• La rivoluzione palestinese del 7 ottobre

    «Mi diressi verso Suha che prese Hanin, dicendo: “Non stare via troppo a lungo”. L’abbracciai, insieme alla piccola: “Non ti preoccupare… come gli uomini della Comune, noi invadiamo il cielo!” (…) Avevamo superato lo scoglio dell’autocontrollo, non avevamo versato neppure una lacrima, nessuno di noi aveva pianto».

    (da “Non metterò il vostro cappello” di Ahmed Qatamesh)

    Quando non si ha più niente, si è pronti per condividere tutto.

    La rivoluzione per la liberazione della Palestina del 7 ottobre ha mostrato come esseri umani – espropriati da oltre 75 anni di ogni elemento essenziale all’esistenza – possano condividere l’impossibile, ovvero mettere in ginocchio una potenza nucleare, non solo militarmente ma anche mozzandone la fiducia nel teismo colonialista e razzista.

    La rivoluzione del 7 ottobre ha reinventato leggi fisiche. Ha insegnato che ci si può tirare fuori dalla fossa più profonda del pianeta – quella dove i palestinesi sono stati sepolti dai sionisti e dagli occidentali – senza alcun punto d’appoggio.

    Unico appiglio – interiore e politico, sarebbe meglio dire con Alì Shariati di «spiritualità politica» – è la coscienza assoluta che servare vitam per servire il colone, sopravvivere cioè sottovivere, è il più grande errore che il colonizzato possa compiere nei propri confronti e verso i figli che verranno.

    I nuovi venuti al mondo debbono temere più della morte la vita scuoiata, spogliata fino a tendini e nervi di ciò che umano. Vale in particolar modo per gli oppressi palestinesi, ma anche per i giovani sottomessi dal presente liberista in Occidente.

    L’esistenza schiacciata ritrova significato soltanto nel sollevarsi contro il carnefice. Alzandosi dalla polvere, sorvola muri di segregazione e valichi d’acciaio, abbraccia cieli proibiti, si congiunge carnalmente con le nuvole più morbide per fecondarle e donare inattese stirpi ribelli a ogni terra.

    I guerriglieri di Gaza sui deltaplani sono diventati folate di vento e grida che hanno sovvertito il tempo, hanno dipinto un’immagine di liberazione tra le più elevate della recente storia dell’umanità.

    Un quadro immortale di gioia che nessun palestinese, nessuna donna, nessun uomo schiavizzato dal totalitarismo liberale, si leverà mai dallo sguardo.

    Un’autentica preghiera visiva da recitare con gli occhi di fronte a ogni sopruso subito.

    L’atterraggio sul suolo violentato dai colonizzatori è una nascita per i combattenti. E non si viene alla luce senza coprirsi di sangue. Non ci si libera da un’eterna brutalità senza violenza. Lo sa chiunque conosca la storia dalla parte dei reclusi nell’inferno terreno. In un istante, qualsiasi legame con la vile morale liberale viene bruciato e gli ultimi in rivolta, come abili ramai, maneggiando quel fuoco possono forgiare una naturale e istintiva verità senza diseguaglianze.

    «Quest’uomo nuovo comincia la sua vita d’uomo dalla fine; si considera come un morto in potenza. Sarà ucciso: non è soltanto che ne accetta il rischio, è che ne ha la certezza; quel morto in potenza ha perso sua moglie, i suoi figli; ha visto tante agonie che vuol vincere piuttosto che sopravvivere» ha lasciato scritto incontestabilmente Frantz Fanon.

    Nella gioia nichilista e al contempo creatrice di un futuro imprevedibile senza catene né limiti, il luminoso incantevole sorriso dei rivoluzionari traspare dalla keffiyeh arrotolata sul viso, e invita alla danza sopra i carrarmati nemici. I mostri che travolgevano bambini e insorti, adesso sono schiacciati dai salti di un intero popolo sprigionato.

    E la rivoluzione palestinese prosegue, nonostante i bombardamenti e l’ennesima, incessante strage di gazawi, con la Knesset che trema per i razzi lanciati dalle macerie, con il segretario di stato americano e l’eletto primo boia tra i boia sionisti rinchiusi in un bunker.

    Avanza di giorno in giorno nelle piazze delle città arabe, del Sudamerica e degli stati che il dispotismo capitalista si ostina a denominare Europa. Unite da quella che una volta ho definito «lotta contro questa vita».

    Le parole d’ordine dei movimenti seguono lo straripare palestinese. Scuotono, irridono vie e strade dominate dal profitto di pochi prescelti. Non hanno alcun riflesso della falsa pacificazione imposta ovunque, uccidendo in nome della democrazia e dei valori superiori d’Occidente. Chiedono la liberazione totale della Palestina. Senza concessioni ai sionisti.

    Ne vale la pena rispetto al massacro che gli oppressori compiono a Gaza senza tregua?

    Ne vale la pena davanti al profilarsi deciso della quarta fase del processo secolare e mai finito della Nakba, per citare Joseph Massad, ovvero l’azione terminale che ha come obiettivo lo sterminio ultimo dei palestinesi?

