• II. – La Mutualité - Caractère de la mutualité
    https://www.partage-noir.fr/ii-la-mutualite-caractere-de-la-mutualite

    La mutualité, au cours de son histoire tantôt combattue tantôt adulée, parfois en même temps et quelle que soit la forme du pouvoir en place, représente de nos jours une importante partie du secteur de l’économie dite sociale qui englobe outre la mutualité : le crédit mutuel, les coopératives, les associations à buts non lucratifs (loi de 1901, comités d’entreprise, syndicats, etc.), la mutualité agricole, les assurances à carac­tère mutualiste... Les principes communs à toutes les composantes de l’économie sociale, ce sont, tels qu’ils sont définis par Thierry Jeantet et Roger Verdier dans leur livre l’Économie sociale : #22_-_Le_mouvement_mutualiste_-_André_Devriendt
    #mutualité
    / #Pierre_Kropotkine, Volonté (...)

    #Volonté_Anarchiste

  • Les ministères sommés de « remplacer » leurs messageries instantanées par l’application française Olvid
    https://www.lemonde.fr/pixels/article/2023/11/29/les-ministeres-sommes-de-remplacer-leurs-messageries-instantanees-par-l-appl

    Matignon a demandé aux membres du gouvernement et des cabinets ministériels d’installer l’application française Olvid sur leurs téléphones et ordinateurs « en remplacement des autres messageries instantanées afin de renforcer la sécurité des échanges », ont rapporté les services de la première ministre, Elisabeth Borne.
    La consigne, formulée dans une circulaire révélée par l’hebdomadaire Le Point, note que « les principales applications de #messagerie_instantanée grand public » (WhatsApp, #Telegram, #Signal) « occupent une place grandissante dans nos communications », mais « ne sont pas dénuées de failles de sécurité ».
    Elisabeth Borne préconise ainsi le déploiement « pour le 8 décembre 2023 au plus tard » de l’application #Olvid « en remplacement de toute autre messagerie instantanée déployée hors d’une maîtrise publique ». « L’intégration de cette solution constitue non seulement une prise de conscience en matière de cybersécurité, mais aussi une avancée vers une plus grande souveraineté française », ajoute-t-elle.
    Seule messagerie instantanée certifiée par l’Anssi
    Créée en 2019 par deux experts français en cybersécurité, Olvid se targue d’être « l’app de messagerie instantanée la plus sécurisée au monde ». Son innovation : la suppression de l#annuaire_centralisé d’utilisateurs, censée permettre une sécurisation maximale des conversations. Les messages sont chiffrés de bout en bout, une pratique désormais courante dans l’industrie, mais sur Olvid, leurs #métadonnées (qui parle à qui et à quel moment) le sont également.
    Disponible gratuitement sur Android, iPhone et sur ordinateur, l’application ne nécessite pas de numéro de téléphone pour fonctionner. Pour le grand public, l’ajout d’un nouveau contact se fait en scannant un QR code. Des options payantes sont disponibles pour passer des appels audios, utiliser plusieurs appareils ou faciliter l’utilisation en entreprise.
    L’application est depuis septembre 2020 la seule messagerie instantanée certifiée par l’Agence nationale de la sécurité des systèmes d’information (#Anssi). Comme les données ne sont pas conservées sur le serveur central, celui-ci ne nécessite pas d’offrir une sécurisation particulière pour les donnés dites sensibles, précise la circulaire.
    Pour les experts en sécurité, l’utilisation encore limitée d’Olvid ne permet pas de prouver sa fiabilité lors d’un passage à l’échelle.

    conseiller des messageries sécurisées et criminaliser leurs usagers, c’est contradictoire non ? une appli avec backdoor à la française ?

  • Des enregistrements en 2015 (8)

    Des disques et des musiques récentes. Prendre le temps de s’arrêter, d’écouter des albums. S’éloigner des critères privilégiés par des commerçants, rarement disquaires, ou des productions des majors…
    De multiples éditeurs nous permettent d’écouter des musiques et non de la programmation « profitable ». Quelques disques enregistrés, ici en 2015, au hasard des écoutes.

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2023/11/29/des-enregistrements-en-2015-8

    #musique #jazz

  • Serco, quando la detenzione diventa un business mondiale

    Da decenni l’azienda è partner dei governi per l’esternalizzazione dei servizi pubblici in settori come sanità, difesa, trasporti, ma soprattutto nelle strutture detentive per le persone migranti. Nel 2022 ha acquisito Ors con l’idea di esportare il suo modello anche in Italia

    «Ho l’orribile abitudine di camminare verso gli spari». Si descrive così al Guardian il manager Rupert Soames. Nipote dell’ex primo ministro del Regno Unito Winston Churchill, figlio di Christopher, ambasciatore in Francia e ultimo governatore della Rhodesia – odierno Zimbabwe – e fratello dell’ex ministro della difesa conservatore Nicholas, Rupert Soames per anni è stato il numero uno della multinazionale britannica Serco, quella che il quotidiano britannico chiama «la più grande società di cui non avete mai sentito parlare».

    Serco (Service Company) è un’azienda business to government (B2G), specializzata in cinque settori: difesa, giustizia e immigrazione, trasporti, salute e servizi al cittadino. Opera in cinque continenti e tra i suoi valori principali dichiara: fiducia, cura, innovazione e orgoglio. Dai primi anni Novanta, è cresciuta prendendo in carico servizi esternalizzati dallo Stato a compagnie terze e aggiudicandosi in pochi anni un primato sulla gestione degli appalti privati. Sono arrivati poi indagini dell’antitrust inglese, accuse di frode in appalti pubblici e conseguenti anni di crisi dovuti alla perdita di diverse commesse, fino a quando il nipote di Churchill non è diventato Ceo di Serco, nel 2014. Da allora la società ha costruito un impero miliardario fornendo servizi molto diversi tra loro: dai semafori di Londra, al controllo del traffico aereo a Baghdad. La gestione dei centri di detenzione per persone migranti è di gran lunga il principale business di Serco nelle due macroaree “Europa e Regno Unito” e “Asia e Pacifico”. Ad oggi Serco ha all’attivo più di 500 contratti e impiega più di 50 mila persone in tutto il mondo. Nel 2022 ha totalizzato 4,7 miliardi di sterline in ricavi, un regalo ai suoi azionisti, tra cui i fondi d’investimento BlackRock e JP Morgan.

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    L’inchiesta in breve

    Serco (Service Company) è una multinazionale britannica che fornisce diversi servizi ai governi, soprattutto nei settori della difesa, sanità, giustizia, trasporti e immigrazione, dalla gestione dei semafori di Londra fino al traffico aereo di Baghdad
    Oggi la società ha all’attivo più di 500 contratti e impiega oltre 50 mila persone in tutto il mondo. Nel 2022 ha totalizzato 4,7 miliardi di sterline in ricavi e tra i suoi azionisti ci sono fondi d’investimento come BlackRock e JP Morgan
    Il suo Ceo fino a dicembre 2022 era Rupert Soames, nipote di Winston Churchill, che ha risollevato la società dopo un periodo di crisi economica legato ad alcuni scandali, come i presunti abusi sessuali nel centro di detenzione per donne migranti Yarl’s Wood, a Milton Ernest, nel Regno Unito
    Nelle macroregioni “Europa e Gran Bretagna” e “Asia e Pacifico” il settore dove l’azienda è più presente è l’immigrazione. Su dieci centri per l’espulsione presenti nel Regno Unito, Serco oggi ne gestisce quattro
    In Australia, la multinazionale gestisce tutti i sette centri di detenzione per persone migranti attualmente attivi ed è stata criticata più volte per la violenza dei suoi agenti di sicurezza, soprattutto nella struttura di Christmas Island
    L’obiettivo di Serco è esportare questo modello anche nel resto d’Europa. Per questo, a settembre 2022 ha acquisito la multinazionale svizzera Ors, entrando nel mercato della detenzione amministrativa anche in Italia, dove la sua filiale offre servizi nel settore spaziale

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    In otto anni, Soames ha portato il fatturato della società da circa 3,5 miliardi nel 2015 a 4,5 miliardi nel 2022, permettendo così all’azienda di uscire da una fase di crisi dovuta a vari scandali nel Regno Unito. Secondo il Guardian, dal 2015 al 2021 ha ricevuto uno stipendio di 23,5 milioni di sterline. «Sono molto ben pagato», ha ammesso in un’intervista. Ha lasciato l’incarico nel settembre 2022 sostenendo che fosse arrivato il momento di «esternalizzare» se stesso e andare in pensione. Ma a settembre 2023 è stato nominato presidente di Smith & Nephew, azienda che produce apparecchiature mediche. Al suo posto è arrivato Mark Irwin, ex capo della divisione Regno Unito ed Europa e di quella Asia Pacific di Serco.

    Poco prima di lasciare l’incarico, Soames ha acquisito la multinazionale svizzera Ors, leader nel settore dell’immigrazione in Europa. L’operazione vale 39 milioni di sterline, a cui Serco aggiunge 6,7 milioni di sterline per saldare il debito bancario accumulato da Ors. L’acquisizione, per Serco, avrebbe consentito «di collaborare e supportare i clienti governativi in tutta Europa, che hanno un bisogno continuo e crescente di servizi di assistenza all’immigrazione e ai richiedenti asilo». Con Ors, società appena giunta anche nel sistema di gestione dei centri di detenzione in Italia, Serco vuole «rafforzare la nostra attività europea, raddoppiandone all’incirca le dimensioni e aumentando la gamma di servizi offerti».

    In Europa i centri di detenzione per migranti sono infatti in aumento, soprattutto in Italia, dove, scrive in un report l’Agenzia dell’Unione europea per l’asilo (Euaa), i milioni previsti per queste strutture sono 5,5 nel 2023, 14,4 per il 2024 e 16,2 nel 2025. Degli scandali di Ors, abbiamo scritto in una precedente puntata: «Non accettiamo le accuse di “cattiva gestione” dei servizi offerti da Ors – scrive Serco via mail a IrpiMedia, rispondendo alla richiesta di commento per questa inchiesta -. I casi spesso ripetuti dai media e citati dalle ong risalgono a molto tempo fa e sono stati smentiti più volte». Serco tuttavia riconosce che «in un’azienda con più di 2.500 dipendenti, che opera in un settore così delicato come quello dell’immigrazione, di tanto in tanto si commettono degli errori. È importante riconoscerli rapidamente e correggerli immediatamente». A giudicare dalle inchieste giornalistiche e di commissioni parlamentari nel Regno Unito e in Australia, Paese dove gestisce tutte le strutture detentive per migranti, non è però quello che ha fatto Serco negli anni.

    Yarl’s Wood e le prime accuse di violenze sessuali

    Serco nel 2007 vince l’appalto dell’Home Office, il ministero dell’Interno britannico, per la gestione del centro di espulsione Yarl’s Wood, a Milton Ernest, della capienza di circa 400 persone, fino al 2020 in maggioranza donne. Nel 2013, le detenute iniziano a denunciare il personale per abusi e violenze sessuali. Continui sguardi da parte dello staff, che entrava nelle stanze e nei bagni durante la notte, rapporti non consensuali, palpeggiamenti e ricatti sessuali in cambio di aiuto nelle procedure per i documenti o della libertà, tentativi di rimpatrio delle testimoni, sono alcune delle segnalazioni delle donne del centro, raccolte in alcune inchieste del The Observer. Secondo l’ong Women for Refugee Women molte delle donne rinchiuse nel centro avevano già subito violenze e dovevano essere considerate soggetti vulnerabili.

    Alla richiesta di replica del giornale, la società aveva negato l’esistenza di «un problema diffuso o endemico» a Yarl’s Wood, o che fosse «in qualche modo tollerato o trascurato». «Ci impegniamo a occuparci delle persone nei centri di espulsione per immigrati con dignità e rispetto, in un periodo estremamente difficile della loro vita», ha detto l’azienda a IrpiMedia, riferendo che «ogni volta che vengono sollevate accuse vengono svolte indagini approfondite» (nel caso di Yarl’s Wood condotte dall’ispettorato per le carceri tra il 2016 e il 2017) e che «dal 2012 a Yarl’s Wood non ci sono state accuse di abusi sessuali». Nonostante le denunce, il licenziamento di alcuni dipendenti per condotte inappropriate, la morte sospetta di una donna, i numerosi casi di autolesionismo e i tentativi di suicidio, nel 2014 l’Home Office ha nuovamente aggiudicato l’appalto, del valore di 70 milioni di sterline e della durata di otto anni, a Serco.
    Il mondo avrà ancora bisogno di carceri

    «Il mondo – scriveva Soames nel report annuale del 2015, appena arrivato in Serco – avrà ancora bisogno di prigioni, di gestire l’immigrazione, di fornire sanità e trasporti». Il Ceo dispensava ottimismo nonostante gli scandali che avevano appena travolto la società. Ha avuto ragione: gli appalti si sono moltiplicati.

    Oltre la riconferma della gestione di Yarl’s Wood, nel 2020 Serco si è aggiudicata per 277 milioni di sterline il centro di detenzione Brook House, vicino all’aeroporto di Gatwick, e nel 2023 il centro di Derwentside con un contratto della durata di nove anni, rinnovabile di un anno, del valore di 70 milioni di sterline. Su dieci centri per l’espulsione presenti nel Regno Unito, dove la detenzione amministrativa non ha limiti temporali, Serco oggi ne gestisce quattro.
    Derwentside ha preso il posto di Yarl’s Wood come unico centro detentivo per donne senza documenti nel Regno Unito: con 84 posti, il centro si trova in un luogo isolato nel nord dell’Inghileterra, senza servizi, trasporti e con una scarsa connessione per il telefono. «Le donne vengono tagliate fuori dalle famiglie e dalle comunità, ci sono davvero poche visite da parte dei parenti», spiega a IrpiMedia Helen Groom, presidentessa della campagna che vuole l’abolizione del centro. Ma qualcosa sta per cambiare, dice: «All’inizio dell’anno prossimo dovrebbe diventare un centro di detenzione per uomini, e non più per donne. Probabilmente perché negli ultimi due anni sono stati occupati solo la metà dei posti». Il 18 novembre i movimenti solidali e antirazzisti britannici hanno organizzato una manifestazione per chiedere la chiusura del centro.

    https://twitter.com/No2Hassockfield/status/1727643160103301129

    Brook House è invece stato indagato da una commissione di esperti indipendenti costituita su richiesta dell’allora Home Secretary (ministra dell’Interno) Preti Patel a novembre 2019. Lo scopo era approfondire i casi di tortura denunciati da BBC Panorama, avvenuti tra il primo aprile e il 31 agosto 2017, quando a gestire la struttura era la multinazionale della sicurezza anglo-danese G4S. I risultati del lavoro della commissione sono stati resi pubblici sia con una serie di audizioni sia con un report del settembre 2023. Qui si legge che Brook House è un ambiente che non riesce a soddisfare i bisogni delle persone con problemi psichici, molto affollato, simile a un carcere. Si parla di un «cultura tossica» che crea un ambiente malsano dove esistono «prove credibili» di abusi sui diritti umani dei trattenuti. Accuse che non riguardano Serco, ma per la commissione d’inchiesta che monitora il centro ci sono «prove che suggeriscono che molti dei problemi presenti durante il periodo di riferimento persistono nella gestione di Brook House da parte di Serco».

    Secondo la commissione alcuni dipendenti che lavoravano nella gestione precedente ricoprono ora ruoli di grado più elevato: «[C]iò mette inevitabilmente in dubbio il grado di integrazione dei cambiamenti culturali descritti da Serco». I dati della società mostrano un aumento nell’uso della forza per prevenire l’autolesionismo, continua la presidente della commissione, e «mi preoccupa che si permetta l’uso della forza da parte di agenti non formati». Dall’inizio della gestione, «abbiamo apportato miglioramenti significativi alla gestione e alla cultura del centro», ha replicato Serco a IrpiMedia.

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    I principali appalti di Serco nel mondo

    Serco lavora con i ministeri della Difesa anche negli Stati Uniti e in Australia. La collaborazione con la marina americana è stata potenziata con un nuovo contratto da 200 milioni di dollari per potenziarne l’infrastruttura tecnologica anti-terrorismo. In Australia fornisce equipaggi commerciali per la gestione di navi di supporto della Marina a sostegno della Royal Australian Navy. Ha inoltre collaborato alla progettazione, costruzione, funzionamento e manutenzione della nave australiana RSV Nuyine, che si occupa della ricerca e dell’esplorazione in Antartide. Dal 2006 supporta i sistemi d’arma a corto raggio Typhoon, Mini Typhoon e Toplite e fornisce formazione accreditata alla Royal Australian Navy. Infine offre supporto logistico e diversi servizi non bellici all’esercito australiano in Medio Oriente, grazie a un contratto da 107 milioni di dollari che inizierà nel 2024.

    Serco negli Usa e Australia lavora anche nel settore sanitario. Negli Stati Uniti, la società si è aggiudicata un contratto da 690 milioni di dollari con il Dipartimento della Salute, portando avanti anche in questo caso una collaborazione che va avanti dal 2013, quando gestiva per 1,2 miliardi di dollari l’anno il sistema di assistenza sanitaria noto come Obamacare. In Australia Serco gestisce 21 servizi non sanitari del Fiona Stanley Hospital, un ospedale pubblico digitale, come il desk, l’infrastruttura di rete, i computer, l’accoglienza, il trasporto dei pazienti, le risorse umane, grazie a un contratto da 730 milioni di dollari australiani (435 milioni di euro) rinnovato nel 2021 per sei anni. Nel 2015, l’azienda era stata multata per un milione di dollari australiani (600 mila euro) per non aver raggiunto alcuni obiettivi, soprattutto nella pulizia e nella logistica.

