quel corpo recuperato sarà sepolto degnamente e che la famiglia della vittima, straziata dalla sofferenza, finalmente troverà pace”, spiega Nenad Jovanović.

      Recentemente, Jovanović, insieme ai suoi colleghi Miroslav Vujanović e Safet Omerbegić, ha partecipato ad una cerimonia di commemorazione in memoria dei migranti scomparsi e morti ai confini d’Europa. In quell’occasione sono state inaugurate le lapidi delle tombe dei sedici migranti sepolti nel nuovo cimitero di Bijeljina, situato nel quartiere di Hase. Trattandosi di corpi non identificati, ciascuna delle lastre in marmo nero reca incise, a caratteri dorati, la sigla N.N e l’anno della morte.

      Nel cimitero è stato piantato anche un filare di alberi in memoria delle vittime e sono state collocate due targhe commemorative con la scritta: “Non dimenticheremo mai voi e i vostri sogni spezzati nella Drina”. L’iniziativa è stata realizzata grazie al sostegno dell’associazione austriaca «SOS Balkanroute» e di Nihad Suljić, attivista di Tuzla, che da anni fornisce assistenza concreta ai rifugiati e partecipa alle procedure di identificazione e sepoltura dei morti.

      “Per noi è un grande onore e privilegio sostenere simili progetti. Si tratta di un’iniziativa pionieristica che può fungere da modello per l’intera regione. Per quanto possa sembrare paradossale, siamo contenti che queste persone, a differenza di tante altre, abbiano almeno una tomba. Abbiamo voluto che le loro tombe fossero dignitose e che non venissero lasciate al degrado, come accaduto recentemente a Zvornik”, sottolinea Petar Rosandić dell’associazione SOS Balkanroute.

      Rosandić spiega che la sistemazione delle tombe dei migranti nei cimiteri di Bijeljina e Zvornik è frutto di un’iniziativa di cooperazione transfrontaliera a cui hanno partecipato anche le comunità religiose di Vienna. Queste comunità, che durante la Seconda guerra mondiale erano impegnate nel salvataggio degli ebrei, oggi partecipano a diversi progetti a sostegno dei migranti lungo le frontiere esterne dell’UE.

      “Sulle lastre c’è scritto che si tratta di persone non identificate, ma noi sappiano che in ogni tomba giace il corpo di un giovane uomo i cui sogni si sono spezzati nella Drina. Ognuno di loro aveva una famiglia, un passato, i propri desideri e le proprie aspirazioni. Il loro unico peccato, secondo gli standard europei, era quello di avere un passaporto sbagliato, quindi sono stati costretti a intraprendere strade pericolose per raggiungere i luoghi dove speravano di trovare serenità e un futuro migliore”, afferma l’attivista Nihad Suljić.

      Suljić poi spiega che nel prossimo periodo i ricercatori e gli attivisti si impegneranno al massimo per instaurare una collaborazione con diverse istituzioni e organizzazioni. L’obiettivo è quello di identificare le persone sepolte in modo da restituire loro un’identità e permettere alle loro famiglie di avviare un processo di lutto.

      “Questi monumenti neri sono le colonne della vergogna dell’Unione europea – commenta Suljić - non è stata la Drina a uccidere queste persone, bensì la politica delle frontiere chiuse. Se avessero avuto un altro modo per raggiungere un posto sicuro dove costruire una vita migliore, sicuramente non sarebbero andati in cerca di pace attraversando mari, fiumi e fili spinati. Le loro tombe testimonieranno per sempre la vergogna e il regime criminale dell’UE”.

      Suljić ha invitato i cittadini dell’UE che hanno partecipato alla cerimonia di commemorazione a Bijeljina a chiamare i governi dei loro paesi ad assumersi la propria responsabilità.

      “Non abbiamo bisogno di donazioni né di corone di fiori. Vi invito però a inviare un messaggio ai vostri governi, a tutti i responsabili dell’attuazione di queste politiche, per spiegare loro le conseguenze delle frontiere chiuse, frontiere che uccidono gli esseri umani, ma anche i valori europei”.

      Dalla chiusura del corridoio sicuro lungo la rotta balcanica [nel 2015], nell’area di Bijeljina, Zvornik e Bratunac sono stati ritrovati circa sessanta corpi di migranti annegati nel fiume Drina. Stando ai dati raccolti da un gruppo di attivisti e ricercatori, nel periodo compreso tra gennaio 2014 e dicembre 2023 lungo il tratto della rotta balcanica che include sei paesi (Macedonia del Nord, Kosovo, Serbia, Bosnia Erzegovina, Croazia e Slovenia) hanno perso la vita 346 persone in movimento. Trattandosi di dati reperiti da fonti pubbliche, i ricercatori sottolineano che il numero effettivo di vittime con ogni probabilità è molto più alto. In molti casi, la tragica sorte dei migranti è direttamente legata ai respingimenti effettuati dalle autorità locali e dai membri dell’agenzia Frontex.

      “La morte alle frontiere è ormai parte integrante di un regime di controllo che alcuni autori definiscono un crimine in tempo di pace, una forma di violenza amministrativa e istituzionale finalizzata a mantenere in vita un determinato ordine sociale. Molte persone morte ai confini restano invisibili, come sono invisibili anche le persone scomparse. I decessi e le sparizioni spesso non vengono denunciati, e alcuni corpi non vengono mai ritrovati”, spiega Marijana Hameršak, ricercatrice dell’Istituto di etnologia e studi sul folklore di Zagabria, responsabile di un progetto sui meccanismi di gestione dei flussi migratori alle periferie dell’UE.

      In assenza di un database regionale e di iniziative di cooperazione transfrontaliera, sono i volontari e gli attivisti a portare avanti le azioni di ricerca di persone scomparse e i tentativi di identificazione dei corpi. Al termine della cerimonia di commemorazione, a Bijeljina si è tenuta una conferenza per discutere di questo tema.

      “Molte famiglie non sanno a chi rivolgersi, non hanno mai ricevuto indicazioni chiare. Finora le istituzioni non hanno mai voluto impegnarsi su questo fronte. Spero che a breve ognuno si assuma la propria responsabilità e faccia il proprio lavoro, perché non è normale che noi, attivisti e volontari, portiamo avanti questo processo”, denuncia Nihad Suljić.

      A dare un contributo fondamentale è anche Vidak Simić, patologo ed esperto forense di Bijeljina. Dal 2016 Simić ha eseguito l’autopsia e prelevato un campione di DNA di circa quaranta corpi di migranti, per la maggior parte rinvenuti nel fiume Drina.

      “Questa vicenda mi opprime, non mi sento bene perché non riesco a portare a termine il mio lavoro. Credo profondamente nel giuramento di Ippocrate e lo rispetto. Le leggi e altre norme mi obbligano a conservare i campioni per sei mesi, ho deciso però di conservarli per tutto il tempo necessario, in attesa che il sistema venga cambiato. La mia idea è di raccogliere tutti questi campioni, creare profili genetici individuali, pubblicarli su un sito appositamente creato in modo da aiutare le famiglie – in Afghanistan, Pakistan, Algeria, Marocco e in altri paesi – che cercano i loro cari scomparsi.

      Lo auspicano anche il padre, la madre, la sorella e i fratelli di Aziz Alimi, vent’anni, proveniente dall’Afghanistan, che nel settembre dello scorso anno, nel tentativo di raggiungere la Bosnia Erzegovina dalla Serbia, aveva deciso di attraversare la Drina a nuoto con altri tre ragazzi. Poco dopo la sua scomparsa, nello stesso luogo da dove Aziz per l’ultima volta aveva contattato uno dei suoi fratelli, è stato ritrovato un corpo.

      Dal momento che non è stato possibile identificare il corpo per via del pessimo stato in cui si trovava, i familiari di Aziz, che nel frattempo hanno trovato rifugio in Iran, hanno inviato un campione del suo DNA in Bosnia Erzegovina. Ripongono fiducia nelle istituzioni e nei cittadini bosniaco-erzegovesi per garantire ad Aziz almeno una sepoltura dignitosa.

      Ai presenti alla conferenza di Bijeljina si è rivolta anche la sorella di Aziz, Zahra Alimi, intervenuta con un videomessaggio. “Non abbiamo parenti in Europa che possano aiutarci e davvero non sappiamo cosa fare. Per favore aiutateci, nostro padre è affetto da un tumore e nostra madre ha sofferto molto dopo aver appreso la triste notizia [della scomparsa di Aziz]. Possiamo contare solo su di voi”.

      https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Rotta-balcanica-i-sogni-spezzati-nella-Drina-229948
      #route_des_Balkans #Balkans #rivière #Bosnie-Hezégovine #migrations #réfugiés #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #Bijeljina #Branjevo #Nenad_Jovanović #Nenad_Jovanovic #Serbie #frontières #commémoration #mémoire #cimetière #tombes #SOS_Balkanroute #Nihad_Suljić #Nihad_Suljic #dignité #monument #responsabilité

  • Dieter Hallervorden - Die Nazikneipe in Schweinewalde
    https://www.youtube.com/watch?v=6tpEXvWUeIw

    Vous connaissez la blague : Quand ca ça fait coin-coin comme un canard, se dandine comme un canard et nage comme un canard c’est bien un canard ..
    C’est pareil pour les fachos de province (Schweinewalde ou forêt des cochons est un homonyme ou prèsque de plusieurs villages du Brandebourg dont le nom se termine par -walde ). Si on regade bien, on les recommît facilement, même s’ils prétendent d’être des citoyens démocratiques indignés.

    #nazis #Allemagne #Brandebourg #sketch #humour #parodie

  • Piéton tué par la #BRAV-M : des policiers avaient alerté sur la #dangerosité des motards

    « Devons-nous attendre un accident mortel pour réagir ? » Deux mois avant la mort d’un piéton en décembre dernier à Paris, une quinzaine de policiers de cette unité décriée avaient dénoncé, en vain, la dangerosité de leurs #motards dans des rapports accablants. Depuis plusieurs années, les blessés s’accumulent.

    À la préfecture de police de Paris, l’annonce, le 12 décembre, de la mort d’un homme de 84 ans, percuté par une moto de la brigade de répression de l’action violente motorisée (BRAV-M) alors qu’il traversait un passage piéton dans le XIXe arrondissement de Paris, n’a pas surpris tout le monde. Notamment dans les rangs des compagnies d’intervention (CI), mobilisées à tour de rôle pour grimper à l’arrière des motos au sein de ces équipages décriés pour leur violence depuis leur création, en 2019, en plein mouvement des « gilets jaunes ».

    Casque blanc à l’avant pour le pilote, noir à l’arrière pour son passager, vêtements sombres, motos de sport banalisées : les BRAV-M sont déployées au coup par coup pour des missions de maintien de l’ordre à Paris, et de « sécurisation » dans les quartiers réputés difficiles en banlieue.

    Le 7 octobre 2023, soit un peu plus de deux mois avant la mort du piéton − qui fait l’objet d’une enquête judiciaire pour « homicide involontaire » −, une quinzaine de policiers passagers des BRAV-M avaient transmis à leur hiérarchie des rapports pointant du doigt la dangerosité et l’illégalité de la conduite de leurs collègues.

    Dans ces écrits, consignés au terme d’une journée particulièrement chaotique, ils signifiaient également leur refus de continuer de monter derrière des pilotes décrits comme hors de contrôle, évoquant une accumulation d’accidents et de blessés et des alertes émises auprès de responsables de la DOPC (direction de l’ordre public et de la circulation) de la préfecture de police depuis « des mois voire des années ». Vitesse folle, prise de risques inconsidérée et injustifiée, absence de contrôle hiérarchique : le contenu de ces rapports, consultés par Mediapart, est effarant.

    Ce samedi 7 octobre, des équipages de la BRAV-M, dont la devise est « Born to ride » (« Né pour rouler », en anglais), sont affectés à plusieurs missions de sécurisation un peu partout à Paris. Certaines motos sont stationnées au stade Charléty, dans le sud de la capitale, où le Paris Football Club doit affronter l’AJ Auxerre pour un match de ligue 2. D’autres patrouillent place de la Bastille ou boulevard Magenta, près de la place de la République.

    En fin d’après-midi, une des unités voit un scooter brûler un feu rouge rue de Bagnolet, dans l’Est parisien. Les policiers tentent d’interpeller le conducteur, qui ne s’arrête pas. L’annonce de ce « refus d’obtempérer » circule sur les ondes et, sans attendre aucun ordre, des motards, même ceux du stade Charléty (à une dizaine de kilomètres de là), décident de se joindre à la course-poursuite.

    Le scooter pris en chasse s’engage sur le périphérique saturé, puis sur l’autoroute, où il finit par chuter au niveau de Bobigny, en Seine-Saint-Denis. Pendant ce temps, les motos de la BRAV-M convergent d’un peu partout dans Paris, à très grande vitesse.
    Plus de 180 kilomètres-heure

    Dans leurs rapports, les policiers passagers racontent : « Les motards ont décidé de partir à très vive allure, roulant à plus de 100 km/h en ville et slalomant entre les véhicules. Ils ont continué leur progression en interfile à 145 km/h sur un périphérique saturé. C’est inadmissible. Les motards ne sont pas conscients des risques qu’ils prennent pour leur propre vie, celles de leurs passagers, et celles des citoyens. D’autant plus que le Code de la route est complètement bafoué », écrit l’un d’entre eux, qui conclut : « Devons-nous attendre qu’il y ait un accident mortel pour réagir ? »

    Un autre relate que le pilote « a dépassé les 180 km/h [...] après avoir pris tous les risques possibles tout en étant conscient qu’à tout moment la moindre collision s’avérerait mortelle ». « Nous arrivons bien évidemment après l’intervention », ajoute-t-il. « Certains pilotes sont partis tellement vite qu’ils ont laissé leur passager sur place, avec le casque d’un passager encore attaché à la moto », précise encore le rapport.

    L’un des policiers passagers, équipé pour les opérations de maintien de l’ordre, explique s’être senti particulièrement vulnérable alors que la moto « slalomait entre les différents véhicules à vive allure ». « Après avoir fait part à un motocycliste du danger que représente la prise au vent [d’]un bouclier à de telles vitesses, celui-ci me répondra qu’à ma place il l’aurait lâché », relate-t-il. Un des fonctionnaires explique aussi avoir perdu une grenade goupillée place de la Bastille, et que le pilote aurait refusé de s’arrêter pour qu’il la ramasse…

    Plus grave encore, les policiers passagers des BRAV-M insistent sur le fait que ces comportements, à l’origine de « nombreuses blessures », ont été signalés à la hiérarchie de la DOPC à plusieurs reprises, et ce depuis des années. Sans, visiblement, que les motards aient fait l’objet d’un rappel à l’ordre.

    « Il ne se passe pas une vacation sans qu’il n’y ait une chute fortuite, et malgré de nombreuses discussions, rien ne semble changer », se plaint un fonctionnaire. « Il existe depuis de longs mois voire des années des griefs par rapport à leur conduite », explique un autre, évoquant une réunion en juin 2023 provoquée par « des accidents à répétition ». « Malgré de nombreuses blessures en service ainsi que de multiples discussions, il semblerait que les problèmes de comportement persistent et que les risques encourus ne cessent d’augmenter semaine après semaine », dit un troisième.

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    Les BRAV-M, des unités uniques en France

    La première intervention officielle des BRAV-M (brigades de répression de l’action violente motorisées) dans les manifestations parisiennes date du 23 mars 2019, en plein mouvement des « gilets jaunes », sous la houlette du tout nouveau préfet de police de l’époque, Didier Lallement – remplacé par Laurent Nuñez à l’été 2022. Mais ces unités étaient déjà en gestation. Dès décembre 2018, sur décision du ministre de l’intérieur Christophe Castaner et du préfet Michel Delpuech, des binômes de policiers motorisés, interdits depuis la mort de Malik Oussekine en 1986, refont leur apparition dans les rues de Paris.