    Sì, perché l’atto storico della Resistenza Palestinese ha una potenza offensiva culturale, oltre che militare, sinora mai vista. L’accelerazione improvvisa dello scontro è una concreta possibilità di salvezza, in confronto a una sentenza di morte di massa in quotidiana esecuzione da decenni. Per loro, e per noi che abitiamo altre sponde del mediterraneo.

    Una sovversione che va oltre la logica utilitarista e tatticista della guerra e non può essere volgarmente chiamata “guerra”.

    Come per i rari urti che fanno irrompere una nuova concezione dell’umano, va adoperata la parola “rivoluzione”.

    A ogni latitudine, questo moto spinge donne e uomini condannati per sempre all’infimo rango a ritrovare la lotta per «una vita profonda».

    Superando il concetto marxista di «arcano della produzione», colgono, svelano l’arcano della distruzione su cui si regge il liberismo. Impulsivamente, animati da una «luxuria mentis» temeraria, vogliono fermarlo.

    Come le migliori rivoluzioni, quella palestinese del 7 ottobre ha l’effetto di far cadere, una a una, le maschere dei nemici.

    A cominciare dal trucco pesante delle garanzie democratiche che si scioglie, scoprendo il volto autoritario e discriminatorio dell’Unione Europea.

    In tanti lo avevamo già scorto nella guerra contro i migranti e gli ultimi sui gradini della scala sociale.

    Ora, per chiunque, è difficile negare la mostruosità repressiva delle dodici stelle di Bruxelles e Strasburgo, sempre più simili a dodici stelle di David.

    *

    Quando non si è più niente, si perde tutto e non si persuade più nessuno.

    Israele e l’Occidente, con il minuscolo stato italiano, sono scossi da una paura incontrollabile. Neanche i detentori delle leve del potere provano a dare credibilità all’interminabile messinscena dell’invincibilità e della democrazia.

    Nello stato d’occupazione, i coloni con doppia nazionalità non sono rassicurati nemmeno dalla rappresaglia su Gaza con ospedali rasi al suolo, bombe a grappolo e fosforo bianco. Finalmente si mettono in fila negli aeroporti per abbandonare la terra che hanno usurpato.

    La république, dopo la lucente e giovanissima insurrezione dell’estate, ha il giusto sentore di poter essere la prossima a venire sommersa dall’onda della rivoluzione del 7 ottobre. Vieta le mobilitazioni in solidarietà con la Palestina e arresta ed espelle Mariam Abu Daqqa, voce nitida del Fronte Popolare. Ormai non si nasconde più: è basata sul suffragio dei mercati e sulla libertà, eguaglianza e fraternità tra banchieri, predatori e assassini in nome dell’extraprofitto.

    La Deutsche Republik militarizza le scuole, i quartieri popolati da immigrati, fa passare l’ultimo libro di Adania Shani dalla premiazione a Francoforte all’indice, proibisce di indossare la keffiyeh e sventolare la bandiera della Palestina. Dal 19 ottobre, a Berlino, manifestanti arabi e tedeschi hanno fatto intendere che non staranno a lungo immobili.

    La repubblica italiana intimidisce inutilmente gli studenti che sostengono la Resistenza Palestinese. Manganella chi contesta gli amici d’Israele a Livorno e Roma. Si prepara all’imminente stagione repressiva, dispensando allarmi bomba fasulli e chiudendo le frontiere laddove possibile. Atti utili a stabilire una condizione d’emergenza che renderà lecito punire il movimento che di minuto in minuto prende forma.

    Questa paura legalizzata di perdere tutto conduce i media dei regimi liberisti dell’Unione Europea a tentare di ridurre la rivoluzione palestinese del 7 ottobre a un’azione terroristico-religiosa, a tracciare parallelismi demenziali con l’11 settembre, il Bataclan, l’Isis e chi ha più benzina da versare sul falò psicotico dello scontro di civiltà, più ne butti.

    Peccato per loro che buona parte dei giovani abbia capito, in ogni angolo del pianeta, che c’è soltanto uno scontro di civiltà: quello tra dominanti e incatenati, tra sfruttatori e sfruttati.

    Una propaganda arabofoba, islamofoba, misoxena, pericolosa, da contrastare con intelligenza, ma assolutamente stantia e prevedibile.

    Se le parole del potere sono logore, in disfacimento, non sono da meno le frasi di tanti «professori di morale» che affermano di schierarsi con i palestinesi. Però dopo aver condannato «i nazisti» di Hamas equiparandoli ai «nazisti» di Tel Aviv, e aver classificato la rivoluzione del 7 ottobre come «un pogrom». Coloro che sono stati visionari interpreti del marxismo occidentale ricorrono dunque alla stessa espressione usata da Rishi Sunak, il primo ministro inglese, fautore della deportazione e dell’assassinio su vasta scala dei migranti che attraversano il canale della Manica.

    Davvero i «disorientatori» della sinistra pacificata non comprendono che nello stato d’insediamento coloniale israeliano non esistono “civili”?

    Davvero non sanno che coloni, armati fino ai denti, assaltano regolarmente le case dei palestinesi e li uccidono?