    C’è poi il Medio Oriente, dove Serco lavora dal 1947. Impiega più di 4.500 persone in quattro Paesi: gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita, il Qatar e l’Iraq. Qui, Serco opera in diversi settori, tra cui i servizi antincendio e di soccorso, i servizi aeroportuali, il settore dei trasporti e il sistema ferroviario. In Arabia Saudita gestisce da tempo 11 ospedali, ma la società sta già individuando nuove opportunità nelle smart cities e nei giga-progetti del Regno Saudita. È del 10 maggio 2023 la notizia che Serco agirà come amministratore dei servizi di mobilità sostenibile nella nuova destinazione turistica visionaria del Regno, il Mar Rosso. La crescita di progetti sauditi porterà questo Paese a rappresentare oltre il 50% dei ricavi di Serco in Medio Oriente entro il 2026.

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    Australia, il limbo dei detenuti 501

    L’Australia è un Paese famoso per la sua tolleranza zero verso la migrazione irregolare. Questo però non ha impedito al sistema detentivo per migranti di crescere: un’interrogazione parlamentare del 2020 rivela che la detenzione dei richiedenti asilo costa ancora poco più di due miliardi e mezzo di dollari australiani, 1,2 miliardi di euro. Tra chi può finire in carcere, dalla riforma del Migration Act del 2014, ci sono anche i cosiddetti detenuti 501, persone a cui è stato revocato il permesso di soggiorno per una serie di motivazioni, come condanne a oltre dodici mesi, sospetta associazione con un gruppo coinvolto in crimini di rilevanza internazionale o reati sessuali su minori.

    «Potrebbero anche non aver commesso alcun crimine, ma si ritiene che abbiano problemi di carattere o frequentino persone losche», spiega l’avvocata Filipa Payne, fondatrice di Route 501, organizzazione che ha seguito i casi di molti “501”. Chi rientra in questa casistica si ritrova quindi a dover scontare una doppia reclusione: dopo il carcere finisce all’interno di un centro di detenzione, dove sono rinchiusi anche i richiedenti asilo, in attesa di ottenere una risposta definitiva sul visto. Queste persone, che oggi rappresentano circa l’80% dei trattenuti, spesso vivono in Australia da diversi anni, ma non hanno mai richiesto o ottenuto la cittadinanza.

    «È molto peggio della prigione perché almeno lì sai quando uscirai – racconta dal Melbourne Immigration Detention Centre James, nome di fantasia, un ragazzo di origine europea che vive in Australia da oltre 30 anni -. È tutto molto stressante e deprimente, passo la maggior parte del tempo nella mia stanza». Dopo aver passato poco più di un anno in carcere per furto, sta scontando una seconda reclusione nei centri gestiti da Serco come detenuto 501 perché, come i richiedenti asilo, non ha in mano un permesso di soggiorno per restare in Australia. Da quando è uscito dal carcere, James ha vissuto in quattro diversi centri di detenzione gestiti da Serco, dove si trova rinchiuso da quasi dieci anni. Fino a una storica sentenza della Corte Suprema australiana dell’8 novembre 2023, la detenzione indefinita non era illegale e ad oggi, secondo i dati del Refugee Council of Australia, i tempi di detenzione in media sono di oltre 700 giorni, quasi due anni.

    Chi come James si trova incastrato nel sistema, può solo sperare di ottenere un documento per soggiornare in Australia, che può essere concesso in ultima istanza dal ministero dell’Immigrazione. Altrimenti «non ci sarà altra soluzione per me che quella di tornare al mio Paese d’origine. Non parlo la lingua, tutta la mia famiglia è qui, la mia vita sarebbe semplicemente finita. Sarebbe molto difficile per me, forse non vorrei più vivere», dice James.

    https://www.youtube.com/watch?v=EN8mAkEBMgU&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Firpimedia.irpi.eu%2

    Christmas Island, «un posto orribile»

    Serco arriva in Australia nel 1989 e dopo vent’anni vince un contratto di cinque anni, rinnovato nel 2014, da 279 milioni di dollari australiani (169 milioni di euro) per la gestione di tutte le strutture di detenzione per migranti dell’Australia continentale e quella di Christmas Island, un’isola più vicina all’Indonesia che all’Australia, funzionale al trattamento delle richieste d’asilo fuori dal continente, in un territorio isolato. «È un posto orribile, dove ho visto molta violenza. Ho visto persone tagliarsi con le lamette, impiccarsi, rifiutarsi di mangiare per una settimana», ricorda James, che è passato anche da Christmas Island. Lo scorso 1 ottobre, la struttura è stata chiusa per la seconda volta dopo le raccomandazioni del Comitato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, ma potrebbe nuovamente essere riaperta.

    Tra il 2011 e il 2015, l’epoca di maggiore utilizzo del centro, ci sono state diverse proteste, rivolte, scioperi della fame. Tra il 2014 e il 2015, 128 minori detenuti hanno compiuto atti di autolesionismo, 105 bambini sono stati valutati da un programma di sostegno psicologico “ad alto rischio imminente” o “a rischio moderato” di suicidio. Dieci di loro avevano meno di 10 anni.

    Dopo una visita effettuata nel 2016, alcuni attivisti dell’Asylum Seeker Resource Centre hanno segnalato la mancanza di un’adeguata assistenza sanitaria mentale e una pesante somministrazione di psicofarmaci, che aiutano anche a sopportare l’estremo isolamento vissuto dai trattenuti. Anche James rientra in questa categoria: «Ho iniziato a prendere il mio farmaco circa sette anni fa. Mi aiuta con l’ansia e la depressione ed è molto importante per me».

    https://www.youtube.com/watch?v=uvLLcBSpigg

    Come si gestisce la sicurezza nei centri

    Marzo 2022: l’emittente neozelandese Maori Television mostra video di detenuti di un centro di Serco contusi e sanguinanti legati con una cerniera ai mobili di una sala da pranzo. «Se quelle guardie avessero fatto quello che hanno fatto ai detenuti fuori dal centro di detenzione, sarebbe stato considerato un crimine. Ma poiché si tratta di sicurezza nazionale, è considerato appropriato. E questo non va bene», spiega l’avvocata di migranti e detenuti “501” Filipa Payne a IrpiMedia. “Quelle guardie” sono agenti di sicurezza scelti da Serco su mandato dell’Australian Border Force.

    Anche gli addetti alla sicurezza, in Australia, sono gestiti dal privato e non dalle forze dell’ordine nazionali. Serco precisa che prima di iniziare a operare, seguono un corso di nove settimane che comprende «gestione dei detenuti, consapevolezza culturale, supporto psicologico, tecniche di allentamento dell’escalation, controllo e contenzione». Al team si aggiunge una squadra di risposta alle emergenze, l’Emergency Response Team (ERT), che agisce nei casi più complessi. Sono «agenti appositamente addestrati a gestire le situazioni il più rapidamente possibile per evitare l’escalation degli incidenti», afferma la società via mail. Secondo gli attivisti userebbero delle pratiche discutibili: «Le braccia vengono sollevate dietro la schiena, la persona viene gettata a terra, messa in ginocchio e ammanettata da dietro da diversi membri del personale».

    I Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) in Australia e in Italia, un confronto

    Dal 2018 a marzo 2023 sono stati registrati quasi 800 episodi di autolesionismo, secondo Serco usati come «arma di negoziazione» nei vari centri gestiti dalla società, e 19 morti. Sarwan Aljhelie, un rifugiato iracheno di 22 anni, è deceduto al suo quarto tentativo di suicidio riaprendo il tema della sorveglianza e del supporto mentale alle persone trattenute. Circa tre settimane prima era stato trasferito senza preavviso dal centro di Villawood a quello di Yongah Hill, nei pressi di Perth, a più di tremila chilometri di distanza dalla sua famiglia e dai suoi tre figli. Mohammad Nasim Najafi, un rifugiato afghano, avrebbe invece lamentato problemi cardiaci per due settimane, secondo alcuni suoi compagni, prima di morire per un sospetto infarto.

    In Australia, Serco continua comunque a gestire tutti i sette centri di detenzione attivi e, nonostante il calo del fatturato del 5% – da 540 a 515 milioni di euro – segnalato nel rapporto di metà anno, la compagnia ha annunciato di essere «lieta di aver prorogato il contratto per la gestione delle strutture di detenzione per l’immigrazione e i servizi per i detenuti fino al dicembre 2024». «Siamo fortemente impegnati a garantire un ambiente sicuro e protetto per i detenuti, i dipendenti e i visitatori. I nostri dipendenti si impegnano a fondo per garantire questo obiettivo, spesso in circostanze difficili», scrive la società.

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    La storia di Joey

    Joey Tangaloa Taualii è arrivato in Australia dall’isola di Tonga nel 1975 con i suoi genitori. Oggi ha 49 anni, 12 figli e 5 nipoti, ma è rinchiuso dall’inizio del 2021 nel Melbourne Immigration Detention Centre (MIDC), uno dei sette centri di detenzione per persone migranti gestiti da Serco in Australia. Il suo profilo rientra nella categoria dei detenuti 501, come James.

    La riforma è arrivata quando Joey era appena entrato in carcere dopo una condanna a otto anni per aver aggredito, secondo quanto racconta, un membro di una banda di motociclisti nel 2009. Nonostante viva in Australia da 48 anni, non ha mai ottenuto la cittadinanza, credendo erroneamente che il suo visto permanente avesse lo stesso valore. Ora è in attesa di sapere se potrà tornare dalla sua famiglia ma non ha garanzie su quanto tempo potrà passare recluso.

    «È un posto costruito per distruggerti», dice. Dopo quasi tre anni nel MIDC è diventato difficile anche trovare un modo per passare il tempo. Le attività sono così scarne da sembrare concepite per «bambini» e non c’è «nulla di strutturato, che ti aiuti a stimolare la mente», racconta. Joey preferisce restare la maggior parte del tempo all’interno della sua stanza ed evitare qualsiasi situazione che possa essere usata contro di lui per influenzare il riottenimento del visto. «Ci sono persone deportate in altri continenti, che non hanno famiglia, e allora scelgono di tentare il suicidio», afferma, pensando alla possibilità di essere rimpatriato a Tonga. Parla dalla sua stanza con l’occhio sinistro bendato. La sua parziale cecità richiederebbe un intervento, che sostiene di stare aspettando da due anni.

    L’ultima speranza risiede nella bontà del governo, di solito più aperto verso le persone che vivono in Australia da diversi anni. Per quello, però, ci sarà da aspettare e non si sa per quanto tempo ancora: «Ho frequentato l’asilo, le scuole elementari e le scuole superiori in Australia, i miei genitori sono stati nella stessa casa per 45 anni a Ringwood, dove siamo cresciuti giocando a calcio e a cricket e abbiamo pagato le tasse. Questo è il motivo per cui i 501 si sono suicidati e sono stati deportati. Le nostre lacrime e le nostre preghiere non cadranno nel vuoto».
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    https://irpimedia.irpi.eu/cprspa-serco-ors-multiservizi-globale
    #Serco #ORS #asile #migrations #réfugiés #rétention #détention_administrative #business #privatisation #Italie #Rupert_Soames #Yarl’s_Wood #Australie #Christmas_island #UK #Angleterre #Brook_House #Derwentside

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    ajouté au fil de discussion sur la présence d’ORS en Italie :
    https://seenthis.net/messages/884112

    lui-même ajouté à la métaliste autour de #ORS, une #multinationale #suisse spécialisée dans l’ « #accueil » de demandeurs d’asile et #réfugiés :
    https://seenthis.net/messages/802341

  • I. – La Mutualité - Avant-propos
    https://www.partage-noir.fr/i-la-mutualite-avant-propos

    La mutualité, en France, possède cette particularité d’être une énorme organisation de masse : 23 millions de personnes « mutualisées », et d’être, en fait, peu connue. Bien sûr, tout le monde a une idée plus ou moins juste de ce qu’est une mutuelle ; en général, c’est l’image d’un organisme qui apporte un complément aux prestations versées par la Sécurité sociale et qui, parfois, gère un centre médical, un centre d’optique. Or si, effectivement, la complémentarité est actuellement un des principaux rôles de la mutualité, ses buts, son action vont bien au-delà de cette activité et iront grandissant dans le pays. 22 - Le mouvement mutualiste - André (...)

    #André_Devriendt #mutualité

  • [Radio #mukambo] Future Tradition
    https://www.radiopanik.org/emissions/radio-mukambo/future-tradition

    Album of the week: Fixed Error – Untold

    Album of the week: Sofaz – Mèt Ansamb

    Tracklist:

    Fixed Error – White Label Sofaz – Sawayé Sofaz – Konbyin Lwa Zetas – Funky Shit Insintesi feat. Valeria Quarta & Giulia Provenzano – Lu cantu dub Zetas – Didattica Amani Greene & Dogu feat. Bad Sparksy – Tebinsetula Sofaz – Koronika Fixed Error – Wax Lyrical Avit feat. Anabel Rose – Buruma Buruma DJ Farrapo feat. Federica Doniselli, Fabio Tricomi e Antonio Pizzarelli – Carpinese Didje Doo – Lu sole ca dda’ calà Fixed Error – Flute Fight Ancient Astronauts feat. Niina MC – Singa Onipa feat. Moonchild Sanelly – Danger Grissino feat. Iubal e Pitularita – (...)

    #latin #hiphop #podcast #afrobeat #world_music #groove #global_afrobeat #afrogrooves #latin,hiphop,podcast,mukambo,afrobeat,world_music,groove,global_afrobeat,afrogrooves
    https://www.radiopanik.org/media/sounds/radio-mukambo/future-tradition_16905__1.mp3

  • Cesária Évora en musique et en image
    https://www.radiofrance.fr/fip/podcasts/certains-l-aiment-fip/cesaria-evora-en-musique-et-en-image-3984095

    J’ai vu ce très beau documentaire sur Cesaria Evora en avant première il y a un ou deux mois, où l’on découvre (pour moi) aussi sa bipolarité, son alcoolisme, et en même temps sa liberté tenue tout le long de sa vie. Il sort cette semaine, foncez le voir !

    Cesaria Evora est née Amalia Rodrigues en 1941 dans la petite ville portuaire de Mindelo au Cap-Vert. Elle a sept ans lorsque son père Justino da Cruz Evora, qui joue du violoncelle pour nourrir sa famille, meurt, laissant sa mère, cuisinière pour les riches familles portugaises du Cap Vert, dans la pauvreté. Elevée ensuite par sa grand-mère puis à l’orphelinat où elle intègre une chorale, dès l’âge de 16 ans, elle chante dans des bars à marins et des soirées privées ? Ce n’est qu’en 1985 que son blues mélancolique déferle sur la planète. En 1988, elle découvre la France et enregistre son premier disque, La diva aux pieds nus ! sur le label de son manager et producteur José Da Silva. Après plus d’une vingtaine d’années de carrière et dix albums, Cesária Évora mourrait le 17 décembre 2011, sur son île natale, à l’âge de 70 ans.

    #musique #documentaire #Cesaria_Evora #morna #Cap_Vert #Ana_Sofia_Fonseca

  • Cost of clubbing crisis : When did Berlin parties get so expensive ?
    https://www.exberliner.com/music-clubs/cost-of-clubbing-crisis-when-did-berlin-parties-get-so-expensive

    A Berlin le tickets d’entrée des clubs augmentent radicalement. Les membres du club autogéré Mensch Meier ne gagnent plus assez pour participer aux parties de leur propre boîte. Les augmentations de frais post-covid provoquent un Klubsterben . Les boîtes qui survivront la crise seront marquées par l’exploitation de leurs employés et des prix faramineux.

    https://www.youtube.com/watch?v=u0rKW3kduy0&t=217s


    J’ai la nostalgie de l’époque quand les copains transformaient d’anciens bunkers et toilettes publiques souterraines en boîtes techno. La vie chère tue la culture partout.

    24.11.2023 by Dan Cole - Like pretty much everything in Berlin, clubbing is getting more expensive. We could just pass this off as a simple fact of life – prices rise, that’s the way it is, suck it up. With clubbing, the impact is deeper. Door entry hikes start to price out the very people who built up the club culture in the first place. Clubs in Berlin are rightly lauded for their sense of community and the way they provide space for those who live more on the margins. When these people become unable to attend the parties they’ve arguably contributed to the success of, then we can say clubbing is facing a crisis.

    For one weekend in September, Berghain increased its entry cost to €30, sparking outrage. It was only last year that the standard door price rose to €25. That’s in addition to the increase in prices for drinks and the cloak room. And it’s not just Berghain – the entry fees for many clubs have risen disproportionately to the average rise in wages throughout the city, with an average increase of 25% across all venues according to Tagesspiegel. Not so long ago, Berghain was a mere €15, and you wouldn’t pay more than €10 to get into Sisyphos.

    There is even a German word for it, Klubsterben, which translates as the death of clubs

    The factors for these price hikes are well reported. Minimum wages for staff have risen since the pandemic began, and the less said about energy costs the better. Rents are also increasing, and DJ fees are going through the roof. Add on other various expenses and you’ve got a very costly business to run.
    Photo: IMAGO / Emmanuele Contini

    The collective behind Mensch Meier recently announced they would be closing at the end of the year due to these rising costs. In an interview with Groove, a German online magazine for electronic music and club culture, Jenny P, the club’s public relations officer, stated that the Mensch Meier’s members and staff couldn’t even party at their own events, because they were too expensive. This was the last straw for the club and they decided to close.