    Au départ, ce sont essentiellement des agents des brigades anticriminalité (BAC), non formés au maintien de l’ordre, qui sont mobilisés au sein de ces équipages. Car la particularité de la BRAV-M est qu’elle n’est pas une unité à proprement parler : depuis 2020, elle est composée d’agents appartenant aux compagnies d’intervention (CI) de la préfecture de police de Paris, mobilisés ponctuellement pour grimper à l’arrière des motos comme passagers. À l’avant, les motards, 150 policiers environ, appartiennent eux aussi à une compagnie d’intervention, « la 24 ».

    Déployées au coup par coup en fonction des événements prévus dans la capitale, les BRAV-M sont réparties en équipages de 18 motos organisées en trinômes. Elles sont devenues le symbole ambulant de ce que les manifestant·es reprochent aux forces de l’ordre françaises : une violence imprévisible, indiscriminée et gratuite.

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    Pourquoi ces alertes et ces rapports sont-ils restés sans suite pendant des mois ? Selon nos informations, les écrits envoyés par les policiers le 7 octobre n’ont pas été enregistrés par la hiérarchie de la DOPC dans le système de courrier de la préfecture de police, baptisé « Alice », comme le veut la procédure.

    Les fonctionnaires auteurs des rapports n’ont été convoqués qu’à la mi-janvier, soit plus de trois mois après les incidents signalés, dans le cadre d’une « procédure d’enquête administrative ». Des convocations tombées, donc, quelques semaines après l’accident qui a causé la mort du piéton dans le XIXe arrondissement.

    Selon les informations de Mediapart, les procès-verbaux de convocation à ces auditions sont en effet datés du mois d’octobre, mais ne comportent aucune référence « Alice », ce qui interroge sur la réalité de la temporalité de la procédure.
    Le préfet de police pas informé

    Un autre détail pose question : l’enquête administrative chargée de faire la lumière sur les incidents du 7 octobre a été confiée à Patrick Lunel, qui n’est autre que… le responsable des motards de la BRAV-M mise en cause par leurs collègues. Patrick Lunel est par ailleurs connu pour avoir été commandant de la CSI 93, la compagnie de sécurisation et d’intervention de la Seine-Saint-Denis, quand elle s’est retrouvée au cœur d’une retentissante série de scandales.

    Une vingtaine d’enquêtes judiciaires avaient été ouvertes en 2019 et 2020 par le parquet de Bobigny pour des faits de vols, violences et faux en écriture publique. La majorité ont été classées faute de preuves, selon une source judiciaire, mais plusieurs des policiers de la CSI 93 ont été renvoyés devant la justice, et certains condamnés à de la prison ferme.

    Sollicité via la préfecture de police, Patrick Lunel n’a pas répondu à nos questions.

    Interrogée sur le contenu de ces rapports et l’absence de suites, la préfecture de police nous a indiqué que « les rapports des agents, transmis par mail un dimanche, ont été portés sans délai à la connaissance de l’ensemble de la chaîne hiérarchique, l’absence d’enregistrement par numéro ALICE n’ayant aucune incidence sur la remontée et la prise en compte d’information ».

    « Le délai de trois mois entre le déclenchement de l’enquête administrative et les premières auditions se justifie par la nécessité d’instruire l’ensemble des rapports, les contraintes opérationnelles, et la programmation de plusieurs actes s’agissant d’une affaire dans laquelle aucun blessé n’est à déplorer et alors même que le préfet de police, dès le 11 octobre, avait reçu l’ensemble de l’encadrement de la BRAV-M pour rappeler les règles de déontologie, notamment la nécessité de circuler à allure normale hors cas d’intervention d’urgence », a-t-elle justifié.

    « Le préfet de police tient à préciser que toute la lumière sera faite sur cette enquête administrative sur des faits qui se déroulaient dans le cadre initial d’un refus d’obtempérer commis par un individu finalement interpellé dans un secteur sensible de Seine-Saint-Denis où ont eu lieu de nombreuses prises à partie d’effectifs et nécessitant l’envoi de renforts dans les meilleurs délais », nous a encore précisé la préfecture.

    La hiérarchie de la DOPC a-t-elle dissimulé au préfet la colère qui montait dans les rangs des BRAV-M ? « Le préfet de police a été informé des crispations liées à la vitesse (c’est à ce titre qu’il reçoit les encadrants le 11 octobre), sans être informé précisément du fait du 7 octobre », nous a-t-on répondu.

    Autre interrogation : alors que les rapports du 7 octobre font état de « nombreux blessés en service », combien de policiers ont été blessés dans des accidents causés par les motards de la BRAV-M ? « À ce jour, la direction de l’ordre public et de la circulation recense contre les pilotes de la BRAV-M quatre cas de faute lourde de pilotage, avec blessé. Des enquêtes ont été ouvertes pour chacun des cas », indique la préfecture.

    Au moins un de ces accidents a eu des conséquences dramatiques. Selon nos informations, une jeune gardienne de la paix affectée dans une compagnie d’intervention a été grièvement blessée en juin 2022 dans un carambolage sur le périphérique parisien au niveau de la porte de la Villette alors qu’elle était passagère dans un équipage de la BRAV-M, accident dont elle conserve de graves séquelles.

    À ce sujet, la préfecture de police nous a indiqué que cet accident a fait « l’objet d’une enquête administrative, dont les conclusions ont été rendues : un conseil de discipline doit avoir lieu en mars 2024 ». « Dans l’attente, l’agent en cause a changé d’affectation et n’exerce plus sur la voie publique. L’enquête judiciaire est toujours en cours, elle est effectuée par l’IGPN [Inspection générale de la police nationale – ndlr] », a-t-elle précisé.
    « Roues arrière sur le périph’ »

    « Le grave accident dont a été victime la jeune policière aurait pourtant dû susciter un électrochoc, souffle un commissaire de la préfecture de police de Paris. Mais ça n’a rien changé, les motards de la BRAV-M continuent de faire des roues arrière sur le périph’ ! » « Ils sortent leur béquille sur l’autoroute pour faire des étincelles. Ils font les kékés, ça les amuse », renchérit un policier, lui aussi en poste à la préfecture.

    « Au fil des années, à force d’une série de petits renoncements, un laisser-aller s’est installé, poursuit ce fonctionnaire. Les motards de la BRAV-M, c’est un État dans l’État, il y a un gros sentiment d’impunité. » « Beaucoup sont jeunes, manquent de maturité. Ils sont portés aux nues par leur hiérarchie, et se sentent autorisés à tout faire », confirme le commissaire.

    Ni l’accident de la jeune policière ni les rapports du 7 octobre n’ont donc changé quoi que ce soit : le 12 décembre, à proximité de la « base » des motards, porte de la Villette, un de leurs équipages a percuté un passant. Cet homme de 84 ans a été grièvement blessé, souffrant notamment d’un traumatisme crânien. Transporté aux urgences, il est mort le lendemain. Le parquet de Paris avait précisé que l’accident avait eu lieu « vers 16 heures » et que le piéton traversait « au feu vert pour les piétons » tandis que les deux motos de la BRAV-M franchissaient un feu rouge.

    Selon les éléments recueillis par Mediapart, la particularité des BRAV-M est qu’elles peuvent décider de leur mobilisation sans consulter les autorités hiérarchiques de la direction de l’ordre public de la préfecture, dont elles dépendent, comme le démontrent les récits relatés dans les rapports du 7 octobre. Avec un objectif assumé : interpeller.

    Depuis le déploiement de cette unité unique en France, créée en 2019 pour intervenir quand les conditions habituelles du maintien de l’ordre sont dépassées − les précédentes brigades motorisées ont été interdites après le décès de Malik Oussekine en 1986 −, la BRAV-M est régulièrement décriée pour ses actions violentes.

    Ces binômes de policiers motorisés sont visés par plusieurs enquêtes judiciaires, notamment pour avoir agressé gratuitement un étudiant de 22 ans, ou encore pour avoir, pendant le mouvement contre la réforme des retraites, en mars 2023, roué de coups un jeune homme, Souleymane, 23 ans, tout en proférant des insultes racistes à son égard. Dernière affaire en date : des violences exercées sur un jeune réfugié en décembre, qui font l’objet d’une enquête administrative ouverte par le préfet de police, Laurent Nuñez.

    Dans un rapport publié en avril 2023, l’Observatoire parisien des libertés publiques (OPLP), créé à l’initiative de la Ligue des droits de l’homme (LDH) et du Syndicat des avocats de France (SAF), avait étrillé ces brigades, décrites comme « violentes et dangereuses, promptes à faire dégénérer les situations ». « La BRAV-M a développé un style qui puise dans les répertoires de la chasse, du film d’action, du virilisme et de l’intimidation », pouvait-on y lire.

    La mort du piéton en décembre et l’affaire des rapports sur la conduite « très accidentogène » des pilotes deux mois plus tôt viennent une nouvelle fois éclabousser la DOPC, chargée de la sécurisation de l’ensemble des événements et manifestations à Paris et en petite couronne. Elle sera donc sollicitée pour les cérémonies des Jeux olympiques de Paris, qui auront lieu dans six mois.

    La DOPC avait déjà été décapitée par l’affaire Benalla, qui avait emporté avec elle plusieurs des pontes de la préfecture. Jérôme Foucaud, un haut gradé sans expérience du maintien de l’ordre, avait alors été propulsé à la tête de cette direction. C’est lui qui avait été responsable du maintien de l’ordre pendant les manifestations des « gilets jaunes », et lui aussi qui avait signé le « télégramme » entérinant le dispositif de sécurisation de la finale de la Ligue des champions en mai 2022, restée dans les mémoires comme un fiasco d’ampleur internationale.

    Selon nos informations, le directeur de l’ordre public avait connaissance, depuis des mois, de la colère qui montait en interne contre les motards de la BRAV-M, sujet qui avait été évoqué au cours de plusieurs réunions. Interrogé à ce sujet via la préfecture de police, Jérôme Foucaud ne nous a pas répondu.

    https://www.mediapart.fr/journal/france/310124/pieton-tue-par-la-brav-m-des-policiers-avaient-alerte-sur-la-dangerosite-d
    #forces_de_l'ordre #France #piétons #compagnies_d’intervention (#CI) #violence #violences_policières #banlieue #maintien_de_l'ordre #homicide_involontaire #rapport #Born_to_ride #vitesse #témoignage #DOPC #enquête_administrative #Patrick_Lunel #CSI_93 #vols #faux_en_écriture_publique #accidents #impunité

    –—

    ajouté à la #métaliste de #témoignages de #forces_de_l'ordre, #CRS, #gardes-frontière, qui témoignent de leur métier. Pour dénoncer ce qu’ils/elles font et leurs collègues font, ou pas :
    https://seenthis.net/messages/723573

  • #Shtetl

    Juif polonais ayant survécu à l’#Holocauste, le réalisateur accompagne son ami Nathan sur la trace de sa famille, originaire de #Bransk, petite ville de #Pologne. Ils vont rencontrer Zbyszek Romaniuk, jeune Polonais féru d’histoire locale, avec qui, depuis un certain temps, Nathan est en relation épistolaire. Tous trois, en interrogeant les lieux et des témoins, tentent de retrouver les empreintes du passé juif de Bransk. Le shtetl a disparu quand 2 500 juifs furent déportés à Tréblinka... Plus tard, Zbyszek se rend aux États-Unis dans des familles juives originaires de Bransk. Mais quand ses recherches le conduisent en Israël, il se heurte à de jeunes étudiants, qui lui reprochent l’#antisémitisme polonais. De retour en Pologne, il sera au contraire critiqué et menacé à cause de son intérêt pour l’histoire juive de Bransk. Devenu maire-adjoint de la petite ville, il finira par occulter cet aspect du passé.

    http://www.film-documentaire.fr/4DACTION/w_fiche_film/7160_0
    #traces #histoire #mémoire #film #film_documentaire #documentaire

  • Hôpital public : « Quand la situation est dégradée au point de mettre les patients en danger, c’est un devoir moral de dénoncer l’inacceptable »

    Alors que le 13 janvier, au CHU de Dijon, Gabriel Attal a promis de mettre l’hôpital en haut de la pile des problèmes à résoudre, un collectif rassemblant plus de 230 médecins, soignants et personnels hospitaliers dénonce, dans une tribune au « Monde », la répression qui s’abat sur celles et ceux qui alertent sur les dysfonctionnements.

    Irène Frachon a permis la condamnation du laboratoire Servier en appel le 20 décembre 2023. C’est la victoire de la « fille de Brest » – et celle de milliers de victimes – qui a réussi à montrer qu’elle avait raison de s’être attaquée au si puissant lobby pharmaceutique. Elle restera un exemple pour ces femmes et ces hommes, souvent anonymes, témoignant de la situation catastrophique de l’#hôpital public.
    Ces lanceurs d’alerte, impliqués au quotidien auprès des #patients, ne voulant rien d’autre que d’être entendus, ont pourtant été punis de leur bonne foi. Sébastien Harscoat à Strasbourg, ou Caroline Brémaud à Laval le savent : alerter, pour le bien de la communauté, est dangereux. Les lanceurs d’alerte, pour le sociologue Francis Chateauraynaud, auteur de Alertes et lanceurs d’alerte (« Que sais-je ? », PUF, 2020), ne sont pas les dénonciateurs de fautes, de fraudes ou de mauvais traitements, mais des personnes ou des groupes qui, rompant le silence, signalent l’imminence, ou la simple possibilité, d’un enchaînement catastrophique.

    C’est exactement ce qui se passe à l’hôpital public. Depuis quelques années, aides-soignantes, infirmières, secrétaires médicales, psychologues, assistantes sociales, cadres de santé, patients, médecins, chefs de service… témoignent de la dégradation de l’#accès_aux_soins et de l’hôpital public. Ils alertent les pouvoirs publics, les élus et les patients présents, ou futurs, par la presse et les réseaux sociaux, sur la situation de notre système de #santé, espérant arrêter la spirale infernale. Pénuries de personnel, accueils inadéquats des patients, pertes de chance, voire morts inattendues ou évitables, sont désormais médiatisés.

    En 2022 une #surmortalité de 50 000 décès a été constatée par l’Insee. Aujourd’hui, plus personne, même le gouvernement, ne nie la dégradation de l’hôpital public et de l’accès aux soins pour tous. Brigitte Bourguignon, éphémère ministre de la santé, avait qualifié les collectifs d’hospitaliers et d’usagers d’ « oiseaux de mauvais augure », mais les collectifs de défense de l’hôpital public ne sont pas des prophètes de malheur : ils sont des optimistes voulant sauver notre système public.

    7 000 lits ont été fermés en 2022
    Ils dénoncent la communication mensongère sur des milliards providentiels qui ne sont que l’addition de fonds alloués au privé et au public sur la prochaine décennie, et rappellent les faits : on ne compte plus le nombre de services d’urgences « régulés » pour ne pas dire fermés (163 sur 389 à l’été 2023), les files d’attente de brancards sur les parkings des hôpitaux – à Strasbourg, le parking a vu pour Noël se monter une tente pour accueillir les patients –, l’attente prolongée des patients les plus âgés entraînant une surmortalité de 4 %.

    Et pourtant, près de 7 000 lits ont encore été fermés en 2022, et 3 milliards d’économies sont prévues en 2024. Les établissements hospitaliers doivent administrer sur des objectifs comptables, les #soignants continuent à fuir (50 % de départ des infirmières à dix ans de carrière) et près du tiers des postes de médecins hospitaliers sont vacants.