    Davvero non conoscono la storia fondamentale e preziosa di Hamas al punto di lasciarsi sgocciolare dalla bocca una simile infamia?

    Davvero non immaginano che la Resistenza Palestinese è unita dal 2021 nelle sue diverse componenti e che Hamas è la parte prevalente?

    Davvero non si rendono conto che la Palestina dell’ottobre 2023 rappresenta per le nuove generazioni ciò che il Vietnam (e i Vietcong avevano un’etica guerriera non meno intransigente rispetto a quella della Resistenza Palestinese) ha rappresentato nella loro epoca?

    Non sono ignoranti, se non nell’anima. Semplicemente gli piacciono i palestinesi – ritorniamo ancora a Fanon – quando sono «inferiorizzati», quando sono vittime da contare sul pallottoliere della morte. Perché i palestinesi devono restare, all’immancabile bagno di sangue quotidiano, un’occasione per sentirsi occidentali differenti e buoni.

    Hanno quindi terrore della rivoluzione del 7 ottobre che porta tanti tra i nostri figli a rifiutare e sputare sull’idea razzista, suprematista – da loro sempre magnificata – di fittizia identità europea. La vera progenitrice, persino più del nazionalismo genocida statunitense, del colonialismo israeliano.

    Hanno accettato di essere «uomini viventi miseramente», asserirebbe Pierre Clastres, e non riescono a nuotare in quest’alluvione sovversiva.

    Il loro linguaggio rifugge la logica disgiuntiva della realtà (o – o, o sto con una parte o sto con l’altra parte), reitera l’ipocrita e noto meccanismo del distanziarsi.

    «I professori di morale» oggi, dopo il 7 ottobre, non sono più niente.

    Lo dimostra l’abusato florilegio di congiunzioni negative. «Né con Hamas, né con Israele, né con chi uccide, ma con la Palestina», è l’insensata formula. Quasi che i militanti di Hamas provenissero da una galassia lontana e non godessero, come detto, dell’appoggio consistente del popolo palestinese.

    Lo imparino nella sinistra legalitaria: Allāhu akbar non è il grido di battaglia dei terroristi. È un richiamo consapevole all’inconsistenza del reale e delle nostre pietose ossessioni.

    La Rivoluzione Palestinese è solo iniziata il 7 ottobre.

    È una cesura col passato meravigliosamente e tragicamente irreversibile.

    Le donne e gli uomini della Comune invadono il cielo.

    https://www.osservatoriorepressione.info/la-rivoluzione-palestinese-del-7-ottobre
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  • Lettre ouverte au président de la République française - L’Orient-Le Jour
    https://www.lorientlejour.com/article/1354010/lettre-ouverte-au-president-de-la-republique-francaise.html

    Lettre ouverte au président de la République française
    OLJ / Par Dominique EDDÉ, le 20 octobre 2023 à 10h30

    Monsieur le Président,

    C’est d’un lieu ruiné, abusé, manipulé de toutes parts, que je vous adresse cette lettre. Il se pourrait qu’à l’heure actuelle, notre expérience de l’impuissance et de la défaite ne soit pas inutile à ceux qui, comme vous, affrontent des équations explosives et les limites de leur toute puissance.

    Je vous écris parce que la France est membre du Conseil de sécurité de l’ONU et que la sécurité du monde est en danger. Je vous écris au nom de la paix.

    L’horreur qu’endurent en ce moment les Gazaouis, avec l’aval d’une grande partie du monde, est une abomination. Elle résume la défaite sans nom de notre histoire moderne. La vôtre et la nôtre. Le Liban, l’Irak, la Syrie sont sous terre. La Palestine est déchirée, trouée, déchiquetée selon un plan parfaitement clair : son annexion. Il suffit pour s’en convaincre de regarder les cartes.

    Le massacre par le Hamas de centaines de civils israéliens, le 7 octobre dernier, n’est pas un acte de guerre. C’est une ignominie. Il n’est pas de mots pour en dire l’étendue. Si les arabes ou les musulmans tardent, pour nombre d’entre eux, à en dénoncer la barbarie, c’est que leur histoire récente est jonchée de carnages, toutes confessions confondues, et que leur trop plein d’humiliation et d’impotence a fini par épuiser leur réserve d’indignation ; par les enfermer dans le ressentiment. Leur mémoire est hantée par les massacres, longtemps ignorés, commis par des Israéliens sur des civils palestiniens pour s’emparer de leurs terres. Je pense à Deir Yassin en 1948, à Kfar Qassem en 1956. Ils ont par ailleurs la conviction – je la partage – que l’implantation d’Israël dans la région et la brutalité des moyens employés pour assurer sa domination et sa sécurité ont très largement contribué au démembrement, à l’effondrement général. Le colonialisme, la politique de répression violente et le régime d’apartheid de ce pays sont des faits indéniables. S’entêter dans le déni, c’est entretenir le feu dans les cerveaux des uns et le leurre dans les cerveaux des autres. Nous savons tous par ailleurs que l’islamisme incendiaire s’est largement nourri de cette plaie ouverte qui ne s’appelle pas pour rien « la Terre sainte ». Je vous rappelle au passage que le Hezbollah est né au Liban au lendemain de l’occupation israélienne, en 1982, et que les désastreuses guerres du Golfe ont donné un coup d’accélérateur fatal au fanatisme religieux dans la région.

