• Libertés universitaires en danger. Une conférence sur le droit international en Palestine interdite par l’Université Lyon 2 | Academia
    https://academia.hypotheses.org/54900

    Le 1er février 2024, le syndicat Solidaires étudiant-es Lyon et le collectif Palestine69 organisaient une conférence visant à informer la communauté universitaire de Lyon sur les décisions juridictionnelles rendues en droit international concernant la situation actuelle en Palestine. Celle-ci devait se tenir à l’Université Lumière – Lyon 2. Cette conférence devait être animée par Maitre Gilles Devers, avocat au barreau de Lyon et spécialiste du droit international, qui a déposé la plainte contre Israël pour génocide et crimes de guerre devant la Cour Pénale Internationale avec plus de 500 avocat-es.
    Malgré de nombreux échanges entre le syndicat et l’Université en amont de la conférence, cette dernière a été annulée par la présidence le 30 janvier dernier « pour des raisons de sécurité ».

    Cette annulation, en réalité une interdiction, a été faite à la demande de la préfecture, suite à une campagne de dénigrement menée par le CRIF, d’interventions du président de la région Auvergne-Rhône-Alpes et du Rassemblement national de la jeunesse (RNJ) du Rhône. 

    A l’heure où la Cour Internationale de Justice, devant un risque sérieux de crime de génocide, demande à l’État d’Israël de « suspendre immédiatement ses opérations militaires à et contre Gaza », cette interdiction est une nouvelle atteinte aux libertés universitaires. Qu’une université cède au chantage de personnalités politiques et de la préfecture est très préoccupant.

    Les universités sont des lieux de production de savoirs et doivent demeurer des lieux de libre expression sur tous les sujets, y compris la situation au Proche-Orient. Il ne revient ni aux élu-es politiques, ni à l’autorité préfectorale de définir, directement ou par le biais d’interdictions, ce qui peut ou non être débattu, exposé ou enseigné, dans le respect de la loi, dans les enceintes universitaires ou par les universitaires.

    #censure #Gaza #université

  • Libertés universitaires en danger. Une conférence sur le droit international en #Palestine interdite par l’Université Lyon 2
    https://academia.hypotheses.org/54900

    Le syndicat Solidaires étudiant-es Lyon a fait parvenir à la rédaction d’Académia l’article ci-dessous, suite à la double interdiction – l’une décidée par la présidente de l’université Lyon 2, l’autre par la préfète du Rhône – de la conférence que … Continuer la lecture →

    #Libertés_académiques_:_pour_une_université_émancipatrice #Opinions,_motions,_propositions,_expression_syndicale #liberté_d'expression #liberté_de_réunion #libertés_académiques #Solidaires_étudiant·e·s #Université_Lyon-2

  • Gli utili record dei padroni del cibo a scapito della sicurezza alimentare

    I cinque principali #trader di prodotti agricoli a livello mondiale hanno fatto registrare utili e profitti record tra il 2021 e il 2023. Mentre il numero di persone che soffrono la fame ha toccato i 783 milioni. Il report “Hungry for profits” della Ong SOMO individua le cause principali di questa situazione. E propone una tassa sui loro extra-profitti

    Tra il 2021 e il 2022 -anni in cui il numero di persone che soffrono la fame nel mondo è tornato ad aumentare, così come i prezzi dei beni agricoli spinti verso l’alto da inflazione e speculazione finanziaria- i profitti dei primi cinque trader di materie prime agricole a livello globale sono schizzati verso l’alto.

    Nel 2022 le multinazionali riunite sotto l’acronimo Abccd (Archer-Daniels-Midland company, Cargill, Cofco e Louis Dreyfus Company) hanno comunicato ai propri stakeholder un aumento degli utili per il 2021 compreso tra il 75% e il 260% rispetto al 2016-2020. “Mentre nel 2022 i profitti netti sono raddoppiati o addirittura triplicati rispetto allo stesso periodo. In base ai rapporti finanziari trimestrali disponibili al pubblico, i profitti netti dei commercianti di materie prime agricole sono rimasti eccessivamente alti nei primi nove mesi del 2023”, si legge nel rapporto “Hungry for profits” curato dalla Ong olandese Somo. Dati che fanno comprendere meglio quali sono i fattori che influenzano l’andamento del costo dei prodotti agricoli e -soprattutto- chi sono i reali vincitori dell’attuale sistema agroindustriale.

    La statunitense Cargill è la prima tra i Big five in termini di ricavi (165 miliardi di dollari nel 2022) e utili (6,6 miliardi), seguita dalla cinese Cofco (che nello stesso anno ha superato i 108 miliardi di dollari e i 3,3 miliardi di utili) e da Archer-Daniels-Midland company (Adm, con 101 miliardi di ricavi e 4,3 miliardi di utili). Nello stesso anno il numero di persone che soffrono la fame ha raggiunto i 783 milioni (122 milioni in più rispetto al 2019) e i prezzi dei prodotti alimentari hanno continuato a crescere, spinti dall’inflazione.

    Complessivamente questi cinque colossi detengono una posizione di oligopolio sul mercato globale dei prodotti di base come i cereali (di cui controllano una quota che va dal 70-90%), soia e zucchero. “Questo alto grado di concentrazione e il conseguente controllo sulle più importanti materie prime agricole del mondo, conferisce loro un enorme potere contrattuale per plasmare il panorama alimentare globale”, spiega Vincent Kiezebrink, ricercatore di Somo e autore della ricerca.

    La posizione dominante che di fatto ricoprono sul mercato globale rappresenta uno dei fattori che ha permesso agli Abccd di registrare profitti e utili da record negli ultimi tre anni. “La sola Cargill è responsabile della movimentazione del 25% di tutti i cereali e i semi di soia prodotti dagli agricoltori statunitensi -si legge nel report-. Anche il principale mercato agricolo per l’approvvigionamento di soia, l’America Latina, è dominato dagli Abccd: oltre la metà di tutte le esportazioni di questo prodotto passano da loro”.

    La situazione non cambia se si guarda a quello che succede in Europa: l’olandese Bunge e la statunitense Cargill da sole sono responsabili di oltre il 30% delle esportazioni di soia dal Brasile verso l’Unione europea. Bunge, in particolare, è il principale fornitore di soia per l’industria della carne dell’Ue con una chiara posizione di monopolio in alcuni mercati come il Portogallo, dove controlla il 90-100% delle vendite di olio di soia grezzo.

    Questa concentrazione è stata costruita nel tempo attraverso fusioni e acquisizioni che non sono state limitate dalle autorità per la concorrenza: quelle europee, ad esempio, hanno valutato un totale di 60 fusioni relative alle società Abccd dal 1990 a oggi. “Tutte le operazioni, tranne una, sono state autorizzate incondizionatamente -si legge nel report-. La prossima grande fusione in arrivo è quella tra la canadese Viterra (specializzata nella produzione e nel commercio di cereali, ndr) e Bunge. Un’operazione senza precedenti nel settore agricolo globale e che avvicinerà la nuova società alle dimensioni di Adm e Cargill”.

    Un secondo elemento che ha permesso a queste Big five di accumulare ricavi senza precedenti in questi anni è poi la loro capacità di influenzare la disponibilità dei beni alimentari attraverso un’enorme potenzialità di stoccaggio. “Il rapporto speciale 2022 del Gruppo internazionale di esperti sui sistemi alimentari sostenibili (Ipes) ha evidenziato che i trader conservano notevoli riserve di cereali -si legge nel report-. E sono incentivati ‘a trattenere le scorte fino a quando i prezzi vengono percepiti come massimi’”. Per avere un’idea delle quantità di materie prime in ballo, basti pensare che la capacità di stoccaggio combinata di Adm, Bunge e Cofco, è pari a circa 68 milioni di tonnellate, è simile al consumo annuo di grano di Stati Uniti, Turchia e Regno Unito messi assieme.

    Terzo e ultimo elemento individuato nel report è il fatto che queste società sono integrate verticalmente e hanno il pieno controllo della filiera produttiva dal campo alla tavola: forniscono cioè agli agricoltori prestiti, sementi, fertilizzanti e pesticidi; immagazzinano, trasformano e trasportano i prodotti alimentari.

    A fronte di questa situazione, Somo ha invitato la Commissione europea a intervenire per porre un freno alla crescente monopolizzazione del comparto: “L’indagine dovrebbe concentrarsi sul potere che può essere esercitato nei confronti dei fornitori per comprimere i loro margini di profitto -concludono i ricercatori-. È preoccupante che alle multinazionali sia stato permesso di triplicare i loro profitti facendo salire i prezzi degli alimenti, mentre le persone in tutto il mondo soffrono di una crisi del costo della vita e i più poveri sono alla fame”. Per questo motivo l’organizzazione suggerisce di applicare un’imposta sugli extra-profitti delle società Abccd che, con un’ipotetica aliquota fiscale del 33%. A fronte di utili che hanno toccato i 5,7 miliardi di dollari nel 2021 e i 6,4 miliardi nel 2022, permetterebbe di generare un gettito fiscale pari rispettivamente a 1,8 e 2 miliardi di dollari.

    https://altreconomia.it/gli-utili-record-dei-padroni-del-cibo-a-scapito-della-sicurezza-aliment
    #agriculture #business #profits #industrie_agro-alimentaire #sécurité_alimentaire #inflation #Archer-Daniels-Midland_company #Cargill #Cofco #Louis_Dreyfus_Company (#Abccd) #oligopole #céréales #soja #sucre

  • Identifying dead migrants on Spain’s Canary Islands

    The Canary Islands are a first destination for people trying to reach continental Europe. Numbers of those attempting the dangerous Atlantic crossing are soaring. DW’s Jan-Philipp Scholz reports from Las Palmas and Mogán, on Gran Canaria.

    https://www.dw.com/en/identifying-dead-migrants-on-spains-canary-islands/video-68247230
    #mourir_aux_frontières #route_atlantique #Gran_Canaria #cimetière #réfugiés #migrations #identification #îles_Canaries #Canaries #morts_aux_frontières #celleux_qui_restent

  • Succession : le musicien Jean-Michel Jarre débouté par la CEDH | Le Télégramme
    https://www.letelegramme.fr/france/succession-le-musicien-jean-michel-jarre-deboute-par-la-cedh-6526548.ph

    tiens, encore #droits_d'auteur et #succession à la #CEDH, cette fois
    on parle de #Docteur_Jivago

    Le musicien Jean-Michel Jarre et sa sœur Stéphanie ont été déboutés par la CEDH ce jeudi. Ils contestaient la décision de la justice française de les priver de l’héritage de leur père.

    Le musicien français Jean-Michel Jarre et sa sœur Stéphanie, qui contestaient devant la Cour européenne des droits de l’homme (CEDH) les décisions de la justice française les privant de l’héritage de leur père, le compositeur Maurice Jarre, ont été déboutés ce jeudi.

    « La Cour ne voit (…) aucune raison de se départir du raisonnement des juridictions (françaises) dans la mesure » notamment où la CEDH « n’a jamais reconnu l’existence d’un droit général et inconditionnel des enfants à hériter d’une partie des biens de leurs parents », indique la Cour dans son arrêt, rendu à l’unanimité des sept juges. Les tribunaux français ont « vérifié que les requérants ne se trouvaient pas dans une situation de précarité économique ou de besoin », poursuit la juridiction basée à Strasbourg, qui donne raison à la justice française.

    « Family trust »
    Celle-ci avait estimé que Maurice Jarre avait le droit de déshériter Jean-Michel Jarre, 75 ans, et sa sœur Stéphanie, 58 ans. Installé aux États-Unis au milieu des années 1960, lauréat de trois Oscars pour la composition des musiques des films « Lawrence d’Arabie », « Docteur Jivago » et « La route des Indes » et décédé en 2009, Maurice Jarre avait légué tous ses biens à sa dernière épouse, Fui Fong Khong, via un « family trust », structure juridique prévue par le droit californien, ce que les deux requérants avaient, en vain, contesté devant les tribunaux français.

    En droit français, on ne peut théoriquement pas déshériter un de ses enfants, en vertu du principe de « réserve héréditaire » qui n’existe pas dans le droit californien. Mais dans le cas Jarre, la Cour de cassation avait estimé en 2017 qu’ignorer cette « réserve héréditaire » n’était « pas en soi contraire à l’ordre public international français ». En clair : ce n’est pas un principe forcément incontournable selon la plus haute juridiction française. Celle-ci avait estimé que la loi hexagonale n’avait pas en l’espèce à s’imposer à celle de Californie.

    « La liberté testamentaire du défunt » respectée
    La CEDH estime que les juridictions françaises ont « respecté la liberté testamentaire du défunt » dont la volonté traduisait une démarche « “ continue et bien définie ” de faire bénéficier son conjoint survivant de l’intégralité de ses biens », sans « intention frauduleuse ». Par ailleurs, « la CEDH valide la “ liberté testamentaire du défunt ” qui a soustrait sa succession à la loi française. Est ainsi close la “ saga ” contentieuse de la succession internationale de Maurice Jarre (en écho à d’autres successions célèbres, dont celle de Johnny Hallyday…) », a commenté sur le réseau social X le juriste Nicolas Hervieu, spécialiste du droit européen.

    La succession contestée de Maurice Jarre était apparue au grand jour au début de la bataille judiciaire autour de l’héritage de Johnny Hallyday, entre sa veuve et les deux aînés de la rock-star qui contestent le testament américain de leur père les ayant déshérités en vertu de la loi californienne.

    Dans une affaire similaire à celle de la succession Jarre, la CEDH a également débouté ce jeudi trois enfants de Michel Colombier, arrangeur de Serge Gainsbourg ou Madonna, mort en 2004 et qui avait lui aussi organisé sa succession via un « family trust » américain, les excluant de son héritage. Les deux requêtes, introduites en 2018, constituaient un thème « inédit » pour la CEDH, avait alors précisé un porte-parole.

    • Ahlala, la cupidité des héritiers et le désamour de ces hommes célèbres, ça fait pitié.
      En france, si tu veux montrer à tes enfants qu’après toi le déluge ça va te faire vivre encore quelques dizaines d’années dans l’immortalité du chaos, tu peux te débrouiller avec les assurances vies (donne ta fortune à ton chien), ou encore la part réservataire (donne la moitié à ton chien) ou en te faisant conseiller par un notaire une donation partage de ton vivant en gardant la moitié en usufruit, part qui, à ta mort, sera repartagée en parts inégales, obligeant ainsi tes nombreux enfants à passer en procès pour sortir de l’indivision dans laquelle tu les as mis. C’est beaucoup plus marrant, ça permet de faire exploser les familles si tu n’as pas réussi avant.

      Au moins les notaires et les avocats sont contents.

  • AYER NO, HOY SI, ¿Y MAÑANA? Exploring further the issues of legal uncertainty, opacity, and alterations in the entry criteria for the #CETI in Melilla

    Exploring recent changes in access to the CETI in Melilla, this article addresses legal insecurity, lack of transparency and changes in admission criteria. From the context of Melilla to the experiences of Latin American migrants, it reveals the shortcomings of the system and the ongoing struggle for rights.

    https://en.solidarywheels.org/informes
    https://en.solidarywheels.org/_files/ugd/0a7d28_f46a4434524342228757205389c8ed22.pdf

    #rapport #Melilla #Espagne #Maroc #frontières #migrations #réfugiés #Solidarity_Wheels #centre_d'accueil #hébergement #accueil #centre_temporaire #violence #violence_systématique #violences_policières

  • Radio Canada La « merdification » du web

    « Je ne veux pas rétablir le "bon vieux" web. Je veux que nous ayons un "bon nouveau" web. »
    Cory Doctorow lors d’une conférence.

    Pourquoi le web semble-t-il brisé ces temps-ci ? L’auteur canadien Cory Doctorow croit avoir la réponse : un concept qu’il a popularisé et qui porte le nom de « enshittification », ou « merdification », du web. Entrevue avec les Décrypteurs.

    De plus en plus d’internautes se plaignent que les services web auxquels ils s’étaient habitués dépérissent. "Je n’arrive à rien trouver sur google." "facebook me suggère des groupes qui n’ont aucun rapport avec mes intérêts." "amazon me suggère des produits qui ne m’intéressent pas."

    Peu d’observateurs ont analysé cette réalité aussi scrupuleusement que Cory Doctorow. Ce penseur et blogueur canadien a trouvé le mot juste pour nommer ce côté moins vertueux d’Internet : « enshittification », que nous avons traduit par « merdification ».
    . . . . . .
    La « merdification », c’est quand des plateformes se dégradent parce qu’elles font partie de monopoles ou de quasi-monopoles.
    De nombreuses entreprises échouent très rapidement lorsqu’elles ne disposent pas d’une part de marché démesurée : elles font tout simplement faillite.
    Mais celles qui deviennent vraiment dominantes peuvent vivoter très longtemps et outrepasser le moment où elles auraient dû mourir.

    La « merdification » se produit en trois étapes.

    La première étape, c’est lorsqu’une entreprise a un excédent.
    C’est le capital des premiers investisseurs qui ne s’attendent pas encore à toucher de rendement sur leur investissement.
    Donc, l’entreprise utilise cet excédent pour offrir un bon service aux utilisateurs dans le but de les attirer.

    "facebook ne vous espionnera jamais !" C’était leur argument en 2006.

    "Tout ce que vous avez à faire, c’est de venir sur facebook. Dévoilez-nous tout ce qui est important dans votre vie. Dites-nous quels utilisateurs facebook vous sont chers. Nous vous montrerons leurs publications."

    Les utilisateurs deviennent donc prisonniers de la plateforme. Ils y restent parce que leurs amis sont là et parce qu’ils les aiment plus qu’ils ne détestent Facebook.

    Donc, une fois que facebook commence à sentir que ses utilisateurs sont prisonniers de la plateforme, la deuxième phase se produit.
    J’appelle cela le modèle d’affaires Dark Vador.
    Vous savez, Dark Vador a dit : "J’ai modifié l’accord. Priez pour que je ne le modifie pas davantage…"

    Alors, ils vont vers les annonceurs et disent : "Vous vous souvenez quand nous avons dit à ces idiots que nous ne les espionnerions pas ?
    C’était un mensonge !
    Nous les espionnons totalement !
    Si vous nous donnez de petites sommes d’argent, nous allons utiliser ces données de surveillance pour leur montrer des publicités ciblées."

    "Nous allons vous vendre ces annonces à très bas prix.
    Et parce que nous sommes des gens très bien intentionnés, nous allons vous les vendre à perte pour nous permettre d’investir dans la prévention de la fraude publicitaire.
    Donc, si vous achetez une annonce, des tonnes de gens la verront !"

    En même temps, ils sont allés vers les médias et leur ont dit : "Hé, vous vous souvenez quand nous avons dit à ces idiots que nous allions seulement leur montrer le contenu qu’ils voulaient voir ?
    C’était aussi un mensonge !"

    "Si vous mettez des extraits de votre contenu et un lien vers votre article sur Facebook, nous allons l’enfoncer dans la gorge de personnes qui n’ont jamais demandé à le voir et vous obtiendrez une tonne de clics gratuits."

    Et là, à un certain moment, ces annonceurs et ces médias deviennent à leur tour prisonniers de la plateforme et nous passons à la troisième étape.

    C’est la dernière étape de la « merdification », quand il ne reste plus d’excédents de capital pour offrir un bon service aux médias, aux annonceurs et aux utilisateurs.
    Les seuls qui sont bien servis sont les actionnaires, à qui on envoie cet excédent de capital.

    Pour les utilisateurs, la proportion de contenus d’intérêt – par exemple les publications de gens qu’ils suivent – devient tellement petite qu’on pourrait la qualifier d’« homéopathique ».
    Tout le reste, ce sont des publications qui apparaissent parce que quelqu’un a payé afin de les promouvoir.
    Pour les annonceurs, les publicités coûtent plus cher, alors que la modération des annonces dépérit.

    Or, les plateformes investissent juste assez de ressources pour inciter les utilisateurs à rester. Et c’est un équilibre très fragile. Il suffit d’un scandale de fuite de données personnelles, d’une fusillade de masse diffusée en direct, d’un lanceur d’alerte, et les gens se précipitent vers les sorties.

    Puis la plateforme technologique annonce qu’elle pivote. Dans la Silicon Valley, « pivoter », ça veut dire « paniquer ».

    Et le « pivot » chez facebook, c’est Mark Zuckerberg qui se réveille un jour et qui dit  : "Voici votre avenir. Je vais créer un monde virtuel dans lequel tous les êtres humains de la Terre vivront. Ils seront transformés en dessins animés pixélisés, sans vie, sans sexe et fortement surveillés. Nous appelons ça "le métavers". C’est une idée que nous avons volée à un roman cyberpunk vieux de 25 ans."

    Et ça, c’est la dernière étape de la « merdification », quand tout se transforme en tas de merde. Et c’est là que nous en sommes maintenant.

    Et amazon a suivi le même processus, n’est-ce pas ?

    Oui. amazon facturait autrefois de très petites sommes aux commerçants et dépensait beaucoup d’argent pour modérer la fraude publicitaire.
    Quand on cherchait quelque chose, le moteur de recherche montrait le résultat le plus pertinent.

    amazon bénéficie d’un marché de 39 milliards de dollars qu’on appelle un « marché publicitaire ».
    En vérité, ce « marché publicitaire », ce sont des pots-de-vin que versent des marchands à amazon.
    En échange, lorsqu’un utilisateur cherche un produit, amazon lui montre les produits de ces marchands, peu importe si c’est pertinent pour la recherche.
    Les vrais produits que cherche l’utilisateur se retrouvent plus bas dans les résultats.

    Donc, si tu es un vendeur sur amazon, soit tu investis de l’argent pour créer un meilleur produit, soit tu donnes de l’argent à amazon pour promouvoir ton produit et reléguer un produit meilleur que le tien à la 11e page des résultats de recherche.
    Et c’est ce que les vendeurs font. Pour l’utilisateur, le premier produit dans les résultats de recherche est en moyenne 30 % plus cher (Nouvelle fenêtre) que le meilleur, qui se retrouve en moyenne à la 17e place.

    En fin de compte, amazon facture davantage et le client en reçoit moins.

    Et sa « clause de la nation la plus favorisée » fait en sorte que les marchands sur amazon ne peuvent pas vendre leurs produits moins cher ailleurs, même pas sur leurs propres sites. Et puisque amazon prélève 51 cents sur chaque dollar de vente, les marchands doivent augmenter leurs prix. Et quand le prix augmente sur amazon, il doit obligatoirement augmenter ailleurs.

    Cela fait en sorte qu’amazon semble encore avoir des prix avantageux. Et tout ce que vous achetez coûte de 20 % à 50 % plus cher pour que le patron d’amazon, jeff bezos, puisse se permettre d’aller dans l’espace à bord d’une fusée en forme de phallus.

    On est vraiment loin de l’Internet du « bon vieux temps », la vision originale d’Internet. Vous étiez là, au tout début. Êtes-vous nostalgique ?

    La nostalgie est une pulsion toxique.

    Beaucoup de choses clochaient avec le « bon vieux » web. Je ne veux pas rétablir le « bon vieux » web. Je veux que nous ayons un « bon nouveau » web, un web qui incarne la promesse du « bon vieux » web, celle de pouvoir connecter la planète sans passer par des intermédiaires. Je veux que ce soit un web inclusif. Le « bon vieux » web était génial pour des gens comme moi, et je pense que le nouveau web devrait être génial pour tout le monde.
    Un homme parle à la caméra.