    Les lanceurs d’alerte qui s’exposent pour défendre l’institution, au lieu d’être écoutés, sont maintenant punis, sous prétexte d’un #devoir_de_réserve évoqué à chaque fois qu’une alerte est lancée. Ils sont parfois mis à l’écart ou démis de leurs chefferies de service (comme Caroline Brémaud à Laval), subissent sans « réserve » entretiens de recadrage (comme Sébastien Harscoat), audits internes à charge, blocages de mutation de service.

    Une situation indigne d’une démocratie sanitaire
    Les exemples se multiplient, pas toujours médiatisés par peur des #sanctions, obligeant certains à quitter leur service, leur hôpital voire l’hôpital public pour lequel ils s’étaient pleinement investis. Pourtant, la loi les protège. La loi du 21 mars 2022 précise : « Un lanceur d’alerte est une personne physique qui signale ou divulgue, sans contrepartie financière directe et de bonne foi, des informations portant sur un crime, un délit, une menace ou un préjudice pour l’intérêt général (…). » C’est de cela qu’il s’agit, quand certains de nos « héros d’un jour » risquent leur carrière hospitalière pour défendre la santé, comprise comme bien commun.

    Quand la situation est dégradée au point de mettre les patients en danger, c’est un devoir moral de dénoncer l’inacceptable. A l’inverse, le silence est coupable et doit être questionné, y compris pour les directions hospitalières soumises directement à des injonctions insoutenables. Mettre la poussière sous le tapis, cacher les brancards derrière des paravents et faire taire les lanceurs d’alerte est indigne d’une démocratie sanitaire, de ce qu’on doit à la population. Interdire de mettre des mots sur les maux n’est pas un remède ; c’est une faute, comme étouffer la réalité avec le sophisme du pire.

    Les collectifs de défense de l’hôpital public et de notre système de santé universel demandent que ces actions d’intimidations voire de représailles cessent et que tous ensemble nous puissions travailler sereinement pour la sauvegarde de ce qui était jadis, selon l’Organisation mondiale de la santé (OMS), le meilleur système de santé du monde. Alerter est la première étape de la reconstruction et non, comme certains dirigeants veulent nous faire croire, la dernière étape de l’effondrement.

    Les premiers signataires : Philippe Bizouarn, anesthésiste-réanimateur, CHU Nantes, Collectif inter-hôpitaux ; Caroline Brémaud, urgentiste, CH Laval ; Sophie Crozier, neurologue, CHU de la Pitié-Salpétrière, Collectif inter-hôpitaux ; Sebastien Harscoat, urgentiste, CHU Strasbourg, Collectif inter-hôpitaux ; Véronique Hentgen, pédiatre, CH Versailles, Collectif inter-hôpitaux ; Corinne Jacques, aide-soignante, Collectif inter-urgences ; Cécile Neffati, psychologue, CH Draguignan, Collectif inter-hôpitaux ; Sylvie Pécard, IDE, CHU Saint-Louis, Collectif inter-hôpitaux ; Vincent Poindron, médecine interne, CHU Strasbourg, Collectif inter-hôpitaux ; Pierre Schwob, IDE Collectif inter-urgences.
    Liste complète des signataires : https://vigneaucm.wordpress.com/2024/01/15/signataires-tribune-le-monde-lanceurs-dalerte

    https://www.lemonde.fr/idees/article/2024/01/15/hopital-public-quand-la-situation-est-degradee-au-point-de-mettre-les-patien

    • @CollectInterHop
      https://twitter.com/CollectInterHop/status/1746981442524000465

      En attendant des mesures concrètes pour l’hôpital, aux #urgences

      6 heures d’attente et 50 brancards dans les couloirs : les urgences du CHU de Dijon saturées
      https://france3-regions.francetvinfo.fr/bourgogne-franche-comte/cote-d-or/dijon/6-heures-d-attente-50-brancards-dans-les-couloirs-les-u

      Selon la Fédération hospitalière de France (FHF), la situation dans les services d’urgences s’est dégradée de 41 % cette année par rapport à 2022. Quant à l’accès aux lits d’hospitalisation, la situation s’est détériorée de 52 % en un an d’après la FHF.

      #lits #brancards

    • Santé : Gabriel Attal critiqué pour sa « communication trompeuse » sur les 32 milliards d’euros supplémentaires annoncés
      https://www.lemonde.fr/societe/article/2024/01/15/sante-gabriel-attal-critique-pour-sa-communication-trompeuse-sur-les-32-mill

      En visite samedi au CHU de Dijon, le premier ministre a chiffré à « 32 milliards d’euros supplémentaires » sur les « cinq ans à venir (…) l’investissement » prévu dans le système de soins. Une non-annonce qui a suscité de sévères réactions des professionnels du secteur.

      S’il s’agissait d’envoyer un signal positif au secteur de la santé, ça n’a pas marché. Quarante-huit heures après le premier déplacement, samedi 13 janvier, du nouveau chef du gouvernement, Gabriel Attal, dans un hôpital, le scepticisme n’a fait que croître chez les acteurs du soin. En cause : un « coup de communication » peu apprécié par une communauté professionnelle sous tension.

      En visite au centre hospitalier universitaire de Dijon, M. Attal a chiffré, devant la presse, à « 32 milliards d’euros supplémentaires » sur les « cinq ans à venir (…) l’investissement » prévu dans le système de soins. « Je le dis, notre hôpital et nos soignants, c’est un trésor national », a-t-il affirmé, aux côtés de la nouvelle ministre chargée de la santé, Catherine Vautrin.

      L’annonce a, de prime abord, semblé conséquente. Etait-ce là une nouvelle « enveloppe » fortement attendue dans un secteur en crise depuis des mois ? La question a résonné dans les médias. Avant que l’entourage du premier ministre n’apporte une réponse, en forme de rétropédalage : ces 32 milliards d’euros correspondent à la « hausse du budget de la branche maladie qui a été adoptée dans la dernière loi de financement de la Sécurité sociale », concernant l’hôpital et la médecine de ville, a fait savoir Matignon.
      Un montant pas tout à fait « nouveau », en somme. Rien que pour l’hôpital, cela représente 3 milliards d’euros supplémentaires en 2024 par rapport à 2023, a-t-on aussi précisé dans l’entourage de M. Attal. Selon les documents budgétaires, les dépenses de la branche maladie passeront de 242,2 milliards d’euros en 2022 à 273,9 milliards d’euros en 2027.

      « Pensée magique »
      « Communication trompeuse », « effet d’annonce », « pensée magique »… Les réactions ont été sévères. « On ne peut pas présenter un budget déjà voté pour les prochaines années comme des “milliards supplémentaires” », a fait valoir, dès dimanche par la voie d’un communiqué, le Collectif inter-hôpitaux, appelant de ses vœux un « cap politique clair pour les prochaines années et des mesures fortes aptes à faire revenir les soignants partis de l’hôpital ».

      Annoncer en fanfare comme des nouveautés des budgets déjà attribués, c’est une entourloupe classique. D’habitude ça ne se chiffre pas en milliards et le procédé vise des secteurs de la société qui n’ont pas droit de cité (les chômeurs et précaires, par exemple).
      On est en train de demander au petit socle électoral du macronisme de faire l’impasse sur la manière dont, pour la plupart, ils ne sont pas et ne seront pas soignés un tant soit peu correctement.

      #budget

      #communication_gouvernementale #gouvernement_kamikaze

    • Système de soins en crise : « C’est terriblement dangereux, pour les soignants comme pour les patients »
      https://www.lemonde.fr/societe/article/2024/01/24/systeme-de-soins-en-crise-c-est-terriblement-dangereux-pour-les-soignants-co

      Par Mattea Battaglia et Camille Stromboni

      DÉCRYPTAGE Plongée dans un système de soins où la crise s’éternise, en ville comme à l’hôpital, de Lille à Strasbourg, en passant par la Mayenne.

      Brigitte Bourguignon, François Braun, Aurélien Rousseau, Agnès Firmin Le Bodo et, depuis le dernier remaniement, le 11 janvier, Catherine Vautrin… Un ministre de la santé chasse l’autre, à un poste qui a rarement semblé aussi instable que sous ce second quinquennat d’Emmanuel Macron. Et le système de soins, lui, s’enfonce dans la crise. C’est en tout cas le sentiment d’une large frange de soignants : les services hospitaliers sont saturés, les cabinets des médecins libéraux ne désemplissent pas. « Le système craque », répète-t-on sur le terrain. Mais avec le sentiment de ne plus être entendu.

      La crise sanitaire avait marqué une rupture et polarisé l’attention sur la situation des hôpitaux et des soignants. C’était encore le cas il y a un an, avec le déferlement d’une « triple épidémie » mêlant grippe, Covid-19 et bronchiolite sur les services hospitaliers, des pénuries de médicaments constatées un peu partout, un mouvement de grève des médecins libéraux…

      Et après ? « Rien ne change, mais plus personne n’ose rien dire, lâche Marc Noizet, à la tête du syndicat SAMU-Urgences de France. Tout doucement, on en arrive à une résignation complète. C’est terriblement dangereux, pour les soignants comme pour les patients. » « On est dans une course permanente pour garder la tête hors de l’eau, témoigne Luc Duquesnel, patron des généralistes de la Confédération des syndicats médicaux français. Pour beaucoup de collègues, la question n’est plus de savoir quand ça va s’améliorer, mais jusqu’où ils vont pouvoir tenir… »

      « Délestages » à la maternité de Lille

      De Lille à Strasbourg, de Créteil à la Mayenne, les symptômes d’une « maladie » qui ronge le système de soins continuent d’apparaître, toujours les mêmes – des bras qui manquent, des services qui ferment ou fonctionnent de manière dégradée, des déserts médicaux qui s’étendent, des patients qui ne trouvent pas de rendez-vous… Sans que la réponse politique paraisse à même d’inverser la tendance.

      A la maternité Jeanne-de-Flandre, au CHU de Lille – l’une des plus grandes de France –, la décision fait grand bruit : face au manque de pédiatres néonatologues, des transferts de patientes sont organisés, depuis décembre 2023, vers d’autres hôpitaux de la région, et jusqu’en Belgique. « La maternité continue de fonctionner normalement, seules certaines prises en charge en lien avec la réanimation néonatale sont orientées vers d’autres établissements partenaires », précise-t-on à la direction du CHU, tout en soulignant que des transferts de ce type ne sont pas inédits. Reste que ce « délestage » organisé devrait durer jusqu’en mai, le temps de reconstituer l’effectif médical.

      « Tant que c’étaient seulement les petites maternités qui fermaient, comme cela s’est encore produit tout l’été, le sujet restait sous les radars », pointe Bertrand de Rochambeau, président du Syndicat des gynécologues et obstétriciens de France. « Mais, là, on est dans une autre dimension », alerte-t-il, relevant qu’il s’agit d’un service de niveau 3 (en charge des grossesses les plus à risque), dans une grande métropole.

      Manque de lits d’aval

      Devant les urgences du Nouvel Hôpital civil de Strasbourg, ce qui devait être une « solution provisoire » pour réduire les délais d’attente est toujours d’actualité : l’unité sanitaire mobile, permettant d’accueillir jusqu’à huit personnes et de libérer plus rapidement les transporteurs (ambulances et véhicules de pompiers), sera installée là aussi longtemps que nécessaire, explique-t-on à l’hôpital. Déployé quelques jours avant Noël, le préfabriqué devait être démonté le 2 janvier. Depuis deux semaines, des ambulanciers ont pris le relais des sapeurs-pompiers initialement postés : un accueil « insuffisamment sécurisé », s’inquiète Christian Prud’homme, infirmier anesthésiste et secrétaire du syndicat FO aux hôpitaux universitaires de Strasbourg. Ce que l’hôpital dément.

      Aux urgences de Nantes, le décès, le 2 janvier, d’une patiente âgée qui était dans la « file d’attente » depuis près de quatre heures, a provoqué un vif émoi chez les soignants. « Cette dame serait décédée très probablement, mais cela aurait été plus acceptable pour tout le monde [si c’était arrivé] dans des conditions moins indignes », estime Eric Batard, chef de service. Elle avait été vue, à son arrivée, par l’infirmier d’accueil, qui n’avait pas constaté de signe de risque vital, et attendait d’être examinée par un médecin.

      Dernier épisode en date : ce mardi 23 janvier, l’hôpital Nord Franche-Comté a fait savoir qu’il devait recourir à la « #réserve_sanitaire » face à des tensions majeures aux urgences et en médecine. Le renfort de trois médecins, de dix infirmiers et de dix aides-soignants est prévu du 24 au 30 janvier.

      Les difficultés actuelles vont « bien au-delà des urgences ou des maternités », relève David Piney, le numéro deux de la Conférence des présidents de commissions médicales d’établissement de centres hospitaliers. « Les équipes sont à flux tendu, des services de médecine polyvalente comme d’autres spécialités sont aussi saturés… Dès qu’il y a un imprévu, c’est toute l’organisation qui se bloque. »

      Dans ce tableau sombre, quelques signaux d’amélioration sont pointés ici ou là. A la fin de l’année 2023, le patron de l’Assistance publique-Hôpitaux de Paris, Nicolas Revel, a ainsi relevé un « frémissement » dans les recrutements, plus favorables, chez les infirmiers – le point noir qui oblige de nombreux hôpitaux à garder des lits fermés. « On ressent un léger mieux, mais ça reste compliqué », reconnaît le professeur Rémi Salomon, président de la commission médicale d’établissement.

      Médecine de ville : la chute se poursuit

      Si la photographie des difficultés hospitalières se dessine, par petites touches, dans la presse ou sur les réseaux sociaux, qui relaient au quotidien les alertes et mobilisations de soignants comme de patients, les tensions qui pèsent sur la #médecine_de_ville, cette « deuxième jambe » du système de soins, se perçoivent – et se racontent – différemment. Un récit à bas bruit, conséquence d’une démographie médicale déclinante face à une population toujours plus âgée et une demande de soins toujours plus forte.

      Année après année, la chute se poursuit. Chez les généralistes, la densité – soit le nombre de médecins libéraux pour 100 000 habitants – est passée, entre 2013 et 2023, de 96,3 à 83,6, selon la direction de la recherche, des études, de l’évaluation et des statistiques. L’accès aux spécialistes – pédiatres, gynécologues, psychiatres… – est, lui aussi, de plus en plus difficile.

      Cela fait longtemps que les « #déserts_médicaux » ne se réduisent plus aux zones rurales. Symbolique, parce que réputée attractive, la région francilienne connaît également une détérioration de l’accès aux soins. « On a des médecins formés, il faut leur donner l’envie de s’installer », plaide Bernard Elghozi, généraliste installé dans le quartier du Mont-Mesly, à Créteil, depuis quarante-cinq ans. Cela fait dix ans que ce médecin a atteint l’âge de la retraite, cinq ans qu’il « songe vraiment à [s’]arrêter », confie-t-il, mais ne pas trouver de remplaçant pour « reprendre le flambeau » auprès de ses patients est, pour lui, un « crève-cœur ». « Régulièrement, je leur explique que j’arrêterai à la fin de l’année, et puis je reporte, je tiens… Ils sont peinés, anxieux de ne pas savoir qui va s’occuper d’eux. »

      En cinq ans, en dépit d’un réseau professionnel qu’il s’est aussi forgé comme militant associatif et praticien hospitalier à mi-temps, le docteur Elghozi n’a rencontré que deux libéraux, des pédiatres, possiblement intéressés par la reprise de son cabinet. Mais aucun généraliste.