    Qu’une bonne partie des Israéliens reste traumatisée par l’abomination de la Shoah et qu’il faille en tenir compte, cela va de soi. Que vous soyez occupé à prévenir les actes antisémites en France, cela aussi est une évidence. Mais que vous en arriviez au point de ne plus rien entendre de ce qui se vit ailleurs et autrement, de nier une souffrance au prétexte d’en soigner une autre, cela ne contribue pas à pacifier. Cela revient à censurer, diviser, boucher l’horizon. Combien de temps encore allez-vous, ainsi que les autorités allemandes, continuer à puiser dans la peur du peuple juif un remède à votre culpabilité ? Elle n’est plus tolérable cette logique qui consiste à s’acquitter d’un passé odieux en en faisant porter le poids à ceux qui n’y sont pour rien. Écoutez plutôt les dissidents israéliens qui, eux, entretiennent l’honneur. Ils sont nombreux à vous alerter, depuis Israël et les États-Unis.

    Commencez, vous les Européens, par exiger l’arrêt immédiat des bombardements de Gaza. Vous n’affaiblirez pas le Hamas ni ne protégerez les Israéliens en laissant la guerre se poursuivre. Usez de votre voix non pas seulement pour un aménagement de corridors humanitaires dans le sillage de la politique américaine, mais pour un appel à la paix ! La souffrance endurée, une décennie après l’autre, par les Palestiniens n’est plus soutenable. Cessez d’accorder votre blanc-seing à la politique israélienne qui emmène tout le monde dans le mur, ses citoyens inclus. La reconnaissance, par les États-Unis, en 2018, de Jérusalem capitale d’Israël ne vous a pas fait broncher. Ce n’était pas qu’une insulte à l’histoire, c’était une bombe. Votre mission était de défendre le bon sens que prônait Germaine Tillion « Une Jérusalem internationale, ouverte aux trois monothéismes. » Vous avez avalisé, cette même année, l’adoption par la Knesset de la loi fondamentale définissant Israël comme « l’État-Nation du peuple juif ». Avez-vous songé un instant, en vous taisant, aux vingt et un pour cent d’Israéliens non juifs ? L’année suivante, vous avez pour votre part, Monsieur le Président, annoncé que « l’antisionisme est une des formes modernes de l’antisémitisme. » La boucle était bouclée. D’une formule, vous avez mis une croix sur toutes les nuances. Vous avez feint d’ignorer que, d’Isaac Breuer à Martin Buber, un grand nombre de penseurs juifs étaient antisionistes. Vous avez nié tous ceux d’entre nous qui se battent pour faire reculer l’antisémitisme sans laisser tomber les Palestiniens. Vous passez outre le long chemin que nous avons fait, du côté dit « antisioniste », pour changer de vocabulaire, pour reconnaître Israël, pour vouloir un avenir qui reprenne en compte les belles heures d’un passé partagé. Les flots de haine qui circulent sur les réseaux sociaux, à l’égard des uns comme des autres, n’exigent-ils pas du responsable que vous êtes un surcroît de vigilance dans l’emploi des mots, la construction des phrases ? À propos de paix, Monsieur le Président, l’absence de ce mot dans votre bouche, au lendemain du 7 octobre, nous a sidérés. Que cherchons-nous d’autre qu’elle au moment où la planète flirte avec le vide ?

    Les accords d’Abraham ont porté le mépris, l’arrogance capitaliste et la mauvaise foi politique à leur comble. Est-il acceptable de réduire la culture arabe et islamique à des contrats juteux assortis – avec le concours passif de la France – d’accords de paix gérés comme des affaires immobilières ? Le projet sioniste est dans une impasse. Aider les Israéliens à en sortir demande un immense effort d’imagination et d’empathie qui est le contraire de la complaisance aveuglée. Assurer la sécurité du peuple israélien c’est l’aider à penser l’avenir, à l’anticiper, et non pas le fixer une fois pour toutes à l’endroit de votre bonne conscience, l’œil collé au rétroviseur. Ici, au Liban, nous avons échoué à faire en sorte que vivre et vivre ensemble ne soient qu’une et même chose. Par notre faute ? En partie, oui. Mais pas seulement. Loin de là. Ce projet était l’inverse du projet israélien qui n’a cessé de manœuvrer pour le rendre impossible, pour prouver la faillite de la coexistence, pour encourager la fragmentation communautaire, les ghettos. À présent que toute cette partie du monde est au fond du trou, n’est-il pas temps de décider de tout faire autrement ? Seule une réinvention radicale de son histoire peut rétablir de l’horizon.