    Comment peut-on enrayer la« merdification » ?

    Il y a des choses qui mènent immanquablement à la « merdification ». La principale est une tendance vers la convergence et vers la consolidation. Cette tendance n’est pas un résultat inévitable. L’émergence des monopoles n’est pas un processus naturel. C’est arrivé parce que nous avons cessé de faire appliquer les lois qui assurent un environnement compétitif. Nous avons permis aux grandes entreprises d’acquérir leurs concurrents, par exemple.

    Prenez google, une entreprise qui a créé un seul produit utile, et ce, il y a 25 ans. Elle a créé un bon moteur de recherche. Depuis, sans exception ou presque, tous les produits qu’elle a créés ont été des échecs. Les seuls succès qu’elle a mis sur le marché, ce sont des produits qu’elle a acquis à d’autres entreprises  : leur technologie publicitaire, l’infonuagique, la suite Documents google, google Maps, vraiment tout. google a tout simplement acheté les idées d’autres gens.
    . . . . . . .

    Source : https://ici.radio-canada.ca/nouvelle/2047650/merdification-enshittification-cory-doctorow-decrypteurs

    #web #internet #surveillance #facebook #censure #google #gafam #amazon #monopole #métavers #monopoles

  • Pour une ville « passante, poreuse et profonde »
    https://metropolitiques.eu/Pour-une-ville-passante-poreuse-et-profonde-une-attention-a-l-experi

    Issu d’une enquête sur les interactions entre espaces publics et espaces privés dans des villes des Suds comme des Nords, le livre richement illustré de David Mangin et Soraya Boudjenane plaide pour un #urbanisme attentif à l’expérience du piéton. Le sujet des #rez-de-chaussée et de leur rapport à l’espace public préoccupe aujourd’hui largement les métiers de l’urbain, autour de la revitalisation des centres-villes en déshérence, ou plus généralement de nouvelles interventions en faveur de rez-de-chaussée #Commentaires

    / #fabrique_de_la_ville, #architecture, #centre-ville, #commerce, urbanisme, #espace_public, (...)

    https://metropolitiques.eu/IMG/pdf/met_rottmann.pdf

  • En Italie, le suicide d’Ousmane Sylla, 22 ans, migrant guinéen, rappelle les conditions alarmantes dans les centres de rétention
    https://www.lemonde.fr/international/article/2024/02/07/en-italie-le-suicide-d-un-jeune-guineen-jette-une-lumiere-crue-sur-les-centr

    En Italie, le suicide d’Ousmane Sylla, 22 ans, migrant guinéen, rappelle les conditions alarmantes dans les centres de rétention
    Par Allan Kaval (Rome, correspondant)
    . VINCENZO PINTO / AFP Le suicide d’un détenu a lancé une nouvelle alarme sur la situation problématique des centres de rétention italiens et sur les conditions de vie qui y règnent. Dimanche 4 février, Ousmane Sylla, 22 ans, migrant guinéen, a mis fin à ses jours dans le centre de séjour pour les rapatriements (CPR) de Ponte Galeria, au sud-ouest de Rome. La mort du jeune homme a déclenché des protestations de la part d’autres détenus qui ont mis feu à leurs matelas et se sont confrontés aux forces de l’ordre. Ces dernières ont usé du gaz lacrymogène et ont arrêté quatorze personnes retenues dans le centre, à l’issue d’un épisode qui est loin d’être isolé.
    Quelques jours avant son suicide, M. Sylla avait ainsi été transféré du CPR de Trapani, en Sicile, à la suite, là aussi, d’un mouvement de protestation des migrants détenus. Avant de se pendre, il a écrit sur le mur de sa nouvelle cellule : « Si je meurs, j’aimerais qu’on envoie mon corps en Afrique, ma mère en sera contente. Les militaires italiens ne connaissent rien sauf l’argent. L’Afrique me manque beaucoup et ma mère aussi, elle ne doit pas pleurer pour moi. Paix à mon âme, que je repose en paix. » Le parquet a ouvert une enquête pour incitation au suicide.
    Grâce à son statut de parlementaire, le député et secrétaire général du parti libéral + Europa, Riccardo Magi, a pu se rendre, dimanche, à l’intérieur du CPR de Ponte Galeria, entre deux vagues d’affrontements avec les forces de l’ordre. « Comme dans tous les CPR que j’ai pu visiter, la situation à l’intérieur est indigne, dit-il au Monde. Les personnes détenues disent ne pas avoir eu de plat chaud depuis des semaines. Il n’y a pas d’eau chaude, pas de literie correcte, un état de saleté généralisé. Les détenus qui ne sont pas révoltés sont comateux à cause des psychotropes qui leur sont administrés pour les rendre inoffensifs. »
    L’usage de médicaments à des fins de contrôle dans les centres de rétention a été établi par une enquête de la revue italienne Altreconomia. En dehors des rares travaux journalistiques de cette nature, qui recueillent des informations filtrant difficilement de l’intérieur, et des témoignages des parlementaires et garants des droits qui peuvent s’y rendre, la réalité de ces sites est largement invisible.
    Les CPR sont au nombre de dix en Italie, gérés par des prestataires privés, répartis sur l’ensemble du territoire, pour une capacité de l’ordre du millier de détenus. Les personnes qui y sont enfermées sont des étrangers en situation irrégulière n’ayant pas fait de demande d’asile ou venant de pays sûrs et faisant l’objet d’une procédure d’expulsion. « Les CPR sont des trous noirs juridiques, où tous les droits à la défense sont entravés, explique Salvatore Fachile, spécialiste en droit de l’asile au cabinet d’avocat Antartide, à Rome. Leurs téléphones étant saisis, les détenus ont des possibilités très limitées de communication avec l’extérieur et de contact avec des avocats pour contester leur détention. »
    Fixée à trente jours, lors de la mise en place des centres de rétention de cette nature, en 1998, la limite de la période de détention a progressivement augmenté pour être portée, en 2023, à dix-huit mois, par le gouvernement dominé par l’extrême droite de la présidente du conseil italien, Giorgia Meloni. Le nombre de détenus passés par les CPR – moins de 6 400 en 2022 – ne représente qu’une fraction du nombre de personnes arrivées irrégulièrement sur le territoire italien, estimé à près de 158 000, et du nombre d’étrangers en situation irrégulière en Italie, soit plus de 500 000. De plus, les procédures d’expulsion sont complexes, et Rome ne dispose pas toujours d’un accord de réadmission avec les pays d’origine. Ainsi, selon le rapport de 2023 du garant national des droits des personnes détenues ou privées de liberté, au terme de leur détention dans les CPR, environ la moitié des étrangers concernés restent sur le sol italien, retournant le plus souvent à une situation d’illégalité.
    Si l’efficacité des CPR est contestée par l’opposition, le gouvernement de Giorgia Meloni a répété l’objectif d’ériger un de ces centres de rétention dans chacune des vingt régions italiennes. Son ambition va même au-delà du territoire national. En novembre 2023, il a été conclu avec Tirana un accord pour l’installation de deux centres de rétention de droit italien en territoire albanais. Sur ces sites doivent être détenus des hommes – jugés non vulnérables et venant de pays sûrs – secourus hors des eaux européennes par les navires militaires italiens. En cours de ratification, cet accord permettrait la création de centres de rétention extraterritoriaux, plus éloignés encore des regards extérieurs.

    #Covid-19#migrant#migration#italie#guinee#centredesejourpourrapatriement#retention#sante#santementale#mortalité#psychotrope#suicide#albanie

  • En Italie, le suicide d’Ousmane Sylla, 22 ans, migrant guinéen, rappelle les conditions alarmantes dans les centres de rétention
    https://www.lemonde.fr/international/article/2024/02/07/en-italie-le-suicide-d-un-jeune-guineen-jette-une-lumiere-crue-sur-les-centr

    En Italie, le suicide d’Ousmane Sylla, 22 ans, migrant guinéen, rappelle les conditions alarmantes dans les centres de rétention
    Par Allan Kaval (Rome, correspondant)
    . VINCENZO PINTO / AFP Le suicide d’un détenu a lancé une nouvelle alarme sur la situation problématique des centres de rétention italiens et sur les conditions de vie qui y règnent. Dimanche 4 février, Ousmane Sylla, 22 ans, migrant guinéen, a mis fin à ses jours dans le centre de séjour pour les rapatriements (CPR) de Ponte Galeria, au sud-ouest de Rome. La mort du jeune homme a déclenché des protestations de la part d’autres détenus qui ont mis feu à leurs matelas et se sont confrontés aux forces de l’ordre. Ces dernières ont usé du gaz lacrymogène et ont arrêté quatorze personnes retenues dans le centre, à l’issue d’un épisode qui est loin d’être isolé.
    Quelques jours avant son suicide, M. Sylla avait ainsi été transféré du CPR de Trapani, en Sicile, à la suite, là aussi, d’un mouvement de protestation des migrants détenus. Avant de se pendre, il a écrit sur le mur de sa nouvelle cellule : « Si je meurs, j’aimerais qu’on envoie mon corps en Afrique, ma mère en sera contente. Les militaires italiens ne connaissent rien sauf l’argent. L’Afrique me manque beaucoup et ma mère aussi, elle ne doit pas pleurer pour moi. Paix à mon âme, que je repose en paix. » Le parquet a ouvert une enquête pour incitation au suicide.
    Grâce à son statut de parlementaire, le député et secrétaire général du parti libéral + Europa, Riccardo Magi, a pu se rendre, dimanche, à l’intérieur du CPR de Ponte Galeria, entre deux vagues d’affrontements avec les forces de l’ordre. « Comme dans tous les CPR que j’ai pu visiter, la situation à l’intérieur est indigne, dit-il au Monde. Les personnes détenues disent ne pas avoir eu de plat chaud depuis des semaines. Il n’y a pas d’eau chaude, pas de literie correcte, un état de saleté généralisé. Les détenus qui ne sont pas révoltés sont comateux à cause des psychotropes qui leur sont administrés pour les rendre inoffensifs. »
    L’usage de médicaments à des fins de contrôle dans les centres de rétention a été établi par une enquête de la revue italienne Altreconomia. En dehors des rares travaux journalistiques de cette nature, qui recueillent des informations filtrant difficilement de l’intérieur, et des témoignages des parlementaires et garants des droits qui peuvent s’y rendre, la réalité de ces sites est largement invisible.
    Les CPR sont au nombre de dix en Italie, gérés par des prestataires privés, répartis sur l’ensemble du territoire, pour une capacité de l’ordre du millier de détenus. Les personnes qui y sont enfermées sont des étrangers en situation irrégulière n’ayant pas fait de demande d’asile ou venant de pays sûrs et faisant l’objet d’une procédure d’expulsion. « Les CPR sont des trous noirs juridiques, où tous les droits à la défense sont entravés, explique Salvatore Fachile, spécialiste en droit de l’asile au cabinet d’avocat Antartide, à Rome. Leurs téléphones étant saisis, les détenus ont des possibilités très limitées de communication avec l’extérieur et de contact avec des avocats pour contester leur détention. »
    Fixée à trente jours, lors de la mise en place des centres de rétention de cette nature, en 1998, la limite de la période de détention a progressivement augmenté pour être portée, en 2023, à dix-huit mois, par le gouvernement dominé par l’extrême droite de la présidente du conseil italien, Giorgia Meloni. Le nombre de détenus passés par les CPR – moins de 6 400 en 2022 – ne représente qu’une fraction du nombre de personnes arrivées irrégulièrement sur le territoire italien, estimé à près de 158 000, et du nombre d’étrangers en situation irrégulière en Italie, soit plus de 500 000. De plus, les procédures d’expulsion sont complexes, et Rome ne dispose pas toujours d’un accord de réadmission avec les pays d’origine. Ainsi, selon le rapport de 2023 du garant national des droits des personnes détenues ou privées de liberté, au terme de leur détention dans les CPR, environ la moitié des étrangers concernés restent sur le sol italien, retournant le plus souvent à une situation d’illégalité.
    Si l’efficacité des CPR est contestée par l’opposition, le gouvernement de Giorgia Meloni a répété l’objectif d’ériger un de ces centres de rétention dans chacune des vingt régions italiennes. Son ambition va même au-delà du territoire national. En novembre 2023, il a été conclu avec Tirana un accord pour l’installation de deux centres de rétention de droit italien en territoire albanais. Sur ces sites doivent être détenus des hommes – jugés non vulnérables et venant de pays sûrs – secourus hors des eaux européennes par les navires militaires italiens. En cours de ratification, cet accord permettrait la création de centres de rétention extraterritoriaux, plus éloignés encore des regards extérieurs.

    #Covid-19#migrant#migration#italie#guinee#centredesejourpourrapatriement#retention#sante#santementale#mortalité#psychotrope#suicide#albanie

  • En Italie, le suicide d’Ousmane Sylla, 22 ans, migrant guinéen, rappelle les conditions alarmantes dans les centres de rétention
    https://www.lemonde.fr/international/article/2024/02/07/en-italie-le-suicide-d-un-jeune-guineen-jette-une-lumiere-crue-sur-les-centr

    En Italie, le suicide d’Ousmane Sylla, 22 ans, migrant guinéen, rappelle les conditions alarmantes dans les centres de rétention
    Par Allan Kaval (Rome, correspondant)
    . VINCENZO PINTO / AFP Le suicide d’un détenu a lancé une nouvelle alarme sur la situation problématique des centres de rétention italiens et sur les conditions de vie qui y règnent. Dimanche 4 février, Ousmane Sylla, 22 ans, migrant guinéen, a mis fin à ses jours dans le centre de séjour pour les rapatriements (CPR) de Ponte Galeria, au sud-ouest de Rome. La mort du jeune homme a déclenché des protestations de la part d’autres détenus qui ont mis feu à leurs matelas et se sont confrontés aux forces de l’ordre. Ces dernières ont usé du gaz lacrymogène et ont arrêté quatorze personnes retenues dans le centre, à l’issue d’un épisode qui est loin d’être isolé.
    Quelques jours avant son suicide, M. Sylla avait ainsi été transféré du CPR de Trapani, en Sicile, à la suite, là aussi, d’un mouvement de protestation des migrants détenus. Avant de se pendre, il a écrit sur le mur de sa nouvelle cellule : « Si je meurs, j’aimerais qu’on envoie mon corps en Afrique, ma mère en sera contente. Les militaires italiens ne connaissent rien sauf l’argent. L’Afrique me manque beaucoup et ma mère aussi, elle ne doit pas pleurer pour moi. Paix à mon âme, que je repose en paix. » Le parquet a ouvert une enquête pour incitation au suicide.
    Grâce à son statut de parlementaire, le député et secrétaire général du parti libéral + Europa, Riccardo Magi, a pu se rendre, dimanche, à l’intérieur du CPR de Ponte Galeria, entre deux vagues d’affrontements avec les forces de l’ordre. « Comme dans tous les CPR que j’ai pu visiter, la situation à l’intérieur est indigne, dit-il au Monde. Les personnes détenues disent ne pas avoir eu de plat chaud depuis des semaines. Il n’y a pas d’eau chaude, pas de literie correcte, un état de saleté généralisé. Les détenus qui ne sont pas révoltés sont comateux à cause des psychotropes qui leur sont administrés pour les rendre inoffensifs. »
    L’usage de médicaments à des fins de contrôle dans les centres de rétention a été établi par une enquête de la revue italienne Altreconomia. En dehors des rares travaux journalistiques de cette nature, qui recueillent des informations filtrant difficilement de l’intérieur, et des témoignages des parlementaires et garants des droits qui peuvent s’y rendre, la réalité de ces sites est largement invisible.
    Les CPR sont au nombre de dix en Italie, gérés par des prestataires privés, répartis sur l’ensemble du territoire, pour une capacité de l’ordre du millier de détenus. Les personnes qui y sont enfermées sont des étrangers en situation irrégulière n’ayant pas fait de demande d’asile ou venant de pays sûrs et faisant l’objet d’une procédure d’expulsion. « Les CPR sont des trous noirs juridiques, où tous les droits à la défense sont entravés, explique Salvatore Fachile, spécialiste en droit de l’asile au cabinet d’avocat Antartide, à Rome. Leurs téléphones étant saisis, les détenus ont des possibilités très limitées de communication avec l’extérieur et de contact avec des avocats pour contester leur détention. »
    Fixée à trente jours, lors de la mise en place des centres de rétention de cette nature, en 1998, la limite de la période de détention a progressivement augmenté pour être portée, en 2023, à dix-huit mois, par le gouvernement dominé par l’extrême droite de la présidente du conseil italien, Giorgia Meloni. Le nombre de détenus passés par les CPR – moins de 6 400 en 2022 – ne représente qu’une fraction du nombre de personnes arrivées irrégulièrement sur le territoire italien, estimé à près de 158 000, et du nombre d’étrangers en situation irrégulière en Italie, soit plus de 500 000. De plus, les procédures d’expulsion sont complexes, et Rome ne dispose pas toujours d’un accord de réadmission avec les pays d’origine. Ainsi, selon le rapport de 2023 du garant national des droits des personnes détenues ou privées de liberté, au terme de leur détention dans les CPR, environ la moitié des étrangers concernés restent sur le sol italien, retournant le plus souvent à une situation d’illégalité.
    Si l’efficacité des CPR est contestée par l’opposition, le gouvernement de Giorgia Meloni a répété l’objectif d’ériger un de ces centres de rétention dans chacune des vingt régions italiennes. Son ambition va même au-delà du territoire national. En novembre 2023, il a été conclu avec Tirana un accord pour l’installation de deux centres de rétention de droit italien en territoire albanais. Sur ces sites doivent être détenus des hommes – jugés non vulnérables et venant de pays sûrs – secourus hors des eaux européennes par les navires militaires italiens. En cours de ratification, cet accord permettrait la création de centres de rétention extraterritoriaux, plus éloignés encore des regards extérieurs.

    #Covid-19#migrant#migration#italie#guinee#centredesejourpourrapatriement#retention#sante#santementale#mortalité#psychotrope#suicide#albanie

  • La version française intégrale de l’interview de Vladimir Poutine par Tucker Carlson

    https://www.youtube.com/watch?&v=Mis5nZ_ESj8

    Source : Librairie tropique https://www.librairie-tropiques.fr/2024/02/poutine-parle-au-monde-libre.html

    La version originale (en Anglais) sur le site de Tucker Carlson

    https://tuckercarlson.com/the-vladimir-putin-interview

    Timestamp Headline
    00:00:00 Introduction

    00:02:00 Putin gives a history of Russia & Ukraine

    00:25:04 NATO Expansion

    00:30:40 NATO & Bill Clinton

    00:41:10 Ukraine

    00:48:30 What triggered this conflict?

    01:02:37 A peaceful solution?

    01:11:33 Who blew up the Nord Stream pipelines?

    01:24:13 Re-establishing communication with the US

    01:36:33 How powerful is Zelensky?

    01:48:36 Elon Musk & AI

    01:51:07 Imprisoned American journalist Evan Gershkovich

    #Russie #otan #nato #Ukraine #Histoire #usa #ue #interview #journalisme #géopolitque

  • La France condamnée par la CEDH pour une nasse policière dans une manifestation en 2010
    https://www.lemonde.fr/societe/article/2024/02/08/la-france-condamnee-par-la-cedh-pour-une-nasse-policiere-dans-une-manifestat

    La Cour européenne des droits de l’homme (CEDH) a condamné, jeudi 8 février, la France pour le recours sans base légale à une nasse policière lors d’une manifestation [pour les retraites] en 2010 à Lyon, estimant qu’il y avait eu des violations des #libertés de circulation, de réunion et d’expression. C’est la première fois que la France est condamnée pour cette pratique policière d’encerclement de manifestants, selon une source au sein de la cour.
    La CEDH note cependant que si l’utilisation d’une nasse policière était dépourvue de cadre légal à l’époque des faits, il y a près de quinze ans, le ministère de l’intérieur a, depuis, publié un nouveau schéma national de #maintien_de_l’ordre, en décembre 2021, qui encadre cette technique dans la doctrine des forces de l’ordre.
    [...]
    L’avocat des requérants, Me Patrice Spinosi, a salué « une victoire de principe, qui démontre que l’usage de la pratique des “nasses” ou de “l’encerclement” (…) était illicite en France avant l’entrée en vigueur du schéma national du maintien de l’ordre, en décembre 2021 ».
    « Selon la CEDH, le fait que cette pratique soit désormais encadrée n’équivaut pas à un blanc-seing pour les forces de l’ordre. Elle juge que l’usage disproportionné du “nassage” est susceptible de porter atteinte non seulement à la liberté d’aller et venir mais encore à la liberté d’expression », ajoute Me Spinosi dans une réaction transmise à l’Agence France-Presse.

    #CEDH Police #nasse #En_marche

  • « La ruée minière au XXIe siècle » : le #mensonge de la #transition_énergétique

    La transition énergétique telle qu’elle est promue par les entreprises, les institutions et les gouvernements partout dans le monde repose sur l’extraction d’une quantité abyssale de #métaux. C’est ce paradoxe que décortique la journaliste et philosophe #Celia_Izoard dans son essai intitulé La ruée minière au XXIe siècle, qui paraît cette semaine au Québec aux Éditions de la rue Dorion.

    « Pour régler le plus important problème écologique de tous les temps, on a recours à l’industrie la plus polluante que l’on connaisse », résume l’autrice en visioconférence avec Le Devoir depuis son domicile, situé en pleine campagne dans le sud-ouest de la France.

    Cette dernière examine depuis plusieurs années les impacts sociaux et écologiques des nouvelles technologies. Elle a notamment publié un livre sur la vie des ouvriers de l’entreprise chinoise Foxconn, le plus grand fabricant de produits électroniques au monde. Ironiquement, nos outils numériques font défaut au cours de l’entrevue, si bien que nous devons poursuivre la discussion par le biais d’une bonne vieille ligne téléphonique résidentielle.

    Les métaux ont beau être de plus en plus présents dans les objets qui nous entourent, dont les multiples écrans, l’industrie minière fait très peu partie de l’imaginaire collectif actuel, explique Mme Izoard d’un ton posé et réfléchi. « Je croise tous les jours des gens qui me disent : “Ah bon, je ne savais pas que notre système reposait encore sur la #mine.” Ça me conforte dans l’idée que c’était utile de faire cette enquête. Notre système n’a jamais autant reposé sur l’#extraction_minière qu’aujourd’hui. »

    L’extraction de métaux a déjà doublé en vingt ans et elle n’est pas en voie de s’amenuiser, puisque les #énergies dites renouvelables, des #batteries pour #voitures_électriques aux panneaux solaires en passant par les éoliennes, en dépendent. Elle est susceptible d’augmenter de cinq à dix fois d’ici à 2050, selon une évaluation de l’Agence internationale de l’énergie.

    « Électrifier le parc automobile français nécessiterait toute la production annuelle de #cobalt dans le monde et deux fois plus que la production annuelle de #lithium dans le monde. Donc soit cette transition prendra beaucoup trop longtemps et ne freinera pas le réchauffement climatique, soit elle se fera dans la plus grande violence et une destruction incroyable », rapporte l’autrice.