      A quelque 300 kilomètres de là, en Mayenne, un territoire rural parmi les plus en difficulté, le docteur Luc Duquesnel, patron de la Confédération des syndicats médicaux français, a lui aussi l’attention focalisée sur les « départs ». Sur les dix-neuf #médecins de la maison de santé où il exerce, sept sont partis en retraite, un ailleurs dans le département, un autre en Bretagne… « On est de moins en moins nombreux pour faire des gardes toujours plus lourdes. On n’a pas le choix, on tient, même si on a le sentiment de se prendre un tsunami sur la tête. »

    • Pour la création de l’état de Neu-Israel !!

      Je comprends que notre passé nazi nous oblige moralement à soutenir les Juifs et Israël. C’est d’accord, en tant qu’Allemand tu n’y échappes pas. Je souscris l’unique solution logique du problème : en Palestine les Juifs ne vivront jamais en paix, alors donnons leur de notre propre chef une partie de notre pays.

      La Palestine était un mauvais choix et n’a jamais donné des résultats satisfaisant.

      Mais de là leur filer le Bade-Wurtemberg et la Bavière, les Länder les plus riches d’Allemagne,, non, c’est trop généreux.Vu les prognostiques qui annoncent qu’en septembre la plupart des mairies y seront conquises par l’extrême droite j’opte pour le Brandebourg, la Saxe et la Thuringe.

      Entre la jeunesse de village aux battes de baseball et l’AfD d’un côté et le Likoud avec ses colons de l’autre la différence n’est pas énorme. Ce serait du fair play .

      Fascholand bleibt Fascholand !

      Manque de bol, les Juifs d’Israël préfèrent acheter à Berlin-Mitte parce qu’ils n’osent pas s’en prendre aux hordes de paysans et chômeurs incultes. Mais si on autorisait qu’ils importent Tsahal et le Mossad le rapporte de force serait plus avantageux.

      N.B. Au sein de la chambre des Länder le Bundestat un seul état Nouvel-Israël ne compterait qu’un tier des sièges attribués aux trois Länder actuels. La droite sera moins influente alors à ce niveau. C’est compliqué la politique.

      #Bade-Wurtemberg #Bavière #Thuringe #Saxe #Brandebourg #juifs #philosemitisme #politique #parodie #wtf

  • Uber mißachtet Vorfahrt bei ausgefallener Verkehrsampel : mehrere Schwerverletzte
    https://www.morgenpost.de/berlin/article239370557/berlin-blaulicht-polizeimeldungen-polizei-feuerwehr-unfall-fehrbelliner-p
    https://img.sparknews.funkemedien.de/241030152/241030152_1704260370_v16_9_1200.webp

    So kennt man die Fahrer von Bolt, Uber und anderen Mietwagenplattformen : Ahnungslos, ohne Ausbildung und übermüdet. Die extreme Ausbeutung der Uber-Fahrer ist der Hintergrund vieler Verkehrsunfälle. Es wird Zeit, dass dieses Problem gelöst wird. Die Aufsichtsbehörde muss endlich Mindestlohn und die Einhaltung des Arbeitszeitgesetz durchsetzen.

    3.1.1023 Am Fehrbelliner Platz sind am Dienstagabend Autos kollidiert. Es wurden mehrere Menschen schwer verletzt.

    6.32 Uhr: Mehrere Menschen sind am Dienstagabend bei einem Unfall am Fehrbelliner Platz in Wilmersdorf verletzt worden. Ingesamt waren drei Autos an dem Crash beteiligt, teilte die Polizei am Mittwoch mit. Zum Zeitpunkt des Unfalls war die Ampel an der Kreuzung ausgefallen.

    Ein 49 Jahre alter Autofahrer war gegen 19.30 Uhr auf dem Hohenzollerndamm in Richtung der Stadtautobahn unterwegs. An der Kreuzung Fehrbelliner Platz kollidierte er mit einem 53 Jahre alten Autofahrer eines Fahrdienstunternehmens, der auf der Brandenburgischen Straße in Richtung Berliner Straße fuhr. Durch den Zusammenstoß schleuderte das Auto des Fahrdienstunternehmens, in dem sich vier Fahrgäste befanden, gegen das Fahrzeug eines 37-Jährigen. Dieser war auf der Gegenspur des Hohenzollerndamms unterwegs. Ein Mensch wurde in einem Auto eingeklemmt und mit schwerem Gerät befreit.

    Der 53 Jahre alte Fahrer des Fahrdienstunternehmens und die beiden Mitfahrerinnen im Alter von 20 und 47 Jahren sowie die beiden Mitfahrer im Alter von 28 und 53 Jahren erlitten Verletzungen am Kopf und kamen zur stationären Behandlung in Krankenhäuser. Bei dem 53-jährigen Mitfahrer besteht Lebensgefahr. Der 49-jährige Mann klagte über Kopf- sowie Nackenschmerzen und wurde ambulant am Ort behandelt.

    Die Feuerwehr war den Angaben zufolge mit über 50 Einsatzkräften vor Ort. Erst am frühen Mittwochmorgen schloss die Polizei die Unfallaufnahme ab. Die weiteren Ermittlungen werden von einem Fachkommissariat für Verkehrsdelikte der Polizeidirektion 2 (West) übernommen.

    #Berlin #Wilmersdorf #Fehrbellimer_Platz #Hohenzollerndamm #Brandenburgische_Straße #Uber #Unfall #Arbeit

  • Teure Heimfahrt in Brandenburg: 47-Jähriger missbraucht Polizei als Taxi
    https://www.tagesspiegel.de/potsdam/brandenburg/teure-heimfahrt-in-brandenburg-47-jahriger-missbraucht-polizei-als-taxi

    Polizei als Taxiersatz? Man fragt sich, war das der Bauer mit den dicksten Kartoffeln?

    Das Problem ist echt, nicht lustig. Auf dem Land wie in der Großstadt wird eine neue Taxipolitik benötigt, damit Individualverkehr im ÖPNV weiter aufrecht erhalten werden kann.

    22.12.2023 - Das war eine teure Heimfahrt: In Brandenburg hat ein Mann wegen des Sturms kein Taxi bekommen und rief kurzerhand Polizei und Feuerwehr dafür. Nun muss er die Einsatzkosten übernehmen.

    Ein 47-Jähriger in Klaistow (Landkreis Potsdam-Mittelmark) hat in der Nacht zu Freitag Polizei und Feuerwehr alarmiert, weil er kein Taxi bekam. Der Mann habe bei der Feuerwehr wegen eines umgefallenen Baumes angerufen, sagte ein Polizeisprecher am Freitag. Vor Ort stellten die Feuerwehrleute fest, dass der Mann gelogen hatte, es gab keinen umgefallenen Baum.

    Sie alarmierten die Polizei. Es habe sich herausgestellt, dass der Mann bereits eine Stunde zuvor bei der Polizei anrief, weil er wegen des Sturms kein Taxi bekam und nach Hause gebracht werden wollte. Ein Test ergab einen Atemalkoholwert von 1,09 Promille. Wegen der Wetterlage wurde er dann tatsächlich von der Polizei nach Hause gefahren. Die Kosten für die Fahrt sowie für die Einsätze von Polizei und Feuerwehr muss der Mann tragen. Außerdem läuft eine Anzeige wegen Notrufmissbrauchs gegen ihn.

    #Brandenburg #Taxi

  • „Hauptstadt des Verbrechens“
    https://anwaltsblatt.berlin/hauptstadt-des-verbrechens-2

    Bemerkenswert: Verbrechen als Krankheit, von der Verbrecher befallen werden.

    Von Julia Steinmetz - Zeitreise zu den historischen Gerichts- und Gefängnisgebäuden der 1920er-Jahre.

    Schon der Treffpunkt der Reisegruppe, bestehend aus Mitgliedern des Berliner Anwaltsvereins und des Richterbunds, war am 14. Juni um 16 Uhr ein historischer: der #Tränenpalast an der #Friedrichstraße. Von dort aus sollte das diesjährige Sommerhighlight, die „Krimitour durch Berlin“, organisiert durch den Berliner Anwaltsverein, starten. Aufgrund einer kleinen Busverspätung (der Berliner Verkehr) stellen die beiden Referenten Arne Krasting und Alexander Vogel vor dem Einstieg in den Bus sich und auch die Idee zur gemeinsamen Tour vor.

    Arne Krasting ist Historiker und Autor zweier Bücher. Sein erstes Buch „Fassadengeflüster. Berliner Bauten der Weimarer Republik“ erschien 2021. Gemeinsam mit dem Juristen Alexander Vogel veröffentlichte er 2022 das Buch „Justizgeflüster. Gerichte und Gefängnisse in Berlin“. Um Letzteres sollte es bei der Kriminaltour gehen, in der ein Blick auf die „dunkle Seite“ von Berlin, auch inspiriert von der Kultserie „Babylon Berlin“, geworfen werden sollte. Die Gegend um den #Bahnhof_Friedrichstraße schien hierfür der optimale Startpunkt, war sie doch in den 1920er-Jahren ein Ort des Amüsements, aber auch der Kriminalität und Prostitution mit zahlreichen Theatern und Bars in der Nähe.

    „Die Geschichte Berlins ist eine Geschichte von Kriminalität“

    Die Tour beginnt mit dem zwischenzeitlich eingetroffenen Reisebus, welcher im Inneren mit großen Bildschirmen ausgestattet ist, auf denen die Referenten untermalendendes Bild- und Videomaterial zeigen. Passend zur Fahrt über die Berliner Friedrichstraße und der Straße #Unter_den_Linden berichten die Referenten von der Diebstahlsgeschichte der Quadriga auf dem #Brandenburger_Tor sowie über die weithin bekannte Geschichte des Betrügers Friedrich Wilhelm Voigt, dem Hauptmann von Köpenick. Vorbei an der #Marienkirche, die im 13. Jahrhundert das Zentrum des mittelalterlichen Berlins darstellte und damals Schauplatz eines berüchtigten Lynchmordes wurde, der einen päpstlichen Bann über Berlin nach sich zog und erst nach Zahlungen und dem Aufstellen eines Sühnekreuzes wieder aufgehoben wurde, geht es zum #Alexanderplatz. Vogel macht schon zum Beginn der Tour deutlich: „Die Geschichte Berlins ist eine Geschichte von Kriminalität“.

    DER ALEXANDERPLATZ – SCHON VOR 100 JAHREN EIN KRIMINALITÄTSHOTSPOT

    Da gegen Ende des 19. Jahrhunderts die Kriminalität um den Alexanderplatz immer mehr zunahm, wurde 1890 genau dort das große neue Polizeipräsidium von Berlin gebaut, welches sich vorher am #Molkenmarkt befunden hatte. In das neue Gebäude zog auch der berühmteste Kommissar der Zeit ein: Ernst Gellert, auch der „Buddha vom Alex“ genannt. Er leitete die erste modern arbeitende Mordkommission und erfand, laut Vogel und Krasting, die Tatortarbeit. Auch neu war ein Fernsehformat, was in den zahlreich eröffnenden Berliner Fernsehstuben ab 1935 gezeigt wurde. In „Die Polizei bittet um Mithilfe“ zog Gellert die Bevölkerung in seine Ermittlungsarbeit ein; ein Format, was auch heute noch im Fernsehen zu finden ist. Nach der Fahrt rund um den Alex kommt die Reisegruppe in der #Littenstraße an. Ziel ist hier das Gerichtsgebäude, der sogenannte „Justizpalast“, der 1904 fertiggestellt wurde. Der Architekt des Gebäudes, so erklärt Krasting, sei Otto Schmalz, der für die Architektur vor allem Elemente des Rokokos und des Jugendstils gewählt habe, darüber hinaus gebe es viele Einzelheiten, die Krasting den Teilnehmenden vor Ort und anhand von Bildern erläutert. Nachdem alle Teilnehmer wieder sicher im Bus sitzen, geht die Fahrt über den #Straußberger_Platz, im Mittelalter der als „#Rabenstein“ bekannte Hinrichtungsplatz vor den Toren Berlins, weiter in das #Scheunenviertel.

    DAS VERBRECHERVIERTEL DER 20ER-JAHRE

    Vogel erklärt, dass die Gegend in den 1920er-Jahren der Ort des organisierten Verbrechens in Berlin gewesen sei und daher auch in „Babylon Berlin“ immer wieder Ort des Geschehens ist. In den sogenannten Ring-Vereinen, die ursprünglich gemeinnützige Organisationen zur Wiedereingliederung von Strafgefangenen und ehemaligen Häftlingen sein sollten, entwickelten sich damals kriminelle Strukturen und Verbrecherbörsen. Ort der Planung für die nächsten Coups waren oft Bars und Kneipen wie die „Mulackritze“, in der sich Gestalten wie „Muskel- Adolf“ oder Adolf Leu (der Schränker) trafen.

    „In den sogenannten Ring-Vereinen entwickelten sich damals kriminelle Strukturen und Verbrecherbörsen“

    Wie sehr Verbrechen und Tod zu dieser Zeit zum Alltag der Bevölkerung dazugehörten, wird auch in der #Hannoverschen_Straße 6 deutlich, dem ehemaligen Leichenschauhaus. Hier war es laut Vogel in den 1920er-Jahren üblich, am Sonntag zur Leichenschau zu kommen, in der unbekannte Opfer von Tötungstaten hinter Glasfenstern ausgestellt wurden, damit Besucher diese identifizieren konnten.

    RUND UM DIE LEHRTER STRASSE

    Ziel der letzten Station der Tour sollte die Gegend um die #Lehrter_Straße sein, in der seit den 1840er-Jahren verschiedene Gefängnisgebäude entstanden waren, die heute nur noch teilweise bestehen. An das große Zellengefängnis in der Lehrter Straße erinnert nur noch der Geschichtspark Zellengefängnis #Moabit, der 2006 eröffnet wurde. Kriminalität wurde 1840 als ansteckende Krankheit angesehen, sodass Ziel des damaligen Gefängnisneubaus die Unterbringung der Gefangenen in Einzelzellen war, in der zwischenmenschliche Kommunikation nicht möglich sein sollte. Auch beim einstündigen Freigang am Tag kamen die Gefangenen durch die panoptische Architektur niemals mit ihren Mithäftlingen in Kontakt. Diese unmenschliche Art der Unterbringung bestand bis 1910. Nach dem Attentat auf Adolf Hitler 1944 wurden in dem Gefängnis verdächtigte Beteiligte festgehalten, unter anderem Albrecht Haushofer und Klaus Bonhoeffer, die im April 1945 dort erschossen wurden. Ersterer schrieb während seiner Gefangenschaft die „Moabiter Sonette“, 80 Gedichte, die heute im Park in einer nachempfundenen Zelle über Lautsprecher vorgelesen werden.

    Zu Fuß ging es zum Schluss noch zum ehemaligen Frauengefängnis in der #Lehrter_Straße 60, in dem von 1945–1985 weibliche Gefangene aus Westberlin untergebracht waren. Ursprünglich war dieses Gebäude eine Militär-Arrestanstalt, nach dem Ersten Weltkrieg ein Gefängnis für Männer ohne Militärgerichtsbarkeit, in dem auch Kurt Tucholsky einsaß. 1973 und 1975 gelingt weiblichen Gefangenen zweimal der spektakuläre Ausbruch aus dem Gefängnis, sodass anschließend ein neues Frauengefängnis in Berlin-Charlottenburg gebaut wurde. Seit 2012 steht das Gebäude leer. Zukünftig geplant sei hier, laut Krasting, Proberäume für Musiker und Kunstateliers unterzubringen. Zudem diente das ehemalige Gefängnis als Drehort für „Babylon Berlin“.

    Auf dem Weg zurück zur Friedrichstraße und somit dem Endpunkt der gemeinsamen Tour erzählten die Referenten noch einen letzten Fall: die „Pleiten, Pech und Pannen-Karriere“ der Gebrüder Sass, Einbrecher, die als erstes auf die Idee kamen, Geldschränke nicht mehr aufzustemmen, sondern aufzuschweißen. Gegen 18:30 Uhr endete die sehr kurzweilige, höchst interessante Tour, an die alle Teilnehmenden sicher gern zurückdenken werden.