    En attendant, la situation dégénère de jour en jour : il n’y a plus de place pour les postures indignées et les déclarations humanitaires. Nous voulons des actes. Revenez aux règles élémentaires du droit international. Demandez l’application, pour commencer, des résolutions de l’ONU. La mise en demeure des islamistes passe par celle des autorités israéliennes. Cessez de soutenir le nationalisme religieux d’un côté et de le fustiger de l’autre. Combattez les deux. Rompez cette atmosphère malsaine qui donne aux Français de religion musulmane le sentiment d’être en trop s’ils ne sont pas muets.

    Écoutez Nelson Mandela, admiré de tous à bon compte : « Nous savons parfaitement que notre liberté est incomplète sans celle des Palestiniens, » disait-il sans détour. Il savait, lui, qu’on ne fabrique que de la haine sur les bases de l’humiliation. On traitait d’animaux les noirs d’Afrique du Sud. Les juifs aussi étaient traités d’animaux par les nazis. Est-il pensable que personne, parmi vous, n’ait publiquement dénoncé l’emploi de ce mot par un ministre israélien au sujet du peuple palestinien ? N’est-il pas temps d’aider les mémoires à communiquer, de les entendre, de chercher à comprendre là où ça coince, là où ça fait mal, plutôt que de céder aux affects primaires et de renforcer les verrous ? Et si la douleur immense qu’éprouve chaque habitant de cette région pouvait être le déclic d’un début de volonté commune de tout faire autrement ? Et si l’on comprenait soudain, à force d’épuisement, qu’il suffit d’un rien pour faire la paix, tout comme il suffit d’un rien pour déclencher la guerre ? Ce « rien » nécessaire à la paix, êtes-vous sûrs d’en avoir fait le tour ? Je connais beaucoup d’Israéliens qui rêvent, comme moi, d’un mouvement de reconnaissance, d’un retour à la raison, d’une vie commune. Nous ne sommes qu’une minorité ? Quelle était la proportion des résistants français lors de l’occupation ? N’enterrez pas ce mouvement. Encouragez-le. Ne cédez pas à la fusion morbide de la phobie et de la peur. Ce n’est plus seulement de la liberté de tous qu’il s’agit désormais. C’est d’un minimum d’équilibre et de clarté politique en dehors desquels c’est la sécurité mondiale qui risque d’être dynamitée.

    Par Dominique EDDÉ. Écrivaine.

  • Où va la France industrielle ?
    https://laviedesidees.fr/Elie-Cohen-Souverainete-industrielle

    La réhabilitation de la notion de politique industrielle dans le débat public français et européen invite à se pencher sur son histoire et étudier comment les entreprises ont pu ou non mettre en œuvre les injonctions gouvernementales au cours des récentes décennies. À propos de : Élie Cohen, Souveraineté industrielle. Vers un nouveau modèle productif, Odile Jacob

    #Économie #industrie #souveraineté
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/202310_bonin.docx
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/20231019_bonin.pdf
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/20231019_bonin.docx

  • Restos du cœur : « L’aide alimentaire est à bout de souffle »
    https://reporterre.net/Restos-du-coeur-L-aide-alimentaire-est-a-bout-de-souffle

    Il y a eu le Covid, ainsi que la hausse de l’inflation des produits alimentaires. Mais c’est avant tout notre système économique qui creuse les inégalités. Les salaires n’augmentent pas suffisamment, les écarts de revenus se sont accrus, et des personnes qui travaillent ne peuvent pas payer leurs charges, dont l’alimentation. Quand on touche les minimas sociaux ou un petit salaire, l’alimentation est en effet l’une des variables d’ajustement dans un budget, avec des effets (et des coûts) importants sur la santé et le bien-être. Tout cela devrait nous enjoindre à réfléchir au problème de façon globale : que veut dire se nourrir ? De quelle alimentation parle-t-on ? Quelle est la vie des paysans, à l’autre bout de la chaîne ? Bref, il est important d’appréhender ces enjeux de façon systémique, plutôt que de se pencher seulement sur une partie du problème.

  • ★ Conflit israélo-palestinien, une seule voie vers la paix pour tous-tes : la justice et la décolonisation ! – CNT-SO

    Depuis le 07 octobre, le long conflit colonial israélo-palestinien, a repris la forme d’une guerre ouverte qui pourrait s’étendre à tout moment dans la région. Les événements de Gaza ont des répercussions dans le monde entier y compris en France et il nous faut y répondre par une ligne claire : de classe et internationaliste !
    Une urgence : la fin des combats
    Notre solidarité internationaliste va aux travailleurs et travailleuses de Palestine, d’Israël et immigré·es qui sont comme toujours les premières victimes de la guerre. C’est le cas de la majorité des victimes en Israël, ciblées comme juif·ves par le Hamas et ses alliés. C’est le cas aujourd’hui de la majorité des palestinien·nes victimes de la campagne militaire israélienne. Il ne peut y avoir d’indignation à géométrie variable face à ces mort·es. Terrorisme, crime de guerre ou contre l’Humanité : nous ne rentrerons pas dans le débat stérile sur ce que retiendra la justice internationale ou un jour l’Histoire. L’urgence est ailleurs !