    It’s yet another sad chapter in the slow demise of clubbing in Berlin. The phenomenon is so pervasive that there is even a German word for it, Klubsterben, which translates as the death of clubs. This year, Anita Berber closed for similar reasons to Mensch Meier, and Fiese Remise will meet its end in November. But what’s the solution? Are high entry fees really the only way to keep a club open? At its core, clubbing is, or at least was, about community and creating safe spaces. Increased prices create social inequality, excluding many of the people who benefit the most from these spaces.

    Not so long ago, Berghain was a mere €15, and you wouldn’t pay more than €10 to get into Sisyphos.

    To find a better answer to this problem, we have to return to our roots. Yes, clubs need state support, but beyond that we need to start looking closer to home. Booking more local DJs than expensive international names can reduce a club’s overhead. Some of our favourite clubs were built upon having a strong roster of local, in-house residents. Smaller clubs and club nights are able to throw great parties with just Berlin-based DJs, so why don’t the bigger clubs use the same approach?

    Some underground venues still manage to keep their door fees low. Oxi Berlin, for example, is operating on a donation-only basis for their in-house events, safe in the knowledge that having an affordable-for-all door price that brings in more regular clubbers is a better solution than having a higher ticket price but less people on the dancefloor. Community spirit is thin on the ground these days, and it’s better to club together than to push each other further apart

    #Berlin #loisirs #tourisme #musique #techno #culture

  • La musique d’Angola : Un incroyable répertoire
    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/la-serie-musicale/bonga-5221922

    La semba, ce genre musical politique, fusion de rythmes anciens, la kizomba, musique lascive évidemment poétique et presque nostalgique qui se danse, l’incontournable kuduro… L’Angola est l’un des pays dont l’histoire, terrible, n’a d’égal que la richesse de son incroyable répertoire musical.

    L’Angola a connu la terrible colonisation portugaise, la très difficile lutte pour l’indépendance et une guerre civile qui a duré jusqu’en 1991. Toutes les difficultés, les souffrances, le peuple angolais les a racontées, les a chantées et a tenté de les transcender justement par la #musique, même si bien des figures musicales dans cette playlist sont mortes à cause de leurs positionnements.

  • #Blanca_flor

    Allá va la blanca flor
    Con sus blancos algodones
    Dicen que tienes la fama
    De robar los corazones
    Y al pasar el río tropieza en la rama

    Se me ha caido el pañuelo
    Y se lo ha llevado el agua
    Y ahora ya no tengo pañuelo ni nada

    Dicen que tienes que tienes
    Que tienes más de mil reales
    Sí los tienes guardalos
    Tus ojos solos lo valen
    Y al pasar el río tropieza en la rama

    Se me ha caido…

    Dice tu madre que tiene
    Una reina para mí
    Anda e dile a tu madre
    Que la reina está en Madrid
    Y al pasar el río tropieza en la rama

    Se me ha caido…

    Y aqui va la despedida
    La despedida voy dando
    Que bonita despedida
    Que me despido cantando
    Y al pasar el río tropieza en la rama

    https://www.youtube.com/watch?v=cYEbMGjD-uc

    #chant_populaire #chanson #musique #musique_populaire #chants_populaires #Espagne

  • Pianos (6)

    Piano, deux pianos, piano à quatre mains, œuvres et transcriptions, thèmes et versions.
    Essayer de faire partager des émotions ressenties lors des (ré)écoutes. Touches blanches et noires, déambulations dans quelques œuvres et interprétations, en profane…
    Une invitation à écouter et partager ces versions ou d’autres que vous ne manquerez pas de signaler…

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2023/11/26/pianos-6

    #musique

  • « Il est faux et anachronique de considérer le Coran comme antisémite », Meir M. Bar-Asher

    Si le Coran contient des passages polémiques sur les juifs, d’autres donnent une vision plus positive des « enfants d’Israël ». Cette ambivalence rend impossible une lecture univoque du texte sacré de l’islam, explique l’islamologue de confession juive Meir M. Bar-Asher, dans un entretien au « Monde ».
    Propos recueillis par Raphaël Buisson-Rozensztrauch


    A l’intérieur de la mosquée Al-Aqsa, sur le complexe connu par les musulmans comme Al-Haram Al-Sharif et par les juifs comme le mont du Temple, dans la vieille ville de Jérusalem, en 2017. AMMAR AWAD / REUTERS

    « La lutte du Hamas contre Israël a un aspect national et un aspect religieux, ce dernier étant le plus substantiel », assure l’islamologue et philosophe Meir M. Bar-Asher. Le mouvement islamiste palestinien, comme d’autres à travers le monde, puise dans certains textes fondamentaux de l’#islam, à commencer par le #Coran, pour alimenter sa haine anti-Israël, voire antijuifs. Néanmoins, selon ce professeur en études islamiques à l’Université hébraïque de Jérusalem – auteur, entre autres, de Les Juifs dans le Coran (Albin Michel, 2019) –, si le livre sacré de l’islam contient effectivement de nombreux passages ambigus à l’égard des #juifs, il recèle aussi plusieurs clés pour les dépasser.

    Comment avez-vous vécu personnellement les attaques terroristes du Hamas le 7 octobre contre Israël ?

    Le 7 octobre 2023, lorsque les événements se sont produits, j’étais à Paris. J’ai suivi les nouvelles de là-bas, et suis retourné en #Israël quelques jours plus tard. Comme tout le monde dans le pays, j’ai été terriblement choqué par l’atrocité des crimes du Hamas et je dois avouer que, bien que leur idéologie me soit très connue, je n’imaginais pas leurs membres susceptibles de commettre ce genre d’actes.

    On observe, depuis les attentats du 7 octobre et le début de la riposte israélienne à Gaza, une recrudescence des actes antisémites dans le monde entier, en France notamment. Y a-t-il une dimension religieuse à ce conflit ?

    Oui, absolument. La lutte du Hamas contre Israël a un aspect national et un aspect religieux, ce dernier étant le plus substantiel. Le Hamas considère que personne d’autre que les #musulmans n’a le droit de dominer la #Terre_sainte (« al-ard al-muqaddasa »). La terre leur a été donnée à la fois par #Dieu et par l’acte de #conquête sur les chrétiens, c’est-à-dire l’Empire byzantin, au début du VIIe siècle, peu après la mort de Muhammad [Mahomet]. Par le fait même de sa conquête, la terre est devenue un waqf, c’est-à-dire un territoire sacré.

    Les juifs, qui y ont vécu dans un passé très lointain, à l’époque biblique et jusqu’à la destruction du second temple (en l’an 70 de l’ère chrétienne), ont perdu le droit d’y revenir puisqu’ils ont rompu, selon le Coran, l’alliance que Dieu avait conclue avec eux. Ils ne peuvent vivre dans le pays qu’en tant que minorité « protégée » sous la domination de l’islam.

    Que dit le Coran concernant la relation des juifs à la Judée antique ?

    Cette terre a été promise aux juifs, comme précise le Coran : « Ô mon peuple, entrez dans la Terre sainte que Dieu vous assigne » (sourate 5 [La Table], 21). Mais Dieu les a abandonnés à cause de leurs péchés et a élu les #Arabes à leur place : « Vous êtes [les musulmans] la meilleure #communauté qui ait jamais été donnée comme exemple aux hommes » (sourate 3 [la Famille d’Imran], 110).

    Pourquoi la place des juifs dans le Coran constitue-t-elle un sujet toujours brûlant, selon vous ?

    Tout d’abord parce que ce sujet traite de deux #religions, chacune portée par un peuple, qui existent toujours. Ces deux peuples que sont les Arabes et les Juifs se sont combattus à divers niveaux, dans plusieurs moments de leurs histoires respectives. Les problématiques évoquées en 2019 dans mon ouvrage Les Juifs dans le Coran sont, pour certaines, cristallisées dans le #conflit_israélo-palestinien.

    Bien que ce conflit ne soit pas nécessairement d’ordre religieux, dans plusieurs périodes de leur histoire, des penseurs des deux côtés ont tenté de lui donner une dimension essentiellement religieuse ; ces penseurs ont dépeint la situation d’opposition entre Juifs et Arabes en utilisant une terminologie et une conceptualisation religieuses. C’est de cela qu’on hérite aujourd’hui, et qui rend la question si complexe.$

    Comment les juifs sont-ils nommés dans le Coran ?

    Divers termes sont employés, et chacune de ces dénominations se réfère à un aspect particulier des juifs. L’un des termes abondamment utilisé dans le Coran pour nommer les juifs est celui de Banû Israʼîl, que l’on peut traduire par « fils d’Israël » : il désigne les anciens Israélites, cités dans la Bible.

    Lorsque le Coran raconte des événements se rapportant au récit biblique, c’est presque toujours ce terme qui est utilisé pour désigner les ancêtres des juifs. C’est lui que l’on retrouve dans ce verset : « O fils d’Israël, n’oubliez pas la grâce dont je vous ai comblés en vous choisissant parmi toutes les nations. »

    Un autre terme, yahûd, désigne les juifs dans un sens plutôt péjoratif : ce terme est très répandu dans les #sourates_médinoises, donc les plus tardives du Coran, qui sont les plus hostiles aux juifs et aux chrétiens.

    Un troisième terme présent à plusieurs reprises est celui d’ahl-al-Kitâb, « peuple du Livre », qui désigne par moments juifs et chrétiens. Ce terme est tantôt positif, tantôt négatif : il évoque parfois le don de la Torah aux juifs, mais rappelle aussi « l’âne chargé de livres » qu’est le peuple juif ayant reçu le don de la révélation, tout en étant incapable de le porter convenablement.

    Quelles étaient les relations entre Juifs et Arabes dans l’Arabie préislamique ?

    Avant Muhammad [Mahomet], les juifs étaient établis dans la péninsule Arabique, principalement au sud – les juifs yéménites en seraient les descendants –, et dans le Hijaz, c’est-à-dire au nord-ouest de la péninsule où l’islam est né. On peut estimer que les juifs dominaient une grande partie de l’Arabie : ils s’appuyaient sur le royaume juif d’Himyar, établi dans l’actuel Yémen. Les rapports culturels et commerciaux entre Juifs et Arabes étaient intenses jusqu’à l’hégire [l’exil de Mahomet de La Mecque vers #Médine, en 622].

    Ces éléments sont importants, car ils constituent l’arrière-plan culturel auquel Muhammad est confronté en Arabie. Quelques chercheurs diraient même la chose suivante : Muhammad a choisi d’émigrer à Médine, une région fortement peuplée de juifs, car il comptait sur ces derniers pour le rejoindre autour d’une conception nouvelle du #monothéisme. Muhammad a sans doute estimé qu’il serait accepté par les juifs du Hijaz.

    On constate également la pensée politique fine du prophète de l’islam lorsqu’il envoie, vers l’an 616 de notre ère, un groupe de ses adeptes à destination du royaume chrétien d’Ethiopie, pour les mêmes raisons. La forte présence de juifs et de chrétiens en Arabie à l’époque de Muhammad explique l’omniprésence d’éléments bibliques, juifs ou chrétiens, dans plusieurs sourates du Coran.

    L’islam a-t-il hérité de pratiques issues du judaïsme ?

    Du point de vue philologique et historique, c’est certain. Au-delà des éléments bibliques, on peut déjà dire que l’islam, au même titre que le judaïsme, est une religion « légale », centrée sur la #loi et les #commandements, à l’inverse du christianisme. La #jurisprudence, le rôle de la Halakha (la loi et la jurisprudence juives) ou de la charia (la loi islamique) sont fondamentales dans ces deux religions, et des ressemblances s’ensuivent – mais ces dernières ont leur limite.

    Au début de la prédication de Muhammad, on perçoit chez lui un désir de se rapprocher des pratiques juives. Cependant, une fois passé le moment où la majorité des juifs refusent de le suivre, s’exprime un désir d’émancipation de l’islam par rapport au judaïsme et au christianisme. Ce qui est naturel : toute religion doit finir par affirmer son indépendance vis-à-vis des traditions passées dont elle hérite.
    Pour donner un exemple : au départ, la direction de la prière pour les musulmans est Jérusalem ; une fois consommé le divorce entre les juifs et les premiers musulmans, La Mecque devient la nouvelle direction pour la prière. Deux étapes apparaissent clairement : ressemblance, puis différenciation.

    Le Coran est-il « antisémite » ?

    Il est faux et anachronique de considérer le Coran ainsi, et certains le font dans un but de propagande contre l’islam. Tout d’abord, le terme « antisémitisme » fait référence à un phénomène bien ultérieur [le terme est apparu en Allemagne au XIXe siècle, il s’attaque aux juifs en tant que peuple et non en tant que pratiquants d’une religion].
    On peut considérer que, dans le Coran, certains versets peuvent servir à nourrir une pensée antisémite, à l’instar des « versets de la guerre » de la #sourate_9 [incitant au combat à mort contre les juifs, les chrétiens, les polythéistes et tous les « #mécréants » en général]. Mais dire explicitement que le Coran est un texte antisémite, c’est faux.

    Je vis d’ailleurs mal cette conception, même en tant que juif. Je lis le Coran depuis mon adolescence avec beaucoup d’intérêt, je l’ai appris avec des Arabes, je l’enseigne à l’université hébraïque de Jérusalem et dans d’autres endroits du monde depuis plus de trente ans… J’ai beaucoup de respect pour ce texte, qui m’a énormément appris et contient des passages extraordinaires.

    Il y a bien des extraits qui me gênent en tant que juif, mais comme ils gêneraient un chrétien, ou tout simplement un être humain ! On peut toutefois dire exactement la même chose de certains versets bibliques, qui sont violents et inacceptables, sans remettre en cause l’intérêt de ces Ecritures.

    Le Coran semble néanmoins donner une image paradoxale des juifs. Comment en sortir ?

    Lors d’un séminaire sur ce thème, un étudiant musulman chiite m’a dit la chose suivante : « Je pense que cela vaut la peine que les sages musulmans adaptent ou suppriment la sourate 9 du Coran [plus tardive, et donc polémique vis-à-vis des juifs et des chrétiens], pour aider à construire une autre image du judaïsme et faciliter la rencontre. Qu’en pensez-vous ? »

    Je lui ai répondu que je suis opposé à toute altération d’un texte canonisé. Des millions de personnes croient en la sainteté du Coran et en sa nature miraculeuse, on ne doit donc rien y changer. Ce qu’on peut changer, en revanche, c’est notre attitude face au texte.

    Le fait qu’il y ait une ambivalence du texte coranique sur ce sujet est, à mes yeux, une clé vers la solution. Le Coran s’exprime de diverses manières sur les juifs, les #chrétiens, et sur bien d’autres sujets aussi. Pour comprendre ces apparentes contradictions, il faut les ramener à leur contexte initial : les polémiques contre les juifs sont à replacer dans le contexte de la prédication de Muhammad dans une région donnée, durant une époque donnée, et ne doivent pas être considérées comme une généralisation sur les juifs. Le fait que le Coran semble paradoxal et contradictoire constitue, en vérité, un remède au littéralisme.

    Quels arguments peut-on opposer, à partir du Coran, à la haine antijuive et à la justification de violences contre les juifs ?

    Tous les stéréotypes et accusations que le Coran adresse aux juifs sont continuellement invoqués pour délégitimer les juifs et leur religion : l’accusation qu’ils ont tué des prophètes, qu’ils ont rompu l’alliance que Dieu avait conclue avec eux, qu’ils ont falsifié les Ecritures divines qui leur ont été révélées, et bien d’autres accusations. Pour autant, dans certains versets du Coran, Dieu répand aussi ses louanges sur les enfants d’Israël.
    Lire aussi : Article réservé à nos abonnés Meir Bar-Asher : « Quelques versets du Coran peuvent créer une ambiance pacifique et d’autres un climat terrible »

    Ces louanges se répartissent en trois catégories :

    – la vision des enfants d’Israël comme peuple élu ;

    – la sortie d’Egypte et l’arrivée en Terre promise ;

    – l’Alliance et le don de la Torah, vue comme une source qui confirme l’islam.

    L’idée de l’élection d’Israël revient souvent dans le Coran. Tantôt cela concerne le peuple tout entier, tantôt seulement quelques personnalités ou quelques familles comme celle d’Abraham, de ‘Imrân (c’est-à-dire ‘Amram, père d’Aaron, de Moïse et de Myriam dans la Bible) ou encore certains prophètes.

    Dans certains versets coraniques, l’idée d’élection se dégage par elle-même de la grâce de Dieu envers Israël et des nombreux bienfaits que Dieu répand sur eux : « Nous avons donné aux fils d’Israël le Livre (al-kitâb), la Sagesse (al-hukm) et la Prophétie (al-nubuwwa). Nous les avons pourvus d’excellentes nourritures. Nous les avons élevés au-dessus des mondes » (45, 16). Ou encore dans un autre verset : « O mon peuple ! Souvenez-vous de la grâce de Dieu à votre égard, quand il a suscité parmi vous des prophètes ; quand il a suscité pour vous des rois ! Il vous a accordé ce qu’il n’avait donné à nul autre parmi les mondes » (5, 20).

    Aucun texte, a fortiori un texte religieux souvent difficile comme le Coran, ne se donne à lire de manière absolue, et le sens qu’on en retire dépend beaucoup du contexte que l’on prête à ces versets.

    Certaines phrases à fort potentiel polémique lorsqu’elles sont prises isolément se voient ainsi « neutralisées » quand elles sont ramenées à un contexte historique précis ; à l’inverse, des versets dont l’interprétation traditionnelle a toujours cherché à éclaircir le contexte deviennent « explosifs » quand ils sont sciemment décontextualisés pour être brandis contre les juifs et les chrétiens d’aujourd’hui.