    #Berlin #Geschiichte #Kriminalität #Stadtführung #Sightseeing #Krankheit #Fernsehstube #Fernseh-Großbildstelle

  • Hermannplatz
    https://de.m.wikipedia.org/wiki/Hermannplatz

    Der Hermannplatz stellt sich als breite Spange zwischen zwei Kreuzungen dar. An der nördlichen Kreuzung treffen #Urbanstraße, #Kottbusser_Damm und #Sonnenallee auf den Platz. Die Urbanstraße wurde 1874 angelegt und trifft von Westen auf den Platz. Der Kottbusser Damm hieß bis 1874 #Rixdorfer_Damm. Dieser Straßenname geht bis ins 16. Jahrhundert zurück und die Straße ist eine der ältesten im Bezirk Kreuzberg. Die ältesten Aufzeichnungen der heutigen Sonnenallee stammen von 1890. Seit 1893 ist für die Straße der Name #Kaiser-Friedrich_Straße bekannt. 1938 bekam die Straße östlich des Hermannplatzes mit #Braunauer_Straße (benannt nach dem Geburtsort Hitlers) einen nationalsozialistischen Namen. 1947 verschwand dieser wieder aus dem Straßenbild und der Straßenzug erhielt den Namen Sonnenallee.

    Die Kreuzung an der Südseite des Hermannplatzes ist der Treffpunkt der Straßen #Hasenheide, #Hermannstraße und #Karl-Marx-Straße. Die Straße Hasenheide wurde bereits um 1678 als Weg angelegt und 1854 als befestigte Chaussee ausgebaut. Die Hermannstraße hat als Verbindung nach Britz ebenfalls eine sehr lange Vergangenheit und hieß bis Ende des 19. Jahrhunderts auch nur #Straße_nach_Britz. Im Jahr 1712 wurde über die aktuelle Trasse der Hermannstraße führend die #Poststraße Berlin – Mittenwalde – Dresden eröffnet. Die Karl-Marx-Straße (bis 31. Juli 1947 Berliner Straße) ist (wie der Kottbusser Damm) eine der ältesten Straßen am Platz. Schon bevor die Poststraße nach Dresden über die Hermannstraße eröffnet wurde, führte über die Berliner Straße ein Postweg nach Cottbus.

    #Berlin #Kreuzberg #Neukölln

  • À Paris, la BRAV-M percute et tue un piéton | Pascale Pascariello, Camille Polloni et Matthieu Suc
    https://www.mediapart.fr/journal/france/171223/paris-la-brav-m-percute-et-tue-un-pieton


    Policiers de la BRAV-M lors d’une manifestation pour Nahel à Paris le 30 juin 2023. © Claire Série / Hans Lucas via AFP

    Dans le XIXe arrondissement de Paris, le 12 décembre, un équipage de la BRAV-M, unité de police à moto, a percuté un homme. Grièvement blessé, il est décédé. Le parquet de Paris a ouvert une enquête préliminaire pour déterminer les circonstances de cet accident mortel et la responsabilité des policiers.

    Déjà décriées pour leurs interventions violentes contre des manifestant·es, les brigades de répression de l’action violente motorisées (#BRAV-M), escouades de policiers se déplaçant en binôme sur des motos, sont aujourd’hui mises en cause pour leur conduite dangereuse dans les rues de Paris. 
    Un de leurs équipages a percuté un passant, mardi 12 décembre, dans le XIXe arrondissement de Paris. Cet homme âgé a été grièvement blessé, souffrant notamment d’un traumatisme crânien. Transporté aux urgences, il est décédé deux jours plus tard. 
    Le parquet de Paris a confirmé, auprès de Mediapart, avoir saisi l’Inspection générale de la police nationale (IGPN) dans le cadre d’une enquête préliminaire ouverte sur les circonstances de cet accident mortel. Le service de traitement judiciaire des accidents (STJA) de la police parisienne est également saisi. 

    Selon une source à la préfecture de police de Paris, la BRAV-M « circulait en colonne » depuis sa caserne, située porte de la Villette dans le XIXe arrondissement, pour se rendre en mission dans un autre arrondissement de la capitale, quand l’une des motos a percuté un piéton qui traversait l’avenue de Flandre à proximité du métro Crimée.
    Une source policière, citée par l’AFP, indique que la BRAV-M répondait « à une demande de renfort d’un équipage de la direction de la sécurité de proximité de l’agglomération parisienne ». Selon la version des policiers mis en cause, le motard n’a pu éviter ce passant, « une bouteille à la main, semblant ivre », sinon il aurait « emplafonné une camionnette garée en double file ». 
    D’après les premiers éléments de l’enquête, l’alcootest du motard s’est révélé négatif mais des résultats d’analyses sanguines sont encore attendus. Le parquet a lancé des recherches pour retrouver des témoins potentiels et identifier la camionnette susceptible d’avoir gêné les policiers. Selon les agents, leur vitesse « n’aurait pas été excessive », une vidéo tournée un peu avant l’accident permettant d’en attester, sous réserve d’une mesure de vitesse ultérieure.  
    Ce n’est pas la première fois que la conduite de ces policiers pose problème. En effet, selon une source à la préfecture de police, des élus et habitants avaient fait part de leurs inquiétudes face aux excès de vitesse et au comportement routier de la BRAV-M lorsque ces policiers partaient en mission et rentraient à leur caserne. À la suite de ces alertes, il y a quelques semaines, le préfet de police, Laurent Nuñez, a convoqué ces brigades et, selon cette source, leur aurait dit : « Vous êtes une unité contestée, vous devez être irréprochables y compris dans vos déplacements. » 
    C’est en mars 2019, quelques jours après la nomination à la tête de la préfecture de police de Paris de Didier Lallement et en plein mouvement des « gilets jaunes » qu’apparaissent officiellement, au cours de manifestations parisiennes, les BRAV-M.
    Mais ces unités étaient déjà en gestation. Dès décembre 2018, sur décision du ministre de l’intérieur Christophe Castaner et du préfet Michel Delpuech, des binômes de policiers motorisés, interdits depuis le décès de Malik Oussekine en 1986, étaient déjà présents dans les rues de Paris. 

    Depuis, ces brigades sont devenues le symbole ambulant de ce que les manifestant·es reprochent aux forces de l’ordre françaises : une violence imprévisible, indiscriminée et gratuite. Plusieurs enquêtes visent la BRAV-M, notamment pour avoir agressé gratuitement un étudiant de 22 ans, ou encore pour avoir, le 20 mars à Paris, roué de coups et proféré des insultes racistes à l’égard de Souleymane, 23 ans. 
    Dans un rapport publié le 13 avril, l’Observatoire parisien des libertés publiques (OPLP), créé à l’initiative de la Ligue des droits de l’homme (LDH) et du Syndicat des avocats de France (SAF), étrille ces brigades. Intitulé « Intimidations, violences, criminalisation : La BRAV-M à l’assaut des manifestations », et fondé sur 90 observations des pratiques de maintien de l’ordre à Paris depuis le 1er mai 2019, ce rapport livre un réquisitoire sévère contre ces brigades « violentes et dangereuses, promptes à faire dégénérer les situations ».
    Hasard du calendrier : le 13 décembre, au lendemain de l’accident mortel, des membres de la BRAV-M jouaient les pères Noël à l’hôpital Necker-Enfants malades, en compagnie de la brigade de recherche et d’intervention (BRI). Dans un article consacré à cette opération organisée par une association de policiers, Le Parisien souligne « la tension » palpable chez les cadres de l’Assistance publique-Hôpitaux de Paris (AP-HP), qui n’avaient pas été prévenus de la présence de la BRAV-M auprès des enfants. « Après avoir envisagé d’annuler au dernier moment le convoi pourtant déjà en route, l’AP-HP donna son feu vert », ajoute le quotidien.

  • #Contrôles_frontaliers : l’ère des #drones

    Le 7 septembre 2023, les préfets du Nord, du #Pas-de-Calais et de la Somme adoptaient un arrêté interdépartemental autorisant l’emploi de #caméras installées à bord d’aéronefs « dans le cadre de la mission de lutte contre l’immigration clandestine en zone Nord ». Il permet, durant 3 mois, l’utilisation de 76 caméras embarquées à bord de drones, #avions et #hélicoptères afin de surveiller une large bande côtière de 5 km s’étendant, hors agglomération, sur 150 km de #Mers-les-Bains à #Bray-Dunes. Peut notamment être mobilisé, pour la #surveillance nocturne, l’avion de la société privée, prestataire de la #police_aux_frontières, habituellement utilisé dans le cadre de missions de sauvetage…

    Depuis qu’un #décret du #19_avril_2023, pris en application de la loi du 24 janvier 2022 relative à la responsabilité pénale et à la sécurité intérieure, permet la #surveillance_des_frontières par des caméras embarquées « en vue de lutter contre leur franchissement irrégulier », les préfets des départements frontaliers n’ont pas tardé à édicter des arrêtés en série, faisant entrer la surveillance des frontières dans l’ère des drones.

    Le préfet des #Alpes-Maritimes s’est empressé de dégainer le premier. En guise de ballon d’essai, il autorisait, pour la seule journée du 4 mai, la surveillance par drones d’un très large périmètre couvrant le littoral mentonnais ainsi que les abords des postes frontières et des voies ferroviaires. Une semaine après, le 10 mai, le même préfet édictait, pour une durée de 3 mois, deux nouveaux arrêtés couvrant le secteur frontalier et ferroviaire de la commune de Menton, de Breil-sur-Roya, de Sospel et de Castellar.

    Au terme de ces 3 mois, le 10 août, un nouvel arrêté autorisait l’utilisation d’une caméra grand angle et d’une #caméra_thermique, durant 3 mois, pour surveiller, de jour comme de nuit, le secteur de la commune de #Menton. Puis un autre, le 11 septembre, toujours pour 3 mois, en vue de l’utilisation de caméras optiques et thermiques pour contrôler la #vallée_de_la_Roya. À n’en pas douter, ces arrêtés seront renouvelés alors même que la loi exige que la surveillance ne soit pas permanente.

    Le 24 mai, le préfet des #Hautes-Alpes autorisait à son tour, pour 3 mois, la surveillance par drones des points de passage du #Briançonnais. Loin d’empêcher le franchissement des cols alpins, l’utilisation de ces moyens technologiques pousse les exilés à emprunter des itinéraires plus dangereux. Fin août, l’association Refuges solidaires n’a-t-elle pas dû fermer les portes du centre d’accueil d’urgence en raison de saturation ?

    Pour tenter de freiner le déploiement massif des drones, les associations ne sont pas restées passives. Afin de respecter le droit au respect de la vie privée, le Conseil constitutionnel a exigé, dans sa décision du 20 janvier 2022, qu’« une telle autorisation ne saurait cependant […] être accordée qu’après que le préfet s’est assuré que le service ne peut employer d’autres moyens moins intrusifs… ». Cette réserve a permis à des associations locales de contester avec succès, en référé-liberté, un arrêté du 26 juin 2023 du préfet des Pyrénées-Atlantiques autorisant la surveillance par drones, durant 1 mois, d’un large périmètre des communes frontalières d’Urrugne et d’Hendaye. En appel, le Conseil d’État a confirmé la suspension de l’arrêté, estimant que les données produites par l’administration sur les flux migratoires, les caractéristiques géographiques de la zone concernée et les moyens affectés « ne sont pas suffisamment circonstanciés pour justifier, sur la base d’une appréciation précise et concrète de la nécessité de la proportionnalité de la mesure, que le service ne peut employer, pour l’exercice de cette mission dans cette zone et sur toute l’étendue de son périmètre, d’autres moyens moins intrusifs… [1] ».

    Plus récemment, des associations, dont le Gisti, ont contesté, sans succès [2], des arrêtés du préfet de Mayotte d’août 2023 autorisant, jusqu’en novembre, l’utilisation de drones « dans le cadre des opérations de maintien de l’ordre et de lutte contre l’immigration clandestine » sur un périmètre couvrant 9 communes, pour une superficie au moins égale à 200 km2, soit l’essentiel des zones habitées de l’île.

    Le déploiement de ces technologies de surveillance contribue à la déshumanisation accrue des contrôles frontaliers et à la mise à distance des migrants. Plusieurs indices font néanmoins craindre un développement rapide de ces technologies de surveillance. En mars 2023, la Commission européenne envisageait ainsi, dans une communication sur la gestion intégrée des frontières, de privilégier l’utilisation de drones. Quant à la loi « JO » du 19 mai 2023, elle permet aux forces de l’ordre d’expérimenter, jusqu’en 2025, le traitement algorithmique des images captées lors de manifestations sportives, récréatives ou culturelles – expérimentation qui sera, sans guère de doute, pérennisée à l’avenir et élargie aux contrôles frontaliers.

    Pour surveiller des périmètres plus vastes, il est aussi possible d’effectuer une surveillance des frontières par des drones munis de capteurs thermiques et infrarouge [3], des drones militaires (comme pour le défilé du 14 juillet 2023), des drones en essaim (comme à l’occasion de feux d’artifice), ou même des dirigeables. On peut aussi imaginer des drones équipés de dispositifs d’immobilisation à impulsion électrique (dit « taser ») [4] ou, pourquoi pas, comme Serge Lehman dans F.A.U.S.T. [5], des nano drones permettant de contrôler l’accès des citoyens à un territoire et tenir à l’écart les indésirables ?

    https://www.gisti.org/spip.php?article7132

    #frontières #Calais #justice #frontière_sud-alpine #Alpes #Mayotte #technologie #déshumanisation

  • How a Brazilian prison gang became an international criminal leviathan
    https://www.theguardian.com/world/2023/nov/11/pcc-brazil-drug-trade-gang

    But over the past five years, investigators say the PCC – which the US now calls one of the world’s most powerful organized crime groups – has morphed into an even more formidable force after forging lucrative alliances with partners ranging from Bolivian cocaine producers to Italian mafiosi. Today, the group boasts tens of thousands of members and has a growing portfolio of interests, including illegal goldmines in the Amazon. It controls one of South America’s most important trafficking routes – linking Bolivia and Brazil to Europe and Africa – and is partly responsible for a tsunami of cocaine that has brought car bombings, assassinations and gunfights to parts of Europe.

    “If someone is using cocaine in France, England or Spain there’s a very good chance it got there through the hands of the PCC,” said Lincoln Gakiya, a prosecutor from São Paulo’s organized crime taskforce, Gaeco, who estimates the group now makes $1bn a year – almost entirely from international trafficking.

    [...]

    “They start in this nightmarish situation and they gather up enough power to subdue all rivals. They become a kind of a leviathan and they take over and then they put in place a kind of social order, a peace, that makes everybody better off.

    “Of course, some people don’t like it,” Lessing added. “But for the average prisoner they are happy to be governed, just like the average citizen is happy that there is a state.”

    #Brazil #Brésil

  • Oups, la commission des lois a frappé !