    #Palestine #Israël #colonialisme #militarisme #nationalismes #colonialisme #guerre #violences #crimes #barbarie #bombardement #souffrances #haines #DroitsHumains #internationalisme #Paix #Liberté... #solidarité #anarchisme...

    https://cnt-so.org/conflit-israelo-palestinien-une-seule-voie-vers-la-paix-pour-tous-tes-la-jus

  • ★ Palestine-Israël : Pour un réel processus de paix - GLJD Le Libertaire

    Tout d’abord, aucune ambiguïté ne doit subsister : le Hamas est une organisation islamo-fasciste, religieuse et guerrière, qui a commis un effroyable massacre de civils en Israël. C’est un crime de guerre. Parler de guerre sale est un pléonasme. Il n’y a pas de guerre propre. Toute guerre est sale avec son lot de massacres, de tortures, de mutilés, de viols, de kidnapping… Tout comme Bakhmout fut un massacre planifié par les Russes en Ukraine, l’attaque meurtrière du Hamas a été planifiée de la même manière contre les Israéliens le 7 octobre 2023. Cette attaque est à condamner sans tergiverser. Quand Biden et d’autres dirigeants occidentaux parlent du droit de la guerre, c’est une vaste fumisterie. Dans la guerre, il n’y a plus de droit. C’est quand on est en période de paix qu’il faut parler de la paix. En période de guerre, la raison n’existe quasiment plus ; l’irrationnel règne (...)

    #Palestine #Israël #colonialisme #militarisme #nationalismes #guerre #violences #crimes #barbarie #bombardement #souffrances #haines #DroitsHumains #internationalisme #Paix #Liberté... #solidarité

    https://le-libertaire.net/palestine-israel-pour-un-reel-processus-de-paix

  • Les femmes ne fonctionnent pas comme les hommes

    « - Ça fait 4 ans que j’essaie de féminiser cette émission mais les femmes c’est tjs ‘je ne parlerai que dans le domaine où je suis compétente’
    – Mais si elles préfèrent ne pas raconter n’importe quoi, c’est peut-être une bonne chose non...? » @landais_camille, juste et drôle 🙏🏼

    https://twitter.com/NegarHaeri/status/1713143416811405462

    #femmes #télé #TV #féminisation #experts #compétence #sous-représentation #hommes #tutologie #genre

  • « La souveraineté numérique est morte... Vive la résilience ! »
    https://www.lepoint.fr/debats/la-souverainete-numerique-est-morte-vive-la-resilience-06-02-2023-2507586_2.

    TRIBUNE. Face à la militarisation croissante de l’Internet, il est urgent d’investir dans la résilience de nos infrastructures numériques.

    Par Tariq Krim*
    Publié le 06/02/2023 à 14h00

    L’Europe, qui a joué un rôle énorme dans le développement d’Internet, est toutefois menacée par la militarisation croissante du réseau. (Photo d’illustration) © YANN SCHREIBER / AFP

    Temps de lecture : 7 min

    Nous avions dix ans pour construire la souveraineté numérique de la France et la préparer au monde de demain, celui de la fragmentation et de la militarisation de l’Internet. Un monde où la déglobalisation compliquera l’accès aux composants technologiques nécessaires pour faire fonctionner le pays. Un monde où accepter la protection des États-Unis dans le domaine numérique nous obligerait, faute de véritable infrastructure indépendante, à ne faire que de mauvais choix économiques et politiques à l’image du deal « Données personnelles contre Gaz » initié l’année dernière par la présidente de la Commission, Ursula von der Leyen. Il nous reste dix ans pour mettre en place la résilience numérique de l’Europe, colonne vertébrale de nos échanges commerciaux ainsi que de notre vie citoyenne et culturelle.

    La souveraineté numérique est un combat légitime, mais déjà dépassé par la situation géopolitique actuelle. Après la création d’un réseau mondial, puis son accaparation par quelques acteurs, nous entrons dans le troisième acte de l’histoire de l’Internet, marqué par un risque de fragmentation et d’instabilité. L’Internet ouvert, qui aura été pendant trente ans une source extraordinaire de croissance économique, laisse place à un réseau balkanisé et militarisé auquel nous ne sommes pas préparés. Nous avions pourtant une décennie pour faire de l’Europe et de la France le phare de l’Internet où il fait bon vivre. Mais au lieu de soutenir cette « troisième voie numérique », nous n’avons fait que louer, au sens propre et figuré, les technologies issues de la Silicon Valley.

    Linux, MP3, MySQL… des inventions européennes

    Le logiciel aurait dû être notre première ligne de défense. Il y a cinquante ans, François Gernelle inventait le micro-ordinateur et dans les décennies qui suivirent, les grands groupes français et européens allaient dominer le monde des télécoms, des réseaux, du mobile et de l’électronique grand public. L’arrivée de l’Internet basée sur des réseaux et des logiciels ouverts a fait naître un nouvel environnement technologique. La Silicon Valley est la seule région du monde qui accepta de prendre le risque de commercialiser une nouvelle génération de produits basés sur ces technologies. En Europe, les dirigeants des grands groupes aidés des politiques allaient tout faire pour les saborder et tenter d’imposer des alternatives propriétaires. Le destin numérique de l’Europe est alors scellé.