    Raphaël Buisson-Rozensztrauch
    https://www.lemonde.fr/le-monde-des-religions/article/2023/11/26/pourquoi-il-est-faux-et-anachronique-de-considerer-le-coran-comme-antisemite

  • Israël : le calvaire d’Esther, violée et mutilée par les terroristes du Hamas
    https://www.leparisien.fr/international/israel/israel-le-calvaire-desther-violee-et-mutilee-par-les-terroristes-du-hamas

    Les cas de viols et de mutilations sexuelles commis lors des massacres du 7 octobre sont en train de faire surface. Alors que les survivantes peinent encore à parler, l’une d’elles, qui participait au festival Tribe of Nova, a accepté de nous raconter ce qu’elle a subi.

    Dans les déliés de cette courte conversation, Esther (le prénom a été changé) n’est jamais vraiment là. Assise dans son lit, elle cherche du regard le moindre recoin de la pièce, pour fuir les yeux de son interlocuteur. Qui n’en est même pas vraiment un, pour elle : « À l’intérieur, je suis à moitié morte », dit la jeune femme de sa voix tremblante et mécanique.
    Elle a choisi « Esther » pour apparaître comme victime de sévices sexuels. En hébreu, l’une des significations métaphoriques de ce prénom désigne celle qui est « cachée ». La Bible raconte l’histoire de cette princesse juive qui se dissimulait pour ne pas être conduite au harem. « Prise de force par le roi, elle finit par utiliser sa position de nouvelle épouse pour éviter le massacre des #juifs », dit-elle en secouant la tête. « Moi, je ne vais sauver personne, je ne tiens même pas debout. »

    « Je serai toujours l’image vivante du pogrom »

    C’est en un rien de temps qu’Esther a été arrachée au monde des vivants. Le 7 octobre, lorsque la violence du #Hamas a déferlé sur le désert de Be’eri, son petit ami les a entraînées, elle et sa marraine, sous une bâche du bar de la rave party, pour passer inaperçus en faisant les morts. Elle tremblait trop de peur, les terroristes l’ont vue.
    Depuis, Esther n’a pas réussi à se lever. « Littéralement, puisque ma jambe ne répond plus à ma volonté », précise-t-elle. En langage médical, elle a subi une « lésion du pédicule nerveux innervant le membre inférieur. » Dans son souvenir, elle a été violée et en même temps tabassée devant son copain, forcé de regarder avec un couteau sous la gorge : « C’était si douloureux que j’ai perdu connaissance, ils ont arrêté lorsqu’ils m’ont crue morte. » Puis sont arrivées les #mutilations. L’un d’eux s’est mis à utiliser un couteau, ou un tesson de verre, comment savoir ? Elle en garde une paralysie, qui pourrait ne jamais disparaître. « Et même si je remarche, je boiterai. Je serai toujours l’image vivante du #pogrom. »

    Des cas similaires ont été relevés par les médecins légistes sur les cadavres — ou ce qu’il en reste. Nombre d’entre eux ont été tellement dégradés que le travail d’identification continue, six semaines après le massacre, sur la base militaire de Shura. Reconvertie en morgue, elle accueille des conteneurs réfrigérés qui y font office de chambres mortuaires. La plupart de ces #viols, particulièrement cruels, avec des objets, ont été faits post mortem.
    À l’image de la manière dont les terroristes se sont acharnés sur le corps encore chaud de la marraine d’Esther. « Ils ne l’ont pas violée de manière traditionnelle, on va dire, raconte encore la survivante. Peut-être parce qu’elle était beaucoup moins jeune que la moyenne de la rave. C’était une fêtarde, qui aimait sortir avec nous pour danser dans la nature. »

    Une stratégie pour jeter la honte sur la société ?

    Même lorsqu’elle évoque son deuil, sa voix est vierge de sanglots. Les mots s’abattent de façon clinique, froide, « comme s’il ne s’agissait pas de son histoire », observe un psychiatre hospitalier. « C’est typique du syndrome de stress post-traumatique, en particulier lors d’un viol », poursuit le médecin, expert de ces sujets. « Le cerveau de la victime met sa subjectivité et toutes ses émotions sur pause pendant l’agression, comme un animal qui se fige, pris dans le danger », poursuit-il. « Elles disent que c’est comme si elles s’étaient détachées de leur corps, laissé à l’agresseur, afin de protéger leur intégrité psychique. » Le problème survient lorsque certaines restent bloquées dans cette dissociation.

    Encore peu couverte, la question de #crimes_sexuels de masse commis ce jour-là plonge la nation israélienne dans la souffrance supplémentaire de l’incompréhension. Ces profanations des attributs sexuels féminins interpellent Noémie Issan, philosophe franco-israélienne. Selon elle, « alors que les informations sortent au compte-gouttes pour protéger les rares qui ont survécu et les familles des victimes, il est difficile de savoir si ce sadisme a découlé d’un ordre, comme un élément de stratégie » destiné à jeter la honte sur la société, à la déliter. « Je n’ai pas honte, glisse Esther. Pour ressentir ça, il faudrait que je sois plus que demi-vivante. »

    https://archive.is/LLQeY

    #7_oct #7_octobre_2023

    • #BigGrizzly n’a pas eu le clavier très léger sur cette remarque. J’ai fait l’effort de lire ce texte, avec ses détails horribles. Et j’espère - même si quelque part ce serait mieux pour elle - que ce n’est pas un mensonge de plus dans la longue liste au "crédit" des autorités israéliennes. Quand bien même tout y serait vrai (c’est bien peu sourcé, et l’anonymat n’arrange rien), la présentation (et la publication dans ce type de presse) est clairement manipulée. Quelques exemples :
      – "En hébreu, l’une des significations métaphoriques de ce prénom désigne celle qui est « cachée ». La Bible raconte l’histoire de cette princesse juive qui se dissimulait pour ne pas être conduite au harem" . Conduite au harem, voilà qui sent bon le sable chaud de l’islamophobie...
      – « Je serai toujours l’image vivante du pogrom » C’est en un rien de temps qu’Esther a été arrachée au monde des vivants. "Pogrom", comme "terroriste" n’est pas choisi au hasard. Et la phrase suivante !...
      – Des cas similaires ont été relevés par les médecins légistes sur les cadavres — ou ce qu’il en reste. Nombre d’entre eux ont été tellement dégradés qe le travail d’identification continue, six semaines après le massacre : : peut-être faudrait-il signaler que la presse israélienne elle-même reconnaît que les médecins légistes n’ont pas pu (voulu ?) faire le travail...
      – "crimes_sexuels de masse" (c’est toi le hashtag, Colporteur ?), espérons des faits, moins de manipulations, et si possible moins d’affects...

    • sur le terme pogrom, j’ai l’impression que cette remarque de l’historien Omer Bartov n’a pas été référencée sur @seenthis

      https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/10/27/omer-bartov-historien-israel-ne-semble-disposer-d-aucun-plan-politique-il-ne

      Au sujet de ces attaques, Israël et ses partisans ont parlé de « pogrom » et ont, de façon plus générale, fait référence à la Shoah. Que pensez-vous de cette comparaison ?
      Recourir au mot « pogrom » est faux et trompeur. Le terme est par ailleurs surdéterminé sur le plan idéologique. Le mot « pogrom » désignait des agressions commises contre les communautés juives, tout particulièrement dans le sud de la Russie et en Ukraine. Des foules étaient incitées à s’attaquer à ces communautés, parfois avec le soutien des autorités. Depuis, ce terme a aussi été utilisé pour désigner des actes perpétrés ailleurs par d’autres populations contre d’autres minorités.

      L’intention première du sionisme était de fonder un Etat majoritairement juif sur le sol duquel les pogroms ne seraient par définition plus possibles, puisque les autorités politiques, militaires et de maintien de l’ordre seraient toutes juives. Il est donc parfaitement anachronique de recourir à ce terme pour désigner l’attaque terroriste perpétrée par le Hamas. Mais la raison pour laquelle on utilise aujourd’hui ce mot a à voir avec la référence intentionnelle ou subconsciente à la violence antijuive et spécifiquement à la Shoah, cet événement historique qui est précisément à l’origine de la fondation de l’Etat d’Israël.

      En parlant de « pogrom », on attribue au Hamas, et par extension à toutes les autres organisations palestiniennes, ou même aux Palestiniens en général, un antisémitisme féroce caractérisé par une propension à la violence vicieuse, irrationnelle et meurtrière, dont l’unique objectif serait de tuer des juifs. En d’autres termes, conformément à cette logique, il n’y aurait pas lieu de négocier avec les Palestiniens. C’est la logique du « eux ou nous » : si nous ne les tuons pas, ce sont eux qui nous tueront. Dans une telle logique, il importe au moins de les enfermer derrière des murs et des clôtures barbelées.

    • dans Haaretz (au moins) le terme pogrom a été employé à de multiples reprises pour désigner les exactions commises par des soldats ou des colons israéliens contre des palestiniens en Cisjordanie, y compris en l’absence d’homicides, au moins depuis 2021 (sans doute avant)
      https://www.haaretz.com/opinion/editorial/2021-09-30/ty-article-opinion/a-pogrom-and-silence/0000017f-e3d0-d7b2-a77f-e3d7bac80000
      https://www.haaretz.com/israel-news/twilight-zone/2022-11-18/ty-article-magazine/.highlight/theres-only-one-way-to-describe-this-settler-attack-a-pogrom/00000184-89c7-d9ce-a1f6-9be796390000
      et ensuite
      https://www.haaretz.com/opinion/2023-03-19/ty-article-opinion/.premium/the-pogrom-against-palestinians-that-brought-the-occupation-home-to-jewish-israelis/00000186-f983-d711-a9de-fdebab2b0000
      https://www.haaretz.com/opinion/editorial/2023-06-23/ty-article-opinion/.premium/standing-orders-for-a-pogrom-against-palestinians/00000188-e459-d5fc-ab9d-ff79bc690000
      https://www.haaretz.com/israel-news/2023-03-04/ty-article/.premium/israeli-settlers-threaten-another-hawara-pogrom-on-saturday-night/00000186-ad5d-de2a-a1ee-af5f092f0000
      etc.

      pour ma part, je trouvais ça un peu léger, non pas que les persécutions et les meurtres de palestiniens me paraissent anodins, mais parce que l’aspect quotidien ou presque, étalé dans le temps en "petites" quantités me semblait distinct de ce que furent les pogroms (y compris ceux contre des ouvriers italiens en France en 1893), avec leur aspect éruptif, ou la répétition ne venait qu’après des moments d’accalmie. de ce point de vue, ce qui a lieu en Cisjordanie ressemble aussi à ce que fut le traitement des esclaves dans les états du sud US, une terreur continue, le meurtre autorisé au premier prétexte.

      qu’aujourd’hui on puisse décrire les crimes du 7 octobre, dont on sait, sans détails suffisants, qu’ils ont aussi été le fait de civils palestiniens et pas seulement de soldats du Hamas ou du Djihad, sans compter les morts et blessés dus à l’armée israélienne, là aussi sans qu’on sache dans quelle proportion), ne devrait surprendre personne. de là à dire qu’ils faut tuer les palestiniens, il y a une marge, faite pour être franchie de part et d’autre, israéliens et pro-israéliens, palestiniens et pro-palestiniens. mais ce n’est pas obligatoire, y compris au sein des quatre catégories citées.

      sinon, cette survivante parle dans des termes qui sont les siens, visiblement religieux. je ne m’en étonne pas plus que lorsque je vois un gazaoui qui découvre son fils mort avoir pour premier réflexe de se prosterner pour prier. rien de mieux que la terreur et le désespoir pour renouer pour renouer avec sa religion (sens et consolation, aussi insuffisants soient-ils) lorsque l’on dispose de ce secours.

      Reddit quant à Omer Bartov il dit également dans ce même article

      De nombreux universitaires qui se disent de gauche et autres soutiens de la Palestine ont salué les massacres haineux perpétrés par le Hamas et se sont exprimés avec virulence contre le droit d’Israël à défendre ses citoyens en ripostant contre le mouvement islamiste, qui utilise les populations civiles comme boucliers humains dans la bande de Gaza, très densément peuplée. Même ceux qui ne saluent pas explicitement les massacres ont fait preuve d’un manque total d’empathie pour les centaines de victimes et les otages juifs. Et de fait, bien souvent, les déclarations condamnant les bombardements israéliens sur Gaza n’évoquent même pas l’attaque du 7 octobre.

      Omer Bartov, historien : « Israël ne semble disposer d’aucun plan politique, il ne dispose que d’un plan militaire très hasardeux »
      https://archive.is/Fcbjs

    • Habituellement, les récits de violences sexuelles font l’objet d’avertissement, de trigger warnings, de précautions.
      Habituellement, les témoignages de violences sexuelles font l’objet d’euphémisations, de conditionnels, de réécritures, voire de mise sous silence, en donnant carrément la parole à l’agresseur.
      Habituellement, le pathos dans les violences sexuelles est mal vu, parce qu’empêchant la bonne distance aux faits, à la froide compréhension que les journalistes souhaitent nous donner accès.

      Ces transgressions aux bonnes habitudes journalistiques doivent pouvoir s’expliquer.
      Par exemple, il se peut que le fait que nous soyons dans le contexte du viol parfait, le seul qui mérite d’être condamné sans jugement, sans présomption d’innocence. La victime bien blanche, l’agresseur bien « autre », étranger, et même arabislamiste, carrément.

      Un snuff movie, sous sa forme d’image ou sous sa forme textuelle, reste un snuff movie. Et en imposer le visionnage reste une violence.

      Et n’allez pas m’accuser de vouloir cacher quoi que ce soit. Je ne nie rien de tout ce qui est écrit, filmé, ni de l’horreur, ni des souffrances.

      A quel moment ceux qui relaient vont-ils cesser de nier le double standard que les transgressions que j’évoque représentent ? Hier, je lisais un texte tout en pudeur du récit d’une famille massacrée sous des tonnes de gravats, récit que l’on sait pouvoir multiplier par milliers. A quel moment est-ce que le Parisien et tous les autres vont-ils accepter de rendre la pareille à ces victimes là, moins blanches, moins conformes, moins susceptibles d’empathies de la part de leurs lecteurs ?

      Hier, colporteur, ton partage m’a mis mal à l’aise, oui, parce qu’une fois de plus, sans remords et sans vergogne, on me fout sous le nez ce qui ne ressort qu’avec difficultés quand le bourreau est du bon côté du manche, à savoir l’horreur crue que représente la barbarie débridée.

    • Même ceux qui ne saluent pas explicitement les massacres ont fait preuve d’un manque total d’empathie pour les centaines de victimes et les otages juifs.

      Concurrence victimaire.
      A chaque fois que tu réclames la prise en compte des victimes palestiniennes, n’oublie pas de rappeler que tu penses aussi aux victimes israéliennes, sinon, ton propos est disqualifié.

      Tiens, à chaque fois que tu parles des victimes d’Hiroshima, si tu veux être pris au sérieux, et ne pas être pris en flagrant délit de double standard, tu te dois de rappeler toutes les victimes de Pearl Harbour. Sinon, c’est la preuve que ton propos est malveillant.

      Procès d’intention crétin.

      Mais je comprends. L’ensemble de ces 75 années d’occupation sont une immense démonstration de la malveillance et de la crétinerie humaine.

    • Le titre du Parisien, calvaire, viol, mutilation, est explicite.
      L’entretien Bartov date du 27 octobre. Son refus de caractériser le 7 octobre comme un pogrom est discutable, comme le montre l’utilisation répétée du terme par des israéliens à propos d’actes antérieurs commis par des israéliens. Sa manière de parler du « droit d’Israël à défendre ses citoyens » est dans ce passage discutable (après 19 jours de bombardements massifs...) mais ses propos critiquer l’orientation exclusivement militaire le passage qui suit immédiatement critique aussi l’état d’esprit de nombreux israéliens et de leurs soutiens : 3A l’inverse, les soutiens d’Israël, pour l’essentiel des juifs, qui se sentent profondément trahis par leurs collègues de gauche et leur absence totale d’empathie pour les victimes du 7 octobre, et qui peuvent eux-mêmes se montrer ambivalents face aux destructions immenses actuellement infligées à Gaza par les forces israéliennes, refusent généralement de reconnaître les causes politiques plus profondes de cet état des choses". Le manque d’empathie pour les morts et blessés du 7 octobre ne peut être nié qu’en raison du déferlement compassionnel médiatique et gouvernemental qui l’accompagnait et de l’absence de toute empathie, pour les palestiniens, les tutsis et tant d’autres.

      je crois avoir été parmi les premiers ici à signaler le témoignage dune kibboutzim discrètement épargnée par un combattant du Hamas le 7/10, qui semble contredire la thèse qu’’instruction aurait été donnée de tuer le maximum de civils, comme celui d’une autre indiquant que ce sont des tirs de char des FDI qui ont tué une partie des habitants de son kibboutz, élément tout à fait contradictoire avec la propagande israélienne à l’époque et aujourd’hui.