    4 #initiatives_citoyennes qui dégagent, hier, exécutées sans sommation. Et pas n’importe lesquelles : c’est carrément le top 5 qui se fait décimer !

    i-1484 demission Macron
    i-1559 RIC constituant (#2)
    i-1446 dissolution BRAV-M (#2)
    i-1123 destitution Macron article 68


    https://petitions.assemblee-nationale.fr/initiatives/i-1484 6609 (5ème)
    https://petitions.assemblee-nationale.fr/initiatives/i-1559 7268 (4ème)
    https://petitions.assemblee-nationale.fr/initiatives/i-1446 26802 (3ème)
    https://petitions.assemblee-nationale.fr/initiatives/i-1123 66561 (1ère)


    vidéo de l’exécution : https://videos.assemblee-nationale.fr/video.13990068_65264c8799955.commission-des-lois--decisio

    https://piaille.fr/@politipet/111223411975120568

  • Tesla-Fabrik in Grünheide : Offenbar dreimal so viele Arbeitsunfälle wie bei Audi
    https://www.berliner-zeitung.de/wirtschaft-verantwortung/tesla-fabrik-in-gruenheide-offenbar-dreimal-so-viele-arbeitsunfaell

    La région au portes de Berlin s’est battue pour acceuillir l’usine Tesla, le Land Brandebourg a subventionné et autorisé l’usine tout en obligeant les riverains à accepter le risque de ne pouvoir plus prendre de douche qu’avec de l’eau embouteillé à cause de la surconsommation d’eau par l’usine. Cet article nous informe que l’hyper rentabilité de Tesla est accompagnée d’un nombre d’accidents de travail grave trois fois plus élevé que dans les usines Audi.

    La règle du jeu se confirme : le taux de rentabilité est en relation évidente avec le taux des accidents du travail
    cf. https://seenthis.net/messages/1018902

    Les accidents entrainant une pollution importante sont également courants dans l’usine de Mister Musk. On s’en doutait. Bonjour la douche à l’eau minérale.

    28.9.2023 von Jens Blankennagel - Teslas erste Fabrik in Europa sorgt weiter für Schlagzeilen und erheblichen Wirbel. In der sogenannten Gigafactory bei Grünheide in Ostbrandenburg haben sich offenbar ungewöhnlich viele Arbeitsunfälle ereignet. Das berichtet das Magazin Stern in seiner aktuellen Ausgabe. Das Magazin konnte bislang unbekannte Unterlagen der Behörden einsehen.

    Dort heißt es, dass 247 Mal Rettungswagen oder Hubschrauber angefordert worden seien. „Auf die Mitarbeiter-Zahl umgerechnet, seien dies – in ähnlichem Zeitraum – dreimal so viele Notfälle wie beispielsweise in Audis Werk in Ingolstadt“, teilt der Stern mit.

    Auch habe es 23 Umweltunfälle auf dem Tesla-Gelände gegeben. Immer wieder seien Schadstoffe ausgelaufen, schreibt der Stern. Schon geringe Mengen könnten das Grundwasser von 170.000 Einwohnern direkt an der Grenze zu Berlin gefährden. Denn die Fabrik steht zu großen Teilen auf einem Trinkwasserschutzgebiet.

    Zudem ist am Mittwochabend eine seit Wochen geplante politische Intrige zur Entmachtung im Umfeld der Fabrik gescheitert. Dabei geht es um die Wasserversorgung der Fabrik des Multimilliardärs Elon Musk. Das Wasser ist der wichtigste Kritikpunkt der Gegner dieser mit geschätzt fast sechs Milliarden Euro Baukosten größten industriellen Investition in Ostdeutschland. Die Kritiker bemängeln, dass das Land den Bau aus Prestigegründen ausgerechnet in einem Wasserschutzgebiet erlaubt hat.

    Am Mittwochabend sollte eigentlich der Chef des Wasserverbands Strausberg-Erkner (WSE), André Bähler, abgewählt werden. Der WSE versorgt die Region mit Trinkwasser, leidet aber seit vielen Jahren unter erheblichem Wassermangel. Es durften nicht mal mehr neue Kleinbetriebe eröffnet werden, um die Versorgung nicht zu gefährden – doch dann wurde die Tesla-Fabrik genehmigt, mit mehr als 10.000 Mitarbeitern, die jedes Jahr wahrscheinlich mehr als 250.000 Autos herstellen.

    Bähler hatte immer wieder kritisiert, dass das Wasser nicht reiche und die Versorgung der Bevölkerung östlich von Berlin potenziell gefährdet sei. Auch deshalb wollten einige Bürgermeister ihn ablösen. Das können sie im Namen ihrer 16 Gemeinden. Sieben Bürgermeister hatten im Vorfeld einen Abwahlantrag unterzeichnet. Doch der scheiterte am Mittwochabend, weil sie keine Zwei-Drittel-Mehrheit erreichten. Nur vier waren dafür und sogar zehn Bürgermeister stimmten gegen die Abwahl. Einige sogar gegen den eigenen Willen. Sie waren zuvor von ihren Gemeindevertretungen dazu aufgefordert worden.

    „Das unwürdige Schauspiel, den Vorstand des Wasserverbandes Strausberg-Erkner aus dem Weg räumen zu wollen, wurde heute vorerst beendet“, sagte Heidemarie Schroeder von der Wassertafel Berlin-Brandenburg der Berliner Zeitung. „Dies ist ein erster Etappensieg für die Vernunft in der Demokratie.“ Der Konflikt um das Wasser habe sich durch Tesla zugespitzt. Die Regierung habe vom ungebremsten Wirtschaftswachstum geträumt. „In Zeiten des Klimawandels müssen Träume offen und transparent mit den Realitäten fehlender Wasservorräte in der Region abgeglichen werden.“ Und diese Anpassung an die Realität müsse zuerst bei Tesla erfolgen.

    Schon vor dem Abwahltermin hatte der Vorsitzende des Naturschutzbundes Brandenburg, Björn Ellner, einen offenen Brief an die Mitglieder des Wasserverbandes geschrieben. Er schrieb von einer „richtungsweisenden Entscheidung“. Die Argumentation des Nabu-Chefs: „Wir sehen, dass sich Brandenburg in einer besorgniserregenden Wasserkrise befindet.“ Besonders dramatisch sei es im Umfeld der Tesla-Fabrik. „Das fehlende Wasser hat hier, aber auch andernorts, bereits einen massiven negativen Einfluss auf unsere Ökosysteme. Schon jetzt fallen zum Beispiel Kleingewässer und Fließe trocken; schon jetzt haben wir ein massives Amphibiensterben.“ In der Wasserfrage gehe es nicht darum, Personen auszutauschen, sondern um eine zeitgemäße Wasserwirtschaft.
    Sogar amputierte Gliedmaßen

    Die monatelangen Recherchen des Stern ergaben zudem eine Vielzahl an schweren und schwersten Arbeitsunfällen. Das Magazin zitiert aus einer Notiz des Landesamtes für Arbeitsschutz, aus der hervorgehen soll, dass auf dem Werksgelände über einen längeren Zeitraum fast täglich Unfälle passiert seien. „Allein zwischen Juni und November 2022 gab Tesla selbst demnach mindestens 190 meldepflichtige Unfälle an“, heißt es. Einem Mitarbeiter sei aus mehreren Metern Höhe eine 50 Kilogramm schwere Holzkiste auf den Kopf gefallen, ein Mitarbeiter verletzte sich an einem Ofen mit glühend heißen Aluminium. Es gab wohl auch Verletzungen durch Verbrennungen und Salzsäure und auch amputierte Gliedmaßen.

    Der Bezirksleiter der IG-Metall, Dirk Schulze, sagte dem Stern: „Diese Häufigkeit an Arbeitsunfällen ist nicht normal.“ Es handele sich um ein Mehrfaches dessen, was in anderen Automobilfirmen üblich sei. „Ich habe die größte Sorge, dass irgendwann jemand zu Tode kommt.“ Brandenburgs Ministerpräsident Dietmar Woidke (SPD) habe bestätigt, dass die Zahl der Unfälle „nicht unbekannt“ sei, heißt es beim Stern. Er könne sich dazu aber nicht äußern, er sei „nicht der Sprecher von Tesla“.

    Zu den Umweltunfällen heißt es im Stern, dass schon geringe Mengen von Schadstoffen im Boden ausreichen, um potenziell das Trinkwasser von 170.000 Menschen zu gefährden. Dazu zitiert das Magazin Martin Pusch vom Leibnitz-Institut für Gewässerökologie und Binnenfischerei in Berlin: „Eine Havarie im Wasserschutzgebiet kann die Trinkwasserversorgung der ganzen Region gefährden, da dort bereits jetzt kaum Reserven vorhanden sind.“

    #Allemagne #Brandebourg #industrie #travail #voitures #accidents_du_travail

  • Disqueuse. Rédoine Faïd aux assises pour évasion, par Noémie Schulz @noemieschulz
    https://twitter.com/noemieschulz/status/1706335451043266563

    L’interrogatoire de #RedouaneFaid sur les faits commence « Avant de monter dans cet hélicoptère, je me dois d’expliquer la génèse de tout ça. Ce qui a provoqué l’envie de partir. Je dois démarrer mon récit en détention. »
    "Quand vous arrivez à #Fresnes, au quartier d’isolement, vous etes au rez-de chaussée. La cellule, c’est comme être dans une cave. Pas de fenêtre, un vasistas en hauteur, pas de chauffage, pas de douche, des toilettes turques ou normales selon la cellule"
    « La première fois que j’y suis arrivé, c’était y’a 20 ans. C’est un gouffre quand vous arrivez, y’a des rats, des cafards. Si vous fermez pas la fenêtre, le rat monte dans la cellule. C’est ça Fresnes. L’hiver, il gèle tout simplement. Vous dormez avec trois pulls, deux manteaux »

    « Les surveillants sont féroces. Ce sont des conditions de détention extrèmes.
    Vous y passez 23 heures par jour. On entend les lamentations des gens, les gens qui pleurent, qui hurlent. Mais plus fort que les lamentations, c’est le silence dans cet endroit »
    "Le silence transmet le son d’une douleur impénétrable. C’est une machine à broyer. C’est l’outil répressif de l’administration pénitentiaire."
    « C’est un endroit, ça vous ferme l’esprit, on vous dépossède de votre corps. Vous vous dites que votre vie appartient à ces murs.
    C’est difficile de pas sombrer dans la haine. Moi j’ai développé des capacités pour résister à ça. »
    "On veut pas s’évader, on sait que ça va renforcer la répression. J’ai fait la connerie en 2013. Je voulais pas recommencer. Mais le problème c’est que ça s’arrête pas. Tout est fait pour vous briser."
    « Ceux qui considèrent que cette injustice ne les concerne pas, je leur dis qu’ils se trompent.
    L’agressivité qu’il y a dans ces quartiers c’est grave, cela destabilise la démocratie. Le système carcéral français reverse des femmes, des hommes brisés »
    "On leur a inculqué la haine, on leur a transfusé de la rage. On vous parle du fléau des multirécidivistes. On entend des experts qui disent que c’est normal que ce soit dur. Mais tous ces gens, à un moment ils vont sortir, vous allez être amené à les croiser"
    « Vous voulez quoi ? on veut des gens énervés, en colère, enragés, ou des gens qui sont calmes ?
    Quand la société ne pâtit pas de cette violence, ça veut dire que cette violence ils l’ont retournée contre eux. »
    « Il y a des #suicides, 125 par an. A minima c’est une faute politique.
    Moi je me suis retrouvé dans cette cellule, c’est quoi l’issue ? C’est une question de survie aussi. Vous vous dites je vais crever ici. La folie vous guette, la mort rode. »
    "L’évasion c’est une séduction. Tout le monde dans la vie. Après une semaine harassante, tout le monde a envie de sortir, fumer une clope, partir en vacances. En prison, ça a une autre signification."
    « C’est une solution, mauvaise, mais qui fait rentrer un espoir. Elle t’empêche aussi de te suicider, de te tuer, de devenir fou. Tu t’accroches à quelque chose. Petit à petit l’idée chemine dans ma tête. Dans ce désert de silence, je renais. »
    « Il faut pas juste une kalachnikov et un hélicoptère pour s’évader, ça commence dans la tête.
    J’ai peur aussi parce que ça peut mal se passer, on peut se faire tuer. »
    "Je vais choisir l’évasion la plus complexe, qui demande de ne pas toucher à un surveillant. L’idée c’est de partir sans faire de dégâts. LMême si une prise d’otage ça choque les gens. Je voulais faire ça le mieux possible."
    « En tous ca,s y’a pas une goutte de sang qui sera versée. Moi je suis un #braqueur, pas de problème. Mais j’ai mes limites. Y’a des zones où je ne veux pas aller. Je suis pas prêt à tout »

    « Pour s’évader de prison, je m’inspire des autres. Mesrine, Francis Mariani, Michel Vaujour, je regarde ce qu’ils ont fait bien entendu et je vais moderniser les choses car depuis les maisons ont été bunkerisées »
    "Avant y’avait pas filins, les portes étaient pas blindées. J’apporte ma touche personnelle. Il faut une aide extérieure, un contact. Quelqu’un qui applique le scénario à la lettre, qui comprend les choses, qui a une expérience. Moi j’ai la chance d’avoir des amis."
    « Mais moi mes potes je les balancerai pas, je vous dirai pas qui c’est. Ils m’ont aidé au péril de leur vie.
    Donc j’ai mon gars dehors, je rentre en contact avec lui. Il est prêt à tout. J’ai du matériel en ma possession, depuis très longtemps. »

    « A Réau y’avait pas filin, j’ai eu du mal à le croire
    2e atout, le bâtiment du parloir, il est juste à l’entrée
    il fallait voir si y’avait la place pour que l’hélicoptère se pose... y’a archi la place. Y’a un problème de mirador
    Moi j’ai dit, pas de coup de feu. J’ai mes limites ».
    « On a un tuyau, dans cette cour y’a une porte de service qui conduit au parloir. On se dit que si on arrive à péter cette porte, pour accéder au parloir, c’est faisable.
    Mais les explosifs, c’est trop risqué, on décide de pas faire ça »
    « J’avais un autre problème, mon gars dehors il connait pas l’intérieur. Si quelqu’un vient au parloir, il faut pas qu’il se perde. Je vous l’ai dit, je copie sur les autres. Je regarde aussi les échecs, c’est le maitre des maitres pour apprendre »

    « Donc je sais que c’est un danger, un mec qui se trompe, qui va perdre une ou deux minutes, c’est chaud.
    Je me tourne vers mon frère Rachid, je lui envoie mon gars, qui lui parle, qui le motive ».

    #Rédoine_Faïd #prison #DPS #quartier_d'isolement #évasion

    • Redoine Faïd condamné à quatorze ans de prison pour son évasion dans un procès disproportionné
      https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/10/26/redoine-faid-condamne-a-quatorze-ans-de-prison-pour-son-evasion-en-helicopte

      Dix-huit ans avaient été requis contre Rachid Faïd, le grand frère, 65 ans, personnage le plus intéressant et le plus touchant de l’audience, ouvrier en bâtiment et père adoptif de deux enfants, qui a sacrifié sa vie normale pour venir tirer son petit frère du « mouroir » au nom des liens du sang, dans un geste fou : descendu de l’hélicoptère, il avait découpé à la meuleuse les pênes de quatre portes, dont la dernière donnait sur le parloir où se trouvait Rédoine. Verdict : dix ans.

      Contre Ishaac Herizi, accusé d’avoir pris part au commando héliporté et sécurisé l’opération, kalachnikov à la main, quinze ans avaient été requis. Verdict : huit ans. Son frère Karoune, lui, était notamment accusé d’avoir géré les voitures utiles à l’évasion ; dix ans requis, six ans prononcés. Liazid Faïd, un autre neveu de Rédoine, coupable d’avoir aidé lors de la cavale, a été condamné à deux ans. Enfin, Brahim Faïd, l’autre grand frère, 63 ans, pour s’être rendu en 2017 avec Rachid à la rencontre d’un intermédiaire censé favoriser l’évasion de Rédoine, a été condamné à un an avec sursis pour « association de malfaiteurs », lui qui, c’est l’évidence, n’en est pas un, et pour qui le parquet général avait demandé l’acquittement.

      [...]