    On bascule d’une forme d’extraction, du pétrole, à une autre, des métaux. « Cela n’a pas plus de sens que d’essayer de venir à bout de la toxicomanie remplaçant une addiction par une autre », juge-t-elle.

    Une justification officielle

    Les pouvoirs publics ne semblent pas y voir de problème. Ils font largement la promotion de cette #ruée_minière, promettant le développement de « #mines_responsables ». La #transition est la nouvelle excuse pour justifier pratiquement tous les #projets_miniers. « Une mine de cuivre est devenue miraculeusement une mine pour la transition », souligne Mme Izoard. Pourtant, le #cuivre sert à de multiples usages au-delà de l’#électrification, comme l’électronique, l’aérospatiale et l’armement.

    C’est dans ce contexte que la journaliste est partie à la recherche de mines responsables. Elle s’est documentée, elle a visité des sites d’exploitation, elle a consulté des experts de ce secteur d’activité et elle a rencontré des travailleurs, tout cela en #France, au #Maroc, au #Suriname et en #Espagne.

    Malgré les engagements publics et les certifications de plusieurs #entreprises_minières envers des pratiques durables et les droits de la personne, Celia Izoard n’a pas trouvé ce qu’elle cherchait. Au cours de cette quête, elle a publié une enquête pour le média Reporterre au sujet d’une mine marocaine mise en avant par les constructeurs automobiles #BMW et #Renault comme étant du « #cobalt_responsable ». Or, il s’est avéré que cette mine empoisonne les sols à l’#arsenic, dessèche la #nappe_phréatique et cause des maladies aux travailleurs.

    « La #mine_industrielle est un modèle qui est voué à avoir des impacts catastrophiques à moyen et long terme. Ce n’est pas parce que ces entreprises sont méchantes et malhonnêtes, mais parce qu’il y a des contraintes physiques dans cette activité. Elle nécessite énormément d’#eau et d’énergie, elle occupe beaucoup d’espace et elle déforeste. »

    #Boues_toxiques et pluies d’oies sauvages

    Dans son livre, Mme Izoard décrit de nombreux ravages et risques environnementaux qui sont matière à donner froid dans le dos. Les premières pages sont notamment consacrées au phénomène du #Berkeley_Pit, une ancienne mine de cuivre devenue un lac acide causant la mort de milliers d’oies sauvages.

    « Rappelons-nous la rupture de digue de résidus de la mine de cuivre et d’or de #Mount_Polley en 2014, lors de laquelle 17 millions de mètres cubes d’eau chargée en #métaux_toxiques ont irréversiblement contaminé de très grandes superficies et des ressources en eau d’une valeur inestimable, a-t-elle souligné au sujet de cette catastrophe canadienne. Or, des bassins de résidus de même type, il y en a 172 rien qu’en #Colombie-Britannique, et les boues toxiques qui y sont stockées représentent l’équivalent d’un million de piscines olympiques. Malheureusement, avec le chaos climatique, les risques de rupture accidentelle de ces barrages sont décuplés. » Elle considère d’ailleurs que le Canada est « au coeur de la tourmente extractiviste ».

    Les gouvernements du #Québec et du #Canada soutiennent généralement que le développement minier sur leur territoire respectera des #normes_environnementales plus strictes, en plus d’utiliser de l’énergie plus propre. Cet argument justifierait-il l’implantation de nouvelles mines ? Non, estime Mme Izoard.

    « Aucun État puissant industriellement ne relocalise sa #production_minière ni ne s’engage à cesser d’importer des métaux. Ce qui est en train de se passer, c’est que les besoins en métaux explosent dans tous les domaines et que les entreprises minières et les États se sont mis d’accord pour créer des mines partout où il est possible d’en créer. Ce n’est pas parce qu’on accepte une mine dans sa région qu’il n’y aura pas de mine pour la même substance à l’autre bout du monde. » Il est peu probable, par exemple, que des batteries produites au Québec s’affranchissent totalement des métaux importés.

    Pour une #décroissance_minérale

    Celia Izoard estime plutôt qu’une grande partie des mines du monde devraient fermer, puisqu’elles sont situées dans des zones menacées par la sécheresse. Nous n’aurions alors pas d’autre choix que de nous engager dans une désescalade de la consommation de métaux, « une remise en cause radicale de la manière dont on vit ». Selon cette vision, il faudrait contraindre l’ensemble du secteur industriel à se limiter, tout comme on lui demande de réduire ses émissions de GES. Les métaux devraient être réservés aux usages alors déterminés comme étant essentiels. Les immenses centres de données, les avions, les VUS électriques et les canettes d’aluminium sont-ils nécessaires à la vie humaine ?

    « Il faut arrêter de se laisser intimider par le #déterminisme_technologique, soit l’idée que le #progrès suit cette direction et qu’on ne peut rien changer. Ce sont des choix idéologiques et politiques très précis avec du financement public très important. Il faut cesser de penser que les technologies sont inéluctablement déployées et qu’on ne peut pas revenir en arrière. »

    https://www.ledevoir.com/lire/806617/coup-essai-mensonge-transition-energetique
    #mines #extractivisme #terres_rares #pollution

  • Le #Mali, le #Burkina_Faso et le Niger quittent la #Cedeao, la région ébranlée

    Les trois régimes issus de coups d’Etat prennent le risque de compromettre la #libre_circulation des biens et des personnes, et repoussent le retour des civils au pouvoir.

    En décidant de se retirer de la #Communauté_économique_des_Etats_d’Afrique_de_l’Ouest (Cedeao), les régimes militaires du Mali, du Burkina Faso et du Niger issus de coups d’Etat prennent le risque de compromettre la libre circulation et repoussent le retour des civils au pouvoir. La Cedeao, organisation économique régionale de quinze pays, s’est opposée aux coups d’Etat ayant successivement porté au pouvoir les militaires au Mali, au Burkina Faso et au Niger, imposant de lourdes sanctions économiques au Niger et au Mali.

    En août 2023, elle est allée jusqu’à menacer d’intervenir militairement au Niger pour y rétablir l’ordre constitutionnel et libérer le président Mohamed Bazoum renversé. Le dialogue est pratiquement rompu entre l’organisation et les régimes de Bamako, Ouagadougou et Niamey, qui ont créé l’Alliance des Etats du Sahel (AES) et accusent leurs voisins d’agir sous l’influence de « puissances étrangères », en premier lieu la France, ancienne puissance coloniale dans la région.

    Des élections étaient en théorie prévues au Mali et au Burkina Faso en 2024, censées assurer le retour à un gouvernement civil, préalable exigé par la Cedeao pour lever ses sanctions et rétablir ces pays dans ses instances décisionnelles. Mais les partisans des régimes militaires souhaitent allonger la durée des transitions, invoquant la lutte antidjihadiste. Le nouvel homme fort du Niger, le général Abourahamane Tiani, n’a pas encore annoncé de calendrier de transition.

    « Les Etats de l’AES ont anticipé un débat qui devait venir, celui de la fin des transitions. La sortie de la Cedeao semble remettre au second plan cette question », estime Fahiraman Rodrigue Koné, spécialiste du Sahel à l’Institut des études de sécurité (ISS). « Bien installés dans les palais et devant les délices du pouvoir, ils [les dirigeants des pays de l’AES] veulent s’éterniser dans les fauteuils présidentiels », fustige Le Patriote, quotidien du parti au pouvoir en Côte d’Ivoire.

    L’inquiétude des ressortissants des trois pays

    La Cedeao garantit aux citoyens des pays membres de pouvoir voyager sans visa et de s’établir dans les pays membres pour y travailler ou y résider. L’annonce du retrait burkinabé, nigérien et malien, suscite donc l’inquiétude de centaines de milliers de ressortissants de ces pays, particuliers ou commerçants.

    Les trois pays enclavés du Sahel et leurs principaux partenaires économiques côtiers comme le Sénégal et la Côte d’Ivoire sont toutefois membres de l’#Union_économique_et_monétaire_ouest-africaine (#Uemoa, huit pays), qui garantit elle aussi en principe la « liberté de circulation et de résidence » pour les ressortissants ouest-africains, ainsi que le dédouanement de certains produits et l’harmonisation des tarifs et des normes, à l’instar de la Cedeao.

    Les conséquences d’un #retrait pourraient être plus marquées aux frontières du Niger et du Nigeria, pays n’appartenant pas à l’Uemoa. Le géant économique d’Afrique de l’Ouest représente plus de la moitié du PIB de la Cedeao et est le premier partenaire économique du Niger dans la région. Les 1 500 kilomètres de frontière qui séparent les deux Etats sont toutefois mal contrôlés et en proie aux attaques des groupes armés. Une part importante des flux échappent aux contrôles douaniers.

    « Même si c’est par la contrebande, les biens et les personnes vont rentrer au Niger. Vous ne pouvez pas séparer Sokoto [nord du Nigeria] de Konni [Niger], c’est un même peuple », assure ainsi Chaïbou Tchiombiano, secrétaire général du Syndicat des commerçants, importateurs exportateurs et grossistes du Niger.

    « Juridiquement, un retrait sans délai n’est pas possible »

    Les régimes du Mali, du Burkina et du Niger ont annoncé leur retrait « sans délai », mais les textes de la Cedeao prévoient qu’une demande doit être déposée par écrit un an avant. La Cedeao a affirmé dimanche qu’elle n’avait pas encore reçu une telle notification. « Juridiquement, un retrait sans délai n’est pas possible. Ces Etats devront trouver une forme d’entente et des négociations iront dans le sens de trouver les moyens de faire ce retrait de manière progressive », estime Fahiraman Rodrigue Koné.

    Alors que les groupes djihadistes progressent au Sahel et jusqu’aux marges des Etats côtiers, « la région se fragmente, devient objet de concurrence géostratégique plus forte, et cela n’est pas une bonne nouvelle pour la stabilité », avertit le chercheur.

    Les vives critiques formulées par ces régimes et leurs partisans à l’encontre du franc CFA, la monnaie commune des pays membres de l’Uemoa, pourraient également conduire les pays de l’AES à quitter cette organisation, et à renoncer à la libre circulation des biens et des personnes en attendant l’émergence d’une #zone_de_libre-échange continentale africaine, encore à l’état de projet.

    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2024/01/29/le-mali-le-burkina-faso-et-le-niger-quittent-la-cedeao-la-region-ebranlee_62
    #fin

  • Des compagnies aériennes décident de ne plus embarquer de Français vers le Niger
    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2024/02/02/des-compagnies-aeriennes-decident-de-ne-plus-embarquer-de-francais-vers-le-n

    Des compagnies aériennes décident de ne plus embarquer de Français vers le Niger
    Le Monde avec AFP
    Publié hier à 10h04
    Des compagnies aériennes desservant Niamey, capitale du Niger, ont décidé de ne plus embarquer de passagers français vers cette destination, dont plusieurs ont récemment été refoulés à leur arrivée, a appris mercredi l’AFP de sources aéroportuaires. « Selon les autorités nigériennes, tout passager de nationalité française n’est plus autorisé à rentrer sur le territoire nigérien. Par conséquent, ces derniers ne seront plus acceptés sur nos vols sur cette destination », indique une note interne d’Air Burkina consultée par l’AFP.
    Dans un communiqué publié mercredi soir 31 janvier, la compagnie burkinabée affirme que « cette note n’émane pas » d’elle et qu’elle « ne saurait être tenue pour responsable des conséquences éventuelles qui pourraient en découler ». Le texte ne dit rien sur l’embarquement ou non de ressortissants français.
    Une source proche de la compagnie Royal Air Maroc (RAM) a indiqué que « les passagers français à destination de Niamey ne peuvent plus embarquer à bord » des avions de la RAM, « sans autorisation spéciale des autorités nigériennes et ce depuis près d’une semaine ». Sollicitées par l’AFP, d’autres compagnies desservant Niamey, Ethiopian Airlines, Asky, Air Tunisie et Turkish Airlines, n’ont pas répondu dans un premier temps à la question de savoir si elles continuaient à embarquer des ressortissants français vers le Niger.
    Egalement interrogées, les autorités nigériennes n’ont pour l’instant pas confirmé que les Français souhaitant ou devant venir à Niamey étaient désormais persona non grata sur leur territoire. Les relations entre le Niger et la France, ancienne puissance coloniale dans la région, n’ont cessé de se dégrader depuis le coup d’Etat militaire du 26 juillet 2023 qui a renversé le président élu Mohamed Bazoum.
    L’ambassade de France au Niger, dont Paris avait annoncé la fermeture peu avant Noël, est officiellement close « jusqu’à nouvel ordre » et poursuivra ses activités depuis Paris, avait annoncé le ministère des affaires étrangères français, le 2 janvier. Le ministère soulignait que « depuis cinq mois, notre ambassade subit de graves entraves rendant impossible l’exercice de ses missions : blocus autour de l’ambassade, restrictions des déplacements pour les agents et refoulement de tous les personnels diplomatiques qui devaient rejoindre le Niger ».
    La fermeture d’une ambassade, mesure extrêmement rare, avait été décidée en parallèle au retrait des derniers soldats français déployés au Niger dans le cadre de la lutte antiterroriste, qui ont quitté le pays le 22 décembre 2023. Après le coup d’Etat du 26 juillet, les militaires au pouvoir avaient rapidement exigé le départ des soldats français – environ 1 500 déployés pour lutter contre les djihadistes – et dénoncé plusieurs accords militaires conclus avec Paris.
    Le régime militaire avait aussi prononcé fin août l’expulsion de l’ambassadeur de France, Sylvain Itté. Celui-ci était resté près d’un mois coincé à l’intérieur de la représentation diplomatique avant de la quitter sur décision du président Emmanuel Macron qui avait ordonné qu’il reste en place après le coup d’Etat. Le journal français Le Canard enchaîné a évoqué un veto du ministère français des affaires étrangères à la parution d’un livre de M. Itté qui, selon une source diplomatique contactée par l’AFP, aurait pu « être préjudiciable à nos intérêts de sécurité ».
    Depuis le départ de la France, le Niger comme le Mali et le Burkina Faso voisins également dirigés par des militaires issus de coups d’Etat et confrontés à la violence djihadiste se sont rapprochés d’autres partenaires, dont la Russie.Dans ce contexte, la Turquie a affirmé jeudi vouloir aider le Niger à « renforcer son indépendance » après l’annonce par Niamey de son retrait de la Communauté économique des Etats d’Afrique de l’Ouest (Cedeao). « Le président Erdogan a exprimé le soutien de la Turquie aux mesures prises par le Niger pour renforcer son indépendance politique, militaire et économique », a indiqué la présidence turque à l’issue d’un tête-à-tête à Ankara entre le président turc Recep Tayyip Erdogan et le premier ministre nigérien Ali Mahamane Lamine Zeine, nommé par le régime militaire au pouvoir à Niamey.
    La Turquie dit vouloir renforcer ses échanges commerciaux avec le Niger, qui a annoncé mardi – à la suite du Mali et du Burkina Faso – avoir notifié son retrait de la Cedeao, une décision aux conséquences potentiellement lourdes pour son économie et sa stabilité politique. La Cedeao s’est employée en vain à obtenir le retour le plus rapide possible de civils au pouvoir à Niamey, Bamako et Ouagadougou, où des coups d’Etat ont renversé les présidents élus.Selon la présidence turque, M. Erdogan a déclaré que « la Turquie s’opposait aux interventions militaires étrangères qui victimisent le peuple nigérien et continuerait à le faire ». Ankara, qui a étendu sa présence au Sahel et souhaite y accroître encore son influence en profitant notamment du départ forcé de la France, a adopté une position conciliante avec les militaires arrivés au pouvoir au Niger à l’issue d’un coup d’Etat fin juillet. La situation au Niger est scrutée de près par Ankara, le pays sahélien étant situé à la frontière sud de la Libye, où la Turquie possède de très nombreux intérêts.

    #Covid-19#migrant#migration#niger#france#mali#burkinafaso#CEDEAO#circulation#vol#sante#turquie#maroc

  • En Côte d’Ivoire, les ressortissants sahéliens inquiets après l’annonce de la sortie de leur pays de la Cedeao
    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2024/02/02/en-cote-d-ivoire-les-ressortissants-saheliens-inquiets-apres-l-annonce-de-la

    En Côte d’Ivoire, les ressortissants sahéliens inquiets après l’annonce de la sortie de leur pays de la Cedeao
    Par Marine Jeannin (Abidjan, correspondance)
    Les communes jumelles d’Abobo et d’Adjamé n’abritent pas seulement le plus grand marché d’Abidjan, cœur battant de la capitale économique de la Côte d’Ivoire. Elles sont aussi une réplique de l’Afrique de l’Ouest en miniature, avec ses milliers de ressortissants guinéens, ghanéens et, surtout, de trois pays du Sahel. Les diasporas du Mali, du Burkina Faso et du Niger y sont les plus présentes, le plus souvent actives dans le transport et le commerce.
    Selon le recensement de 2021, les étrangers représentaient 22 % de la population vivant en Côte d’Ivoire et, d’après l’Organisation internationale pour les migrations (OIM), 3 millions de Maliens, environ autant de Burkinabés et 700 000 Nigériens s’y sont installés. Depuis le 28 janvier et l’annonce conjointe des trois juntes qui gouvernent ces pays de quitter la Communauté économique des Etats de l’Afrique de l’Ouest (Cedeao), c’est tout Adjamé qui gronde.
    Lire aussi | Article réservé à nos abonnés Le retrait des juntes du Sahel de la Cedeao « confirme la césure géostratégique qui se dessine en Afrique de l’Ouest »
    D’abord pour le symbole. « Qu’est-ce que ça veut dire de quitter la Cedeao ? », s’emporte un sexagénaire malien, dans sa petite cour d’Abobo Dokui. « Nous sommes tous ouest-africains, nous avons la même parenté… Nous devrions rester ensemble, proclame avec amertume cet homme qui précise vivre à Abidjan depuis près de quarante ans. Comme d’habitude, c’est une décision prise par les dirigeants, tandis que nous, la population, n’avons pas été consultés. Nous sommes les premiers concernés et nous allons devoir payer les pots cassés. »
    En quittant la Cedeao, les membres de ces trois diasporas risquent de devoir s’acquitter, comme d’autres immigrés − en dehors des Français, qui paient moitié moins cher −, des 300 000 francs CFA annuels (quelque 450 euros) de la carte de séjour. Soit l’équivalent de quatre mois de smic ivoirien. Ceux qui ne pourront débourser cette somme devront choisir entre rester sur le sol ivoirien dans l’illégalité, rentrer dans leur pays d’origine ou demander la nationalité ivoirienne.
    « La carte de séjour, c’est ma première préoccupation », confirme Ibrahim Dagoune, un commerçant d’une trentaine d’années originaire du Burkina Faso, installé à Adjamé. S’il dit soutenir le capitaine Ibrahim Traoré, le président putschiste aux commandes à Ouagadougou, il réprouve la sortie de son pays de la Cedeao. « Ma deuxième préoccupation, poursuit-il, c’est la libre circulation des biens et des personnes, et celle des flux financiers. Pour nous qui travaillons entre les deux pays et envoyons de l’argent à notre famille, cette décision risque de peser très lourd. »
    Pour l’heure, les trois juntes n’ont pas annoncé leur retrait de l’Union économique et monétaire ouest-africaine (Uemoa), qui rassemble les huit membres de la Cedeao utilisant le franc CFA. La libre circulation des biens et des personnes entre la jeune Alliance des Etats du Sahel (AES) et la Côte d’Ivoire reste donc garantie pour le moment. Mais l’AES a déjà manifesté son intention de créer une monnaie commune et les diasporas se préparent déjà à cette éventualité. « Si les tarifs douaniers sont restaurés, cela va affecter les prix des produits échangés par ces trois pays et la Côte d’Ivoire, résume l’économiste ivoirien Germain Kramo. Il risque donc d’y avoir des pertes de parts de marché des deux côtés de la frontière, et ce, dans le secteur public comme privé. »
    Le Mali est, depuis 2022, le premier client de la Côte d’Ivoire, dont il représente 8,9 % des exportations. Le Burkina Faso en est le cinquième avec 5,1 %. Ces deux pays représentent par ailleurs, à eux seuls, 55 % des exportations de la Côte d’Ivoire au sein de la Cedeao, essentiellement des produits manufacturés, dont les prix devraient considérablement augmenter si les frais douaniers sont restaurés. Et si les trois pays ne figurent pas au rang des principaux fournisseurs de la Côte d’Ivoire, cette dernière importe tout de même du Sahel une partie de ses denrées alimentaires, en particulier les céréales et la viande.
    Nouer de nouveaux partenariats avec la Cedeao ?Les envois d’argent entre les trois pays et leur diaspora, mentionnés par M. Dagoune, ne sont pas non plus à négliger. « Si le Mali, le Burkina Faso et le Niger quittent l’Uemoa, les transactions financières entre ces pays et la Côte d’Ivoire en souffriront, prévient Germain Kramo, car elles feront l’objet de nouvelles taxes et de nouvelles limitations. Il deviendra plus compliqué d’envoyer de l’argent par “mobile money” vers le Niger que ça ne l’est actuellement vers le Cameroun, par exemple. » Le manque à gagner pourrait être énorme pour ces pays. Le Mali a reçu, en 2023, 1,1 milliard de dollars (1 milliard d’euros) de sa diaspora, selon la Banque mondiale, soit 5,4 % de son produit intérieur brut. Le Burkina Faso, 579 millions de dollars.
    Mais rien n’est encore gravé, et l’annonce faite par l’AES soulève pour l’heure plus d’interrogations qu’elle ne donne de réponses. Selon les textes de la Cedeao, la sortie ne peut entrer en vigueur qu’un an après sa demande effective. Qu’ils décident ou non de rompre avec l’Uemoa, les trois pays pourraient ensuite nouer de nouveaux partenariats avec la Cedeao. Ainsi, la Mauritanie, qui, dix-sept ans après avoir quitté cette communauté (en 2000), a signé avec elle un accord d’association. Celui-ci prévoit la libre circulation des marchandises mais pas celle des personnes. Le Parlement mauritanien l’a ratifié en 2018 mais pas ceux des quinze autres pays membres, empêchant ainsi son entrée en vigueur.

    #Covid-19#migration#migrant#CEDEAO#frontiere#UEMOA#librecirculation#diaspora#flux#transfert#sante

  • Militariser les frontières et entraver l’accès au territoire européen : L’exemple de Ceuta

    En somme, à Ceuta, les exilé·e·s n’ont pas d’autres moyens que d’entrer dans l’#enclave espagnole par des postes frontières non-habilités, et cela au péril de leur vie.

    https://www.canva.com/design/DAF0FmOmnU8/A2tAC7ccKWfyFVbhi0AXGA/edit

    #infographie #visualisation #Ceuta #Espagne #Maroc #frontières #militarisation_des_frontières #cartographie

  • Read novelist Lana Bastašić’s blazing response to yet another act of literary censorship. ‹ Literary Hub
    https://lithub.com/read-novelist-lana-bastasics-blazing-response-to-yet-another-act-of-literary

    It is my political and human opinion that children should not be slaughtered and that German cultural institutions should know better when it comes to genocide.