    C’est l’Europe qui invente le Web, mais ce sont les États-Unis qui commercialiseront Netscape, le premier navigateur Web. Il ouvre la voie à la plus grande création de valeur de l’histoire de l’humanité. Linux, le moteur du Cloud, a été créé en Finlande, mais ce sont Google, Amazon et Facebook, Microsoft et les plateformes chinoises qui en profiteront vraiment. Face aux informaticiens et développeurs de la Silicon Valley, nous n’avions chez nous, aux manettes, que des politiques, des juristes ou des communicants. C’est la raison pour laquelle nous n’avons pas su faire émerger la filière logicielle que nous méritions. La plupart des politiques continuent d’ignorer que Linux, MySQL, Python, IRC, le Mpeg et le MP3, ainsi que bien d’autres briques fondamentales du Web moderne, ont été inventées en Europe, voire en France. C’est une des raisons pour lesquelles les investissements européens ont longtemps ignoré les créateurs de technologie Web et préféré financer de grands groupes qui n’ont jamais rien délivré. Une doctrine qui est toujours d’actualité.

    La politique de financement des start-up européennes continue directement ou indirectement à renforcer nos dépendances à la stack technique des Gafam. Un « loyer » exorbitant qu’il est difficile d’ignorer dans notre balance commerciale. Le débat que je tente d’initier depuis dix ans entre le financement d’une infrastructure d’émancipation, c’est-à-dire un ensemble de briques souveraines dans lesquelles nous pourrions puiser, et celui d’une « start-up nation » addicte aux grandes plateformes, prend une nouvelle importance avec la suite ininterrompue de crises qui nous frappent. La crise du Covid, de l’énergie, l’inflation et la remontée des taux ont montré l’extrême fragilité des start-up européennes à la conjoncture internationale. Selon le fonds d’investissement Atomico, c’est déjà plus de 400 milliards de dollars de valorisation qui auraient disparu en fumée en 2022.

    L’Europe est plus que jamais vulnérable

    L’invasion de l’Ukraine par la Russie et le risque d’embrasement du cyberespace européen met à nu notre sous-investissement chronique sur la sécurisation de nos infrastructures essentielles, notamment les câbles sous-marins. Si la France dispose de sa propre réponse militaire en cas de conflit conventionnel, sur le numérique elle pourrait, comme l’a fait l’Ukraine, être obligée de demander la protection des Gafam. L’argent déployé en urgence pour protéger nos hôpitaux et nos services attaqués quotidiennement ne suffira pas pour couvrir les immenses besoins en la matière. L’autre sujet dont on parle peu, c’est celui de la balkanisation du réseau, le fameux Splinternet. Invité par les organisateurs de la conférence DLD, qui réunit chaque année avant Davos les principaux acteurs du numérique, j’ai décidé dans ma présentation d’aborder la question des conséquences d’une telle fragmentation sur nos économies déjà fragiles.

    Ma théorie est que si la Chine, la Russie et d’autres autocraties décident de construire leur propre réseau incompatible avec le nôtre, alors l’Europe n’aura pas d’autre choix que de se jeter dans les bras des États-Unis et de leur céder le contrôle opérationnel du principal moteur de notre croissance : un réseau Internet libre et ouvert. Le risque est à la fois économique et culturel. En laissant les algorithmes des réseaux sociaux diluer nos spécificités culturelles, nous courons également le risque de perdre le contrôle de nos propres narratifs.

    Quel avenir pour les démocraties européennes dans des plateformes où la désinformation et la polarisation sont toujours, cinq ans après l’affaire Cambridge Analytica, un problème technique insoluble ? Quelle capacité de résister face à une forme de colonisation idéologique par les nouveaux modèles d’intelligence artificielle instanciée aux États-Unis ? Il suffit déjà de voir comment les gigantesques bases d’apprentissage des nouveaux services d’intelligence artificielle de type ChatGPT produisent à travers leurs réponses les modes de pensée et les éléments de langage anglo-saxons.

    Quel plan B ?

    Une chose est certaine. L’Internet que nous avons toujours connu n’existe plus. Si la Chine s’est isolée de l’Internet occidental il y a 26 ans, ce sont aujourd’hui 35 pays qui ont bloqué partiellement ou complètement l’accès au réseau. Pour les dix prochaines années, la première des choses est de s’assurer de la continuité des services numériques essentiels dans le cas où l’Internet mondial viendrait à se dégrader. Alors que la situation numérique de l’Ukraine les oblige à se connecter dans certaines régions à Starlink, le réseau satellitaire privé d’Elon Musk, nous avons cédé notre propre solution de connectivité satellitaire aux Indiens. En cas de crise majeure de la connectivité, quel est notre plan B ?

    Les crises des démocraties européennes, renforcées par la polarisation des débats sur les réseaux sociaux, les conséquences du changement climatique sur la mondialisation et désormais une potentielle crise de l’Internet semblent jouer en notre défaveur. L’Europe pourrait être l’une des grandes perdantes de cette nouvelle reconfiguration du monde. Sauf si nous nous préparons.