      « Klaus Barbie, vous lui avez pas fait ça ! »

      Ses avocats n’ont cessé de soutenir l’idée d’un « traitement de faveur » envers lui, qui, par deux fois, a infligé à l’administration pénitentiaire l’humiliation d’une évasion. « Je n’ai tué personne, mais j’ai pris la tangente. C’est un crime absolument terrible pour eux, a dit Rédoine Faïd. Ils veulent faire de moi un symbole. »

      Comme prévu, le braqueur, qui a passé vingt-deux ans sur cinquante et un en détention, a profité de l’audience pour dénoncer son traitement carcéral. Ce fut bien le procès de l’isolement, cet « enfer d’ennui », ce « sarcophage en béton » dans lequel il est « emmuré vivant » et qui justifie tous les désirs d’évasion. « Klaus Barbie, vous lui avez pas fait ça ! », a-t-il hurlé un jour. Un autre, il fut question de Salah Abdeslam : « Au bout de neuf mois, on a enlevé l’hygiaphone de son parloir, parce qu’on a estimé qu’il avait le droit de prendre sa femme et son enfant dans les bras. Moi ça fait cinq ans que j’ai touché personne. Ce qu’on m’a fait, c’est un massacre. »

      Sous réserve d’un appel, suspensif, et sans tenir compte d’éventuelles réductions de peine, Rédoine Faïd n’est, à ce jour, pas libérable avant 2060 – il aurait alors 88 ans. A l’audience, où il est souvent apparu solide et souriant, il s’est prédit un avenir sombre : « Le jour où je vais flancher – ça arrivera un jour –, ce sera irrécupérable, ce sera une descente sèche, c’est sûr et certain. Quand ça va basculer, ça va basculer d’un coup. »

      https://archive.ph/wClnN

  • Stolpersteine für Holocaust-Opfer: Berliner Jüdin kehrt an den Ort ihres Schreckens zurück
    https://www.berliner-zeitung.de/politik-gesellschaft/stolpersteine-fuer-holocaust-opfer-eine-berliner-juedin-kehrt-an-de

    21.9.2023 von Anne-Kattrin Palmer - Es ist Mittagszeit, als sich vergangene Woche ein Trüppchen von Menschen vor einem Wohnhaus in Berlin-Mitte trifft. Die Sonne scheint, der ehemalige Architekt Thomas Schriever kniet sich mit seinem Eimer nieder und beginnt, die Pflastersteine aus dem Boden zu holen. Er geht langsam vor, bedächtig. Seine Augen sind gerötet. Später wird er sagen, dass es ihm sehr nahegegangen ist.

    Neben ihm sitzt eine zierliche, gebrechliche Frau mit rotem Haar in einem Rollstuhl. Ginger Lane ist 84 Jahre alt. Die einstige Balletttänzerin hat ihre Augen hinter einer großen orangen Sonnenbrille versteckt, weil das Licht so brennt, aber auch die Erinnerungen. Ihre schmalen Hände zittern, während der Mann im Blaumann einen Spachtel in die Erde haut, die Steine rausholt, Wasser auf das Loch schüttet und weitergräbt. Verwandte von Ginger Lane, wie ihre ebenfalls rothaarige Tochter Beth, eine Filmemacherin, die aber auch mal als Schauspielerin in einem Francis-Ford-Coppola-Streifen mitspielte, richten die Handys auf den ehrenamtlichen Stolperstein-Verleger Schriever, der sich langsam vorarbeitet.

    Bildstrecke

    Neun Rosen für die Eltern und die sieben Kinder der Familie Weber.

    Neun Rosen für die Eltern und die sieben Kinder der Familie Weber.Markus Wächter/Berliner Zeitung

    Beth Lane (v.M.) vor den Stolpersteinen ihrer Familie an der Max-Beer-Straße.

    Beth Lane (v.M.) vor den Stolpersteinen ihrer Familie an der Max-Beer-Straße.Markus Wächter/Berliner Zeitung

    Beth Lane mit ihrer Mutter Ginger Lane, die als Kind in Berlin-Mitte lebte.

    Beth Lane mit ihrer Mutter Ginger Lane, die als Kind in Berlin-Mitte lebte.Markus Wächter/Berliner Zeitung

    Der Architekt Thomas Schriever verlegt die Steine.

    Der Architekt Thomas Schriever verlegt die Steine.Markus Wächter/Berliner Zeitung

    Ginger Lane war drei Jahre alt, als ihre Mutter ermordet wurde.

    Ginger Lane war drei Jahre alt, als ihre Mutter ermordet wurde.Markus Wächter/Berliner Zeitung

    Musik begleitete die Zeremonie.

    Musik begleitete die Zeremonie.Markus Wächter/Berliner Zeitung

    In Gedenken an die Familie Weber.

    In Gedenken an die Familie Weber.Markus Wächter/Berliner Zeitung

    Thomas Schriever arbeitet sich vor, nach 50 Minuten war es vollbracht.

    Thomas Schriever arbeitet sich vor, nach 50 Minuten war es vollbracht.Markus Wächter/Berliner Zeitung

    Mutter und Tochter: Ginger und Beth Lane leben in Amerika.

    Mutter und Tochter: Ginger und Beth Lane leben in Amerika.Markus Wächter/Berliner Zeitung

    Die neun Stolpersteine, bevor sie eingebettet wurden.

    Die neun Stolpersteine, bevor sie eingebettet wurden.Markus Wächter/Berliner Zeitung

    Ginger Lanes Redemanuskript.

    Ginger Lanes Redemanuskript.Markus Wächter/Berliner Zeitung

    Die Weber-Kinder gemeinsam mit weiteren jüdische Überlebenden vor ihrer Abfahrt nach Amerika, Ginger Lane steht vorne.

    Ginger Lane kämpft die nächsten 50 Minuten mit den Tränen, vor allem als Schriever einen Stolperstein nach dem nächsten in der Erde verschwinden lässt. Auf jedem einzelnen stehen die Namen ihrer jüdischen Familie – ihr Vater Alexander Weber, die Mutter Lina (Kosename von Pauline), der Bruder Alfons, die Schwestern Senta, Ruth, Gertrude, Renee, Judith und sie, Bela Weber. Bela heißt heute Ginger, sie spricht nur noch Englisch. „Deutsch habe ich nach meiner Flucht 1946 nicht mehr gesprochen“, erzählt sie später. In den USA habe man nach Hitler als Deutsche keinen guten Stand gehabt.

    Doch jetzt schaut sie andächtig auf den schmalen Gehweg vor dem Wohnhaus mit den 30 Klingelschildern in der Max-Beer-Straße 50, auf dem fortan die neun goldenen Steine an ihre Geschichte erinnern und auch mahnen sollen, dass die Schrecken der Vergangenheit nie wieder auferstehen dürfen. In Mitte liegen mehr als 2000 solcher Steine.

    1943 hieß die Straße noch Dragonerstraße, die Hausnummer war 48. Die gibt es nicht mehr und auch nicht das alte große, heruntergekommene Haus, in dem die Familie lebte, bis die Nazis sie verfolgten und die Mutter von Ginger Lane in Auschwitz ermordeten. Ein Musiker spielt jetzt „Sag mir, wo die Blumen sind“. Ginger Lane laufen Tränen über die Wangen.

    Die 84-Jährige ist 1939 in Berlin geboren, damals lebte die Familie noch in der Grenadierstraße (heute Almstadtstraße) im „Scheunenviertel“, das, bevor Hitler an die Macht kam, bevorzugter Ankunftspunkt für Tausende von Juden war, die aus den östlichen Gebieten Europas vor Gewalt und Pogromen flohen.

    Auch die Familie Weber war 1930 in das Arme-Leute-Quartier gezogen. Alexander Weber kam aus dem katholischen Paderborn. Er war der Spross einer gut situierten Familie, die eine Regenschirm-Manufaktur besaß. Als er geschäftlich nach Ungarn reiste, lernte er Pauline Banda kennen, Tochter eines Kantors der jüdischen Gemeinde in Rákospalota, und verliebte sich. Am 12. September 1926 heiratete er die hübsche Frau mit den braunen Haaren in Rákospalota und nahm sie mit nach Deutschland. Vorher war Weber sogar zum jüdischen Glauben konvertiert.

    Doch die jüdische Ehefrau war nicht willkommen im erzkatholischen Paderborn. „Sie haben ihn enterbt“, sagte eine der Töchter, Ruth, mal in einem Interview mit der Süddeutschen Zeitung. Alexander Weber brach vollständig mit seiner Familie, verließ Paderborn, zog nach Dortmund und dann, Anfang 1930, nach Berlin, zunächst in eine Zwei-Zimmer-Wohnung in der Grenadierstraße. Danach in die Dragonerstraße. Das Paar bekam sieben Kinder. Alfons war der Älteste, die Jüngste war Bela, heute Ginger.

    Ginger Lane war dreieinhalb Jahre alt, als die Gestapo vor der Tür stand. Es hat sich bis heute bei ihr eingebrannt, obwohl sie noch so jung war. Sie weiß genau, dass die Männer in Ledermänteln gegen die Tür hämmerten und ihre Mutter öffnete. Ginger selbst versteckte sich. Die Tür schlug wieder zu, ihre Mama war weg. Sie schaute aus dem Fenster, sah, wie die Männer ihre hilflose Mutter in ein schwarzes Auto schubsten. Sie ahnte damals nicht, dass sie Mutter nicht mehr wiedersehen würde. 1943 wurde Pauline Weber in Auschwitz ermordet. Jetzt, genau 80 Jahre danach, sitzt ihre Tochter vor dem Haus, in dem alles passierte. Sie konnte lange Jahre nicht hierhin zurückkommen.
    1943 in Berlin: Die Mutter, der Vater und der Bruder werden verhaftet

    Damals überschlugen sich die Ereignisse: Die Mutter war weg, noch in derselben Nacht wurde auch Alexander Weber verhaftet, am nächsten Morgen brachte man die sieben Kinder in das Krankenhaus der jüdischen Gemeinde in der Exerzierstraße. „Wir waren ganz allein, als sie uns holten“, erzählt Ginger an jenem Mittag in Berlin. Alfons sei noch mal abgehauen, er wollte irgendwelche Papiere in Sicherheit bringen, aber als er zurückkam, hätten sie ihn eingesperrt. Doch er sowie der Vater kamen auf wundersame Weise wieder frei. Alexander Weber rettete wohl, dass er seinen Austritt aus der jüdischen Gemeinde erklärte. Scheiden lassen aber wollte er sich nicht. Warum ihr Bruder Alfons gehen durfte? Ginger Lane weiß es bis heute nicht.

    Es war aber nur eine Frage der Zeit, bis man die Kinder abholen und in den Tod schicken würde. Das wusste Alexander Weber in jenen Jahren, da seine Kinder nach den Nürnberger Rassegesetzen als „Halbjuden“ galten. Hinzu kamen die Bombenangriffe, die Kinder saßen nur noch im Keller. Sie waren verschüttet. Er muss verzweifelt gewesen sein, erzählt eine Verwandte, die aus Paderborn für die Zeremonie angereist ist, an jenem Mittag vor dem Haus in der Max-Beer-Straße.

    It is an honor to share that 9 Stolpersteine bricks were laid outside of 48 Dragonerstrasse to honor the Weber family. Stolpersteine is the brilliant work of Gunter Demnig and stretches across Europe to honor and remember the victims and the persecuted of the Holocaust. pic.twitter.com/66AArWGJDF
    — beth lane (@bethlanefilm) September 21, 2023

    Doch dann sei etwas Unfassbares geschehen: Der Obst- und Gemüsehändler Arthur Schmidt aus Worin, einem Dorf etwa 60 Kilometer östlich von Berlin, bot dem Vater an, die Kinder bei sich zu verstecken. Schmidt hatte in dem Haus in der Dragonerstraße 48, in dem die Webers wohnten, einen Raum gemietet. Dort lagerte er seine Obstkisten und die Ware, die er in den Markthallen nicht verkauft hatte. Die beiden Männer kannten und mochten sich. „Oh ja!“, soll Alexander Weber damals erleichtert gerufen haben.

    So kam es, dass Schmidt die Geschwister eines Nachts abholte, und fortan wohnten sie auf seinem Grundstück „Grüner Wald“ an der B1. Fast zwei Jahre lang lebten die Kinder bei der Familie in der Waschküche, wurden von ihr versorgt. In Worin haben einige die Identität der Kinder gekannt, die sich auf dem umzäunten Hof frei bewegten oder manchmal in den Ort kamen und um etwas zu essen baten, erinnert sich Marlis Schüler, deren Mann, der damalige Dorfchronist, die längst vergessene Geschichte der Kinder 1985 aus den Archiven kramte.
    In Worin erinnert eine Messingtafel an die sieben Kinder

    Dabei kam vieles ans Tageslicht, auch dass der Bürgermeister Rudi Fehrmann eingeweiht gewesen war und die Kinder trotzdem nicht verriet, obwohl er Mitglied der NSDAP war. Noch im Mai 1945, unmittelbar nach dem Einmarsch der Roten Armee, wurde Fehrmann allerdings verhaftet und in das sowjetische Speziallager Ketschendorf bei Fürstenwalde gebracht. Dort starb er 1947. In der DDR war das Thema ein Tabu – die Geschichte der sowjetischen Speziallager wurde erst nach der Wende 1990 aufgearbeitet. Marlis Schüler sagt, dass bis 1989 auch kaum jemand über die Kriegszeiten mehr geredet hätte: „Das Ganze kam erst ins Rollen, nachdem mein Mann weiter in den Archiven geforscht hatte.“

    Wir waren so einsam und hatten immer Angst.

    Ginger Lane über die Zeit in Worin

    Die Rentnerin Marlis Schüler aus Worin ist auch an jenem Mittag dabei, als die Stolpersteine versenkt werden. Ihr Sohn hat sie nach Berlin gefahren, sie lebt inzwischen in Schleswig-Holstein, ihr Mann Herbert ist gestorben. „Er hätte das heute gerne miterlebt, aber auch Alfons, der älteste Bruder der Geschwister. Er ist 2016 gestorben“, erzählt sie. Sie und ihr Mann sind von Alfons Weber angeschrieben worden, es entwickelte sich eine Brieffreundschaft, ein gegenseitiger Austausch. Man traf sich, um sich zu erinnern.

    Nach Alfons folgten die Geschwister. Ginger Lane, die partout nicht nach Mitte wollte, besuchte dafür die Familie Schüler in Worin und dachte dort daran, wie sie im Krieg auf dem Land Kartoffeln geerntet hatten und vor allem daran, „dass wir so einsam waren und immer Angst hatten“.

    Weltkrieg und Nationalsozialismus: Diese Museen erklären, was in Berlin geschah

    Zwei Stolpersteine und ein schweres Versäumnis

    Auch Tochter Beth, die in Los Angeles lebt, kam immer wieder in das brandenburgische Dorf und drehte dort unter anderem den Dokumentarfilm „UnBroken“, der an die Geschichte ihrer Familie erinnern soll. Aber auch an die Helfer, die die Kinder retteten. Die Holocaust-Gedenkstätte Yad Vashem ehrte das Ehepaar Paula und Arthur Schmidt aus Brandenburg 2018 als „Gerechte unter den Nationen“ posthum. 2019 wurde in Worin an dem Grundstück eine Messingtafel angebracht.

    Es sind zwei Stunden vergangen, die Stolpersteine liegen nun an ihrem Platz. Seit 1992 gibt es diese Denkmale, entwickelt von dem Künstler Gunter Denning. Ihm ging es um individuelles Gedenken und die Mahnung: Die Nationalsozialisten wollten die verfolgten Menschen zu Nummern machen und ihre Identität auslöschen. Mit den Stolpersteinen wollte er diesen Prozess rückgängig machen und ihre Namen wieder in die Straßen und Städte zurückholen.