    –Lana Bastašić

    #Allemagne #censure

  • « Nous, Françaises juives et Français juifs, appelons à un cessez-le-feu immédiat et durable à Gaza »

    Après cinquante-sept années d’occupation accompagnée d’humiliations, d’expulsions de leurs maisons et de leurs terres, d’emprisonnements arbitraires, de meurtres multiples, d’implantation de colonies et d’échecs de différentes actions pacifiques, on peut comprendre que de nombreuses Palestiniennes et de nombreux Palestiniens refusent de condamner l’action du Hamas du 7 octobre en la considérant comme un acte légitime de résistance à la colonisation et au terrorisme d’Etat d’#Israël.

    On peut aussi comprendre qu’après les 1 200 meurtres, les viols, les violences sexuelles et l’enlèvement de près de deux cents otages, dont une majorité de civils, de nombreuses Israéliennes et de nombreux Israéliens soutiennent les actions meurtrières de l’armée en les considérant comme une réponse légitime aux actions du Hamas.

    Toutefois, nous condamnons tous ces actes terroristes.
    Ce n’est pas parce que juives et juifs que nous condamnons les actes terroristes et les crimes de guerre que constituent les meurtres, les viols, les violences sexuelles et les enlèvements de civils perpétrés par des commandos du Hamas. Ce n’est pas bien que juives et juifs que nous condamnons les actes terroristes et crimes de guerre que sont les bombardements, destructions et massacres massifs, en très grande majorité de femmes et d’enfants, commis par l’armée israélienne et les colons à Gaza et en Cisjordanie depuis plus de trois mois.

    C’est parce que nous sommes attachés à la dignité de toute personne humaine que nous les réprouvons, sans considérer que les Palestiniens ou les Israéliens seraient criminels ou terroristes par nature.

    Au nom de ce passé

    Cette condamnation n’est pas sans liens avec notre judéité, une composante parmi d’autres de nos identités multiples, un héritage familial qui rattache certains des signataires à l’histoire du génocide des juifs d’Europe. Une grande partie des familles de celles et ceux d’entre nous qui sont originaires d’Europe centrale et orientale a été assassinée par les nazis et leurs collaborateurs locaux au cours de la Shoah.

    Certains d’entre nous, de nos parents et de nos grands-parents ont survécu à la chasse aux juifs menée par la Gestapo et la police de Vichy. Refusant d’obéir aux injonctions à se déclarer juifs et à porter l’étoile jaune, ils ont choisi de résister, de se cacher et de cacher leurs enfants. Beaucoup parmi eux ont échappé à la mort grâce à la solidarité et à la désobéissance civile de Français non juifs qui les ont cachés au péril de leur propre vie, sans demander qui ils étaient, ni d’où ils venaient.

    C’est aussi au nom de ce passé que nous affirmons qu’il est illégitime et ignoble de justifier le massacre de dizaines de milliers de civils gazaouis et cisjordaniens au nom du génocide des juifs d’Europe, auquel le peuple palestinien n’a en rien participé. Avec beaucoup de juives et de juifs à travers le monde, y compris en Israël, nous dénions au gouvernement Nétanyahou et à ses soutiens le droit, en se prévalant de la Shoah, d’agir à #Gaza et en #Cisjordanie en notre nom et en celui de nos ancêtres.

    Pour autant, comprendre ce que ressentent les deux peuples, ce n’est ni excuser ni justifier les crimes de guerre. Rien n’excuse ni ne justifie le choix du Hamas de cibler délibérément des civils. Si nous soutenons le peuple palestinien quand il revendique, y compris par la lutte armée contre l’armée israélienne ou les colons armés, ses droits nationaux face à Israël, et auparavant contre le colonisateur britannique, cette juste fin ne légitime pas tous les moyens. L’histoire montre que ceux qui se livrent à de tels actes dans leur combat pour l’indépendance en arrivent ensuite à les reproduire contre leur propre peuple.

    A égalité de dignité et de droits

    Rien ne peut davantage excuser ni justifier le traitement par Israël des #Palestiniens comme des « animaux humains ». Rien ne peut justifier la destruction de maisons, d’hôpitaux, d’écoles, de routes, de quartiers voire de villes entières, la privation de nourriture, d’eau et de soins, les déplacements forcés, ni les assassinats en masse. Rien ne peut justifier les encouragements et les soutiens aux colons armés qui exproprient et tirent à vue sur des Palestiniens de Cisjordanie.

    Rien ne justifie ou n’excuse l’antisémitisme, le racisme anti-arabe, l’apartheid. On ne peut ni justifier ni excuser la négation de l’existence et des droits des peuples palestinien et israélien. La haine sans cesse alimentée, le fondamentalisme religieux et le recours au terrorisme que partagent les dirigeants du Hamas et les dirigeants israéliens actuels ne peuvent qu’engendrer la guerre sans cesse recommencée.

    En transformant leur « Terre sainte » en charnier, ils se renforcent réciproquement. Ils empêchent toute solution politique, la seule issue, même si sa forme est difficile à prévoir, pour que ces peuples puissent un jour vivre en paix, à égalité de dignité et de droits. La recherche d’une paix juste et durable est la seule alternative à l’épuration ethnique à laquelle aspirent les fous de Dieu des deux camps.

    Nous sommes solidaires des familles des otages israéliens comme des familles des prisonniers palestiniens, solidaires de celles et ceux qui, en Israël, combattent la sale guerre en cours, et solidaires de celles et ceux qui subissent les massacres à Gaza et en Cisjordanie. Comme des millions de personnes à travers le monde, nous exigeons un cessez-le-feu immédiat et durable, ainsi que la libération des otages israéliens et des prisonniers palestiniens.

    Nous appelons le gouvernement français à œuvrer, notamment au sein des instances internationales, au #cessez-le-feu immédiat et durable.

    Auteurs : Edgar Blaustein, militant associatif ; Dominique Glaymann, professeur émérite de sociologie, université d’Evry, université Paris-Saclay ; Claude Szatan, militant associatif.
    Premiers signataires : Sophie Bessis, historienne ; Rony Brauman, ex-président de Médecins sans frontières ; Régine Dhoquois-Cohen, juriste, militante associative ; Alain Cyroulnik, syndicaliste FSU ; Laura Fedida, militante antiraciste ; Pierre Khalfa, économiste, Fondation Copernic ; Danièle Lochak, universitaire ; Pierre Tartakowsky, président d’honneur de la Ligue des droits de l’homme ; Véronique Nahoum-Grappe, chercheuse en sciences sociales, Paris ; Dominique Vidal, journaliste et historien.

    https://www.lemonde.fr/idees/article/2024/01/30/nous-francaises-juives-et-francais-juifs-appelons-a-un-cessez-le-feu-immedia

  • Migranti, patto Italia-Albania : sì dalla Corte costituzionale albanese all’accordo

    Cinque giudici supremi su nove non si oppongono all’intesa Roma-Tirana sui centri temporanei di accoglienza. Ora l’ultimo passaggio parlamentare in Albania, poi l’implementazione dell’accordo

    La Corte costituzionale albanese vota a favore dell’accordo per la realizzazione dei centri di accoglienza dei migranti siglato dai governi italiano e albanese. A sostenerlo è una nota della Consulta che conferma così le anticipazioni del Corriere.

    La decisione

    Secondo le fonti 5 giudici – su 9 – della Consulta locale hanno stabilito che l’intesa siglata a Roma dai premier Giorgia Meloni ed Edi Rama risulta «conforme» alla costituzione albanese. Dopo questo pronunciamento ora è atteso un veloce passaggio parlamentare per approvare l’accordo.

    Le motivazioni

    «La Corte ha valutato che il “protocollo sulla migrazione” non stabilisce confini territoriali e neppure altera l’integrità territoriale della Repubblica d’Albania, pertanto non costituisce un accordo relativo al territorio dal punto di vista fisico», si legge nella nota ufficiale. E ancora: «La Corte ha valutato che nelle due zone in cui agisce il protocollo, si applica il diritto albanese, oltre al diritto italiano» e che «la Corte ha constatato che per i diritti e le libertà umane opera una giurisdizione duplice, il che significa che la giurisdizione italiana nelle due zone in questione non esclude la giurisdizione albanese». L’accordo, poi, «non crea nuovi diritti e libertà costituzionali e non impone restrizioni aggiuntive ai diritti e alle libertà umane esistenti, al di là di quanto previsto dall’ordinamento giuridico albanese».

    Il patto

    Lo scorso novembre Meloni e Rama hanno siglato l’intesa che prevede la realizzazione in Albania di due centri per l’identificazione e l’accoglienza dei migranti salvati nel Mediterraneo. La prima struttura, quella di «registrazione», secondo l’accordo dovrebbe sorgere al porto di Shëngjin, nel nord del Paese, mentre nell’entroterra dovrebbe essere costruito un centro di permanenza a Gjadër. Tirana si è offerta di accogliere fino a 3 mila migranti in attesa di sapere se possono mettere piede nel territorio italiano o devono essere rimpatriati, il tutto a spese di Roma. Il protocollo ha una validità di cinque anni, prorogabili automaticamente di altri cinque in assenza di rilievi da parte italiana o albanese.

    Il ricorso

    L’accordo era stato però fortemente osteggiato dall’opposizione albanese che, dopo aver raccolto le firme necessarie, aveva portato il patto Roma-Tirana alla Corte costituzionale. Il 13 dicembre scorso i giudici albanesi hanno ammesso il ricorso e lo scorso 18 gennaio hanno iniziato a esaminarlo. Due i punti da chiarire, in particolare: il presunto mancato rispetto della procedura di negoziazione e firma e la possibile violazione dei diritti umani.

    Il voto

    Negli ultimi giorni la Consulta ha poi ricevuto ulteriori documenti dalla parte ricorrente – oltre alle «memorie» difensive del governo – e dopo diverse ore di confronto, anche acceso, 5 giudici non muovono obiezioni all’accordo, gli altri 4 sì.

    https://www.corriere.it/politica/24_gennaio_29/migranti-patto-italia-albania-si-corte-costituzionale-albanese-all-accordo-

    #Italie #asile #migrations #réfugiés #Albanie #accord #externalisation #centres #cour_constitutionnelle #justice #accord

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    ajouté à la métaliste sur l’#accord entre #Italie et #Albanie pour la construction de #centres d’accueil (sic) et identification des migrants/#réfugiés sur le territoire albanais...
    https://seenthis.net/messages/1043873

    • Accordo Meloni-Rama: via libera della Corte costituzionale albanese

      Con cinque voti a favore e quattro contrari, la Corte costituzionale albanese ha convalidato il protocollo stipulato tra il premier Rama e la sua omologa Meloni sulla creazione di centri di accoglienza per migranti sul suolo albanese

      Ieri pomeriggio (29 gennaio) la Corte costituzionale albanese si è pronunciata sulla conformità del protocollo bilaterale stipulato il 6 novembre scorso sul trasferimento dei migranti nei centri situati a Gjadër e presso il Porto di Shëngjin.

      Il protocollo “è conforme alla Costituzione” cita il comunicato stampa della Corte, dando così il via libera al processo di ratifica da parte del Parlamento.

      Nella sua argomentazione, la Corte sostiene che il protocollo non incide sull’integrità territoriale dell’Albania sotto l’aspetto fisico. Nelle due aree previste per l’accoglienza dei migranti vige la giurisdizione albanese, oltre a quella italiana. Rimangono inoltre in vigore le norme del diritto internazionale in materia di migrazione e diritto di asilo, le cui convenzioni sono già ratificate da entrambi i paesi.

      La firma del protocollo tra i due premier si basa sul trattato di amicizia stipulato tra i due paesi nel 1995, il quale secondo la Corte funge da accordo quadro che permette al governo albanese di non necessitare della previa concessione di un mandato plenipotenziario di negoziazione da parte del Presidente della Repubblica.

      Il ricorso per incostituzionalità è stato presentato il 6 dicembre scorso da 30 deputati dell’opposizione provenienti dalle file del Partito Democratico e del Partito della Libertà.

      A seguito del pronunciamento della Corte, immediata è stata la reazione del promotore del ricorso, l’onorevole Gazment Bardhi sui social, il quale ha dichiarato : “Negare la trasparenza e soprattutto eludere l’opportunità di un parere consultivo da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sono una chiara indicazione che la Corte costituzionale ha perso fin dall’inizio l’opportunità di fare giustizia su questo caso”.

      Non sono mancate neanche le reazioni da parte delle organizzazioni della società civile. “La Corte costituzionale ha ignorato il fatto che sull’accordo non sono stati consultati i cittadini, soprattutto gli abitanti di quelle aree, e non sono stati nemmeno interpellati i gruppi di interesse”, recita il comunicato di Qëndresa Qytetare (Resistenza civica), associazione civica attiva nella promozione dei diritti dei cittadini.

      In segno di protesta, un gruppo di giovani ha deposto simbolicamente una corona di fiori all’ingresso della Corte costituzionale, per simboleggiare il “decesso” della giustizia.

      Nelle prossime settimane verrà pubblicata la decisione della Corte sulla Gazzetta Ufficiale, dando così il via al processo di ratifica da parte del Parlamento. Il Partito Socialista al governo detiene attualmente la maggioranza di 74 deputati sui 140 complessivi.

      https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Accordo-Meloni-Rama-via-libera-della-Corte-costituzionale-albanese-2

    • Albanie : la Cour constitutionnelle approuve l’accord avec l’Italie sur l’externalisation des demandes d’asile

      Bloqué par une procédure judiciaire, l’accord migratoire entre Rome et Tirana a finalement obtenu le feu vert de la Cour constitutionnelle albanaise. D’ici quelques mois, l’Albanie accueillera donc deux centres d’accueil pour les demandeurs d’asile secourus dans les eaux italiennes, malgré les nombreuses critiques visant le projet.

      Feu vert pour le projet italien. Lundi 29 janvier, la Cour constitutionnelle albanaise a approuvé la construction dans le pays de deux centres d’accueil pour les migrants secourus dans les eaux italiennes. L’accord entre Tirana et Rome « ne nuit pas à l’intégrité territoriale de l’Albanie », a tranché la Cour, faisant fi des nombreuses critiques d’ONG et de l’opposition albanaise qui l’avait saisie estimant que l’accord « violait la Constitution albanaise ».

      « Nous ne vendons pas un morceau de terre de l’Albanie », s’est défendu dans une interview à l’AFP le ministre albanais de l’Intérieur, Taulant Balla. « Nous offrons ces terres à l’Italie comme nous le faisons habituellement lorsque nous établissons une ambassade ».

      Cet accord ne nuit pas non plus, selon le communiqué de la Cour, « aux droits humains et aux libertés », et est « conforme à la Constitution albanaise ». Il doit maintenant être ratifié par le Parlement, ce qui devrait être une formalité puisque le Premier ministre et signataire de l’accord, le socialiste Edi Rama, y dispose d’une majorité.

      https://twitter.com/ecre/status/1752248412777353397

      Signé en novembre entre les deux pays, le texte prévoit l’ouverture d’un centre dans le port de Shëngjin (nord), servant à l’enregistrement des demandeurs d’asile. La structure sera construite sur un périmètre d’environ 240 mètres, et sera entouré d’une clôture de 4 mètres de haut, rehaussée de barbelés. Le centre de Gjader, lui, hébergera les migrants dans l’attente d’une réponse à leur demande d’asile.

      Ces deux centres qui seront gérés par l’Italie sur le territoire d’un pays qui ne fait pas partie de l’Union européenne (UE) - mais y aspire - pourront accueillir jusqu’à 3 000 migrants arrivés en Italie par voie maritime.
      Entre 650 et 750 millions d’euros

      Avec ce traité, les migrants récupérés en mer ne débarqueront pas en Italie, et ne fouleront même pas son sol. Ils seront directement emmenés vers les ports albanais. Rome contourne ainsi la responsabilité légale d’accueil qui lui incombe lorsqu’un demandeur d’asile est secouru sur son territoire, maritime en l’occurrence.

      En Italie, l’accord, avant même son éventuelle entrée en vigueur, a suscité de très nombreuses critiques. « Publicité électorale » en vue des élections européennes de juin, « inutile et coûteux », « inhumain et illégitime » : les députés d’opposition italiens n’ont pas manqué de dénoncer durement cet accord au cours du débat parlementaire.

      Ils en ont également critiqué le coût, estimé entre 650 et 750 millions d’euros sur cinq ans. Les dépenses pour la construction de ces deux centres et des infrastructures nécessaires, pour leur fonctionnement, pour la sécurité ainsi que pour les soins médicaux des demandeurs d’asile seront en effet couvertes à 100% par la partie italienne, selon les autorités albanaises.

      Un coût prohibitif qui s’ajoutent aux nombreuses critiques d’ONG et d’institutions contre le projet. L’International Rescue Committee (IRC) a fustigé un accord « déshumanisant », quand Amnesty International dénonçait une « proposition irréalisable, nuisible et illégale ».

      Le Conseil de l’Europe, lui, avait considéré en novembre que ce « régime d’asile extraterritorial se caractérise par de nombreuses ambiguïtés légales ». Il risque « d’aboutir à un traitement différent entre ceux dont les demandes d’asile seront examinées en Albanie et ceux pour qui cela se déroulera en Italie », avait estimé la commissaire aux droits de l’Homme du Conseil de l’Europe, Dunja Mijatovic dans un communiqué.

      Cela n’a pas empêché les députés italiens d’adopter le projet le 24 janvier, par 155 voix pour et 115 contre, avec deux abstentions. Le Sénat, où la coalition ultraconservatrice au pouvoir de Giorgia Meloni dispose d’une large majorité parlementaire, devrait aussi l’approuver sans difficulté.
      Faciliter les expulsions

      Le nombre de personnes tentant de rejoindre l’Europe via l’Italie a beaucoup augmenté l’an dernier. Selon le ministère italien de l’Intérieur, 157 652 personnes ont débarqué sur les côtes italiennes en 2023, contre 105 131 en 2022.

      Depuis quelques mois, Rome multiplie donc les mesures pour dissuader les exilés de débarquer sur son sol. Le 28 novembre, la Chambre des députés a voté à la majorité le décret Cutro 2, qui fixe notamment les conditions d’hébergement des exilés sur son sol. Avec la nouvelle législation par exemple, toute personne reconnue coupable, même avec une peine non définitive, de blessures corporelles sur des individus mineurs ou infirmes ne pourra entrer en Italie.

      Aussi, le délai de recours contre l’expulsion d’un étranger titulaire d’un titre de séjour de longue durée dans l’Union européenne est réduit de 30 à 15 jours.

      Le 24 septembre, un centre d’hébergement flambant neuf a par ailleurs été inauguré à Pozzallo en Sicile. Il accueillera uniquement les exilés provenant de « pays sûrs », qui ont donc très peu d’espoir d’obtenir une protection en Italie. Objectif affiché de cette nouvelle structure ? Accélérer le traitement des demandes d’asile, et donc les expulsions.

      https://www.infomigrants.net/fr/post/54855/albanie--la-cour-constitutionnelle-approuve-laccord-avec-litalie-sur-l

    • La Corte costituzionale albanese approva il Protocollo Meloni-Rama con un voto politico, ma contro la legislazione dell’Unione Europea

      1. Le notizie di agenzia diffuse in Italia non hanno fornito le motivazioni del voto della Corte Costituzionale albanese che, a stretta maggioranza (5 contro 4), ha dichiarato che il Protocollo Italia-Albania sulla esternalizzazione delle procedure di identificazione e asilo non viola la Costituzione albanese. Una decisione che non chiude affatto la questione della conrarietà del Protocollo con la legislazione dell’Unione Europea e con principi altrettanto rilevanti e di immediata applicazione sanciti dalla Costituzione italiana. Rimane poi una consistente parte dei parlamentari albanesi, oggi all’opposizione, che continua a ritenere che non sia stata rispettata la procedura per la negoziazione e la stipula dell’accordo, in quanto il suo oggetto rientrerebbe nella categoria di accordi che necessitano dell’autorizzazione preventiva del Presidente della Repubblica ai sensi dell’articolo 121, co. 1, lett. a) e b) della Costituzione, in quanto riguarda questioni di territorialità e diritti fondamentali. Se la decisione della Corte Costituzionale albanese sembra escludere la necessità della autorizzazione preventiva del Presidente della Repubblica, rimane aperta, anche in Albania la questione della possibile lesione dei diritti fondamentali della persona nei due nuovi centri che l’Italia dovrebbe aprire e gestire sotto giurisdizione italiana in territorio albanese.

      La ratifica del Protocollo da parte della Camera dei deputati in Italia ha lasciato aperte questioni che neppure la Corte costituzionale albanese ha risolto. Il riconoscimento dell’Albania non solo come “paese terzo sicuro”, ma come territorio nel quale si dovrebbe esercitare la “giurisdizione italiana”, non potrà certo legittimare respingimenti collettivi, vietati dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali del’Unione Europea, pratiche illegali di privazione dela libertà personale o procedure di rimpatrio vietate dalla Direttiva 2008/115/CE, e dalle Direttive n. 32 e 33 del 2013, in materia di procedure e di accoglienza per richiedenti asilo.

      La Direttiva “rimpatri” 2008/115/CE si applica esclusivamente ai “cittadini di paesi terzi il cui soggiorno nel territorio di uno Stato membro è irregolare” (art.2). salva la possibilità di deroga nei casi di respingimento in frontiera, nel rispetto del principio di non refoulement (art.33 Conv. Ginevra 1951), delle procedure e delle garanzie fissate dall’art. 13 del Codice frontiere Schengen e in ogni caso dei divieti di respingimento collettivo richiamati anche dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

      Secondo il vigente Regolamento Dublino n.604/2013, “ Ogni Stato membro mantiene la possibilità di inviare un richiedente in un paese terzo sicuro, nel rispetto delle norme e delle garanzie previste dalla direttiva 2013/32/UE”. La norma fa però riferimento a persone che comunque abbiano già uno status di richiedente asilo. Al riguardo la direttiva procedure appena citata individua chiaramente come ambito di applicazione il territorio degli Stati membri. In particolare, l’articolo 3 della direttiva 2013/32/UE (procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale) prevede che la direttiva si applichi “a tutte le domande di protezione internazionale presentate nel territorio, compreso alla frontiera, nelle acque territoriali o nelle zone di transito degli Stati membri” e che invece non si applichi “alle domande di asilo diplomatico o territoriale presentate presso le rappresentanze degli Stati membri”. Analogamente, l’articolo 3 della direttiva 2013/33/UE (norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale) prevede che la direttiva si applichi a “tutti i cittadini di paesi terzi e agli apolidi che manifestano la volontà di chiedere la protezione internazionale nel territorio di uno Stato membro, comprese la frontiera, le acque territoriali, o le zone di transito, purché siano autorizzati a soggiornare in tale territorio inqualità di richiedenti, nonché ai familiari, se inclusi nella domanda di protezione internazionale ai sensi del diritto nazionale” e che la direttiva non si applica invece “alle domande di asilo diplomatico o territoriale presentate presso le rappresentanze degli Stati membri”.