      Merci d’éviter de me chercher systématiquement des poux dans la tête pour me couper la langue.

      edit selon Physicians for Human Rights, des viols ont bien eu lieu le 7 octobre confirme
      https://seenthis.net/messages/1029266#message1029298

    • De l’indifférenciation à l’indifférence. Sur les viols de masse le 7 octobre en Israël.
      https://k-larevue.com/de-lindifferenciation-a-lindifference-sur-les-viols-de-masse-le-7-octobre

      Que dire des crimes sexuels perpétrés par les hommes du Hamas le 7 octobre – documentés un peu plus chaque jour par le travail d’un groupe israélien de gynécologues, médecins légistes, psychologues et juristes du droit international ? Et comment comprendre l’occultation de la violence faite aux femmes ce jour-là par une partie de l’opinion mondiale – supposées « féministes » comprises ? Cette occultation ne revient-elle pas à faire une deuxième fois violence à ces femmes, comme si leur calvaire ne comptait pas et était dépourvu de signification ?

      Chaque viol est un acte. La « femme », s’il est possible de la définir, se caractérise par le fait de savoir que cet acte en quoi le viol consiste peut toujours lui arriver à elle. Elle est cet être humain qui vit, grandit, évolue et se transforme avec ce savoir intime qu’elle peut toujours se faire violer. « Sachante », cela la rend alors plus directement interrogative : comment un tel acte est-il réellement possible ? Comment fait-on pour violer une femme ? La question se pose, parce que le viol comme destruction du corps de l’autre a ceci de spécifique que l’agent destructeur use pour y parvenir de son propre corps : l’homme qui viole le plus souvent ne recourt pas à des outils, des prolongations techniques du corps humain, mais se sert de son corps propre comme d’une arme ; et plus précisément, non pas d’une partie corporelle que la fermeté constitutive rend toujours potentiellement disponible pour servir d’arme, tels le pied ou le poing, mais de son pénis, qui doit se durcir pour pouvoir devenir un moyen de destruction. Le viol à proprement parler, celui qui déchire les parties intimes de la femme par pénétration sauvage, ne peut effectivement s’accomplir que si l’homme est en érection. Qu’est-ce qui, face à une femme hurlant de terreur et de douleur, produit, puis soutient cette érection ? Quel est le processus psycho-physiologique qui rend possible cet acte ?
      Quiconque s’attèle à une enquête dans son entourage masculin se trouve peu renseigné. Interrogez les hommes autour de vous sur la question de savoir comment ces hommes-là font pour bander, et vous obtiendrez une fin de non-recevoir, dont le plus étrange est qu’elle n’est absolument pas soupçonnable d’insincérité : le viol, c’est le crime de l’autre par excellence, avec qui on n’a rien de commun. Comme si les hommes qui violent faisaient partie d’une autre espèce avec laquelle ils ne partagent rien et qu’ils ne comprennent pas.
      Les femmes, quant à elles, n’y comprennent rien non plus. Pour elles, en matière de sexualité, les hommes sont tout aussi compliqués qu’elles-mêmes. Rien de simple dans l’érection d’un homme. La sexualité leur est tout aussi désirable qu’à elles, tout aussi peu évidente également – et ce savoir partagé entre hommes et femmes se maintient contre une société qui ne cesse de colporter le fantasme d’une sexualité simple, directe et quasi-animale pour les hommes et fort compliquée pour les femmes.
      Aussi l’affirmation qui parfois est censée servir d’explication à la possibilité du viol, selon laquelle les hommes sont constitutivement et potentiellement tous des violeurs, en vérité tous excités devant n’importe quel corps de femme nue ou potentiellement dénudable et seulement tenus en respect par la crainte de sanction, n’éclaire-t-elle strictement rien. Pour quiconque d’un peu sincère, le mystère du « comment » reste entier. Peut-être même est-ce cette incompréhension absolue qui est à l’origine de la thèse étrangement rassurante de « tous des violeurs ». Comme un refus de se confronter au caractère abyssal de la question, qui ne vise pas seulement la possibilité de l’érection en vue de la destruction d’une femme, mais aussi le mystère qu’un homme puisse accepter de jouir en réalisant cette œuvre destructrice à laquelle, il faut le répéter, celui qui l’accomplit assiste à chaque seconde.
      On n’a donc aucune hypothèse à présenter pour expliquer comment ont fait les membres des commandos du Hamas pour user de leur intimité comme arme pendant leurs raids sur le festival de musique et les vingt villages israéliens à la frontière de la Bande de Gaza. On peut en revanche dire une petite partie de ce qui a été fait aux femmes, et émettre une interprétation qui éclaire non pas les faits, mais leur occultation par l’opinion mondiale. Comme cette occultation revient à faire une deuxième fois violence à ces femmes, comme si leur calvaire ne comptait pas, était dépourvu de sens et de signification, commençons par les faits.

      Le viol, l’un des objectifs – occulté – de l’attaque du 7 octobre…

      On sait désormais partiellement, grâce au travail courageux d’un groupe de professionnelles israéliennes – gynécologues, médecins légistes, juristes du droit international et psychologues[1] –, ce qu’ont fait les hommes du Hamas : ils ont violé de façon répétée, et l’ont fait en groupe. Ils ont tellement violé que l’on voit l’entrejambe des pantalons des femmes kidnappées rouges de sang, et des flaques de sang entre les jambes de femmes et de filles assassinées après les viols. Ils les ont tant violées que certaines, retrouvées mortes, ont eu les os pelviens brisés. Ils ont violé des adolescentes, des femmes et des femmes âgées. Ils ont coupé des seins. Ils ont mutilé les parties sexuelles de leurs victimes – en ce cas, y compris des hommes. Ils ont torturé les femmes après le viol. Ils se sont filmés le faisant. Ils ont envoyé les vidéos des viols et tortures aux proches, qui durent y assister à distance, là où ils n’étaient pas contraints d’assister en direct à ce qui était fait à leurs amies, compagnes, épouses, mères, sœurs et filles. Ces femmes, ils les ont presque toutes tuées après les viols, ou laissées pour mortes[2]. La plupart des victimes survivantes dont on a connaissance à l’heure actuelle, ou plutôt qu’on espère encore vivantes, sont les femmes qui ont été entraînées, déjà violées, à Gaza. On a trouvé un glossaire arabe – hébreu sur l’un des combattants morts du Hamas, indiquant, entre autres, des phrases utiles en hébreu pour faciliter l’acte de violer : « enlève ton pantalon », « retourne-toi » … Les terroristes ayant survécu et été faits prisonniers expliquent à ce propos que le viol était l’un des objectifs de l’attaque.

  • Fermes, coopératives... « En #Palestine, une nouvelle forme de #résistance »

    Jardins communautaires, coopératives... En Cisjordanie et à Gaza, les Palestiniens ont développé une « #écologie_de_la_subsistance qui n’est pas séparée de la résistance », raconte l’historienne #Stéphanie_Latte_Abdallah.

    Alors qu’une trêve vient de commencer au Proche-Orient entre Israël et le Hamas, la chercheuse Stéphanie Latte Abdallah souligne les enjeux écologiques qui se profilent derrière le #conflit_armé. Elle rappelle le lien entre #colonisation et #destruction de l’#environnement, et « la relation symbiotique » qu’entretiennent les Palestiniens avec leur #terre et les êtres qui la peuplent. Ils partagent un même destin, une même #lutte contre l’#effacement et la #disparition.

    Stéphanie Latte Abdallah est historienne et anthropologue du politique, directrice de recherche au CNRS (CéSor-EHESS). Elle a récemment publié La toile carcérale, une histoire de l’enfermement en Palestine (Bayard, 2021).

    Reporterre — Comment analysez-vous à la situation à #Gaza et en #Cisjordanie ?

    Stéphanie Latte Abdallah — L’attaque du #Hamas et ses répercussions prolongent des dynamiques déjà à l’œuvre mais c’est une rupture historique dans le déchaînement de #violence que cela a provoqué. Depuis le 7 octobre, le processus d’#encerclement de la population palestinienne s’est intensifié. #Israël les prive de tout #moyens_de_subsistance, à court terme comme à moyen terme, avec une offensive massive sur leurs conditions matérielles d’existence. À Gaza, il n’y a plus d’accès à l’#eau, à l’#électricité ou à la #nourriture. Des boulangeries et des marchés sont bombardés. Les pêcheurs ne peuvent plus accéder à la mer. Les infrastructures agricoles, les lieux de stockage, les élevages de volailles sont méthodiquement démolis.

    En Cisjordanie, les Palestiniens subissent — depuis quelques années déjà mais de manière accrue maintenant — une forme d’#assiègement. Des #cultures_vivrières sont détruites, des oliviers abattus, des terres volées. Les #raids de colons ont été multipliés par deux, de manière totalement décomplexée, pour pousser la population à partir, notamment la population bédouine qui vit dans des zones plus isolées. On assiste à un approfondissement du phénomène colonial. Certains parlent de nouvelle #Nakba [littéralement « catastrophe » en Arabe. Cette expression fait référence à l’exode forcé de la population palestinienne en 1948]. On compte plus d’1,7 million de #déplacés à Gaza. Où iront-ils demain ?

    « Israël mène une #guerre_totale à une population civile »

    Gaza a connu six guerres en dix-sept ans mais il y a quelque chose d’inédit aujourd’hui, par l’ampleur des #destructions, le nombre de #morts et l’#effet_de_sidération. À défaut d’arriver à véritablement éliminer le Hamas – ce qui est, selon moi, impossible — Israël mène une guerre totale à une population civile. Il pratique la politique de la #terre_brûlée, rase Gaza ville, pilonne des hôpitaux, humilie et terrorise tout un peuple. Cette stratégie a été théorisée dès 2006 par #Gadi_Eizenkot, aujourd’hui ministre et membre du cabinet de guerre, et baptisée « la #doctrine_Dahiya », en référence à la banlieue sud de Beyrouth. Cette doctrine ne fait pas de distinction entre #cibles_civiles et #cibles_militaires et ignore délibérément le #principe_de_proportionnalité_de_la_force. L’objectif est de détruire toutes les infrastructures, de créer un #choc_psychologique suffisamment fort, et de retourner la population contre le Hamas. Cette situation nous enferme dans un #cycle_de_violence.

    Vos travaux les plus récents portent sur les initiatives écologiques palestiniennes. Face à la fureur des armes, on en entend évidemment peu parler. Vous expliquez pourtant qu’elles sont essentielles. Quelles sont-elles ?

    La Palestine est un vivier d’#innovations politiques et écologiques, un lieu de #créativité_sociale. Ces dernières années, suite au constat d’échec des négociations liées aux accords d’Oslo [1] mais aussi de l’échec de la lutte armée, s’est dessinée une #troisième_voie.

    Depuis le début des années 2000, la #société_civile a repris l’initiative. Dans de nombreux villages, des #marches et des #manifestations hebdomadaires sont organisées contre la prédation des colons ou pour l’#accès_aux_ressources. Plus récemment, s’est développée une #économie_alternative, dite de résistance, avec la création de #fermes, parfois communautaires, et un renouveau des #coopératives.

    L’objectif est de reconstruire une autre société libérée du #néolibéralisme, de l’occupation et de la #dépendance à l’#aide_internationale. Des agronomes, des intellectuels, des agriculteurs, des agricultrices, des associations et des syndicats de gauche se sont retrouvés dans cette nouvelle forme de résistance en dehors de la politique institutionnelle. Une jeune génération a rejoint des pionniers. Plutôt qu’une solution nationale et étatique à la colonisation israélienne — un objectif trop abstrait sur lequel personne n’a aujourd’hui de prise — il s’agit de promouvoir des actions à l’échelle citoyenne et locale. L’idée est de retrouver de l’#autonomie et de parvenir à des formes de #souveraineté par le bas. Des terres ont été remises en culture, des #fermes_agroécologiques ont été installées — dont le nombre a explosé ces cinq dernières années — des #banques_de_semences locales créées, des modes d’#échange directs entre producteurs et consommateurs mis en place. On a parlé d’« #intifada_verte ».

    Une « intifada verte » pour retrouver de l’autonomie

    Tout est né d’une #prise_de_conscience. Les #territoires_palestiniens sont un marché captif pour l’#économie israélienne. Il y a très peu de #production. Entre 1975 et 2014, la part des secteurs de l’agriculture et de l’#industrie dans le PIB a diminué de moitié. 65 % des produits consommés en Cisjordanie viennent d’Israël, et plus encore à Gaza. Depuis les accords d’Oslo en 1995, la #production_agricole est passée de 13 % à 6 % du PIB.

    Ces nouvelles actions s’inscrivent aussi dans l’histoire de la résistance : au cours de la première Intifada (1987-1993), le #boycott des taxes et des produits israéliens, les #grèves massives et la mise en place d’une économie alternative autogérée, notamment autour de l’agriculture, avaient été centraux. À l’époque, des #jardins_communautaires, appelés « les #jardins_de_la_victoire » avait été créés. Ce #soulèvement, d’abord conçu comme une #guerre_économique, entendait alors se réapproprier les #ressources captées par l’occupation totale de la Cisjordanie et de la #bande_de_Gaza.

    Comment définiriez-vous l’#écologie palestinienne ?

    C’est une écologie de la subsistance qui n’est pas séparée de la résistance, et même au-delà, une #écologie_existentielle. Le #retour_à_la_terre participe de la lutte. C’est le seul moyen de la conserver, et donc d’empêcher la disparition totale, de continuer à exister. En Cisjordanie, si les terres ne sont pas cultivées pendant 3 ou 10 ans selon les modes de propriété, elles peuvent tomber dans l’escarcelle de l’État d’Israël, en vertu d’une ancienne loi ottomane réactualisée par les autorités israéliennes en 1976. Donc, il y a une nécessité de maintenir et augmenter les cultures, de redevenir paysans, pour limiter l’expansion de la #colonisation. Il y a aussi une nécessité d’aller vers des modes de production plus écologiques pour des raisons autant climatiques que politiques. Les #engrais et les #produits_chimiques proviennent des #multinationales via Israël, ces produits sont coûteux et rendent les sols peu à peu stériles. Il faut donc inventer autre chose.

    Les Palestiniens renouent avec une forme d’#agriculture_économe, ancrée dans des #savoir-faire_ancestraux, une agriculture locale et paysanne (#baladi) et #baaliya, c’est-à-dire basée sur la pluviométrie, tout en s’appuyant sur des savoirs nouveaux. Le manque d’#eau pousse à développer cette méthode sans #irrigation et avec des #semences anciennes résistantes. L’idée est de revenir à des formes d’#agriculture_vivrière.

    La #révolution_verte productiviste avec ses #monocultures de tabac, de fraises et d’avocats destinée à l’export a fragilisé l’#économie_palestinienne. Elle n’est pas compatible avec l’occupation et le contrôle de toutes les frontières extérieures par les autorités israéliennes qui les ferment quand elles le souhaitent. Par ailleurs, en Cisjordanie, il existe environ 600 formes de check-points internes, eux aussi actionnés en fonction de la situation, qui permettent de créer ce que l’armée a nommé des « #cellules_territoriales ». Le #territoire est morcelé. Il faut donc apprendre à survivre dans des zones encerclées, être prêt à affronter des #blocus et développer l’#autosuffisance dans des espaces restreints. Il n’y a quasiment plus de profondeur de #paysage palestinien.

    « Il faut apprendre à survivre dans des zones encerclées »

    À Gaza, on voit poindre une #économie_circulaire, même si elle n’est pas nommée ainsi. C’est un mélange de #débrouille et d’#inventivité. Il faut, en effet, recycler les matériaux des immeubles détruits pour pouvoir faire de nouvelles constructions, parce qu’il y a très peu de matériaux qui peuvent entrer sur le territoire. Un entrepreneur a mis au point un moyen d’utiliser les ordures comme #matériaux. Les modes de construction anciens, en terre ou en sable, apparaissent aussi mieux adaptés au territoire et au climat. On utilise des modes de production agricole innovants, en #hydroponie ou bien à la #verticale, parce que la terre manque, et les sols sont pollués. De nouvelles pratiques énergétiques ont été mises en place, surtout à Gaza, où, outre les #générateurs qui remplacent le peu d’électricité fournie, des #panneaux_solaires ont été installés en nombre pour permettre de maintenir certaines activités, notamment celles des hôpitaux.

    Est-ce qu’on peut parler d’#écocide en ce moment ?

    Tout à fait. Nombre de Palestiniens emploient maintenant le terme, de même qu’ils mettent en avant la notion d’#inégalités_environnementales avec la captation des #ressources_naturelles par Israël (terre, ressources en eau…). Cela permet de comprendre dans leur ensemble les dégradations faites à l’#environnement, et leur sens politique. Cela permet aussi d’interpeller le mouvement écologiste israélien, peu concerné jusque-là, et de dénoncer le #greenwashing des autorités. À Gaza, des #pesticides sont épandus par avion sur les zones frontalières, des #oliveraies et des #orangeraies ont été arrachées. Partout, les #sols sont pollués par la toxicité de la guerre et la pluie de #bombes, dont certaines au #phosphore. En Cisjordanie, les autorités israéliennes et des acteurs privés externalisent certaines #nuisances_environnementales. À Hébron, une décharge de déchets électroniques a ainsi été créée. Les eaux usées ne sont pas également réparties. À Tulkarem, une usine chimique considérée trop toxique a été également déplacée de l’autre côté du Mur et pollue massivement les habitants, les terres et les fermes palestiniennes alentour.

    « Il existe une relation intime entre les Palestiniens et leur environnement »

    Les habitants des territoires occupés, et leur environnement — les plantes, les arbres, le paysage et les espèces qui le composent — sont attaqués et visés de manière similaire. Ils sont placés dans une même #vulnérabilité. Pour certains, il apparaît clair que leur destin est commun, et qu’ils doivent donc d’une certaine manière résister ensemble. C’est ce que j’appelle des « #résistances_multispécifiques », en écho à la pensée de la [philosophe féministe étasunienne] #Donna_Haraway. [2] Il existe une relation intime entre les Palestiniens et leur environnement. Une même crainte pour l’existence. La même menace d’#effacement. C’est très palpable dans le discours de certaines personnes. Il y a une lutte commune pour la #survie, qui concerne autant les humains que le reste du vivant, une nécessité écologique encore plus aigüe. C’est pour cette raison que je parle d’#écologisme_existentiel en Palestine.