    It’s official! My documentary film UNBROKEN was selected for the Heartland International Film Festival! Tickets to watch in person are now available at https://t.co/shpYBnqLOl #HIFF32 @HeartlandFilm pic.twitter.com/BO0RVxwsu0
    — beth lane (@bethlanefilm) September 15, 2023

    Inzwischen finden sich die Steine in über 1800 Kommunen – insgesamt mehr als 100.000 Gedenksteine sind es in Deutschland und 25 weiteren europäischen Ländern, unter anderem in Österreich, Belgien, Frankreich, Polen, den Niederlanden und der Ukraine. In Berlin (Stand: August 2023) wurden bereits 10.287 Stolpersteine verlegt. Diese verteilen sich auf 76 von 97 Berliner Ortsteilen.

    Ginger Lane schaut auf ein beschriebenes Blatt Papier, auf dem sie sich notiert hat, was sie sagen möchte. Sie redet über ihren Vater, der Elektriker war und sich bestimmt mit ihrem Rollstuhl ausgekannt hätte, der oft den Geist aufgibt. Sie lächelt, als sie das sagt. Ihren Vater sah sie wieder, er folgte den Kindern nach Amerika. Dort starb er in den 1980er-Jahren.

    Dann spricht sie von ihrer Mutter, die in Berlin im Untergrund gegen die Nazis gearbeitet und immer anderen geholfen habe, auch wenn sie sich der Gefahr bewusst gewesen sei. Ginger Lane muss schlucken, als sie über ihren Bruder Alfons redet, an den sie täglich denke und der ihr fehle. „Er hat uns beschützt, als wir nach Amerika fuhren und auch später.“

    Alfons starb 2016, ebenso wie drei ihrer Schwestern. Heute leben nur noch Gertrude, Judith und Ginger.

    Auch ihre Geschichte wird noch einmal vorgelesen, diesmal von ihrer Tochter Beth, die gerade sechs Jahre alt war, als sie in den USA ankam und von der Künstlerin Rosalynde und dem Neurochirurgen Joshua Speigel adoptiert wurde. Beth Lane liest vor: „Ginger wuchs in einem künstlerischen Haushalt auf; sie wurde Ballerina, heiratete schließlich und bekam drei Kinder. Sie ist stolze Großmutter von sieben Enkelkindern und hat zahlreiche Auszeichnungen für ihren Beitrag zur Behindertenhilfe sowie für Tanz und Choreografie erhalten. Im Frühjahr 2022 wurde Gingers Bild zu Ehren des Women’s History Month an Bushaltestellen und Plakatwänden in Chicago angebracht!“

    Die Mutter lächelt ihre Tochter liebevoll an, sie drückt Beths Hand. Ginger Lane sagt: „Es gibt so viel Böses auf der Welt, das immer wieder von so viel Gutem überwältigt wird. Wir müssen uns immer daran erinnern, dass das Gute immer die Oberhand über das Böse behält.“ Sie schaut auf das Haus, in dem sie als Kind gelebt hat. Obwohl es nicht das alte ist, hat sie bisher den Blick gemieden. Jetzt wirkt es für einen Moment, als habe sie Frieden mit diesem Ort geschlossen.

    #Brandenburg #Worin #Berlin #Mitte #Scheunenviertel #Almstadtstraße #Grenadierstraße #Max-Beer-Straße #Dragonerstraße
    #Holocaust #Shoa #Geschichte

  • Taxifahrer-Mörder vor Gericht: „Wenn man etwas haben will, dann muss man töten.“
    https://www.taxi-times.com/taxifahrer-moerder-vor-gericht-wenn-man-etwas-haben-will-dann-muss-man-t

    Was lernt ein Mensch bei der Überfahrt des Mittelmeers im Schlauchboot? Was davor? Was danach? Die meisten Menschen bewahren sich Menschlichkeit und Empathie, einige wenige hingegen sind derart geschädigt, dass die erlebten Bedrohungen sie zum lebenslangen Kampf gegen alle treiben.

    2.9.2023 von Axel Rühle - Der Mörder des Berliner Taxifahrers Mustafa A. gibt vor Gericht menschenverachtende Aussagen von sich. Er habe A. getötet, um sich eine Mahlzeit genehmigen zu können. Es hätte jeden anderen treffen können.

    Den Tatvorwurf, einen Taxifahrer in Berlin erstochen zu haben, hatte Hassem B. bei der Polizei ohne Umschweife eingeräumt. Die Beute waren nur zehn Euro, aber mehr wollte er gar nicht unbedingt, denn es reichte für eine Tüte Chips und einen Softdrink. Der 24-Jährige Doppelmörder, der Anfang April in Berlin-Grunewald den Taxifahrer Mustafa A. tötete, offenbarte in seinen Vernehmungen nach der Tat eine erschreckend menschenverachtende Gesinnung, wie nun im Gerichtsprozess bekannt wird, der am Dienstag begonnen hat. Das Abspielen einer Verhör-Aufzeichnung im Gerichtssaal in Berlin-Moabit hat am ersten Verhandlungstag für Entsetzen gesorgt. „Töten ist eine gute Sache“ – dieses Zitat des Angeklagten haben einige Medien in ihre Schlagzeilen genommen.

    Die „Berliner Zeitung“ schreibt von „verstörenden Momenten“, die das Abspielen der Aufzeichnung in der Gerichtsverhandlung bewirkt habe. Im Saal 701 des Berliner Strafgerichts hätten gegen 11 Uhr alle Anwesenden den Atem angehalten. Der Angeklagte sagte gegenüber zwei Polizeibeamten und einem Dolmetscher, Töten sei „eine gute Sache.“ Die Aufzeichnung wurde auf einem großen Bildschirm für Besucher und Prozessbeteiligte abgespielt.

    Die Tat hatte zu Ostern dieses Jahres weit über Berlin hinaus für Entsetzen gesort: Am frühen Morgen des 6. April 2023, Gründonnerstag, war der Beschuldigte am Bahnhof Südkreuz aus Belgien eingetroffen (dort hatte er zwei Tage zuvor bereits gemordet) und hatte sich, nachdem ein erster Taxifahrer ihn aus nicht genannten Gründen abgewiesen hatte, in irgendein anderes Taxi gesetzt – Mustafa A. war ein reines Zufallsopfer. Der schwerverletzte 53-jährige Taxifahrer wurde wenig später von einem Passanten nahe einem Hotel in der Brahmsstraße gefunden. Der Passant leistete sofort Erste Hilfe, doch der Familienvater starb Stunden später im Krankenhaus. Bereits am nächsten Tag wurde B. in Flensburg von der Polizei gefasst.

    Laut Presseberichten erzählte Hassem B. in der Vernehmung von seiner Flucht aus Tunesien im Jahr 2011, als er 13 war. Über die italienische Mittelmeerinsel Lampedusa habe ihn der Weg nach Frankreich, dann nach Belgien geführt, wo er bis Anfang 2023 lebte. Die Beamten wollten sich die „außergewöhnliche Einstellung“ des Angeklagten gegenüber Menschenleben erklären und fragten ihn nach den Hintergründen seiner Flucht und ob er in Tunesien Opfer von Gewalt geworden war. Auf beide Fragen sagte der Beschuldigte, die Antworten seien „zu privat“.

    Vor Gericht sitzt der Tunesier, der laut „Tagesspiegel“ wegen Diebstahls und weiterer Delikte vorbestraft ist, auf der Anklagebank in einer Glaskabine und schaut das Video seiner Vernehmung schweigend mit an. Seine Verteidigerin hat zu Beginn gesagt, ihr Mandant wolle vorerst nicht aussagen. Die beiden Tötungsdelikte hat er bereits mehrfach gestanden: den Mord an Taxifahrer Mustafa A. und zuvor den an seiner Freundin in Belgien.

    Später im Film erzählt der Angeklagte, er sei nach der ersten Bluttat in Lüttich in den Zug gestiegen. Eigentlich habe er über Dänemark nach Oslo Fahren wollen. Beim Umsteigen auf dem Weg nach Berlin habe er in der Nacht schon versucht, jemanden zu finden. Er hätte am Mittag des Vortages zuletzt etwas gegessen. „Als ich ausgestiegen bin, hatte ich Hunger“, sagt er, „ich wollte jemandem Geld wegnehmen, ihn töten.“ Auf den Straßen habe er allerdings niemanden gefunden, obwohl „jeder“ infrage käme. Um im Zug jemanden nach Geld oder Essen zu fragen, sei er zu stolz gewesen.

    Die Polizeibeamten im Video fragen ihn, nachdem er erzählt hatte, bei Lidl Schuhe gestohlen zu haben, warum er dort nicht auch Bananen oder sonstige Lebensmittel gestohlen hätte, statt einen Menschen umzubringen. Der Angeklagte sagt: „Wenn man etwas haben will, dann muss man töten.“ Kurz vor dem Ende des Videos beschreibt B. die Situation, als der Taxifahrer, dem er das Klappmesser in den Hals gestochen hatte, sich aus dem Fahrzeug geschleppt hatte und er allein im Taxi saß. Er suchte nach Geld und fand nur zehn Euro. Auf die Frage, ob er damit zufrieden gewesen sei, antwortet er: „Es hat gereicht, um meinen Bauch vollzumachen und weiterzufahren.“ Von den zehn Euro habe er sich Chips, „Capri-Sonne“ und einen Kaffee gekauft, bevor er mit dem Zug über Hamburg nach Flensburg fuhr.

    Die ganze Aufzeichnung dauert zweieinhalb Stunden. Am Schluss fragen die Vernehmungsbeamten Hassem B., ob er weiter töten wolle. Er weicht zunächst aus – jetzt sei er ja im Gefängnis. Und danach? „Ich glaube, ich werde es fortsetzen.“ Das Gericht hat angedeutet, Hassem B. könnte in eine psychiatrische Klinik eingewiesen werden. Der nächste Verhandlungstag ist Dienstag, der 5. September. Letzter Verhandlungstag mit Urteilsverkündung soll der 29. September sein.

    #Berlin #Taxi #Kriminalität #Taximord #Brahmsstraße #Grunewald

  • Berlin und Brandenburg : Für den Kampfmittelräumdienst ist der Zweite Weltkrieg noch nicht vorbei
    https://www.berliner-zeitung.de/mensch-metropole/blindgaenger-kampfmittelaltlasten-in-berlin-und-brandenburg-li.3811


    Les guerres « modernes » font des victimes encore des décennies après leur fin. La surface entière de Berlin est considérée comme zone à risque à cause des munitions et bombes cachées dans le sol. Douze pour cent de la surfache du Land Brandebourg sont toujours inutilisables pour la méne raison.

    3.9.2023 von von Maritta Adam-Tkalec und Mónica Rodríguez (Grafiken) - Das explosive Nachkriegsaufräumen in Berlin und Brandenburg dauert an. Die Spezialisten der Polizei werden etwa eintausendmal im Jahr gerufen.

    Fast dreimal pro Tag wird der Kampfmittelräumdienst in Berlin und Brandenburg gerufen, um Funde von Bomben, Granaten oder Panzerfäusten zu beseitigen. Die absoluten Zahlen alleine für Berlin sind noch eindrücklicher: Seit 1947 wurden hier 1,8 Millionen Sprengkörper gefunden und unschädlich gemacht.

    Jedes Mal aufs Neue ist es ein hochgefährliches Unterfangen, die Hinterlassenschaften der zwischen Herbst 1943 und Frühjahr 1945 fast täglichen Luftangriffe der Alliierten gegen die Hauptstadt der Nationalsozialisten zu entsorgen.

    Tausende Tonnen Granaten blieben nach der Schlacht um Berlin im Boden. Auch das Land Brandenburg gehört zu den am schwersten belasteten Gebieten Deutschlands, vor allem dort, wo die Wehrmacht die letzten Abwehrschlachten schlug – entlang der Oder, an den Seelower Höhen, im Kessel von Halbe. Unfassbare zwölf Prozent der Landesfläche sind noch heute wegen der Altlasten des Krieges nicht nutzbar. 360.000 Hektar Gefahr.


    An diesen Orten gingen besonders viele Bomben nieder.

    Im Land Brandenburg sind die Schwerpunkte in den Landkreisen Märkisch-Oderland, Dahme-Spreewald, Teltow-Fläming und Oder-Spree zu finden. Aber auch die Städte Oranienburg, Cottbus, Potsdam, Neuruppin, Schwarzheide und Ruhland gelten aufgrund der starken Bombardierung im Zweiten Weltkrieg als besonders belastet.

    Die genaue Bestimmung der geografischen Schwerpunkte der Luftangriffe und die Auswertung der Alliierten-Luftbilder erlauben in diesen Gebieten heute eine erste Gefahrenprognose.

    Was sind Kampfmittel?


    Der Berliner Boden gilt nach Angaben von Polizeifeuerwerkern als „einzige große Verdachtsfläche“. Selbst beim Umgraben des eigenen Erdbeerbeetes kann man alle Arten von Munition finden.

    Der Berliner Boden gilt nach Angaben von Polizeifeuerwerkern als „einzige große Verdachtsfläche“. Selbst beim Umgraben des eigenen Erdbeerbeetes kann man alle Arten von Munition finden.

    Zu den Kampfmitteln zählt jedes zum bewaffneten Kampf benötigte Material, insbesondere Munition, aber auch Bomben, Granaten, Minen und Ähnliches. Nach einer kriegerischen Auseinandersetzung unkontrolliert zurückbleibende Kampfmittel (oder deren Teile) enthalten in der Regel Explosivstoffe (oder Rückstände davon) sowie Kampf-, Nebel-, Brand- oder Reizstoffe (oder deren Zerfallsprodukte).


    Oft haben die von der Polizei errichteten Sperrkreise einen Radius von 500 Metern. Bevor die Entschärfung beginnen kann, müssen im Sperrkreis alle Gebäude evakuiert sein und alle Menschen das Gebiet verlassen haben.

    Warum sind Sprengkörper aus dem Zweiten Weltkrieg immer noch so gefährlich?

    Trotz ihres Alters haben Munitionskörper ihre Gefährlichkeit nicht verloren. Im Gegenteil: Ihre starke Verwitterung macht sie noch gefährlicher. Schon durch die geringste Berührung kann eine Explosion ausgelöst werden.


    Im Berliner Sandboden sind die Blindgänger in den meisten Fällen nicht senkrecht stecken geblieben. Beim Einschlag beschrieben sie einen Bogen.

    Wie man eine Bombe entschärft

    Wer Kampfmittel findet, sollte diese nicht berühren und sie an der Fundstelle belassen. Die Polizei sollte sofort gerufen werden, diese sperrt den Fundort und entschärft den Fund, indem sie den Zünder unschädlich macht oder das Kampfmittel an Ort und Stelle sprengt. Munition und Granaten werden abtransportiert.

    Für den Fall eines Fundes ist die Notrufnummer der Polizei, die 110, zu wählen.


    Zunächst geht es darum, die Bomben und Granaten transportfähig zu machen. Bei Bomben gehört dazu die Entfernung des Zünders. Dann werden die Kampfmittel zur Vernichtung auf Sprengplätze gebracht. In Berlin ist das der Sprengplatz Grunewald.


    Die mechanischen Zünder bestehen in der Regel aus Messing. Sie werden herausgeschraubt oder auch mit einem Wasserstrahl herausgeschnitten.


    Es gibt unter anderem mechanische Aufschlagzünder, elektrische Zünder, wie sie von den Deutschen verwendet wurden, und chemische Langzeitzünder, die mitunter erst Stunden nach dem Aufprall am Boden die Bombe explodieren ließen.


    Viele Arten von Munition stecken noch im Berliner Boden.

    #Berlin #Brandebourg #guerre #histoire