      Non si può neppure ritenere che il Protocollo firmato da Giorgia Meloni e da Edi Rama si collochi al di fuori del diritto dell’Unione europea, come pure era stato rilevato da qualche esponente della Commissione a Bruxelles, perchè se si arrivasse a questa conclusione la discriminazione tra le persone soccorse in acque internazionali e sbarcate in Albania, rispetto a quelle salvate nelle stesse acque internazionali, sempre da navi militari italiane, risulterebbe incompatibile con il principio di non discriminazione, affermato nella Costituzione italiana (art.3), nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e nella Convenzione europea sui diritti dell’Uomo. Come rileva la stessa Commissione europea, peraltro, al Protocollo “si applicano le leggi italiane, che comunque devono rispettare quelle comunitarie”.

      In ogni caso, non si può valutare il Protocollo Italia-Albania, e il relativo Disegno di legge di ratifica in Italia, come se il nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo approvato con una intesa politica dal Conisglio dell’Unione Europea del dicembre dello scorso anno, fosse già un atto legislativo. Si deve dunque considerare ancora come termine di paragone la vigente legislazione europea, comprensiva anche della Direttiva rimpatri 2008/115/CE e del Regolamento Dublino n. 604/2013, che non sono stati ancora sostituiti, modificati o rifusi secondo le norme più restrittive che si vorrebbero introdurre con il nuovo Patto sulle migrazioni e l’asilo, concordato tra rappresentanti del Consiglio, e del Parlamento pochi mesi fa, ma ancora privo di qualsiasi valenza normativa.

      2. Come al solito le notizie sui fatti reali, dunque sulla reale portata della sentenza della Corte costituzionale albanese sono assai rare ma, per quanto accessibili, possiamo riprendere le poche fonti di informazione che hanno riportato i contenuti della decisione dei giudici albanesi, mentre in Italia si è rimasti al livello della propaganda politica a favore, o contro i partiti di governo. Partiti che nel parlamento italiano hanno una tale maggioranza da fare approvare tutti i provvedimenti che varano, anche nelle forme semplificate dei decreti legge, che di fatto espropriano le assemblee elettive, grazie anche al ricorso sistematico al voto di fiducia, di quel potere di controllo sull’esecutivo che rimane l’ultima traccia di un pluralismo democratico che oggi in Italia, come del resto in altri paesi europei, e nella stessa Albania, non esiste più. E la vicenda del Protocollo Italia-Albania lo conferma in pieno, sempre che poi dai progetti di legge e dalle campagne elettorali si passi ai fatti. E dunque alla realizzazione delle due grandi strutture di accoglienza/detenzione che il Protocollo prevede siano costruite in Albania e gestite “sotto la piena giurisdizione italiana”, anche se ormai è chiaro che sarà necessario ricorrere al concorso delle forze di polizia albanesi, quantomeno per i trasferimenti in territorio albanese e per le procedure di rimpatrio forzato dagli aeroporti di quel paese.

      Secondo quanto riferito dal sito “Politiko”, la Corte costituzionale albanese ha ritenuto che “il diritto internazionale vincolante per la Repubblica d’Albania, relativo alle questioni relative all’immigrazione e all’asilo, è applicabile anche dalle autorità italiane a causa della ratifica degli accordi internazionali da parte della Repubblica d’Italia. In base a questa analisi, la Corte non non ha messo in dubbio l’esistenza della responsabilità dello Stato albanese per le questioni regolate dal Protocollo sulle Migrazioni, che trae origine non solo da norme costituzionali, ma anche dal diritto internazionale che regola la responsabilità degli Stati nell’ambito della sua attuazione extraterritoriale”. La Corte Costituzionale albanese ha quindi ritenuto che “in materia di diritti e libertà dell’uomo opera una doppia giurisdizione, il che significa che la giurisdizione italiana nei due ambiti in questione non esclude la giurisdizione albanese,”

      Sulla base di questa considerazione, come riferisce la stessa fonte, la Corte Costituzionale albanese è giunta alla conclusione che il Protocollo sulle migrazioni non rientra nella categoria degli accordi internazionali previsti dalla lettera b) del punto 1 dell’articolo 121 della Costituzione perché, in sostanza, non crea nuovi diritti e libertà costituzionali, né comporta ulteriori restrizioni ai diritti umani e alle libertà esistenti, oltre a quelle previste dall’ordinamento giuridico albanese. E dunque, “tenendo conto che da un lato la questione costituzionale in esame costituisce una innovazione nella giurisprudenza albanese, in particolare per la nozione di accordo internazionale sotto il profilo giurisdizionale relativo alla sovranità, e dall’altro il Protocollo sulla Migrazione non afferma in una qualsiasi delle sue disposizioni che il governo albanese è privato della giurisdizione sul territorio albanese, la Corte ha analizzato se il governo albanese disponesse dei poteri adeguati per la negoziazione e la firma del protocollo in questione. A questo proposito, “la Corte ha valutato che il Trattato di Amicizia e Cooperazione tra la Repubblica d’Albania e la Repubblica Italiana, del 1995, costituisce un accordo quadro internazionale che, ai sensi dell’articolo 180 della Costituzione, si considera ratificato ai sensi della Costituzione e costituisce base sufficiente per il Protocollo sulla migrazione dovrà essere negoziato con l’autorizzazione del Primo Ministro e poteri conferiti dal Ministro degli Affari Esteri, nonché firmato dallo stesso Primo Ministro. Per questi motivi, la Corte Costituzionale della Repubblica d’Albania, in base agli articoli 131, comma 1, lettera “b” e 134, punto 1, lettera “c”, della Costituzione, nonché degli articoli 52 e 52/a , lettera “a”, della legge n. 8577 del 10.02.2000 “Sull’organizzazione e il funzionamento della Corte Costituzionale della Repubblica d’Albania”, decide a maggioranza che il Protocollo tra il Consiglio dei Ministri della Repubblica d’Albania e il Governo della Repubblica italiana, “Sul rafforzamento della cooperazione nel campo dell’immigrazione”, è conforme alla Costituzione consentendo la sua ratifica da parte dell’Assemblea. Secondo quanto riportato dalla stessa fonte, “La decisione finale sarà resa motivata entro i termini di legge previsti dalla legge n. 8577 del 10.02.2000 “Sull’organizzazione e il funzionamento della Corte Costituzionale della Repubblica d’Albania”, come modificato dal Regolamento sulle procedure giudiziarie della Corte Costituzionale. In base all’articolo 52/a, comma 2, della legge organica, la decisione finale è comunicata al Presidente, all’Assemblea e al Consiglio dei ministri ed è inviata per la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale. La decisione definitiva entra in vigore al momento della sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e con l’entrata in vigore decade automaticamente la misura sospensiva”.

      3. Fatta la dovuta riserva sulla mancanza di una decisione finale e di un iter parlamentare che in Albania, a differenza di quanto successo in Italia, non si presenta affatto agevole, anche alla luce della strettissima maggioranza con cui la Corte costituzionale albanese ha dato via libera all’approvazione della legge di ratifica del Protocollo Meloni-Rama, le motivazioni della decisione dei giudici albanesi fin qui trapelate sembrerebbero corrispondere alle integrazioni apportate in Italia, in sede di ratifica del Protocollo, con una aggiunta importante sulla doppia giurisdizione, italiana e albanese, alla quale sarebbero sottoposti i due centri di accoglienza/detenzione, ammesso che si riesca ad aprirli, a Shengjin porto nel quale dovrebbe effettuarsi la identificazione e la selezione delle persone migranti e a Gijader struttura ubicata nella regione più interna del paese. Dove si dovrebbe realizzare la coesistenza, all’interno dell’area concessa all’Italia dalle autorità albanesi, di una parte destinata ad Hotspot, per le procedure accelerate in frontiera, ed una parte destinata a funzionare come centro per i rimpatri (CPR), alle quali dovrebbe aggiungersi una terza sezione destinata a carcere vero e proprio per quei migranti che si dovessero rendere responsabili di reati all’interno delle altre strutture. Insomma persino un carcere di alta sicurezza, il tutto formalmente sotto giurisdizione italiana, ma apprendiamo adesso dalla legge di ratifica in Italia, e dalla Corre costituzionale albanese, anche sotto la legislazione albanese, non sappiamo con quale compatibilità con il dettato della Costituzione italiana.

      La previsione che i centri in Albania, e dunque le persone che ci saranno deportate, potranno essere soggette alla legislazione, e dunque alla giurisdizione “europea, italiana ed albanese” costituisce soltanto un sotterfugio per aggirare gli ostacoli che venivano da parte albanese per la ratifica del Protocollo, di fronte alla previsione di una “piena giurisdizione italiana” da esercitare in territorio albanese, come hanno affermato da mesi i politici italiani, ma la soluzione inventata per quadrare il cerchio solleva problemi di compatibilità con il diritto internazionale dei rifugiati, con le normative europee vincolanti (alle quali l’Albania non è tenuta) in materia di procedure di protezione internazionale e di rimpatri forzati, e con le norme della Costituzione italiana in materia di uguaglianza (art.3), di asilo (art.10), di libertà personale (art.13), di diritti di difesa (art.24) e di ordine gerarchico delle fonti normative (art.117). Di certo la presenza di persone private della libertà personale all’interno delle strutture che si dovrebbero aprire in base al Protocollo Italia-Albania rende impossibile qualunque assimilazione al regine territoriale delle ambasciate italiane all’estero. Come rimane una mera dichiarazione di principio che il trattamento e la condizione giuridica delle persone sbarcate in Albania da navi militari italiane possa risultare del tutto corrispondente alla condizione giuridica delle persone migranti sbarcate in Italia e accolte o trattenute in centri italiani, siano Hotspot o Centri per il rimpatrio (CPR). Nè sembra che siano state richiamate con la dovuta evidenza, anche per le persone sbarcate in Albania, le norme che in Italia permettono il riconoscimento di una delle diverse forme di protezione speciale, soprattutto nei casi in cui ricorrano divieti di espulsione o di respingimento, anche con riferimento agli obblighi costituzionali dello Stato italiano.

      Gravi criticità rimangono evidenti nella individuazione dei soggetti cd. “vulnerabili”, che nella maggior parte dei casi dovrebbe avvenire nel tragitto dal luogo dei soccorsi in acque internazionali al porto di sbarco in Albania. Come si ricava dagli atti parlamentari, nella seduta della Camera dei deputati del 15 gennaio 2024, il rappresentante del Governo ha affermato che lo screening dei soggetti vulnerabili (considerando tali, “secondo la vigente normativa, i minori, minori non accompagnati, disabili, anziani, donne, genitori singoli con figli minori, vittime della tratta, persone affette da gravi malattie o disturbi mentali, persone che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale, vittime di mutilazioni genitali”) dovrebbe essere effettuato “nelle fasi immediatamente successive al loro soccorso o recupero, per mezzo di assetti navali a disposizione delle autorità statali, in modo da escludere che coloro che presentino vulnerabilità siano condotti in Albania”; il rappresentante del Governo ha anche affermato che “l’obiettivo dello screening preventivo da esperire a bordo di strutture idonee in mare, ove il migrante possa trovare un luogo sicuro in attesa della prossima destinazione, sarebbe dunque quello di alleviare l’impatto delle attività sui soggetti fragili riducendo il numero di stranieri da trasportare in Italia in un momento successivo, in relazione alle diverse posizioni accertate”. Il rappresentante del Governo ha rilevato infine che “resta ferma la possibilità di effettuare eventuali, ulteriori valutazioni di condizioni di vulnerabilità successivamente allo sbarco in Albania, presso le strutture adibite all’identificazione e alla primissima accoglienza. Al riguardo, osserva che non di rado la condizione di vulnerabilità può non essere immediatamente rilevabile mediante lo screening preventivo a bordo (ad esempio, coloro che si dichiarano vittime di tratta di esseri umani), richiedendo approfondimenti in una fase successiva” (Camera dei deputati, Commissioni I e III, seduta del 15 gennaio 2024)

      Si nota come nelle prime notizie diffuse dal governo Meloni circa navi di soccorso che trasferissero migranti salvati, o “recuperati” in acque internazionali si facesse ricferimento esclusivamente a navi militari italiane, e nel testo del Protocollo a “mezzi delle competenti autorità italiane, mentre con il disegno di legge di ratifica si è passati alla formula “assetti navali a disposizione delle autorità statali,“,con la previsione di una ingente somma di danaro da destinare evidentememte al noleggio di navi civili, per il trasporto dei naufraghi, perchè di naufraghi si tratta, verso l’Albania (e forse anche dall’Albania verso l’Italia). Rimangono assolutamente oscure, ed a alto rischio di violazione di diritti fondamentali, a partire dal diritto alla vita, le modalità di trasferimento e/o trasbordo (in acque internazionali ?) degli stessi naufraghi dalla prima nave soccorritrice, che presumibilmente sarà una nave militare italiana, verso una seconda nave (civile ?) che dovrebbe poi trasferirli e sbarcarli in un porto albanese. Si potrebbe anche configurare una ennesima forma anomala (senza convalida giurisdizionale) di trattenimento amministrativo a bordo dei traghetti, come si è già verificato durante l’emergenza da Covid 19 a bordo delle cd. “navi quarantena”.

      Non sembra comunque ammissibile operare una qualsiasi sorta di pre-idntificazione in assenza di mediatori, interpreti e di una adeguata informazione, già a bordo delle navi militari o civili che siano, che hanno operato i soccorsi in acque internazionali, e ritornare dunque alla prassi degli “sbarchi selettivi”, distinguendo, e separando, già su queste stesse navi soggetti vulnerabili e non vulnerabili, operando di fatto quella stessa distinzione tra i naufraghi già ritenuta illegittima dal Tribunale di Catania lo scorso anno.

      In ogni caso non sembra possibile escludere che, già a bordo degli “assetti navali a disposizione delle autorità statali”, le persone soccorse in acque internazionali godano dei diritti fondamentali riconosciuti dalle Convenzioni internazionali e dall’ordinamento italiano.. Quanti saranno soccorsi in acque internazionali e si trovano a bordo di ” assetti navali a disposizione delle autorità statali”, non possano essere sbarcati in Albania, dove veranno sottoposte anche alla legislazione albanese, ed ai poteri concorrenti della polizia albanese, senza una preventiva convalida giurisdizionale, e dunque sulla base della mera discrezionalità di polizia, subendo nei fatti un respingimento collettivo, senza alcuna possibilità di ricorso. Come se le persone soccorse in mare, dunque naufraghi, fossero riducibili alla condizione di oggetto e non più di soggetto di diritti, forse non “carichi residuali”, ma pur sempre “carichi” da sbarcare in un porto straniero, una volta esclusa, in modo che non potrà che risultare approssimativo, la loro vulnerabilità. Per non parlare dei trattamenti inumani o degradanti ai quali gli stessi naufraghi potrebbero essere sottoposti durante i lunghi trasferimenti, fino a quando rimarranno su navi militari evidentemente prive di adeguati spazi ricettivi, dai luoghi degli eventi di soccorso al porto albanese.

      4. Con il voto della Camera in Italia, e adesso con questa decisione della Corte costituzionale albanese, si è completamente disattesa la dichiarazione dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Türk, che aveva espresso “preoccupazione” per l’accordo. Secondo Turk, “Questi trasferimenti in Albania per adempiere alle procedure di asilo e di rimpatrio evitano importanti questioni relative ai diritti umani, in particolare la libertà dalla detenzione arbitraria e la necessità di garantire adeguate procedure di asilo, compresi lo screening e l’identificazione”.

      Non si vede soprattutto come le “procedure accelerate in frontiera” pure previste da Direttive europee e dalla legislazione italiana, possaono essere applicate sulla base di una finzione, come se la frontiera o il territorio prossimo alla frontiera (italiana) potesse delocalizzarsi fino all’esterno dell’Unione europea, in Albania. E dunque come se il diritto dell’Unione Europea fosse applicabile su persone che si trovano all’esterno degli Stati membri, Ed è proprio la recentissima decisione della Corte costituzionale albanese, che afferma il principio della doppia giurisdizione, a svelare i diversi profili di contrasto tra le prevision delle Direttive europee e il Protocollo Italia-Albania, come specificato nel disegno di legge di ratifica approvato in Italia dalla Camera.

      Per avviare i lavori di costruzione dei nuovi centri di accoglienza detenzione previsti in Albania “sotto giurisdizione italiana”, ma anche albanese, occorre ancora un voto del Parlamento albanese, dopo che la Corte costituzionale albanese avrà pubblicato tutte le sue motivazioni, ed il completamento dell’iter della legge di ratifica in Italia, con il voto del Senato. Non sembra prevedibile che le maggioranze assolute di cui dispongono Giorgia Meloni ed Edi Rama nei rispettivi parlamenti nazionali possano fallire l’obiettivo della ratifica del Protocollo. Dunque si può attendere l’ennesima ventata di propaganda con l’avvio dei lavori di costruzione e di riadattamento delle strutture previste a Shengjin e a Gijader proprio quando la campagna elettorale per le europee entrerà nel vivo. Difficile atttendersi in questa fase una posizione critica da parte di esponenti delle istituzioni europee, come la Presidente della Commissione Ursula Von der Leyen, o la Commissaria europea agli Interni Ylva Johansson, che hanno in vista il supporto della Meloni per uno scambio di voti nell’indicazione delle prossime presidenze europee. Al di là della propaganda, imane però il nodo del contrasto tra le norme internazionali, i principi costituzionali italiani, e le previsioni del Protocollo Italia-Albania. Una questione democratica, che non riguarda soltanto le persone migranti che saranno sbarcate in Albania.

      Si dovranno monitorare da vicino tutte le prassi amministrative che potrebbero seguire in materia di “procedure accelerate in frontiera” per i richiedenti asilo, e di trattenimento e di allontanamento forzato, per tutti coloro che neppure saranno ammessi ad una procedura di protezione internazionale, oppure saranno denegati in tempi tanto brevi da non consentire un esercizio effettivo dei diritti di difesa. Ammesso che, oltre la propaganda elettorale, le strutture di contenimento e di deportazione in Albania (perchè di questo si tratta) dei migranti soccorsi nelle acque internazionali del Mediterraneo siano davvero attivate. Anche se, a fronte dei tempi di trattenimento sempre più lunghi, non si raggiungeranno i numeri iperbolici promessi dalla Meloni (3000 persone al mese, 36.000 persone trattenute in un anno), ci si dovrà preparare ad una raffica di ricorsi a difesa delle singole persone soccorse in alto mare, pre-identificate su una nave italiana, deportate in Albania. Ricorsi che si dovranno sostenere ai più alti livelli della giurisdizione nazionale ed internazionale. Perchè fino a quando i governi non riusciranno a controllare del tutto la magistratura, rischio sempre più concreto anche a fronte della prevedibile valanga di destra che caratterizzerà le prossime elezioni europee, la giurisdizione, come l’informazione indipendente, rimangono gli unici argini per la difesa della democrazia e dei diritti umani in Europa, ed anche in Albania, se gli albanesi sperano davvero tanto di entrare nell’Unione Europea.

      https://www.a-dif.org/2024/01/30/la-corte-costituzionale-albanese-approva-il-protocollo-meloni-rama-con-un-vot

    • La Cassazione rinvia il “Decreto Cutro” alla Corte di Giustizia UE: in dubbio le “procedure accelerate in frontiera”, e dunque anche il Protocollo Italia-Albania

      1. Come era prevedibile dopo la requisitoria della Procura generale, la Corte di Cassazione, a sezioni unite, con una “ordinanza interlocutoria”, ha chiesto alla Corte di giustizia dell’Unione europea di pronunciarsi, in via pregiudiziale, sulla norma del Decreto Cutro che prevede il pagamento di una cauzione da parte dei richiedenti asilo provenienti da paesi terzi sicuri per evitare il trattenimento amministrativo durante la cd. “procedura accelerata in frontiera”. La stessa Corte di Cassazione ha chiesto che la questione pregiudiziale sia trattata con procedimento d’urgenza; sospendendo il giudizio sui ricorsi presentati dal governo, tramite l’Avvocatura dello Stato, contro la mancata convalida dei decreti di trattenimento emessi dal Questore di Ragusa, pronunciata dai giudici Apostolico e Cupri del Tribunale di Catania. Il procedimento di fronte alla Corte di Cassazione proseguirà dunque dopo la pronuncia della Corte di giustizia dell’Unione europea, ma alcune motivazioni adottate dai giudici della Cassazione potranno avere effetti immediati sulle procedure accelerate in frontiera, in particolare sulle norme che a tale riguardo prevedono il trattenimento amministrativo generalizzato dei richiedenti asilo provenienti da “paesi terzi sicuri, qualora in assenza di documenti identificativi non venga prestata una garanzia finanziaria , e quindi anche sulla attuazione del Protocollo Italia-Albania, che punta proprio ad esternalizzare le procedure accelerate in frontiera e la detenzione amministrativa prevista nei loro confronti dal “Decreto Cutro”.

      Per quanto la Corte di Cassazione sembri accogliere quasi per intero le motivazioni della Procura generale che, a sua volta, riprendeva le principali tesi del ricorso del governo rappresentato dall’Avvocatura dello Stato, è evidente che il dubbio e quindi la questione posta dai giudici italiani alla Corte di Giustizia dell’Unione europea riguarda un punto centrale del “Decreto Cutro” (legge 50 del 2023) e dunque la legittinità dei provvedimenti adottati dalla questura di Ragusa, nella fase di prima applicazione del decreto nel centro Hotspot di Modica-Pozzallo, con il trattenimento dei richiedenti asilo provenienti da “paesi terzi sicuri”, trattenimento che non era stato convalidato dai giudici del Tribunale di Catania. Tra le altre motivazioni di fatto e di diritto per cui i decreti di trattenimento adottati dal questore di Ragusa non potevano essere convalidati, i giudici Apostolico e Cupri osservavano che l’art. 6-bis del d.lgs. n. 142 del 2015, come modificato dal cd. “Decreto Cutro”, prevede una garanzia finanziaria la cui prestazione si configura non come misura effettivamente alternativa al trattenimento, ma come un requisito imposto al richiedente asilo, proveniente da un “paese terzo sicuro”, per evitare il trattenimento amministrativo, requisito che nella pratica non si sarebbe mai potuto adempiere.

      La Corte di Cassazione, a sezioni unite, riconduce la maggior parte dei motivi di ricorso del governo alla questione pregiudiziale che solleva davanti alla Corte di Giustizia UE e dunque ” al rapporto tra la valutazione caso per caso – che si richiede sia espressa in motivazione da parte dell’autorità amministrativa per il trattenimento alla frontiera onde stabilirne la necessità, la ragionevolezza e la proporzionalità a fronte della effettiva impraticabilità di misure alternative – e la prestazione della garanzia finanziaria, che, per come disciplinata dal diritto interno, non appare sintonica con il fine perseguito”. Tutte le altre motivazioni dei ricorsi presentati dal governo sembrano dunque assorbite da questa questione, e pertanto la Corte di Cassazione non tratta, e quindi neppure smentisce, i diversi rilievi di fatto e di diritto che avevano spinto il Tribunale di Catania, con diversi provvedimenti, a negare la convalida dei decreti di trattenimento adottati dal Questore di Ragusa. Anche se poi si afferma “La necessità di sollevare questione pregiudiziale interpretativa degli articoli 8 e 9 della direttiva 2013/33/UE per emanare la sentenza discende altresì da una prognosi, ad una prima valutazione, di non manifesta infondatezza dei motivi del ricorso del Ministero dell’interno e del Questore della Provincia di Ragusa attinenti al profilo della “erronea affermazione della non applicabilità della procedura accelerata ai sensi dell’art. 28-bis d.lgs. n. 25/2008 e degli artt. 31, 33 e 43, direttiva 2013/32/UE”. “Prognosi ad una prima valutazione” che però non affronta specificamente i diversi problemi di legittimità dei decreti di trattenimento del questore di Ragusa non convalidati dal Tribunale di Catania. Il rinvio alla Corte di Giustizia riguarda comunque i primi casi affrontati dalla dott.ssa Apostolico, mentre la Cassazione si è riservata di decidere su altri otto successivi ricorsi del governo, sui quali potrebbe pronunciarsi dopo la decisione dei giudici di Lussemburgo, magari per giustificare comunque la legittimità degli ulteriori decreti di trattenimento adottati dal Questore di Ragusa.