    Aujourd’hui, ces initiatives écologistes ne sont-elles pas cependant menacées ? Cet élan écologiste ne risque-t-il pas d’être brisé par la guerre ?

    Il est évidemment difficile d’exister dans une guerre totale mais on ne sait pas encore comment cela va finir. D’un côté, on assiste à un réarmement des esprits, les attaques de colons s’accélèrent et les populations palestiniennes en Cisjordanie réfléchissent à comment se défendre. De l’autre côté, ces initiatives restent une nécessité pour les Palestiniens. J’ai pu le constater lors de mon dernier voyage en juin, l’engouement est réel, la dynamique importante. Ce sont des #utopies qui tentent de vivre en pleine #dystopie.

    https://reporterre.net/En-Palestine-l-ecologie-n-est-pas-separee-de-la-resistance
    #agriculture #humiliation #pollution #recyclage #réusage #utopie

    • La toile carcérale. Une histoire de l’enfermement en Palestine

      Dans les Territoires palestiniens, depuis l’occupation de 1967, le passage par la prison a marqué les vécus et l’histoire collective. Les arrestations et les incarcérations massives ont installé une toile carcérale, une détention suspendue. Environ 40 % des hommes palestiniens sont passés par les prisons israéliennes depuis 1967. Cet ouvrage remarquable permet de comprendre en quoi et comment le système pénal et pénitentiaire est un mode de contrôle fractal des Territoires palestiniens qui participe de la gestion des frontières. Il raconte l’envahissement carcéral mais aussi la manière dont la politique s’exerce entre Dedans et Dehors, ses effets sur les masculinités et les féminités, les intimités. Stéphanie Latte Abdallah a conduit une longue enquête ethnographique, elle a réalisé plus de 350 entretiens et a travaillé à partir d’archives et de documents institutionnels. Grâce à une narration sensible s’apparentant souvent au documentaire, le lecteur met ses pas dans ceux de l’auteure à la rencontre des protagonistes de cette histoire contemporaine méconnue.

      https://livres.bayard-editions.com/livres/66002-la-toile-carcerale-une-histoire-de-lenfermement-en-pal
      #livre

  • #musique Music Player Ported to Qt 6, Refreshes UI
    https://www.omgubuntu.co.uk/2023/11/musique-music-player-ported-to-qt6

    It’s been a while since I last wrote about Musique, an open-source desktop music player for Windows, macOS, and Linux (I first featured it in 2010, back when it was called MiniTunes). Amazingly, the app is still going, and it just received its first major update in almost 3 years. “This Musique update is the first Qt 6-based release I do. The main effort has been modernizing the look of the app: a more flat and clean style, with rounded artist pics and a nicer toolbar,” writes its developer, Flavio Tordini, on the project website. Musique is a music player […] This post, Musique Music Player Ported to Qt 6, Refreshes UI is from OMG! Ubuntu. Do not reproduce elsewhere without (...)

    #News #App_Updates #musicplayers #qt_apps

  • Henry Laurens : « On est sur la voie d’un processus de destruction de masse » à Gaza, entretien avec Rachida El Azzouzi (19 novembre 2023).

    Pour l’historien, spécialiste de la Palestine, professeur au collège de France, « l’effondrement des conditions sanitaires et l’absence de ravitaillement à destination des populations concernées peuvent indiquer que l’on est sur la voie d’un processus de destruction de masse » dans la bande de Gaza.

    L’historien et universitaire Henry Laurens est l’un des plus grands spécialistes du #Moyen-Orient. Professeur au Collège de France où il est titulaire de la chaire d’histoire contemporaine du #monde_arabe, il a mis la question palestinienne au cœur de son travail. Il est l’auteur de très nombreux livres dont cinq tomes sans équivalent publiés entre 1999 et 2015, consacrés à La question de Palestine (Fayard).
    Dans un entretien à Mediapart, il éclaire de sa connaissance l’exceptionnalité du conflit israélo-palestinien et le « corps à corps que même l’émotion n’arrive pas à séparer » dans lesquels les deux peuples sont pris depuis des décennies. Il dit son pessimisme quant à la résolution du conflit qui peut durer « des siècles » : « Vous ne pouvez espérer de sortie possible que par une décolonisation, mais à horizon immédiat, cette décolonisation n’est pas faisable. Dans les années 1990, elle l’était. Il y avait 30 000 colons. Aujourd’hui, ils sont 500 000 dont quelques dizaines de milliers qui sont des colons ultrareligieux et armés. »

    Plus d’une vingtaine de rapporteurs de l’organisation des Nations unies (ONU) s’inquiètent d’« un génocide en cours » à Gaza. Est-ce que vous employez ce terme ?

    Il y a deux sens au terme de « génocide ». Il y a le #génocide tel que défini par l’avocat polonais Raphael Lemkin en 1948, la seule définition juridique existante, aujourd’hui intégrée au protocole de Rome créant la #CPI [Cour pénale internationale – ndlr]. Lemkin a été obligé, pour que ce soit voté par les Soviétiques et par le bloc de l’Est, d’éliminer les causes politiques du génocide – massacrer des gens dans le but de détruire une classe sociale –, parce qu’il aurait fallu reconnaître le massacre des koulaks par les Soviétiques.

    La définition de Lemkin implique que ceux qui commettent un génocide appartiennent à un autre peuple que celui des victimes. D’où le problème aussi qu’on a eu avec le #Cambodge, qu’on ne pouvait pas appeler un génocide parce que c’étaient des Cambodgiens qui avaient tué des Cambodgiens. Là, on est dans une définition étroite. C’était le prix à payer pour obtenir un accord entre les deux Blocs dans le contexte du début de la #guerre_froide.

    Vous avez ensuite une définition plus large du terme, celui d’une destruction massive et intentionnelle de populations quelles qu’en soient les motivations.

    Il existe donc deux choses distinctes : la première, ce sont les actes, et la seconde, c’est l’intention qui est derrière ces actes. Ainsi le tribunal international pour l’ex-Yougoslavie a posé la différence entre les nettoyages ethniques dont la motivation n’est pas génocidaire parce que l’#extermination n’était pas recherchée, même si le nombre de victimes était important, et les actes de génocide comme celui de Srebrenica, où l’intention était claire.

    On voit ainsi que le nombre de victimes est secondaire. Pour Srebrenica, il est de l’ordre de 8 000 personnes.

    L’inconvénient de cette #logique_judiciaire est de conduire à une casuistique de l’intentionnalité, ce qui ne change rien pour les victimes. 

    Au moment où nous parlons, le nombre de victimes dans la bande de #Gaza est supérieur à celui de Srebrenica. On a, semble-t-il, dépassé la proportion de 0,5 % de la population totale. Si on compare avec la France, cela donnerait 350 000 morts.

    Le discours israélien évoque des victimes collatérales et des boucliers humains. Mais de nombreux responsables israéliens tiennent des discours qui peuvent être qualifiés de génocidaires. L’effondrement des conditions sanitaires et l’absence même de ravitaillement à destination des populations concernées peuvent indiquer que l’on est sur la voie d’un processus de destruction de masse avec des controverses à n’en plus finir sur les intentionnalités. 

    La solution à deux États n’est plus possible.

    La crainte d’une seconde « #Nakba » (catastrophe), en référence à l’exil massif et forcé à l’issue de la guerre israélo-arabe de 1948, hante les #Palestiniens. Peut-on faire le parallèle avec cette période ?

    La Nakba peut être considérée comme un #nettoyage_ethnique, en particulier dans les régions autour de l’actuelle bande de Gaza où l’#intentionnalité d’expulsion est certaine. Des responsables israéliens appellent aujourd’hui à une #expulsion de masse. C’est d’ailleurs pour cela que l’Égypte et la Jordanie ont fermé leurs frontières.

    Dans l’affaire actuelle, les démons du passé hantent les acteurs. Les juifs voient dans le 7 octobre une réitération de la Shoah et les Palestiniens dans les événements suivants celle de la Nakba.

    Faut-il craindre une annexion de la bande de Gaza par Israël avec des militaires mais aussi des colons ?

    En fait, personne ne connaît la suite des événements. On ne voit personne de volontaire pour prendre la gestion de la bande de Gaza. Certains responsables israéliens parlent de « dénazification » et il y a une dimension de vengeance dans les actes israéliens actuels. Mais les vengeances n’engendrent que des cycles permanents de violence.

    Quelle est votre analyse des atrocités commises le 7 octobre 2023 par le Hamas ?

    Elles constituent un changement considérable, parce que la position de l’État d’Israël est profondément modifiée au moins sur deux plans : premièrement, le pays a subi une invasion pour quelques heures de son territoire, ce qui n’est pas arrivé depuis sa création ; deuxièmement, le 7 octobre marque l’échec du projet sioniste tel qu’il a été institué après la Seconde Guerre mondiale, un endroit dans le monde où les juifs seraient en position de sécurité. Aujourd’hui, non seulement l’État d’Israël est en danger, mais il met en danger les diasporas qui, dans le monde occidental, se trouvent menacées ou, en tout cas, éprouvent un sentiment de peur.

    Le dernier tome de votre série consacrée à « La question de Palestine » (Fayard) était intitulé « La paix impossible » et courait sur la période 1982-2001. Vous étiez déjà très pessimiste quant à la résolution de ce conflit, mais aussi concernant l’avenir de la région, comme si elle était condamnée à demeurer cette poudrière. Est-ce que vous êtes encore plus pessimiste aujourd’hui ? Ou est-ce que le #conflit_israélo-palestinien vous apparaît soluble, et si oui, quelle issue apercevez-vous ?

    La réelle solution théorique serait d’arriver à un système de gestion commune et équitable de l’ensemble du territoire. Mais un État unitaire est difficile à concevoir puisque les deux peuples ont maintenant plus d’un siècle d’affrontements.

    Qu’en est-il de la solution à deux États, dont le principe a été adopté en 1947 par l’ONU, après la fin du mandat britannique ? Est-elle possible ?

    La solution à deux États n’est plus possible dès lors que vous avez 500 000 colons, dont quelques dizaines de milliers qui sont des #colons ultrareligieux et armés. Vous avez une violence quotidienne en #Cisjordanie. La sécurité des colons ne peut se fonder que sur l’insécurité des Palestiniens. Et l’insécurité des Palestiniens provoque la violence qui engendre l’insécurité des colons.

    C’est un cercle vicieux et vous ne pouvez espérer de sortie possible que par une décolonisation, mais à horizon immédiat, cette #décolonisation n’est pas faisable. Dans les années 1990, elle l’était. Il y avait 30 000 colons. On pouvait, sans trop de dégâts, faire une décolonisation de la Cisjordanie et de la bande de Gaza. 

    Aujourd’hui, nous sommes dans une position de domination, et cette solution peut prendre des siècles parce qu’il y a l’exceptionnalité juive qui crée une exceptionnalité israélienne qui elle-même crée une exceptionnalité palestinienne. C’est-à-dire que sans être péjoratif, les Palestiniens deviennent des juifs bis.

    Qu’entendez-vous par là ?

    Nous sommes depuis le 7 octobre devant un grand nombre de victimes. Mais ces dernières années, nous en avons eu bien plus en Irak, en Syrie, au Soudan et en Éthiopie. Cela n’a pas provoqué l’émoi mondial que nous connaissons aujourd’hui. L’émotion a été suscitée parce que les victimes étaient juives, puis elle s’est déplacée sur les victimes palestiniennes. Les deux peuples sont dans un corps à corps que même l’émotion n’arrive pas à séparer.

    Les années 1990 ont été marquées par les accords d’Oslo en 1993. Relèvent-ils du mirage aujourd’hui ?
     
    Non, on pouvait gérer une décolonisation. Mais déjà à la fin des accords d’Oslo, il n’y a pas eu décolonisation mais doublement de la #colonisation sous le gouvernement socialiste et ensuite sous le premier gouvernement Nétanyahou. Ce sont l’occupation, la colonisation, qui ont amené l’échec des processus. Il n’existe pas d’occupation, de colonisation pacifique et démocratique.

    Aujourd’hui, c’est infiniment plus difficile à l’aune de la violence, des passions, des derniers événements, des chocs identitaires, de la #haine tout simplement. Qui plus est, depuis une trentaine d’années, vous avez une évolution commune vers une vision religieuse et extrémiste, aussi bien chez les juifs que chez les Palestiniens.

    La Palestine fonctionne en jeu à somme nulle, le progrès de l’un se fait au détriment de l’autre.

    Vous voulez dire que le conflit territorial est devenu un conflit religieux ?

    Il a toujours été religieux. Dès l’origine, le mouvement sioniste ne pouvait fonctionner qu’en utilisant des références religieuses, même si ses patrons étaient laïcs. La blague de l’époque disait que les sionistes ne croyaient pas en Dieu mais croyaient que Dieu leur avait promis la Terre promise.

    Le projet sioniste, même s’il se présentait comme un mouvement de sauvetage du peuple juif, ne pouvait fonctionner qu’en manipulant les affects. Il était de nature religieuse puisqu’il renvoyait à la Terre sainte. Vous avez une myriade d’endroits qui sont des #symboles_religieux, mais qui sont aussi des #symboles_nationaux, aussi bien pour les #juifs que pour les #musulmans : l’esplanade des Mosquées, le tombeau des Patriarches, le mur des Lamentations. Et puis il y a les gens qui se sentent mandatés par Dieu.

    De même, les musulmans ont cherché des alliés en jouant sur la solidarité islamique. Dès les années 1930, la défense de la mosquée Al-Aqsa est devenue un thème fédérateur.

    Pourquoi est-il devenu difficile d’invoquer une lecture coloniale du conflit depuis les massacres du Hamas du 7 octobre ?

    Le sionisme est à l’origine un corps étranger dans la région. Pour arriver à ses fins, il a eu besoin d’un soutien européen avant 1914, puis britannique et finalement américain. Israël s’est posé comme citadelle de l’#Occident dans la région et conserve le #discours_colonial de la supériorité civilisatrice et démocratique. Cet anachronisme est douloureusement ressenti par les autres parties prenantes.

    Jusqu’à la Seconde Guerre mondiale, les responsables sionistes n’hésitaient pas à se comparer à la colonisation britannique en Afrique noire avec la nécessité de mater les protestations indigènes. 

    La Palestine fonctionne en jeu à somme nulle, le progrès de l’un se fait au détriment de l’autre. La constitution de l’État juif impliquait un « transfert » de la population arabe à l’extérieur, terme poli pour « expulsion ». La #confiscation des #terres détenues par les Arabes en est le corollaire. Les régions où ont eu lieu les atrocités du 7 octobre étaient peuplées d’Arabes qui ont été expulsés en 1948-1950.

    Dire cela, c’est se faire accuser de trouver des excuses au terrorisme. Dès que vous essayez de donner des éléments de compréhension, vous vous confrontez à l’accusation : « Comprendre, c’est excuser. » Il faut bien admettre que le #Hamas dans la bande de Gaza recrute majoritairement chez les descendants des expulsés. Cela ne veut pas dire approuver ce qui s’est passé.

    Le slogan « From the river to the sea, Palestine will be free » (« De la rivière à la mer, la Palestine sera libre ») utilisé par les soutiens de la Palestine fait polémique. Est-ce vouloir rayer de la carte Israël ou une revendication légitime d’un État palestinien ?

    Il a été utilisé par les deux parties et dans le même sens. Les mouvements sionistes, en particulier la droite sioniste, ont toujours dit que cette terre devait être juive et israélienne au moins jusqu’au fleuve. Le parti de l’ancêtre du Likoud voulait même annexer l’ensemble de la Jordanie.

    Chez certains Palestiniens, on a une vision soft qui consiste à dire que « si nous réclamons un État palestinien réunissant la bande de Gaza et la Cisjordanie, nous considérons l’ensemble de la terre comme la Palestine historique, comme partie de notre histoire, mais nous ne la revendiquons pas dans sa totalité ».

    Israël depuis sa fondation n’a pas de #frontières définies internationalement. Il a toujours revendiqué la totalité de la Palestine mandataire, voire plus. Il a ainsi rejeté l’avis de la Cour internationale de justice qui faisait des lignes d’armistice de 1949 ses frontières permanentes.

    Cette indétermination se retrouve de l’autre côté. La libération de la Palestine renvoie à la totalité du territoire. D’autres exigeaient la carte du plan de partage de 1947. Pour l’Organisation de libération de la Palestine (#OLP), faire l’#État_palestinien sur les territoires occupés en 1968 était la concession ultime.

    Les Arabes en général ont reçu sans grand problème les réfugiés arméniens durant la Grande Guerre et les années suivantes. Ces Arméniens ont pu conserver l’essentiel de leur culture. Mais il n’y avait pas de question politique. Il n’était pas question de créer un État arménien au Levant.

    Dès le départ, les Arabes de Palestine ont vu dans le projet sioniste une menace de dépossession et d’expulsion. On ne peut pas dire qu’ils ont eu tort…

    Le mouvement islamiste palestinien, le Hamas, classé #terroriste par l’Union européenne et les États-Unis, est aujourd’hui le principal acteur de la guerre avec Israël…

    Définir l’ennemi comme terroriste, c’est le placer hors la loi. Bien des épisodes de décolonisation ont vu des « terroristes » devenir du jour au lendemain des interlocuteurs valables. 