      2. Dopo un richiamo a vari precedenti della Corte di Giustizia UE, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione affermano come “Da tali pronunce si evince, tra l’altro, che gli articoli 8 e 9 della direttiva 2013/33 ostano a che un richiedente protezione internazionale venga trattenuto per il solo fatto che non può sovvenire alle proprie necessità; ostano pure a che tale trattenimento abbia luogo senza la previa adozione di una decisione motivata che disponga il trattenimento e senza che siano state esaminate la necessità e la proporzionalità di una siffatta misura. L’eccezionalità della misura del trattenimento e la soggezione della stessa ai principi di necessità e proporzionalità inducono a giustificare il trattenimento solo qualora non siano applicabili efficacemente misure alternative meno coercitive, il cui catalogo è esemplificato dall’art. 8, paragrafo 4. Le misure «alternative» al trattenimento non sono definite nel dettaglio; si tratta comunque di limitazioni dei diritti umani dei richiedenti che, se non ingerenti quanto il trattenimento, non di meno devono applicarsi, quando comunque vi siano motivi legittimi per il trattenimento, sulla base di una valutazione caso per caso di necessità, ragionevolezza e proporzionalità”. Si osserva in particolare come “Il punto fondamentale – allora – è dato dal nesso tra la previsione della garanzia come misura alternativa al trattenimento e la valutazione caso per caso che si richiede ai fini della decisione di trattenimento, da esprimere necessariamente nella motivazione del provvedimento dell’autorità amministrativa”. Sfidiamo chiunque a trovare una qualsiasi traccia di motivazione individuale su questo specifico punto nei decreti di trattenimento adottati dalla questura di Ragusa, nei casi di mancata convalida da parte della giudice Apostolico di Catania. Oggetto a suo tempo di una violenta campagna di odio e di diffamazione. Ma analoghe perplessità sulla motivazione persistono anche nei casi delle successive mancate convalide dei decreti di trattenimento adottati dalla Questura di Ragusa sulle quali è intervenuto il giudice Cupri, dello stesso Tribunale di Catania, a fronte di una parvenza di motivazione, che però le Sezioni Unite della Cassazione non hanno preso in considerazione, limitandosi al rilievo della questione pregiudiziale ed al rinvio ai giudici di Lussemburgo. Questioni complesse, che comunque impongono considerazioni differenziate sui dieci procedimenti, esaminati in tempi diversi dai giudici Apostolico e Cupri, con riferimento ai singoli casi, che non potrano certo essere eluse dopo la soluzione della questione pregiudiziale da parte della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Intanto prendiamo atto che i dubbi sollevati dai giudici catanesi che non hanno convaldato i decreti di trattenimento amministrativo disposti dal Questore di Ragusa sono stati, almeno in parte, condivisi anche dalla Corte di Cassazione a Sezioni unite.

      La Corte, dopo avere affermato con la richiamata ” prognosi ad una prima valutazione”, di condividere i motivi di ricorso del governo e del Questore di Ragusa, afferma infatti un principio di diritto che va decisamente in favore dei provvedimenti di mancata convalida del trattenimento adottati dal Tribunale di Catania, ed a tale riguardo basta leggere le motivazioni dei giudici catanesi e confrontarle con la carente motivazione che si riscontra nei provvedimenti adottati dalla Questura di Ragusa nei confronti dei richiedenti asilo trattenuti in procedura accelerata “in frontiera” nel centro Hotspot di Modica-Pozzallo. Nelle ordinanze della dott.ssa Apostolico che non convalidava il trattenimento amministrativo si leggeva appunto come il provvedimento del questore non fosse corredato da una motivazione “idonea”, in quanto privo di una “valutazione su base individuale delle esigenze di protezione manifestate, nonché della necessità e proporzionalità della misura in relazione alla possibilità di applicare misure meno coercitive”.

      Secondo la Corte di Cassazione, “Il provvedimento che dispone il trattenimento deve essere corredato da motivazione, la quale esamini la necessità, la ragionevolezza e la proporzionalità di una siffatta misura rispetto alla specifica finalità, nonché l’effettiva impraticabilità delle misure alternative, sulla base di una valutazione caso per caso. Se così è, dovrebbe ostare all’osservanza del diritto dell’Unione una normativa nazionale che sia interpretata ed applicata nel senso che un richiedente protezione internazionale sia trattenuto per il solo fatto che non abbia consegnato il passaporto o altro documento equipollente, e ancor più che sia trattenuto perché non abbia prestato idonea garanzia finanziaria, stabilita in maniera rigida e non adattabile alla situazione individuale; vale a dire con modalità come quelle che si evincono nella riportata legislazione nazionale” .Nei provvedimenti adottati dal Questore di Ragusa non si rinviene traccia della valutazione “caso per caso” che la Corte di cassazione sembra ritenere una condizione imprescindibile di legittimità del trattenimento amministrativo dei richiedenti asilo provenienti da paesi terzi sicuri. Non si vede dunque su quali elementi la Corte di Cassazione, in sede di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea, fondi la sua”prognosi, ad una prima valutazione, di non manifesta infondatezza dei motivi del ricorso del Ministero dell’interno e del Questore della Provincia di Ragusa attinenti al profilo della “erronea affermazione della non applicabilità della procedura accelerata ai sensi dell’art. 28-bis d.lgs. n. 25/2008 e degli artt. 31, 33 e 43, direttiva 2013/32/UE“. E’ probabile che i giudici della Cassazione su questo punto dirimente non si pronuncino in attesa della decisione della Corte di giustizia UE, ma comunque. al di là della loro “prognosi ad una prima valutazione” (politica?),sembrano confermare i rilievi del Tribunale di Catania che ha rilevato il carattere illegittimo dei decreti di trattenimento adottati dalla Questura di Ragusa.

      3. Quanto riportato dalle principali agenzie di informazione e contenuto nella parte finale della decisione della Cassazione, secondo cui “ Il rinvio pregiudiziale attiene a una questione sul sistema europeo comune di asilo, il quale costituisce uno degli elementi fondamentali dell’obiettivo dell’Unione europea relativo all’istituzione progressiva di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia aperto a quanti, spinti dalle circostanze, cercano legittimamente protezione nell’Unione”, contiene una affermazione ovvia che non può coprire la contraddizione interna presente nella decisione della stessa Corte di Cassazione. La Corte, a sezioni unite, afferma pregiudizialmente di propendere per le tesi del governo e del questore di Ragusa, ricorrenti rappresentati dall’avvocatura dello Stato, ma fornisce motivazioni che vanno a rafforzare le motivazioni dei giudici catanesi, che non vengono certo definite “apparenti” come nel ricorso presentato dalla stessa avvocatura dello Stato. Motivazioni che, almeno sul punto della “garanzia finanziaria”, vengono sostanzialmente riprese proprio dai giudici delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

      Non sappiamo per quanto tempo resterà sospeso il procedimento davanti alla Corte di Cassazione relativo ai ricorsi del governo e del questore di Ragusa contro i provevdimenti del Tribunale di Catania, in attesa di una decisione, che pure è stata richiesta con procedura d’urgenza, da parte della Corte di Giustizia dell’Unione europea. Procedura d’urgenza che può essere adottata solo” in casi eccezionali”, e su questo punto di ammissibilità dovranno pronunciarsi entro alcune settimane i giudici europei. Di certo questa questione rimane aperta a Lussemburgo e lascia in sospeso l’operatività del cd. Decreto Cutro con riferimento alle procedure accelerate in frontiera previste per i richiedenti asilo provenienti da paesi terzi sicuri. Le conseguenze dei profili dubbi del trattenimento amministrativo generalizzato dei richiedenti asilo provenienti da “paesi terzi sicuri” , che si sono già tradotti nel blocco delle “procedure accelerate in forntiera” presso il centro Hotspot di Modica-Pozzallo, potrebbero ricadere anche sull’attuazione del Protocollo Italia-Albania, ammesso che si riesca a superare le gravi problematiche attinenti le strutture logistiche e gli adempimenti procedurali, previsti dalla legge di ratifica in corso di approvazione al Senato, per non parlare degli ineludibili profili di conrrasto con la normativa euro-unitaria, se non di incostituzionalità, che sembrano tanto gravi da bloccarne la effettiva applicazione. Se la prestazione di una “garanzia finanziaria” per evitare il trattenimento amministrativo dei richiedenti asilo provenienti da “paesi terzi sicuri” desta già tali perplessità per le persone che vengono sbarcate in territorio italiano, cosa potrebbero pensare i giudici italiani e le corti internazionali di una analoga “garanzia finanziaria” nel caso di persone “trasportate” in Albania ? Oppure, queste persone sarebbero escluse dalla possibilità di prestare una analoga garanzia finanziaria, ancora prevista dalla legislazione italiana, con evidente violazione della normativa europea e del principio di non discriminazione?

      Non rimane che attendere un esercizio imparziale della giurisdizione, con provvedimenti motivati sulla base del principio di legalità e non per ragioni politiche, sia in Italia che davanti alla Corte di Giustizia UE, per garantire il prncipio di non discriminazione, la certezza del diritto, le garanzie sulla libertà personale previste dalla Costituzione italiana e dalla normativa cogente europea, i diritti di difesa e, non da ultimo, il diritto alla protezione internazionale ed il divieto di espulsioni o respingimenti collettivi. Intanto nella fase finale della ratifica da parte del Parlamento italiano del controverso Protocollo Italia-Albania, sarebbe opportuno che si tenesse conto di quanto osservato dalla Corte di Cassazione a sezioni unite, e del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europa, anche al fine di evitare i ricorsi alla Corte costituzionale italiana che si potrebbero sollevare se si arriverà ad una prima applicazione del trattenimento amministrativo “generalizzato” nelle “procedure accelerate in frontiera” in territorio albanese, nelle aree concesse in uso alle autorità italiane, ma sotto la “doppia giurisdizione” italiana ed albanese, come ha ribadito ancora di recente la Corte Costituzionale albanese.

      GIOVEDÌ 08 FEBBRAIO 2024 17.04.27

      == Migranti: avvocata, Cassazione conferma rilievi Apostolico =

      (AGI) – Ragusa, 8 feb. – “La Corte di Cassazione ha confermato i dubbi interpretativi che sono sorti dalla emissione del decreto Cutro”. Lo ha detto all’AGI Rosa Emanuela Lo Faro, avvocata di buona parte dei Migranti coinvolti nel procedimento per il quale la Corte Suprema ha sospeso la decisione sui trattenimenti nel Cpr di Pozzallo rinviado la materia alla Corte di giustizia europea. “Con questa ordinanza interlocutoria – ha proseguito Lo Faro – si chiarisce che le ordinanze della dott.ssa Apostolico avevano il solo scopo di applicare il diritto italiano in maniera conforme al diritto Unionale. Non fare politica o attaccare i politici, ma preservare la liberta’ di ogni singolo individuo”. (AGI) Rg3/Fab 081704 FEB 24

      GIOVEDÌ 08 FEBBRAIO 2024 16.34.05

      >>>ANSA/’Corte Ue si pronunci su fidejussione per i migranti’

      Ordinanza della Cassazione. Legale,confermati dubbi sul dl Cutro (di Marco Maffettone) (ANSA) – ROMA, 08 FEB – Il decreto Cutro finisce all’attenzione dei giudici della Corte di Giustizia Europea. E’ quanto stabilito dalle Sezioni unite civili di Cassazione che chiedono ai giudici della Ue di pronunciarsi, in tema di migranti provenienti da Paesi sicuri, sul segmento del decreto approvato dal Governo a settembre relativo alla garanzia finanziaria di circa 5mila euro che un richiedente asilo deve versare per evitare di essere trattenuto in un centro alla frontiera in attesa dell’esito dell’iter della domanda di protezione. In due ordinanze “interlocutorie” i giudici della Suprema Corte, accogliendo sostanzialmente la richiesta del procuratore generale, sollecitano ai giudici europei un intervento in via d’urgenza. Le Sezioni unite erano chiamate a vagliare 10 ricorsi del ministero dell’Interno sulle ordinanze con cui il tribunale di Catania non ha convalidato, nei mesi scorsi, i trattenimenti di alcuni migranti tunisini a Pozzallo, in applicazione di quanto disposto dal decreto Cutro. Nei due provvedimenti, entrambi di una ventina di pagine, le Sezioni Unite civili chiedono alla Corte Ue se le norme del Parlamento europeo e del Consiglio del 2013 “ostino”, in tema di garanzia finanziaria, “una normativa di diritto interno”. In particolare il quesito posto ai giudici con sede in Lussemburgo riguarda “gli articoli 8 e 9 della direttiva Ue del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale” e se “ostino a una normativa di diritto interno che contempli, quale misura alternativa al trattenimento del richiedente (il quale non abbia consegnato il passaporto o altro documento equipollente), la prestazione di una garanzia finanziaria il cui ammontare è stabilito in misura fissa – spiega la Cassazione – anziché in misura variabile senza consentire alcun adattamento dell’importo alla situazione individuale del richiedente, né la possibilità di costituire la garanzia stessa mediante intervento di terzi, sia pure nell’ambito di forme di solidarietà familiare”. In questo modo “imponendo modalità suscettibili di ostacolare la fruizione della misura alternativa da parte di chi non disponga di risorse adeguate, nonché precludendo la adozione di una decisione motivata che esamini e valuti caso per caso la ragionevolezza e la proporzionalità di una siffatta misura in relazione alla situazione del richiedente”. Per il legale di sei dei 10 migranti trattenuti dal questore di Ragusa e poi liberati dai giudici etnei Iolanda Apostolico e Rosario Cuprì, con questa decisione la “Cassazione ha confermato i dubbi interpretativi che sono sorti dalla emissione del decreto Cutro. Qui in Italia le leggi non sono chiare, perché dovrebbero essere compatibili con le norme internazionali e non si capisce se lo sono. Per questo la Suprema Corte ha investito della questione la Corte Ue”, afferma l’avvocato Rosa Maria Lo Faro. In merito alla “proceduta accelerata” nei trattenimenti, nell’udienza del 30 gennaio scorso, l’ufficio del pg rappresentato in aula da dall’avvocato generale Renato Finocchi Ghersi e dal sostituto procuratore generale Luisa De Renzis, l’ha definita “legittima e conforme alla legge”. Nella requisitoria il Pg ha sostenuto che “non si può trascurare quanto affermato dall’Avvocatura dello Stato circa la situazione di emergenza a Lampedusa, caratterizzata da flussi consistenti e ravvicinati in quella zona e dall’elevato numero delle domande di protezione internazionale così da rendere difficilmente gestibile la trattazione della domanda nel luogo di arrivo”. (ANSA). 2024-02-08T16:33:00+01:00 ANSA

      GIOVEDÌ 08 FEBBRAIO 2024 15.20.22

      Migranti: Albano (Md), verdetto Cassazione conferma Apostolico

      Migranti: Albano (Md), verdetto Cassazione conferma Apostolico (ANSA) – ROMA, 08 FEB – “La decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione di chiedere la verifica di conformità al diritto Ue di alcune norme del decreto Cutro – dichiara la presidente di Magistratura democratica Sivia Albano – conferma che gli attacchi nei confronti della giudice Apostolico erano privi di senso anche sul piano giuridico. Le Sezioni unite confermano che c’è un problema di conformità alla direttiva delle norme che prevedono una garanzia finanziaria come alternativa alla detenzione nei centri”. “Quando il giudice rileva profili di illegittimità delle norme per la non conformità al diritto della Ue o alla Costituzione, – prosegue Albano – non lo fa certo per fare opposizione al Governo, ma esercita la funzione che la Costituzione e i trattati gli attribuiscono”. “Ciò significa anche – conclude Albano – che la pronuncia delle Sezioni unite non dovrebbe essere caricata di significati, in un senso o nell’altro. E’ un fisiologico controllo di legittimità: quello della Corte di Cassazione, quello della giudice Apostolico, quello di tutti i giudici che hanno ragionevolmente espresso dubbi su quel decreto”. (ANSA). 2024-02-08T15:20:00+01:00 COM-ANSA

      https://www.a-dif.org/2024/02/08/la-cassazione-rinvia-il-decreto-cutro-alla-corte-di-giustizia-ue-in-dubbio-le

  • 4-5-6 mars 2024 : #Procès en #appel concernant l’#incendie des #Tattes

    Non, ce n’est pas fini. Oui, ça fera 10 ans cette année.

    Et C. Hauswirth, responsable en 2014 de la sécurité incendie de tous les #CHC (#centres_d’hébergement_collectifs) du canton n’est toujours pas déclaré coupable ni condamné.

    Et les sinistrés (une quarantaine, dont 1 mort et 2 personnes gravement lésées dans leur santé physique et psychique) ne sont toujours pas dédommagés et n’ont toujours pas tous reçu un permis B. Parmi eux, Ayop Aziz, vous vous rappelez ? Maudet avait essayé de l’expulser vers l’Espagne quelques mois après la catastrophe où Ayop s’était gravement blessé en sautant du 3ème étage pour échapper aux flammes. Il est toujours là, avec une balafre sur le front et un « papier blanc » qui ne donne droit qu’à l’aide d’urgence (10 fr. par jour pour vivoter dans notre ville).

    (Pour rappel de ce qui s’est dit au procès de décembre 2022, voir : Procès des Tattes : 8 ans pour rendre l’injustice : https://solidaritetattes.ch/4-5-6-mars-2024-proces-en-appel-concernant-lincendie-des-tattes)

    « La lenteur de la #justice »… on se dit que c’est normal, il y a tellement de cas à traiter, les fonctionnaires ne peuvent pas faire mieux, ne peuvent pas aller plus vite. Mais la lenteur de la justice, ce n’est pas un problème de désorganisation dans les institutions qui doit susciter notre compréhension : c’est une volonté politique malhonnête qui permet à la justice de ne pas s’appliquer.

    Car comment rendre justice dans l’affaire des Tattes, après tellement d’années, pour obtenir les témoignages de personnes qui ont quitté la Suisse pour la plupart d’entre elles ? Comment rendre justice aux plaignants de Giffers qui ont subi les violences des Protectas, alors qu’après plusieurs années ils ont disparu dans d’autres pays européens, vivant dans la rue pour plusieurs d’entre eux ? Comment rendre justice, après plusieurs années, en ce qui concerne le suicide d’Ali Reza, décédé en 2019, alors que sa famille vit à l’autre bout du monde et que ses amis sont dispersés en Suisse et ailleurs ?

    4-5-6 mars 2024 : 10 ans pour rendre l’injustice.

    Réservez déjà ces dates pour venir soutenir les personnes incriminées et les avocates qui les défendent !

    reçu le 29.01.2024, via la mailing-list de #Solidarité_Tattes

    #asile #migrations #réfugiés #Suisse #Genève

    –—

    sur l’incendie des Tattes, voir aussi :
    https://seenthis.net/messages/910972

    • Interview par Solidarité Tattes de Me Laïla Batou

      À la suite du procès, Viviane Luisier de Solidarité Tattes a interviewé Me Laïla Batou, avocate de cinq parties plaignantes au procès de l’incendie du Foyer des Tattes, afin d’avoir son impression sur les suites de cette affaire.

      Sol. Tattes : Cette semaine se terminait le procès des responsables de l’incendie du Foyer des Tattes devant la Cour d’Appel. Pourquoi s’agit-il d’une affaire d’intérêt public ?

      Me Laïla Batou : Il y a un enjeu humanitaire, car elle interpelle sur la façon dont Genève traite les personnes les plus vulnérables, mais aussi un enjeu démocratique, dans le fait que l’Etat se retrouve à juger l’un de ses agents. Cette procédure met en jeu la séparation des pouvoirs.

      Sol. Tattes : Dix ans après les faits, est-ce que la situation n’est pas complètement embourbée ?

      Me L.B. : Pas du point de vue de la procédure. Au contraire, on commence enfin à y voir plus clair dans le déroulement des faits et les responsabilités qu’ils révèlent. Il a été difficile d’amener le fonctionnaire en charge de la sécurité du Foyer (ci-après : le Coordinateur incendie) sur le banc des accusés. Mais c’est sur ses manquements que se sont focalisés les débats d’appel.

      Sol. Tattes : Pourquoi n’était-il pas en cause depuis le début ?

      Me L.B. : Au lendemain du drame, tout le monde est tombé sur les occupants de la chambre qui a pris feu. C’étaient les coupables idéaux : l’un et l’autre avaient des petits casiers judiciaires, ils étaient ivres au moment des faits et avaient cuisiné et fumé dans une chambre alors que c’était interdit par le règlement du foyer. Et pourtant, on pouvait légitimement s’étonner qu’un départ de feu puisse avoir de telles conséquences : deux asphyxies dont une mortelle, et une quarantaine de défenestrations… N’y avait-il pas un problème plus structurel ? La procureure Viollier, alors en charge du dossier, a accepté de se poser la question.

      Deux explications se sont alors affrontées : la nôtre, qui mettait en cause la sécurité du foyer, et celle du responsable de cette sécurité, pour qui les victimes avaient cédé à la panique pour des raisons « culturelles ». Rapidement, nous sommes parvenus à montrer que les agents de sécurité présents sur le site s’étaient comportés de façon complètement erratique, et que c’est ce qui avait donné cette ampleur au drame. Il a fallu plus de temps pour faire entendre que ces agents n’avaient peut-être pas été correctement instruits et formés, ce qui était de la responsabilité du Coordinateur incendie.

      Sol. Tattes : Quelles ont été les étapes de cette prise de conscience ?

      Me L.B. : Aussi étonnant que cela puisse paraître, après quatre incendies dévastateurs sur le site dont il était responsable, le Coordinateur incendie a d’abord été entendu comme témoin par le Ministère public. La Procureure Viollier a toutefois décidé de faire expertiser le bâtiment, et elle a eu le bon sens de confier cette tâche à des experts non-genevois. L’expertise, livrée en 2017, arrivait à la conclusion que vu son utilisation, notamment son extrême densité de peuplement, le bâtiment était si dangereux que se posait la question de sa fermeture immédiate !

      La responsabilité du Coordinateur incendie ne pouvait plus être écartée d’un revers de main. Il a donc été réentendu en procédure, non plus en qualité de témoin cette fois-ci, mais en qualité de « personne appelée à donner des renseignements », soit un possible futur prévenu. Les déclarations qu’il a faites à ce moment-là étaient particulièrement accablantes pour lui : il en ressortait que les procédures qu’il avait mises en place pour gérer l’apparition d’un sinistre étaient extrêmement confuses, même à ses propres yeux.

      Sol. Tattes : Il a donc été mis en prévention ?

      Me L.B. : Pas du tout. Malgré les conclusions de l’expertise et malgré ses déclarations complètement aberrantes, la nouvelle Procureure en charge du dossier l’a tout simplement sorti de la procédure. Elle a renvoyé en jugement les deux occupants de la chambre d’où était parti le feu et deux agents de sécurité qui avaient eu le réflexe d’éteindre le feu avant d’évacuer le bâtiment.

      Nous avons dû saisir l’autorité de recours pour forcer la Procureure à mettre en accusation le Coordinateur incendie.

      Ce n’était là qu’une étape. Car au procès de première instance, la Procureure a pour ainsi dire plaidé son acquittement dans son réquisitoire, ce qui est pour le moins inhabituel. Plus inhabituel encore : l’un des plaignants, soit l’Hospice général lui-même, présent au procès pour demander l’indemnisation de son dommage matériel, a lui aussi plaidé en faveur de ce prévenu – qui n’était autre que son propre agent !

      Sol. Tattes : Et alors, le résultat des courses ?

      Me L.B. : Le juge ne s’est pas senti contraint d’examiner sérieusement la violation, par le Coordinateur, de son devoir de diligence. Il n’a pas daigné constater que les mesures prises par le Coordinateur sur ce site à hauts risques étaient gravement insuffisantes, voire qu’elles avaient accru le danger pour les résidents. Le juge n’a pas non plus tenu compte de la désinvolture que trahissaient les déclarations confuses et contradictoires du Coordinateur tout au long de la procédure.

      C’est ainsi qu’il a condamné les deux agents de sécurité qui avaient privilégié l’extinction sur le sauvetage, et le résident de la chambre d’où le feu est parti. Il a en revanche été contraint d’acquitter l’autre résident accusé, qui n’avait fait que passer la soirée dans la chambre qui a brûlé.

      Sol. Tattes : Pourquoi dites-vous que les mesures prises par le Coordinateur ont accru le danger pour les résidents ?

      Me L.B. : Pour prévenir le risque incendie, il y a trois axes d’intervention : le constructif, le technique et l’organisationnel.

      S’agissant du constructif, le Coordinateur a fait installer des portes coupe-feu en métal qui, en cas d’incendie, ne peuvent plus s’ouvrir sans clé dans le sens de l’entrée, même avec des outils de force. Or, il a omis d’équiper ces portes de serrures SI. S’agissant du technique, il a fait installer une centrale de détection d’incendie, mais cette dernière n’était pas, ou pas encore, raccordée au SIS. Autrement dit, pour être alertés, et ensuite pour accéder au bâtiment, les pompiers dépendaient de « quelqu’un » sur le site.

      C’est une situation assez dangereuse. En tous cas, cela suppose que ce « quelqu’un » soit défini avec précision, qu’il sache exactement ce qu’il doit faire et qu’il développe des réflexes : c’est l’axe organisationnel.

      Or, les agents de sécurité présents sur le site pensaient tous que la centrale de détection avertissait directement les pompiers ! Ils ignoraient aussi que les pompiers n’avaient pas de clés permettant d’accéder aux étages.

      Sol. Tattes : Mais cela n’explique pas pourquoi les résidents se sont défenestrés…

      Me L.B. : Les agents de sécurité ont manifestement paniqué à la vue du feu. Ils ont cherché à l’éteindre avant que les pompiers aient été alertés et avant d’évacuer le bâtiment, et pour cela ils ont ouvert la chambre en feu. La fumée a envahi le chemin de fuite, bloquant les résidents encore endormis dans leurs chambres. La plupart ont été réveillés en sursaut alors que le bâtiment était déjà sens dessus-dessous. Personne n’avait jamais pris la peine de leur dire ce qu’il fallait faire en cas de feu, ni même de leur fournir le numéro de téléphone des pompiers. Personne n’était là pour leur dire quoi faire, et ils n’avaient aucune instruction à remobiliser pour calmer la panique.

      Sol. Tattes : Le Coordinateur incendie pouvait-il s’attendre à un tel mouvement de panique ?

      Me L.B. : Evidemment. D’abord, parce que les risques liés à la panique en cas d’incendie sont notoires, ce qu’il savait en tant qu’expert. Ensuite et surtout, parce que des personnes s’étaient déjà défenestrées lors de l’incendie de 2011, avec un bilan de 13 blessés dont cinq graves.

      Sol. Tattes : Mais était-il vraiment en mesure de le prévenir ?

      Me L.B. : Bien entendu. Il avait constaté depuis 2011 qu’il devait installer des consignes sur le comportement à adopter en cas d’incendie dans tous les bâtiments, et ne s’est jamais exécuté. De même, il connaissait depuis 2013 son obligation légale de procéder à deux exercices d’évacuation pour entraîner son personnel et les résidents. Non seulement il n’en a organisé qu’un seul, en avril 2014 ; mais en plus il en a exclu un bâtiment entier : celui des hommes célibataires en cours de procédure d’asile ou déboutés, dont il craignait qu’ils prennent d’assaut les bus TPG ou n’investissent le magasin IKEA situé à proximité. Le premier juge n’aurait jamais dû recevoir cet argument : le Coordinateur n’est pas garant des intérêts d’IKEA ou des TPG, c’est à la police de s’en occuper. Lui, son travail, c’est de protéger la vie et la sécurité de tous les résidents du Foyer, sans distinction de sexe ou de statut légal.

      Sol. Tattes : Et maintenant, que va-t-il se passer ? Quels sont vos pronostics ?

      Me L.B. : C’est un dossier sensible, et une page sombre de l’Histoire de Genève, mais Genève peut faire mieux, si elle accepte de se remettre en question sur la base des faits tels qu’ils se sont réellement produits. Ce n’est pas facile, pour l’Etat, d’admettre que l’Etat a fauté, mais ce dossier ne permet pas vraiment de tirer une autre conclusion. Personnellement, je continue de croire à la séparation des pouvoirs.

      reçu le 09.03.2024, via la mailing-list de #Solidarité_Tattes

  • XI #Marcha_po_la_Dignidad - #Tarajal | 3.02.2024 | 10 AÑOS EXIGIENDO VERDAD, JUSTICIA Y REPARACIÓN.

    *English version below.
    **Traduction en Français ci-dessous.

    La XI MARCHA POR LA DIGNIDAD es un acto en memoria de las personas a las que arrebataron la vida la mañana del 6 de febrero de 2014 en la playa del Tarajal en Ceuta, pero también es un acto de denuncia por todas las personas a las que les arrebatan la vida por falta de vías legales y seguras para migrar.

    Los colectivos y organizaciones que quieran adherirse a la XI MARCHA POR LA DIGNIDAD deberán completar el siguiente formulario. Ello supondrá el siguiente compromiso:
    – Su inclusión como firmante en el manifiesto al que se dará lectura al finalizar el recorrido de la marcha en la Playa de El Tarajal.
    – Su inclusión en carteles y publicaciones para difusión del acto.
    – Su compromiso en la promoción y difusión de la iniciativa en redes locales, nacionales e internacionales.
    – El acceder a la información y materiales relacionados con la Marcha.
    – La facilitación de la toma de contacto con cualesquiera otros de los miembros incorporados a la red.
    – Asumir las directrices de las personas que conforman la organización de los actos.

    Os esperamos el próximo 3 de febrero en Ceuta.

    Redes de la Organización de la marcha:
    E-mail: marcha.tarajal@gmail.com
    Facebook: @marcha.tarajal
    Instagram: @marcha.tarajal
    Twitter: @marchatarajal
    ____________________________
    «10 YEARS DEMANDING TRUTH, JUSTICE AND REPARATION.»

    The XI MARCH FOR DIGNITY is an act in memory of the people whose lives were taken on the morning of February 6, 2014 on the beach of Tarajal, but it is also an act of denunciation for all the people whose lives are taken away from them due to the lack of legal and safe ways to migrate.

    Collectives and organizations wishing to join the XI MARCH FOR DIGNITY must complete the following form. This will involve the following commitment:

    / Their inclusion as a signatory organization in the manifesto that will be read at the end of the march.
    / Their inclusion in posters and publications for the dissemination of the event.
    / Your commitment in the promotion and dissemination of the initiative in local, national and international networks.
    / Access to information related to the march.
    / Facilitating contact with any other members of the network.
    / Assuming the guidelines of the Associations organizing the events.

    We look forward to seeing you on February 3th.

    Social networks of the March Organisation:
    E-mail: marcha.tarajal@gmail.com
    Facebook: @marcha.tarajal
    Instagram: @marcha.tarajal
    Twitter: @marchatarajal
    ____________________________
    «10 ANS D’EXIGENCE DE VÉRITÉ, DE JUSTICE ET DE RÉPARATION».

    La 11e MARCHE POUR LA DIGNITÉ est un acte en mémoire des personnes dont la vie a été arrachée le matin du 6 février 2014 sur la plage de Tarajal, mais c’est aussi un acte de dénonciation pour toutes les personnes dont la vie leur est enlevée en raison de l’absence de moyens légaux et sûrs de migrer.

    Les collectifs et organisations qui souhaitent se joindre à la 11ème MARCHE POUR LA DIGNITÉ doivent remplir le formulaire suivant. Cela implique l’engagement suivant :

    / Leur inclusion en tant que signataire dans le manifeste qui sera lu à la fin de la marche.
    / Leur inclusion sur les affiches et les publications pour faire connaître l’événement.
    / Votre engagement à promouvoir et à diffuser l’initiative dans les réseaux locaux, nationaux et internationaux.
    / Accès aux informations relatives à la marche.
    / Faciliter le contact avec l’un des autres membres du réseau.
    / Assumer les directives des associations qui organisent les événements.

    Nous vous attendons le 3 février.

    Réseaux sociaux de l’organisation de la mache :
    E-mail: marcha.tarajal@gmail.com
    Facebook: @marcha.tarajal
    Instagram: @marcha.tarajal
    Twitter: @marchatarajal

    #commémoration #commémoraction #asile #migrations #réfugiés #Ceuta #Maroc #Espagne #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #2024 #dignité #justice #vérité #mémoire

    • A 10 anni dalla strage del Tarajal la XI Marcha por la dignidad

      Sono passati 10 anni dalla strage del Tarajal a Ceuta, l’enclave spagnola in Marocco. Quella tragica mattina del 6 febbraio del 2014 un gruppo molto numeroso di migranti (circa 300) prova ad entrare a Ceuta a nuoto, attraverso la spiaggia di Tarajal. La Guardia Civil cerca di fermarli, sparando pallottole di gomma e fumogeni molto vicino alle persone che si trovano in acqua. Alcuni testimoni affermano che vengono lanciati proprio sulle persone, molte delle quali galleggiano a fatica. Gli agenti sparano anche quasi duecento colpi a salve. Si diffonde il panico in acqua. Muoiono 15 persone e altri rimangono feriti.

      Per ricordare questa strage e la brutalità del regime delle frontiere ogni anno a Ceuta si svolge una manifestazione, la Marcha por la Dignidad, un atto in memoria delle persone che sono state uccise, ma anche di denuncia per tutte le persone che vengono uccise a causa della mancanza di vie legali e sicure per migrare. Quest’anno sarà sabato 3 febbraio.

      «Quanto accaduto il 6 febbraio 2014 è un chiaro esempio di razzismo di Stato. È nostro dovere antirazzista sapere cosa sta accadendo al confine meridionale spagnolo, dare eco e denunciare le flagranti violazioni dei diritti umani che vi si verificano» – scrivono dalle pagine della Marcha – «anno dopo anno, manteniamo viva la fiamma della memoria e continuiamo a denunciare le politiche migratorie europee che causano morte».

      La giornata di mobilitazione, che ha raccolto oltre 220 adesioni, è organizzata in due momenti. Nel pomeriggio dalle 15.15 inizierà la manifestazione che attraverserà le strade di Ceuta da Plaza de Los Reyes per raggiungere la spiaggia della strage. Nella tarda mattinata, alle 11.30 nella Sala delle Assemblee dell’IES ABYLA di Ceuta, la tavola rotonda in cui interverranno Patuca Fernández, Viviane Ogou e Mouctar Bah (l’incontro sarà trasmesso in diretta qui).

      «La logica razziale e coloniale ha determinato le politiche migratorie dell’Europa. I confini di Ceuta e Melilla stabiliscono una divisione tra coloro che sono considerati persone e coloro che non lo sono», spiegava nella tavola rotonda del 2023, Youssef M. Ouled, giornalista specializzato in razzismo istituzionale e sociale.
      «Ricordiamo il Tarajal ma parliamo di altre stragi. Quello che è successo nel 2014 non è qualcosa di aneddotico ma sistematico», ha sottolineato.

      Sono tante, troppe, le date che rappresentano purtroppo i punti più alti del razzismo e della violenza delle frontiere. Fra meno di un mese sarà passato un anno dal 26 febbraio 2023, giorno in cui 94 persone (34 di loro erano bambine/i) sono morte a soli 150 metri dalla spiaggia di Steccato di Cutro in Calabria: non una fatalità come le istituzioni vogliono far credere, ma un eccidio per omissione di soccorso diventato legge. Anche a Cutro, dopo un anno, si tornerà a manifestare ancora al fianco dei familiari e dei superstiti per non dimenticare e continuare a chiedere verità e giustizia.

      https://www.youtube.com/watch?v=g5fGZLGBVSg


      https://www.meltingpot.org/2024/02/a-10-anni-dalla-strage-del-tarajal-la-xi-marcha-por-la-dignidad

    • En 2023...

      Tarajal. Il dovere della memoria per tutte le vittime di frontiera

      Fare memoria non riguarda solo il ricordo, ma costituisce un atto politico e uno strumento di lotta per la verità e il riconoscimento delle responsabilità

      A Ceuta, enclave spagnolo situato a nord nel continente africano, centinaia di persone, tra attivistə e giovani migranti, continuano la Marcha por la Dignidad che da nove anni percorre l’intera cittadina lungo la linea che divide la Spagna dal Marocco per raggiungere la spiaggia del Tarajal dove, il 6 febbraio 2014 furono assassinate oltre 15 persone di origine sub-sahariana delle 300 che tentavano di attraversare il confine a nuoto.

      Quella mattina, all’alba di un’ennesima violenza razzista e coloniale, la Guardia Civil spagnola non solo sparò contro di loro proiettili di gomma per impedire che raggiungessero la costa, provocandone l’annegamento, ma eluse ogni tipo di soccorso delle persone in difficoltà e il recupero dei corpi in mare.

      Alla Frontera Sur sono trascorsi nove anni di impunità, nove anni di ingiustizia e violenza perpetrata verso le vittime di quella tragedia e contro tutte coloro che ogni giorno sfidano una delle frontiere più ineguali al mondo. Vigile e repressiva in modo sempre più assiduo sulle persone che da diversi paesi dell’Africa tentano l’attraversamento per mare e per terra della valla di filo spinato che separa i due continenti.

      Se è vero che nel Mediterraneo è iniziata l’Europa, altrettanto certo è che nel Mediterraneo stesso si esaurisce, tra le colonne di un mito che non ha più eroi ma esseri umani in cerca di sogni brutalmente lacerati. Uomini e donne disumanizzate affinché il fardello di colpe e responsabilità trainato da secoli di imperialismo e gerarchie di potere – ben oltre la colonialità storica – alleggerisca il suo peso.

      «Esistono due morti: quella fisica e quella ermeneutica» ha affermato Patuca Fernandez, l’avvocata di Coordinadora de barrios che prese in carico il caso del Tarajal, nel suo intervento sul dovere della memoria delle vittime di frontiera 1

      La prima costituisce quella biologica mentre la seconda riguarda quella inflitta dal processo di normalizzazione e di riduzione o perdita di rilievo del crimine che l’ha provocata. Un criminale non solo uccide la vittima ma impiega ogni sforzo necessario per trovare forme strategiche di ridurre la carica penale che ricadrebbe sui crimini commessi.

      È il modus operandi di una più profonda logica razziale che tende a interiorizzare e disumanizzare le persone migranti per normalizzare la violenza e gli abusi a loro inflitti.

      Ma queste morti non sono occasionali, né tanto meno naturali. Sono sistematiche e strutturali, legittimate da una necropolitica razzista in quanto applicata esclusivamente sulle persone che provengono da territori direttamente o indirettamente vincolati alle (ex)colonie, mediante accordi in materia di sicurezza e criminalizzazione applicata sulla base della propria origine.

      Ad oggi questo crimine resta ancora impunito, sotto la responsabilità di nessuno se non delle vittime stesse, profanate non soltanto in vita ma calpestate nella propria dignità in morte e in quella dei familiari, privati di verità e di giustizia, del diritto al dolore, al lutto, al risarcimento e alla non ripetizione.

      Fare memoria non riguarda solo il ricordo, ma costituisce un atto politico e uno strumento di lotta per la verità e il riconoscimento delle responsabilità.

      Puntare lo sguardo indietro ha un significato estremamente potente per quanto accade nel presente, e dare contenuto a quel passato che continua sistematicamente a ripetersi. Fare memoria vuol dire far conoscere la realtà di quanto accade ed esigere giustizia per ogni vittima di frontiera.

      «Ricordiamo il Tarajal ma parliamo di altre stragi», ha affermato Youssef M.Ouled, giornalista specializzato in razzismo istituzionale e sociale. «Quello che è successo nel 2014 non è qualcosa di aneddotico ma sistematico», ha continuato ricordando quanto accaduto di recente a Melilla2. Se cambiassero il luogo e la data, l’evidenza della violenza delle frontiere, esterne ed interne al Paese, sarebbero esattamente le medesime.

      https://www.youtube.com/watch?v=4HayyEDFaSc

      Tra le vittime più recenti, Moussa Sylla, espulso dal Ceti (Centro di residenza temporanea per migranti) di Ceuta dove era stato accolto al suo arrivo in territorio spagnolo lo scorso dicembre 2022. Moussa ha dovuto lasciare il centro senza però avere un altro luogo dove andare, allontanato come tanti altri minori che arrivano soli e finiscono abbandonati a sé stessi e alla disperazione. Fino allo scorso 26 gennaio era rimasto davanti alla porta dello stabilimento per chiedere di entrare. Sotto pioggia e freddo supplicava ripetutamente di non esser rilegato al margine ancora una volta. Ma non è stato ascoltato. Espulso dallo Stato che difende le frontiere anziché proteggere le persone, Moussa si è impiccato ad un albero dinanzi le porte dello stabilimento.

      Le colonne di Ercole, erette una di fronte all’altra nello stretto di Gibilterra, non sono più elemento di connessione ed unione tra due mondi inesplorati di un Ulisse che dal suo viaggio fa ritorno in patria. Le colonne dello stretto sono una stretta sul popolo in movimento indesiderato, una strategia ulteriore di chiusura all’Altro per cui l’hospes si è risolto in hostis.

      In questo incrocio di acque – Atlantico e Mediterraneo – e di terre, l‘Europa dall‘Africa, sorge l’inquietudine di una frontiera in cui i paesi e gli uomini non solo stanno di fronte ma sul fronte, in prima linea di guerra, per fronteggiarsi ed ispezionarsi.

      E’ al grido di «Basta violenza alle frontiere» che accompagniamo la marcia di commemor-azione che da nove anni si batte contro l’impunità che vige sul caso: l’inchiesta giudiziaria aperta, che stava per mettere al banco per omicidio colposo 16 guardie civili (scampate applicando la ‘dottrina Loot’), è stata definitivamente archiviata dalla Corte Suprema nel giugno dello scorso anno. La Corte Costituzionale sta ancora studiando se accogliere o meno i ricorsi presentati da diverse organizzazioni non governative e per conto delle famiglie delle vittime (a cui non è stato nemmeno permesso di recarsi in Spagna) per violazione dei loro fondamentali diritti alla vita, protezione giudiziaria effettiva e integrità morale, come indicato nelle dichiarazioni dell’avvocata Fernández.

      In memoria di Roger, Yves, Samba, Larios, Daouda, Luc, Youssouf, Armand, Ousmane, Keita, Jeannot, Oumarou, Blasie e le altre persone non identificate, continuiamo ad esigere che si faccia giustizia, che venga riconosciuta la responsabilità dei crimini di frontiera e garantire equi diritti a tutte le persone senza condizione alcuna.

      https://www.meltingpot.org/2023/02/tarajal-il-dovere-della-memoria-per-tutte-le-vittime-di-frontiera

    • La tomba 147 e l’instancabile lotta di giustizia per la strage del Tarajal

      Ceuta, 10 anni dal 6 febbraio 2014

      Nei tranquilli e placidi passaggi del cimitero di Santa Catalina a Ceuta, situato nel cortile di Santa Beatriz de Silva, c’è un corridoio infinito fiancheggiato da due file di lapidi, in cui si può scoprire un enigmatico labirinto di marmo. È adornato da nomi, cognomi e ornamenti che evocano la memoria di coloro che non ci sono più. Oltre questa fila, nel punto più alto, si trovano tombe meticolosamente numerate, sigillate nel freddo abbraccio del cemento. Questi loculi sono privi di nomi o vasi di fiori che ricordano le anime che riposano al loro interno. Guardando dall’altra parte dello stretto, si vedono le tombe dei migranti che sono morti nel tentativo di raggiungere la spiaggia di Tarajal a Ceuta e di altri che hanno subito lo stesso destino. Si tratta di tombe anonime. Qui giacciono cinque delle quindici persone che, il 6 febbraio 2014, hanno cercato di raggiungere a nuoto la spiaggia di Tarajal a Ceuta, situata al confine tra Marocco e Spagna.
      Ostacoli all’identificazione dei corpi delle vittime di Tarajal

      Solo il corpo di Nana Roger Chimie, un giovane camerunense, è stato identificato; gli altri resti sepolti nel sito rimangono non identificati, nonostante gli sforzi delle famiglie e degli avvocati di Samba, Larios e Ussman Hassan per chiarire l’identità dei corpi trovati dopo il ritrovamento di Nana, che giacciono sepolti lì.

      Patricia Fernández Vicent, avvocata della Coordinadora de Barrios, conferma che «Nana è stato identificato perché il suo corpo è stato ritrovato solo due giorni dopo i fatti e grazie agli oggetti personali che portava con sé quando ha cercato di attraversare il mare per raggiungere la Spagna. Inoltre, le sue condizioni hanno permesso di verificare le sue impronte digitali con i database camerunesi. Roger riposa nella tomba numero 147», che si distingue solo per la data e l’iscrizione: “Tarajal 6-2-14“.

      L’identità degli altri rimane un mistero. L’avvocata aggiunge: «Abbiamo chiesto al tribunale il test del DNA, ma è stato rifiutato in quanto non necessario per chiarire i fatti, quindi non è mai stato effettuato». C’è anche un quinto corpo la cui identità rimane sconosciuta, poiché non è stato fatto alcun tentativo formale di identificarlo.

      A distanza di dieci anni, le famiglie delle vittime sono ancora in cerca di giustizia e lottano senza sosta per ottenere il permesso di recarsi a Ceuta per identificare i loro cari. Tuttavia, il governo spagnolo ha ripetutamente negato i visti necessari per verificare se i resti appartengono a qualcuno dei parenti ancora dispersi.