    Bien sûr, il existe des actes terroristes et les atrocités du 7 octobre le sont. Mais c’est plus une méthodologie qu’une idéologie. C’est une forme de guerre qui s’en prend aux civils selon les définitions les plus courantes. Jamais un terroriste ne s’est défini comme tel. Il se voit comme un combattant légitime et généralement son but est d’être considéré comme tel. Avec l’État islamique et le 7 octobre, on se trouve clairement devant un usage volontaire de la cruauté.

    La rhétorique habituelle est de dire que l’on fait la guerre à un régime politique et non à un peuple. Mais si on n’offre pas une perspective politique à ce peuple, il a le sentiment que c’est lui que l’on a mis hors la loi. Il le voit bien quand on dit « les Israéliens ont le droit de se défendre », mais apparemment pas quand il s’agit de Palestiniens.

    D’aucuns expliquent qu’Israël a favorisé l’ascension du Hamas pour qu’un vrai État palestinien indépendant ne voie jamais le jour au détriment de l’#autorité_palestinienne qui n’administre aujourd’hui plus que la Cisjordanie. Est-ce que le Hamas est le meilleur ennemi des Palestiniens ? 

    Incontestablement, les Israéliens ont favorisé les #Frères_musulmans de la bande de Gaza dans les années 1970 et 1980 pour contrer les activités du #Fatah. De même, après 2007, ils voulaient faire du Hamas un #sous-traitant chargé de la bande de Gaza, comme l’Autorité palestinienne l’est pour la Cisjordanie. 

    Le meilleur moyen de contrer le Hamas est d’offrir aux Palestiniens une vraie perspective politique et non de bonnes paroles et quelques aides économiques qui sont des emplâtres sur des jambes de bois. 

    Quel peut être l’avenir de l’Autorité palestinienne, aujourd’hui déconsidérée ? Et du Fatah, le parti du président Mahmoud Abbas, pressé par la base de renouer avec la lutte armée et le Hamas ?

    Le seul acquis de l’Autorité palestinienne, ou plus précisément de l’OLP, c’est sa légitimité diplomatique. Sur le terrain, elle est perçue comme un sous-traitant de l’occupation israélienne incapable de contrer un régime d’occupation de plus en plus dur. Elle est dans l’incapacité de protéger ses administrés. Le risque majeur pour elle est tout simplement de s’effondrer.

    Le Hamas appelle les Palestiniens de Cisjordanie à se soulever. Un soulèvement généralisé des Palestiniens peut-il advenir ?

    En Cisjordanie, on a surtout de petits groupes de jeunes armés totalement désorganisés. Mais la violence et la répression sont devenues quotidiennes et les violences permanentes. À l’extérieur, l’Occident apparaît complice de l’occupation et de la répression israéliennes. L’Iran, la Chine et la Russie en profitent.

    Le premier tome de votre monumentale « Question de Palestine » s’ouvre sur 1799, lorsque l’armée de Napoléon Bonaparte entre en Palestine, il court jusqu’en 1922. Avec cette accroche : l’invention de la Terre sainte. En quoi cette année est-elle fondatrice ?

    En 1799, l’armée de Bonaparte parcourt le littoral palestinien jusqu’à Tyr. En Europe, certains y voient la possibilité de créer un État juif en Palestine. Mais l’ouverture de la Terre sainte aux Occidentaux est aussi l’occasion d’une lutte d’influences entre puissances chrétiennes. 

    Dans le tome 4, « Le rameau d’olivier et le fusil du combattant » (1967-1982), vous revenez sur ce qui a été un conflit israélo-arabe, puis un conflit israélo-palestinien. Est-ce que cela peut le redevenir ?

    Jusqu’en 1948, c’est un conflit israélo-palestinien avant tout. En 1948, cela devient un #conflit_israélo-arabe avec une dimension palestinienne. À partir de la fin des années 1970, la dimension palestinienne redevient essentielle.

    Ben Gourion disait que la victoire du sionisme était d’avoir transformé la question juive en problème arabe. Les derniers événements semblent montrer que le #problème_arabe est en train de redevenir une #question_juive.

    Le rôle des États-Unis a toujours été déterminant dans ce conflit. Que nous dit leur position aujourd’hui ? 

    La question de Palestine est en même temps une question intérieure pour les pays occidentaux du fait de l’histoire de la Shoah et de la colonisation. Il s’y ajoute aux États-Unis une dimension religieuse du fait du biblisme protestant et du « pionniérisme ». Les Palestiniens leur semblent être quelque part entre les Indiens et les Mexicains…

    La « République impériale » vient encore de montrer son impressionnante capacité de projection militaire dans la région, mais aussi son incapacité à obtenir un règlement politique satisfaisant.

    Pourquoi ce conflit déclenche-t-il autant de passions et clive-t-il autant dans le monde entier, où comme en France, le président appelle à « ne pas importer le conflit » ?

    C’est un conflit gorgé d’histoire. La Terre sainte est celle des trois religions monothéistes. Le conflit lui-même porte avec lui la mémoire de la Shoah et de la colonisation, d’où l’extraordinaire position d’exceptionnalité des acteurs.

    Vous avez écrit cinq tomes sur la question de Palestine. Après l’ultime « La Paix impossible », quel pourrait être le sixième ?
     
    Peut-être le retour de la question juive, mais c’est loin d’être une perspective encourageante.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/191123/henry-laurens-est-sur-la-voie-d-un-processus-de-destruction-de-masse-gaza

    #discours_génocidaire #religion (s) #sionisme

  • Des enregistrements en 2017 (9)

    Des disques et des musiques récentes. Prendre le temps de s’arrêter, d’écouter des albums. S’éloigner des critères privilégiés par des commerçants, rarement disquaires, ou des productions des majors…
    De multiples éditeurs nous permettent d’écouter des musiques et non de la programmation « profitable ». Quelques disques enregistrés, ici en 2017, au hasard des écoutes.

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2023/11/22/des-enregistrements-en-2017-9

    #musique #jazz

  • ABCDaire nécessairement partiel (34)

    Essayer de faire partager des émotions ressenties lors des (ré)écoutes. En ABCDaire nécessairement partiel et incomplet.
    Déambulations dans quelques œuvres et interprétations, en profane…
    Une invitation à écouter et partager ces versions ou d’autres que vous ne manquerez pas de signaler…

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2023/11/19/abcdaire-necessairement-partiel-34

    #musique

  • "Y a de la joie". Le Front populaire, une parenthèse enchantée.

    « Les chansons d’alors sont autant d’instantanés du climat euphorique qui accompagne l’installation au pouvoir du Front pop’. Elles ont pour thèmes les loisirs en vogue : la fréquentation des guinguettes, la pêche, le vélo... Pour s’offrir des moments de répits et s’évader, la plupart des ouvriers de la région parisienne se contentent dans un premier temps de voyages de proximité, dans un rayon de quarante à cinquante kilomètres autour de chez eux. Ainsi, les bords de Marne, de Seine ou d’Oise figurent parmi les principales destinations ("Du côté de Nogent", "Le long de la Marne à Nogent"). Dans ce cadre de verdure, loin des puanteurs de l’usine, il est possible de se délasser, de regarder passer le chaland et de taquiner le goujon. La pêche, activité populaire et contemplative, inspire de nombreux morceaux. Ainsi, Germaine Sablon le clame haut et fort :"Ici, on pêche". Quant à Damia, elle se pose des questions métaphysiques : "Aimez-vous les moules marinières ?". »

    blog : https://lhistgeobox.blogspot.com/2023/11/y-de-la-joie-le-front-populaire-une.html

    podcast : https://podcasters.spotify.com/pod/show/blottire/episodes/Y-a-de-la-joie--Le-Front-populaire--une-parenthse-enchante-e28oi

  • Le cinéma ce n’est pas que des images, c’est aussi de la musique. Il y a aussi des bandes-sons imaginaires, film d’horreur ou pas, tu mets dessus les images que tu veux comme pour la lecture. Avec un livre ni image ni son, tu n’as que ton imagination. La réalité des images dépassant la fiction en ce moment, voici des sons de synthétiseurs vintages qui semblent provenir d’un autre monde. L’hommage de OGRE & Dallas Campbell à la bande originale de Night of the Living Dead 
    https://ogresound.bandcamp.com/track/opening-credits

    OGRE & Dallas Campbell Discuss Their New Score for “Night of the Living Dead”
    https://daily.bandcamp.com/features/ogre-dallas-campbell-interview
    https://daily.bandcamp.com/lists/synth-soundtracks-for-films-that-dont-exist
    https://www.ogresound.co.uk
    #synthwave #synthetiseur #musique_cinématographique #ogresound #jeux_video

  • Inchiesta sul gestore del #Cpr di Milano: tra falsi protocolli e servizi non erogati

    Altreconomia ha potuto visionare l’offerta tecnica presentata dalla società Martinina Srl alla prefettura di Milano per aggiudicarsi l’appalto da oltre 1,2 milioni di euro per la gestione della struttura in #via_Corelli: alcuni degli accordi stretti con associazioni e Ong “esterne” per migliorare la vita dei trattenuti non sarebbero autentici

    Lenzuola non distribuite, raro utilizzo dei mediatori culturali, tutela legale inesistente, assistenza sanitaria carente. Ma soprattutto falsi protocolli d’intesa “siglati” per svolgere servizi e attività all’interno del Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di via Corelli a Milano.

    Altreconomia ha potuto visionare l’offerta tecnica presentata dalla società Martinina Srl alla prefettura di Milano per aggiudicarsi l’appalto da oltre 1,2 milioni di euro per la gestione della struttura: oltre alla discordanza tra quanto scritto nei documenti e la realtà nella struttura di reclusione, alcuni degli accordi stretti con associazioni e Ong “esterne” per migliorare la vita dei trattenuti sarebbero falsi.

    Altri invece sarebbero stati siglati con soggetti di cui non è stato possibile trovare alcuna traccia online. “Viene da chiedersi in che cosa consista il controllo effettuato dalla prefettura, essendo risultata evidente l’assenza di servizi all’interno del centro oltre che palesi le incongruenze negli atti e nei documenti versati nella gara di appalto”, osserva l’avvocato Nicola Datena dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), che ha visionato la documentazione insieme a chi scrive.

    Alcuni snodi temporali. Martinina Srl nell’ottobre 2022 si è aggiudicata l’appalto per un anno (scadenza il 31 ottobre 2023, rinnovabile di un anno in assenza di nuove gare pubbliche) indetto dalla prefettura di Milano presentando un’offerta in cui garantiva, tra le altre cose, la collaborazione con diverse associazioni e società profit, finalizzata ad assicurare l’erogazione di “servizi” da integrare nella gestione del Cpr.

    L’offerta tecnica consiste nella documentazione da presentare in sede di gara d’appalto che descrive come l’impresa intende eseguire il lavoro per l’ente che richiede la prestazione, ovvero il piano di lavoro, le fasi e le risorse impiegate, la durata e le ore di lavoro previste, eventuali migliorie richieste o proposte

    Protocolli forniti in sede di gara ed esaminati dalla Commissione giudicatrice, la quale, nella decisione di assegnare l’appalto alla società domiciliata in provincia di Salerno, sottolinea l’importanza del “valore delle proposte migliorative dell’offerta tecnica”. Un “dettaglio” sfugge però ai funzionari della prefettura: almeno otto sarebbero falsi. Eccoli.

    Secondo la documentazione contrattuale, il Vis (Volontariato internazionale per lo sviluppo), una delle più importanti organizzazioni del Terzo settore del nostro Paese, avrebbe firmato un protocollo con Martinina l’8 agosto 2022 volto alla formazione del personale del Cpr. Il nome del responsabile legale non corrisponde però ad alcun referente dell’organizzazione: “Ribadiamo l’assoluta estraneità del Vis e l’assenza di qualsiasi tipo di contatto o accordo, passato e presente, relativo alla gestione del Cpr di via Corelli. E ci tengo a precisare che come Ong salesiana abbiamo una visione della migrazione fondata sui diritti umani, distante dall’approccio applicato nei Cpr, con cui in ogni caso le nostre policy ci impedirebbero di collaborare”, spiega ad Altreconomia Michela Vallarino, presidente del Vis.

    Sono 59 invece le pagine dell’accordo tra Martinina e la cooperativa sociale BeFree, uno dei più importanti enti antitratta italiani con sede a Roma, per la realizzazione del progetto “Inter/rotte” per l’assistenza per vittime di tratta e violenza. “Non avremmo mai potuto firmare un simile protocollo -spiega Francesca De Masi (qui la sua presa di posizione integrale)- perché siamo fortemente critiche nei confronti della stessa esistenza dei Cpr”. Il presunto protocollo è talmente grossolano che il nome del legale rappresentante è sbagliato e di conseguenza anche il codice fiscale generato.

    Ala Milano Onlus secondo l’accordo dovrebbe invece garantire “prestazioni di natura di mediazione linguistica/culturale”. Il presidente, contattato da Altreconomia, dichiara però di non aver mai siglato quel protocollo. Così come Don Stefano Venturini, l’allora parroco della comunità pastorale delle parrocchie di San Martino in Lambrate e SS Nome di Maria, che si sarebbe impegnato, secondo le carte consultate, “a orientare, aiutare gli ospiti prestando attenzione specifica a quanto le persone esprimono”. “Ho incontrato una volta chi gestisce la struttura ma non ho mai siglato un protocollo”, spiega Venturini ad Altreconomia, aggiungendo, tra l’altro, come sia di competenza della curia diocesana un eventuale accordo formale. Nell’offerta inviata alla prefettura, Martinina ha allegato il decreto di nomina di Venturini emesso dall’arcivescovo Mario Enrico Delpini. “Non so come abbiano fatto ad averlo”, spiega ancora l’interessato.

    L’accordo con la società sportiva Scarioni 1925 risulta stipulato il 24 agosto 2022 dall’ex presidente, che però è morto nel febbraio 2020: un post sulla pagina Facebook della società stessa, datato 31 marzo 2020, porge le condoglianze alla famiglia per la sua scomparsa. Il Centro islamico di Milano e Lombardia avrebbe siglato un accordo con Martinina per garantire il sostegno spirituale all’interno del centro. “La carta intestata è di un centro di Roma, la firma del protocollo di un centro di Cologno Monzese -spiega il presidente Ali Abu Shwaima-. Noi non abbiamo mai visto quel protocollo”. L’associazione Dianova Onlus garantirebbe assistenza per i trattenuti con tossicodipendenza: la prefettura sembra non essersi accorta però che il protocollo risulta firmato nell’agosto 2022 solo da Martinina Srl. “Non ho mai sentito questa società -spiega il presidente Pierangelo Buzzo, a cui è intestato l’accordo- e tra l’altro dal febbraio 2021 siamo cooperativa sociale, non più associazione. Il protocollo è falso”.

    Diverso è il caso della Associazione di Volontariato “Il Paniere Alimentare”, dell’Organizzazione “Musica e Teatro” e dell’Associazione “Fiore di Donna”, dei quali non solo non è stato possibile riscontrare alcun riferimento online, ma di cui i codici fiscali inseriti nei protocolli risultano inesistenti, così come gli indirizzi mail di riferimento. La “Bondon grocery” dovrebbe riconoscere “agli ospiti del Cas e agli operatori della Martinina Srl che acquistano per conto delle persone trattenute nel Cpr uno sconto del 5% sulla spesa effettuata”: il protocollo firmato nell’agosto 2022 reca in intestazione la denominazione della società, che ha però cessato l’attività il primo luglio 2021.

    Dianova, BeFree, l’Organizzazione “Musica e Teatro” vengono citati tra i protocolli di intesa presentati anche nell’offerta tecnica presentata da Engel Srl il 26 maggio 2021 per l’aggiudicazione del bando precedente a quello in essere. La prefettura di Milano ha pubblicato i documenti integrali -contratto siglato dalla società e offerta tecnica- il 10 novembre 2023.

    Tornando ai protocolli siglati da Martinina Srl, questi danno uno spaccato della vita nel centro che appare molto distante della realtà. Attività ludico-ricreative, per “impegnare le giornate degli ospiti e rendere più piacevole il trascorrere del tempo”, cineforum, laboratori di teatro, musicali, sport. Addirittura “campagne di prevenzione della salute”. Ma niente di tutto questo si sarebbe mai verificato nella struttura. Sia per i numerosi report prodotti nel tempo da diversi soggetti, dall’Asgi al Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, fino agli stessi verbali delle visite di monitoraggio redatti proprio dalla prefettura.

    Così l’accesso ai servizi di mediazione linguistica-culturale, previsto nell’offerta, non si riscontra affatto nella realtà: in questo caso è l’Asgi, durante una delle visite d’accesso, a non incontrare alcun mediatore e dal Naga, che ha recentemente pubblicato un dettagliato report sulla situazione all’interno del centro. Oppure l’orientamento legale, anche questo assicurato sulla carta da Martinina Srl, addirittura con la “diffusione di materiale informativo tradotto nelle principali lingue parlate dagli stranieri presenti nel centro” ma che non trova riscontri. È il Garante, questa volta, a scrivere nel febbraio 2023 che l’informativa cartacea “non viene consegnata alle persone trattenute”. Problematico anche l’accesso ai servizi sanitari: nell’offerta tecnica si assicura “al ricorrere delle esigenze la somministrazione di farmaci e altre spese mediche” ma al di fuori degli psicofarmaci -che, come raccontato da Altreconomia nell’inchiesta “Rinchiusi e sedati”, su cinque mesi di spesa rappresentano il 60% degli acquisti in farmaci- sempre il Garante scrive che “l’assistenza sanitaria in caso di bisogno si limita alla distribuzione della tachipirina”. E c’è uno scarso accesso alle visite specialistiche. Emergono poi acquisti di distributori di tabacchi non presenti nel centro, colloqui con lo psicologo non documentati, addirittura la fornitura di “cestini da viaggio” in caso di trasferimenti da un Cpr all’altro, discrepanze anche relative alla qualità del cibo distribuito.