      A tre anni dagli eventi, le famiglie delle vittime del Tarajal erano state ascoltate dal Congresso dei Deputati, in coincidenza con l’anniversario. Una dozzina di padri, madri, fratelli e sorelle di coloro che morirono sulla spiaggia di Ceuta avevano partecipato a un atto commemorativo in videoconferenza. «Vogliamo che sia fatta giustizia, vogliamo che la loro morte non rimanga impunita», aveva esclamato la madre di uno dei giovani morti di Douala, in Camerun, durante il tributo.

      Le famiglie dei giovani deceduti continuano a chiedere di conoscere la verità su quanto accaduto, chiedendo giustizia affinché queste morti non rimangano dimenticate e senza responsabilità. «Stavano solo cercando una vita migliore per le loro famiglie», ha detto un membro della famiglia.
      Dieci anni senza responsabilità

      A dieci anni dalle morti e dopo otto anni di procedimenti giudiziari, il caso non è ancora arrivato al processo, essendo stato archiviato tre volte dal giudice istruttore. La vicenda giudiziaria del caso Tarajal è stata complessa e prolungata. È iniziata nel febbraio 2015 quando il Tribunale di Ceuta ha convocato 16 agenti di polizia, con le Ong CEAR, Coordinadora de Barrios e Observatori DESC che hanno agito come parti civili.

      Nelle prime due istanze di archiviazione, nel 2015 e nel 2018, il giudice ha concluso che erano stati compiuti tutti i passi investigativi possibili, senza trovare prove di attività sanzionabile nei confronti dei 16 agenti della Guardia Civil coinvolti negli eventi di quella mattina del febbraio 2014. Tuttavia, il Tribunale Provinciale di Ceuta ha ribaltato entrambe le decisioni nel 2017 e nel 2018, incaricando il giudice di identificare i cinque deceduti e di raccogliere le dichiarazioni dei sopravvissuti. Nell’ottobre 2017, la Corte europea dei diritti umani ha condannato la Spagna per pratiche simili a Melilla.

      Il caso è stato nuovamente chiuso nel gennaio 2018, ma dopo i ricorsi, nell’agosto 2018, il Tribunale Provinciale di Cadice ha deciso di riaprire il caso, sottolineando le inadeguatezze dell’indagine. Nel settembre 2019, 16 agenti della Guardia Civil sono stati processati, ma il fascicolo è stato chiuso per la terza volta nell’ottobre 2019, provocando ulteriori ricorsi. Il Tribunale Provinciale di Cadice ha respinto i ricorsi nel luglio 2020.

      Le Ong hanno presentato un ricorso in Cassazione alla Corte Suprema, che è stato respinto nel maggio 2022. Nel luglio 2022 è stato presentato un ricorso per amparo alla Corte Costituzionale 1. Infine, nel giugno 2023, la Corte Costituzionale ha ammesso il ricorso per amparo, aprendo la possibilità di stabilire una dottrina costituzionale che protegga i diritti dei migranti alle frontiere.

      Nonostante si tratti di uno dei casi più mediatici degli ultimi anni, né i giudici né i pubblici ministeri si sono pronunciati pubblicamente durante il processo, limitandosi a fare riferimento alle ordinanze e ai documenti inviati alle parti. Una fonte giudiziaria ha spiegato a questo corrispondente che “si trattava di un caso insolito, in quanto era la prima volta che si trovavano di fronte a un gruppo di assalto marittimo“. Inoltre, ha sottolineato che le questioni legali sono complicate, in quanto bisogna stabilire “se c’è una responsabilità condivisa per i crimini sconsiderati e qual è stata la partecipazione specifica di ciascuna guardia civile“. Questo perché le sanzioni non possono essere applicate a gruppi, il che solleva questioni di natura strettamente legale.

      Cosa è successo nelle prime ore del 6 febbraio 2014 sulla spiaggia di Tarajal a Ceuta

      Nelle prime ore del 6 febbraio 2014, circa 400 persone hanno tentato di attraversare la barriera di confine che separa il Marocco dall’Europa. La Guardia Civil, dispiegata lungo l’intero perimetro del confine, ha cercato di impedire al gruppo di entrare a Ceuta utilizzando attrezzature antisommossa, proiettili di gomma, gas lacrimogeni e detonazioni acustiche.

      Almeno 15 persone sono state uccise e molte altre gravemente ferite. Coloro che sono sopravvissuti e sono riusciti a raggiungere il lato spagnolo della spiaggia di Tarajal sono stati immediatamente rispediti in Marocco. La mattina successiva furono ritrovati 14 corpi, 5 in Spagna e 9 in Marocco. Ufficialmente, 23 persone sono state riportate in Marocco e solo una persona è stata dichiarata dispersa.

      Secondo le ONG coinvolte nell’accusa popolare contro le guardie civili, “molte testimonianze di sopravvissuti e testimoni, insieme ai video ufficiali rilasciati dalla Guardia Civil, dimostrano che la delegazione governativa a Ceuta era a conoscenza in ogni momento dell’attivazione del livello massimo di allerta, che prevedeva la mobilitazione di varie unità della Guardia Civil dotate di attrezzature anti-sommossa“. L’allerta è stata attivata per impedire al gruppo di circa 400 persone di entrare in territorio spagnolo. Si trattava di coloro che erano riusciti a eludere i controlli delle forze marocchine nei boschi vicino al confine con Ceuta e a raggiungere la spiaggia, nella zona marocchina, dove si sono gettati in mare. Secondo i testimoni, circa 1.500 persone, per lo più africani subsahariani, hanno cercato di entrare in Europa quella mattina, ma solo 400 sono riusciti ad avvicinarsi.

      La Guardia Civil ha affrontato il gruppo in assetto antisommossa mentre nuotava verso la riva, lanciando candelotti fumogeni e palle di gomma dal frangiflutti. Questa azione non è stata inizialmente riconosciuta dal delegato del governo, Francisco Antonio González, e successivamente dal direttore generale della Guardia Civil, Arsenio Fernández de Mesa, che ha negato l’uso di materiale antisommossa in acqua, attribuendo la responsabilità dei morti alle forze marocchine.
      Le bugie del Ministero degli Interni

      Jorge Fernández Díaz, all’epoca Ministro degli Interni, si presentò una settimana dopo al Congresso ammettendo l’uso di materiale antisommossa come deterrente, ma indicando l’acqua. Queste spiegazioni seguirono la diffusione di immagini che mostravano gli agenti della Guardia Civil utilizzare “145 proiettili di gomma e cinque candelotti fumogeni” per impedire ai migranti di raggiungere la Spagna, sparando verso la posizione in cui stavano nuotando, mentre erano inseguiti da una motovedetta marocchina. Nella stessa occasione, il ministro si è rammaricato per la morte delle 15 persone sulla spiaggia di Tarajal ma, come gli ha chiesto un deputato dell’opposizione, non si è scusato con le famiglie delle vittime in quanto capo della Guardia Civil.

      Il Segretario di Stato per la Sicurezza, Francisco Martínez, al Congresso, ha dichiarato che nessuno dei giovani che hanno raggiunto la riva spagnola è rimasto ferito e che la Guardia Civil ha sparato solo mentre erano ancora in acque marocchine, attenuando l’azione dal frangiflutti. Tuttavia, sono sorte delle domande: “Perché nessuno ha cercato di salvare le persone che stavano annegando? Perché non sono stati allertati i soccorsi marittimi e la Croce Rossa?“.

      Il governo del PP, attraverso il ministro, ha ufficializzato la sua versione dei fatti e ha respinto la richiesta di aprire una commissione d’inchiesta richiesta dall’opposizione, approfittando della maggioranza assoluta di cui godeva nel 2014. Ma le registrazioni e gli audio forniti delle comunicazioni tra gli agenti e il COS mettono in dubbio la versione di Martínez. In una delle comunicazioni, gli agenti hanno avvertito della presenza di migranti che nuotavano e hanno chiesto istruzioni: “Dobbiamo fermarli?“. Dalla centrale operativa hanno risposto con incertezza: “Non sono sicuro, almeno cerchiamo di fermarli dall’avanzare, si stanno dirigendo verso Ceuta“. La risposta è stata: “Non è possibile, hanno attraversato da dietro e l’unica opzione era catturarli o lasciarli proseguire“. Le contraddizioni del delegato del governo a Ceuta e del direttore della Guardia Civil sono venute alla luce, mettendo a nudo la leadership del Ministero degli Interni. Nessuno si è dimesso.

      Persino il presidente del governo della città autonoma, Juan Jesús Vivas, si è spinto a definire “miserabili” sul suo account Facebook le organizzazioni che hanno accusato direttamente le guardie civili di essere responsabili delle morti. L’Ong Caminando Fronteras ha pubblicato un rapporto che includeva i referti delle ferite e le testimonianze dei sopravvissuti, tutti sono concordi nell’affermare che i proiettili di gomma erano diretti contro i migranti. Dopo essere venuto a conoscenza del rapporto, Francisco Antonio González ha consigliato alle guardie civili di sporgere denuncia contro l’organizzazione.
      Il vescovo di Tangeri critica l’azione della Guardia Civil

      L’arcivescovo emerito di Tangeri, Santiago Agrelo, ha criticato le azioni della Guardia Civil durante gli eventi del 6 febbraio 2014 a il Tarajal. “Quel giorno, quei giovani non si sono gettati in acqua contro nessuno: cercavano solo un futuro migliore, al quale sicuramente avevano diritto almeno quanto me“. Ha sottolineato la responsabilità delle forze dell’ordine, affermando che “le forze dell’ordine del Regno di Spagna hanno fatto tutto ciò che era in loro potere per impedire a quei giovani di raggiungere la spiaggia, un fatto che non solo è stato riconosciuto ma anche rivendicato: hanno fatto ciò che dovevano fare“.

      Nessuno si è assunto la responsabilità e nessuno sa chi abbia dato l’ordine di autorizzare gli agenti spagnoli ad agire sulla spiaggia di Tarajal. A distanza di dieci anni, nessuno a nome dello Stato spagnolo si è scusato con le famiglie delle vittime di quella fatidica mattina del febbraio 2014. La tomba 147 nel cimitero di Ceuta rimarrà in silenzio.

      La mattina di domenica 4 febbraio, la tomba di Roger Nana è stata resa dignitosa. L’associazione ELIN, la Coordinadora de Barrios e alcuni attivisti hanno dedicato un poster che è stato collocato sulla tomba di Nana. Dopo un breve funerale, Javier Baeza, presidente dell’organizzazione di Madrid, ha dedicato alcune parole di omaggio alle vittime. Le altre tombe sono già segnate come “persona non identificata 6 febbraio 2014“.

      https://www.meltingpot.org/2024/02/la-tomba-147-e-linstancabile-lotta-di-giustizia-per-la-strage-del-taraja

      #responsabilité

    • #Ceuta: di tutte le stragi, una Memoria Mediterranea

      A dieci anni dalla strage del Tarajal, in cui furono uccise almeno 14 persone nel tentativo di raggiungere la Spagna a nuoto, Ceuta, l’enclave spagnola in Marocco, continua a essere tra le frontiere più violente del regime necropolitico europeo: il mare da un lato, la valla di concertina tagliente dall’altro, sistematicamente iper vigilati e militarizzati per impedire il transito delle persone verso l’Europa. Luogo di incessante approccio securitario, Ceuta, come Melilla, in territorio nordafricano, è da anni scenario di morte e negazione della vita umana, non solo delle persone che tentano di sfidarlo ma di tutte coloro che restano dall’altro lato in attesa di verità sui propri familiari.

      Sono trascorsi 10 anni di silenzio sul massacro del Tarajal, quando, all’alba del 6 febbraio 2014, la Guardia Civil spagnola sparava brutalmente centinaia di proiettili di gomma contro un gruppo di oltre 300 persone migranti di origine sub – sahariana provocandone la morte per annegamento e omettendo il loro soccorso e il recupero dei corpi. Decine di persone sono annegate davanti allo sguardo inerme delle guardie che ad oggi continuano impunemente a perpetrare violenza e repressione contro le persone migranti direttamente coinvolte e contro le famiglie a cui viene negato l’accesso per poter raggiungere l’Europa e cercarli.

      Le persone che tentano di varcare il confine al costo della propria vita, vengono sottoposte a ripetute umiliazioni e procedure di controllo, trattenimento e maltrattamento propedeutiche allo smistamento e alla loro espulsione, sorte di cui spesso le famiglie rimangono ignare e lontane dalle possibilità di richiesta per verità e giustizia dai territori di origine.

      Dal massacro, il governo spagnolo ha ripetutamente respinto la richiesta dei visti ai familiari delle persone disperse e il prelievo del DNA dai resti recuperati affinché procedessero con l’eventuale identificazione dei corpi, ignorando di fatto la loro richiesta di giustizia e verità.

      Infatti, il caso del 6 febbraio fu ripetutamente archiviato dalle responsabilità di una ennesima strage di Stato, riaperto successivamente e in corso di risoluzione, solo lo scorso giugno 2023, grazie alla pressione delle stesse persone sopravvissute e delle famiglie, alle avvocate e attiviste solidali che con loro sostengono la rivendicazione contro la negazione politica della vita e della morte.

      In accordo con il Marocco – da Rajoy e i successori fino all’attuale Sanchez – lo Stato spagnolo ribadisce da decenni il proprio compromesso sul controllo bilaterale della frontiera elogiando l’impegno sempre più mirato all’esternalizzazione della frontiera sul territorio marrocchino in un’ottica di governance migratoria, disattendendo i principi democratici e i diritti di libertà e dignità per la vita delle persone migranti, in fuga da altrettante situazioni di violenze ed abuso, spesso dipese dalla onerosa precarizzazione economica.

      In questo senso, la violenza di cui Ceuta si fa testimone, la medesima che interessa Melilla e la rotta canaria in Spagna o i luoghi in cui vige la procedura di frontiera sull’intero suolo europeo – da Lampedusa a Ventimiglia e lungo i Balcani – non è rappresentata da “ assalti” ed “invasioni” illegali come mediaticamente cerca di strumentalizzare la difesa politica, ma insita nella rimozione sistematica del diritto a partire, a circolare ed arrivare liberamente, alla possibilità per tutte e tutti di avere riconosciuta un’identità ante e post mortem, il diritto a sapere e al lutto.

      Accordi con paesi terzi come il Marocco, esattamente come accade tra Italia e Libia e Tunisia, ledono ogni diritto umano, in primis quello alla vita, abusata e fatta prigioniera dietro e dentro le mura di cinta, potenziate nel meccanismo di controllo e respingimento in mare, nei dispositivi detentivi e di sorveglianza dei centri per il rimpatrio (In Spagna C.I.E.), luoghi di trattenimento forzato e punitivo senza alcuna condanna, dove però non si spengono manifestazioni per la libertà e la liberazione dalle persone trattenute e recluse, in protesta anche in questi giorni dai vari centri in Italia a seguito del suicidio di Stato di Ousmane Sylla .

      La strage di Tarajal è l’espressione di quanto accade ogni giorno da anni in cui impunità, ingiustizia e violenza assumono le sembianze della lotta alla criminalità e alla sicurezza nazionale. Massacri senza giustizia, tombe senza nome, corpi senza volto, morti senza corpo, non sono che l’espressione ultima.

      Ma non l’unica.

      Alla Frontera Sur, una ‘Marcha por la Dignidad’, organizzata da centinaia di persone migranti, familiari, attivisti e diverse organizzazioni solidali, tra cui @Caravana Abriendo Fronteras e @CarovaneMigranti, continua da 10 anni a reclamare ed esigere verità e giustizia per tutte le persone morte nel massacro di Ceuta e per tutte coloro che muoiono e scompaiono per mano della indifferente violenza sistemica di un regime politico mortifero che vigila e reprime le persone migranti alle frontiere interne ed esternalizzate.

      Anche quest’anno la Marcha, partita dalla sede della Delegazione del Governo di Ceuta, ha raggiunto la spiaggia del Tarajal, dove la commemorazione diviene strumento di lotta non solo per ricordare il Tarajal ma per parlare di tutte le ennesime stragi che si ripetono. Quanto accaduto nel 2014 non è qualcosa di aneddotico ma rigorosamente sistematico, lo abbiamo visto a Melilla, a Nador, ad Ouija, in Tunisia, in Sicilia, a Cutro. Tante, troppe e ininterrotte stragi, in altrettante date del calendario, si verificano nel silenzio politico di turno.

      Ma la lotta per la Memoria viva è un riscatto mediterraneo che unisce la rabbia per trasformare il dolore in un grido collettivo per ogni Memoria negata e inabissata che vive attraverso chi può raccontare, dalle lotte familiari e collettive.

      A dieci anni dalla strage di Ceuta, per tutte le stragi invisibili di cui non si racconta, per ogni persona coinvolta in un massacro rimosso, continuiamo a tessere un’unica Memoria Mediterranea, quella praticata tutti i giorni come strumento di denuncia e di ricerca di giustizia, custode di dignità e resistenza.

      Non lasceremo il Mediterraneo agli abissi, ce ne impossessiamo senza timore per combattere dove si combatte, per elevare la voce dove si protesta, per piantare dove si cerca di seppellire.

      Tarajal, no olvidamos!

      https://memoriamediterranea.org/ceuta-di-tutte-le-stragi-una-memoria-mediterranea
      #mémoire_méditerranéenne

  • Ce que ça coûte de s’exprimer sur Israël-Palestine

    Personne ne devrait avoir à craindre de prendre la parole dans le champ médiatique, y compris pour exprimer des critiques à l’encontre de la politique israélienne. Pourtant chercheurs, journalistes ou responsables politiques préfèrent souvent ignorer le sujet, ou nuancer leur propos, plutôt que d’être la cible de la fachosphère et de ses relais institutionnels.

    Après mon récent passage sur France 5, dans l’émission « C ce soir », j’ai reçu beaucoup de messages de soutien, mais aussi quelques critiques et insultes. Rien de nouveau et tout cela aurait dû, comme à l’habitude, en rester là. Mais Florence Bergeaud-Blackler, dont les écrits lui ont valu le titre de « prophète » par Valeurs actuelles, a décidé de me prendre pour cible sur plusieurs tweets. En utilisant son statut de fonctionnaire au CNRS, elle multiplie les invectives et procès d’intention sur les réseaux sociaux, qui relèvent toujours davantage d’attaques personnelles que de critiques de fond. Dans mon cas, elle accuse France Télévisions de donner le micro à un « militant », un terme qui vise à disqualifier n’importe quel chercheur qui expose des analyses opposées aux siennes.

    Il n’en fallait pas plus, le soir-même, à Pascal Praud pour décider de diffuser un extrait de mon passage à France 5 dans son émission sur CNews, « L’heure des pros 2 », au plus fort de l’audience. Au programme : lecture des tweets de leur égérie et donner la parole à ses « chroniqueurs » pendant cinq minutes pour enfoncer le clou. Évidemment, les inconditionnels du soutien à Israël s’en sont donnés à cœur joie : dans l’objectif évident de me décrédibiliser, ils s’en prennent essentiellement à mon parcours, préférant partir sur le terrain personnel au détriment du fond. La rédaction de CNews avait pourtant jugé bon, à deux reprises en 2023, de me proposer d’intervenir sur leur plateau, ce que j’ai toujours refusé.

    Peu importe les fantasmes de ces gens, le statut de « chercheur indépendant », c’est-à-dire d’activités de recherche effectuées en dehors d’un cadre universitaire, est le seul au nom duquel je peux m’exprimer dans les médias. Il n’y a aucune usurpation, et si c’était le cas, mes propres contradicteurs sur les plateaux n’hésiteraient pas à me le rappeler. Du reste, je refuse de me soumettre aux injonctions à justifier mon parcours ou ma légitimité. Analyses d’archives, études de terrain et de données statistiques, entretiens et suivi d’acteurs de premier plan : mes écrits et travaux parlent pour moi, et j’attends de celles et ceux qui ne les partagent pas qu’on en débatte. Il ne devrait être question que de cela.

    Désigner une cible, l’harceler d’insultes et de menaces, faire taire en terrorisant : voici les méthodes de l’extrême droite islamophobe et des inconditionnels d’Israël, les deux ayant largement convergé sous Netanyahou. Naturellement, tout cela ne peut pas être déconnecté d’un climat plus global de censure et de restriction de toute parole critique de la politique de l’État d’Israël. Si j’en ai été cette semaine la cible, d’autres en ont fait l’expérience par le passé.

    C’est la principale raison qui m’a poussé à écrire cet article : mettre en lumière ces procédés, qui ne peuvent laisser indemne, et poussent nombre de chercheurs à s’autocensurer par peur d’être à leur tour victimes d’attaques personnelles. L’enjeu est donc profondément démocratique : en laissant de telles pratiques prospérer, la société risque à terme de plus en plus se priver des analyses et regards d’experts ou d’intellectuels reconnus, capables de proposer des clés de compréhension à des problématiques sensibles et de premier ordre.

    https://blogs.mediapart.fr/thomasvescovi/blog/280124/ce-que-ca-coute-de-s-exprimer-sur-israel-palestine

    #médias #libertés_académiques #fachosphère #réseaux_sociaux #attaques #militantisme #disqualification #recherche #Pascal_Praud #CNews #décrédibilisation #insultes #menaces #extrême_droite #censure #cible #autocensure #auto-censure
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    voir aussi ce fil de discussion initié par @rumor :
    https://seenthis.net/messages/1038855

  • Le #Mali, le #Niger et le #Burkina_Faso quittent la #Cédéao « sans délai »

    Le Burkina Faso, le Mali et le Niger, trois pays dirigés par des régimes militaires, ont annoncé dimanche qu’ils quittaient la #Communauté_économique_des_Etats_d'Afrique_de_l'Ouest (Cédéao) avec effet immédiat. L’annonce a été faite via un communiqué lu à la télévision nigérienne.

    Les régimes militaires au pouvoir au Burkina Faso, au Mali et au Niger ont décidé de retirer leur pays, avec effet immédiat, de la Communauté économique des États de l’Afrique de l’Ouest (Cédéao), organisation sous-régionale de 15 membres, ont-ils annoncé dimanche 28 janvier dans un communiqué conjoint.

    Les dirigeants respectifs des trois États sahéliens, « prenant toutes leurs responsabilités devant l’histoire et répondant aux attentes, préoccupations et aspirations de leurs populations, décident en toute souveraineté du retrait sans délai du Burkina Faso, du Mali et du Niger de la Communauté économique des États d’Afrique de l’ouest », dit le communiqué lu sur les médias d’État de ces pays.

    Les trois pays, confrontés à des problématiques similaires d’insécurité, de jihadisme et de pauvreté, ont des relations tendues avec la Cédéao depuis que des militaires y ont pris le pouvoir par la force, en 2020 au Mali, en 2022 au Burkina Faso et en 2023 au Niger.

    La Cédéao essaie d’endiguer les coups de force et de pousser au retour le plus vite possible des civils au pouvoir. Elle a pris de lourdes sanctions contre le Mali et le Niger et est allée jusqu’à menacer de recourir à la force dans ce dernier pays. Elle a suspendu les trois pays de ses organes.

    https://www.france24.com/fr/info-en-continu/20240128-%F0%9F%94%B4-le-mali-le-niger-et-le-burkina-faso-quittent-la-c%C3
    #fin #Afrique_de_l'Ouest #coup_d'Etat