    All’impatto sulla vita delle persone se ne aggiunge uno di natura economica. Secondo dati inediti consultati Altreconomia, infatti, la prefettura di Milano avrebbe già versato a Martinina Srl oltre 943mila euro per la gestione della struttura di via Corelli. Ed è rilevante anche l’avvicendamento delle società gestite dall’imprenditore Alessandro Forlenza. Lui, nel 2012 fonda la Engel Italia Srl, ex gestore del “Corelli” di Milano e del Cpr di Palazzo San Gervasio a Potenza: oggi quella società non esiste più perché il 20 ottobre 2023 è stata definitivamente “inglobata” nella Martinina Srl, a cui inizialmente era stato ceduto il ramo d’azienda che si occupava della detenzione amministrativa. La società è formalmente in mano a Paola Cianciulli, moglie di Forlenza, che è attualmente l’amministratrice unica dopo l’uscita di scena di Consiglia Caruso (la firmataria di tutti i protocolli d’intesa sopra citati), che il 31 agosto 2023 ha ceduto i mille euro di capitale sociale. A lei restano intestate due società con sede a Milano: l’Edil Coranimo Srl, che si occupa di costruzioni, e dal febbraio 2023 l’Allupo Srl che ha sede proprio in via Corelli, nel numero civico successivo al Centro per il rimpatrio. Una dinamica che desta interesse: l’oggetto sociale della Allupo Srl è molto diversificato e oltre alla ristorazione in diverse forme (da asporto o somministrazione diretta) è inclusa anche la possibilità di “gestione di case di riposo per anziani, case famiglia per minori, Cas, Sprar, Cara e Cpr”.

    La Martinina Srl ha altre due sedi attive: una a Palazzo San Gervasio, a Potenza, dove è arrivata seconda nella gara di assegnazione della nuova gestione del Cpr precedentemente dalla Engel, vinto da Officine Solidali nel marzo 2023, un’altra a Taranto, per la gestione del Cas Mondelli che accoglie minori stranieri non accompagnati. L’ultimo bilancio disponibile è del 31 dicembre 2021 con importi ridottissimi: appena 2.327 euro di utili “portati a nuovo”. A quella data ancora non era attivo il Cpr di via Corelli. C’è un terzo soggetto, però, nella “sfera Martinina” con ben altri risultati: si tratta della Engel Family Srl nata nell’ottobre 2020 con in “dotazione” 250mila euro derivanti da Engel Srl. Paola Cianciulli è nuovamente amministratrice e socia unica della società che si occupa di “locazione immobiliare di beni propri o in leasing” che al 31 dicembre 2021 (l’ultimo disponibile) conta un valore della produzione complessivo di poco superiore a 372mila euro.

    Ai milioni di euro per la gestione se ne aggiungono altri (ne hanno parlato anche ActionAid e l’Università degli studi di Bari nel recente dettagliato rapporto “Trattenuti. Una radiografia del sistema detentivo per stranieri”) se si prende in considerazione, documenti ottenuti da Altreconomia alla mano, anche l’esborso dovuto alla costante manutenzione che si rende necessaria anche a causa delle ricorrenti proteste dei trattenuti. Da inizio 2020 al marzo 2023 in totale sono stati spesi più di 3,3 milioni di euro di cui il 58% è stato impiegato per lavori di adeguamento della struttura, manutenzione o interventi di ripristino dei luoghi danneggiati. Anche perché, spesso, le strutture già in partenza sono spesso fatiscenti: il 15 settembre 2021 Invitalia, l’Agenzia nazionale di proprietà del ministero dell’Economia (già attiva nel campo delle migrazioni sul “fronte libico”), ha pubblicato un bando da 11,3 milioni di euro su mandato del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, in seno al ministero dell’Interno, proprio per la manutenzione straordinaria dei Centri di permanenza per il rimpatrio di tutta Italia. Ad aggiudicarsi i lavori del Cpr di Milano in via Corelli -di cui abbiamo inserito le foto inserite nel progetto di ristrutturazione- è stata la Tek Infrastructure, società con sede a Palermo da 1,6 milioni di euro di fatturato nel 2021, con un ribasso del 20%. Ma tra i pagamenti effettuati dalla prefettura fino al marzo 2023 a fare da “padrona” sulle manutenzioni è la Masteri Srl -non è possibile escludere perciò un subappalto- con quasi 620mila euro ricevuti in tre anni.

    Fiumi di denaro pubblico che richiederebbero controlli estremamente approfonditi. Dai verbali delle ispezioni prefettizie, però, non emerge una verifica dettagliata di quanto avviene nella struttura. In uno dei verbali, infatti, alla domanda “La fornitura degli effetti letterecci avviene regolarmente e secondo le tempistiche e modalità previste dallo Schema di Capitolato vigente?”, il funzionario della prefettura barra “Sì”. Ma nella nota integrativa sottostante, riportata in calce al verbale, si legge che “ai 25 trattenuti non viene richiesto di firmare la consegna/ritiro degli effetti letterecci”. Risultano perciò incomprensibili le basi su cui viene affermata l’effettiva consegna di questi oggetti.

    Assente qualsiasi considerazione sul rispetto dei diritti fondamentali e sulla corretta esecuzione dei servizi presenti nell’offerta tecnica. “Il monitoraggio da parte della società civile si conferma essere uno strumento fondamentale. Se quanto emerso verrà confermato nelle sedi opportune viene da chiedersi chi controlla i controllori”, conclude l’avvocato Datena. Intanto, le claudicanti promesse di Martinina Srl hanno potuto circolare a piede libero, a differenza dei reclusi. Con il rischio che alla sofferenza si sia aggiunta la beffa del racconto di una quotidianità inesistente.

    https://altreconomia.it/inchiesta-sul-gestore-del-cpr-di-milano-tra-falsi-protocolli-e-servizi-
    #détention_administrative #rétention #Italie #Milan #privatisation #Martinina #via_corelli #business #Volontariato_internazionale_per_lo_sviluppo (#Vis) #BeFree #Inter/rotte #Ala_Milano #società_sportiva_Scarioni_1925 #Centro_islamico_di_Milano_e_Lombardia #Dianova #Il_Paniere_Alimentare #Musica_e_Teatro #Fiore_di_donna #Bondon_grocery #Engel #Alessandro_Forlenza #Paola_Cianciulli #Consiglia_Caruso #Edil_Coranimo #Allupo #Tek_Infrastructure #Masteri

  • ExpéKa – Sonny Troupé
    https://sonnytroupe.com/projets/expeka

    ExpéKa ce n’est pas de la fusion.

    C’est une multiplication de genres, issus d’une même racine, qui se complètent et se retrouvent.
    En somme, une réunion de famille.
    Le tambour ka comme socle et point de départ.
    Chaque rythme au contact de ce que la diaspora noire à produit de plus divers allant du jazz au rap.
    ExpéKa est le rappel que la musique caribéenne et sa multitude de déclinaisons sont en perpétuel mouvement.

    Avec :
    Casey : lead vocal, chœurs
    Célia Wa : lead vocal, flûte, chacha, chœurs
    Didier Davidas #wearetoupatou : claviers, chœurs, ti bwa
    Stéphane Castry : basse, chœurs
    Olivier Juste : tambour ka, chœurs
    Sonny Troupé : batterie, tambour ka, sampler, direction artistique

    ExpéKa – A-parte
    https://a-parte.fr/artist/expeka

    ExpéKa est composé de Casey (voix, textes), Sonny Troupé (batterie, tambour ka, sampler), Célia Wa (voix, flûte, chacha, chœur), Didier Davidas (claviers, choeurs, ti bwa), Olivier Juste (tambour ka, choeurs), Stéphane Castry (basse, choeurs).

    ExpéKa, c’est une passerelle entre la Guadeloupe et la Martinique sur une histoire commune, un parcours si­milaire autour du thème de la négritude dans ce qu’elle peut proposer de plus large.
    Le gwoka est né pendant l’esclavage aux Antilles et tire ses origines de la musique africaine chantée et jouée par les esclaves des anciennes plantations. Depuis quatre siècles, le tambour Ka accompagne les soirées lewoz, mais aussi les revendications des antillais.
    Casey, fille de Martiniquais née et élevée en France a choisi le rap pour s’approprier sa culture antillaise et dénoncer les maux de sa génération. Célia Wa, est flûtiste et chanteuse guadeloupéenne engagée, artiste remarquée de la nouvelle génération « soul & ka » et leader de projets dans lesquels elle exergue les maux de notre société.
    Sous la direction de Sonny Troupé, batteur percussionniste virtuose et compositeur guadeloupéen, dont le tambour ka reste le premier instrument, et aux côtés de musiciens d’exception venant de la Guadeloupe et de la Martinique dont l’éclectisme fait la force à savoir Didier Davidas aux claviers, Stéphane Castry à la basse et Olivier Juste au tambour ka, ils forment le groupe ExpéKa où chacun se retrouve dans cette zone grise où tout est possible.

    https://www.dailymotion.com/video/x6blbos

    #musique #ka #antilles #expéka #rap

  • [Radio #mukambo] Don’t Worry About The #groove
    https://www.radiopanik.org/emissions/radio-mukambo/dont-worry-about-the-groove

    Tracklist :

    Alpacas Collective – Gunkali Kwame Adzraku – Ohiabonee Jumbo System – Alarm Clock Alpacas Collective feat. Neg Madnick – Movéfèzè Kwame Adzraku – Money De Kill Azmari – Zargana Balaphonics & Mary May – Mr Greedy Onipa feat. Dele Sosimi – Marching Over London #afrobeat Collective – Topesa Esengo Na Motema The KTO Project feat. Wamkanganise – Mafaro eZimbabwe Latinaotearoa feat. Ully Costa – Chi Chi Cha Cha (Tahira Remix) Luedji Luna – Banho de Folhas (Tahira Maculele Edit) Christine Salem & Dj Click – Malouwé (Urban Mix)

    #latin #hiphop #podcast #world_music #global_afrobeat #afrogrooves #latin,hiphop,podcast,mukambo,afrobeat,world_music,groove,global_afrobeat,afrogrooves
    https://www.radiopanik.org/media/sounds/radio-mukambo/dont-worry-about-the-groove_16808__1.mp3

  • Das Einküchenhaus - Roomservice am Lietzensee
    https://www.berliner-zeitung.de/b-history/wohnen/das-einkuechenhaus-roomservice-am-lietzensee-li.224463


    Das Einküchenhaus verfügte über eine Großküche, die alle küchenlosen Wohnungen mit Mahlzeiten versorgte. Über Haustelefone konnten die Bewohner Essen bestellen.

    Der bürgerliche Feminismus hat ein paar interessante Ideen hervorgebracht, die unter kapitalistischen Rahmenbedingungen zum Scheitern verurteilt waren. Das Einküchenhaus wäre in einer sozialistischen Gesellschaft ein Erfolg geworden. Die Politik der DDR war nicht fortschrittlich genug, um die Verhältnisse der Menschen untereinander durch die radikale Änderung der Arbeitsteilung voranzutreiben. Diese Umfähigkeit ist Teil der Geschichte ihres Untergangs.

    Der Kapitalismus entledigte sich des Experiments auf seine Art: Es fanden sich nicht ausreichend Investoren und Mittel für das innovative Konzept, von dem nur die Bausubstanz erhalten blieb.

    7.5.2023 von Ida Luise Krenzlin - Die Frauenrechtlerin Lily Braun hatte eine emanzipierte Idee: die Kollektivierung der Hausarbeit in Zentralküchen. Warum das Berliner Experiment scheiterte.

    Wie bitte, keine Küchen in den Wohnungen? Ein Skandal! Stattdessen die „Einrichtung von Centralküchen, von Centralwaschanstalten, und die Einführung von Centralheizung“, dazu noch Speisesäle, Kindergärten und Turnräume? Wahrlich ein Skandal! Der Gegenwind, der dieser neuen Form des Wohnens entgegenschlägt, nimmt Orkanstärke an. Vom „Zukunftskarnickelstall“ und „Kasernenabfütterung“ ist die Rede, die konservativen Parteien sehen die Kleinfamilie in Gefahr. Denn ohne Küche kein Nachwuchs.

    Lily Braun fordert die Vereinbarkeit von Muttersein und Berufstätigkeit

    Was war geschehen? Die Frauenrechtlerin und Sozialdemokratin Lily Braun, die sich für die Vereinbarkeit von Muttersein und Berufstätigkeit engagiert, hat in einer Streitschrift 1901 gefordert, die Frau durch den Bau von „Einküchenhäusern“ aus „der Sklaverei der Hausarbeit“ zu befreien.

    „Raus aus dem Korsett!“ ist das Motto der Zeit. Das gilt nicht nur für die Garderobe, sondern auch für die Wohnverhältnisse. Denn immer mehr Frauen, sowohl aus bürgerlichen wie auch aus proletarischen Kreisen, sind berufstätig, vor allem in den Großstädten. Dass die kräftezehrende und zeitaufwendige Hausarbeit Frauen nicht mehr von der Teil - habe am gesellschaftlichen Leben abhalten soll, darin sind sich Vordenker*innen wie Lily Braun, Clara Zetkin und August Bebel oder der Architekt Bruno Taut einig. Gegenwind bläst aber auch in ihren Reihen: So hält Clara Zetkin die privatwirtschaftlich organisierten Berliner Einküchenhäuser für elitär. Für Arbeiterinnen, die in Mietskasernen in erbärmlichen Verhältnissen leben, seien die Kosten schlichtweg zu hoch. Sie soll recht behalten.

    Das erste Einküchenhaus am Lietzensee

    Die ersten deutschen Einküchenhäuser entstehen in Berliner Vororten. Am 1. Oktober 1908 ziehen Frauen – mit und ohne Familie – in das Einküchenhaus am Lietzensee. Das fünfgeschossige Wohnhaus in der Kuno-Fischer-Straße 13 in Charlottenburg, entworfen vom Architekten Curt Jähler, verfügt im Untergeschoss über eine Zentralküche. Mittels Haustelefon können die Bewohner die Speisen bestellen, Aufzüge bringen die Mahlzeiten hoch in die Zwei- bis Fünf-Zimmer-Wohnungen. In Windeseile sind alle Wohnungen belegt.


    Lily Braun setzt sich um 1900 für die Vereinbarkeit von Familie und Beruf ein. Die Frauenrechtlerin plädiert für die Kollektivierung der Hausarbeit in Zentralküchen. CC-BY 3.0

    Wenige Monate später, am 1. April 1909, gibt es zwei weitere Wohnanlagen mit gemeinschaftlich organisierten Haushaltseinrichtungen, eine in der Wilhelmshöher Straße 17–20 in Friedenau, die andere Unter den Eichen 53 in Lichterfelde-West. Die Reform-Architekten Albert Gessner und Hermann Muthesius haben die Gebäude entworfen. Außer Zentralküche, Speiseaufzügen, Dachterrasse, Sporträumen, Fahrradkeller und Grünflächen verfügt die von Gessner gebaute Anlage in Friedenau sogar über einen Kindergarten, den Reformpädagogen leiten. Es ziehen jedoch keine Arbeiterinnen ein, sondern gut situierte Familien und ledige Frauen.

    Eine emanzipierte Idee scheitert in Berlin

    Alle drei Berliner Einküchenhäuser werden privatwirtschaftlich gebaut und bewirtschaftet. Die dazu 1907 gegründete „Einküchenhaus-Gesellschaft der Berliner Vororte“ geht allerdings wenige Monate nach Eröffnung der Muthesius-Anlage pleite. Die Häuser sind teuer, die Kapitaleinlagen zu gering.


    Ein Dienstmädchen serviert seiner Herrschaft eine Mahlzeit aus dem Speisenfahrstuhl. ullstein-bild

    Der Widerstand aus dem konservativen Lager ist groß, die Frauenrechtlerinnen sind sich uneins. Als sogar die Sozialdemokraten das bürgerliche Familienmodell wiederentdecken, ist es um das Berliner Einküchenhaus geschehen. Die Umbrüche des Ersten Weltkriegs machen dem Reformprojekt endgültig den Garaus. Am Lietzensee schließt die Zentralküche 1913, in Lichterfelde 1915, in Friedenau 1917/18. Alle Wohnungen bekommen eine Küche eingebaut. Fortan steht dort jede Frau wieder an einem Herd.

    In Berlin scheitert das Einküchenhaus, in anderen Städten hingegen gibt es nach dem Ersten Weltkrieg ähnliche Projekte des kollektiven Wohnens. Dazu gehören der Heimhof in Wien, das Narkomfin-Kommunehaus in Mos - kau und die Isokon Flats (Lawn Road Flats, Isokon Building) in London. In Letzterem wohnen zeitweise Agatha Christie, Marcel Breuer und Walter Gropius.

    #Muthesiusstraße
    https://m.kauperts.de/Strassen/Muthesiusstrasse-12163-Berlin

    #Berlin #Witzleben #Lietzensee #Kuno-Fischer-Straße #Friedenau #Wilhelmshöher_Straße #Lichterfelde #Unter_den_Eichen #Feminismus #Wohnen #Architektur #Immobilien #Gedchichte