    Car ce défi est aussi une opportunité pour l’Europe si nous décidons de changer de cap et de prendre notre destin en main. Une grande partie des logiciels de la nouvelle évolution du réseau sont créés en Europe : le Edge computing, IA à faible besoin de calculs, conception de puces ouvertes et une nouvelle offre de logiciels libres capable de nous émanciper des Gafam. Il y a aussi des projets à long terme comme l’informatique quantique, mais la bataille du réseau se joue maintenant. Les munitions techniques sont à notre disposition. Saurons-nous les utiliser ?

    Face au principe de réalité, la véritable bataille est idéologique. Les dirigeants européens et français n’ont ni vision ni volonté politique. La peur de l’inconnu les paralyse. Pendant que les États-Unis ouvraient l’Internet au monde en 1993, la priorité de l’Europe était le diesel propre. Trente ans plus tard, à la veille d’un risque de fermeture du réseau des réseaux, est-ce que les développeurs des technologies de résilience auront enfin l’oreille des politiques et le soutien financier qu’ils réclament ?

    Où est-ce que les milliards d’euros des plans d’investissements européens et français continueront d’être déversés dans un futur qui n’existe plus ? Déplacer l’Europe du siège passager au siège conducteur, se traduit par la volonté de construire un monde numérique plus apaisé, moins consommateur en ressources énergétiques et plus respectueux de notre attention. C’est aussi une opportunité pour changer la direction « idéologique » du réseau. Car nous ne sommes pas les seuls « spectateurs » du combat dantesque que se livrent la Chine et les États-Unis pour la domination du réseau.

    L’Inde, le Brésil, le Nigeria, l’Indonésie, la Malaisie et un ensemble de pays non alignés représentant près de deux milliards d’internautes seront attentifs à ce que nous saurons mettre en œuvre.

    * Pionnier du Web français, entrepreneur en série (Netvibes et Jolicloud, notamment) et ancien vice-président du Conseil national du numérique, Tariq Krim a lancé Polite.one, une plateforme qui veut permettre aux utilisateurs de reprendre le contrôle de leur vie numérique.

    #Tarik_Krim #Souveraineté_numérique

  • Au #Tchad, « urgence humanitaire majeure » pour les #réfugiés_soudanais

    "Les besoins humanitaires empirent chaque jour" pour les quelque 400 000 réfugiés soudanais qui ont fui les combats vers le Tchad voisin, a alerté mercredi l’ONG Handicap International, affirmant que "1 500 à 2 000 personnes traversent chaque jour la frontière".

    Selon l’ONG Handicap International, ces personnes « vivent dans des conditions désastreuses, manquant de tout, notamment d’eau, de nourriture, d’abris et de soins médicaux ».

    "Les besoins humanitaires empirent chaque jour" pour les quelque 400 000 réfugiés soudanais qui ont fui les combats vers le Tchad voisin, a alerté mercredi l’ONG Handicap International, affirmant que "1 500 à 2 000 personnes traversent chaque jour la frontière".

    Ces personnes "vivent dans des conditions désastreuses manquant de tout, notamment d’eau, de nourriture, d’abris, de soins médicaux..." et "les quelques ONG présentes sur place (...) font face à une urgence humanitaire majeure qui se détériorera sans un soutien immédiat et conséquent des États bailleurs", précise l’organisation dans un communiqué.

    Au total, plus de 400 000 personnes sont aujourd’hui réfugiées au Tchad, selon le bureau de coordination des affaires humanitaires de l’ONU (UNHCR) – dont 86% sont des femmes et des enfants.

    Chaque jour, nombre d’entre eux continuent de traverser la frontière après des kilomètres de marche pour fuir les sanglants combats au Soudan déclenchés le 15 avril entre l’armée et les paramilitaires, avant que les miliciens tribaux ne se jettent eux aussi dans la bataille.

    Le Tchad est le troisième pays le moins développé au monde selon l’ONU et son système de santé à genoux ne peut souvent rien pour les plus fragiles.

    Avant la dernière guerre au Soudan, le pays accueillait déjà quelque 410 000 Soudanais ayant fui la guerre du Darfour (province occidentale du Soudan) dans les années 2000, ainsi que des dizaines de milliers de réfugiés du Cameroun dans l’ouest et de Centrafrique dans le sud.

    Selon les projections de l’ONU, 200 000 nouveaux réfugiés du Soudan pourraient encore arriver bientôt.

    https://fr.africanews.com/2023/10/06/tchad-urgence-humanitaire-majeure-pour-les-refugies-soudanais

    #crise_humanitaire #asile #migrations #réfugiés #Soudan #chiffres #statistiques

  • ★ Communiqué de la Fédération anarchiste du 5 juillet 2006 et déjà...

    « Quelle alternative au Moyen-Orient ?

    La Fédération anarchiste francophone dénonce et condamne la nouvelle agression militaire en cours en Palestine et dans les territoires occupés faisant suite à l’enlèvement d’un jeune appelé franco-israélien.
    Une fois de plus, dans la guerre sans fin qui oppose l’Etat israélien et l’Autorité palestinienne, ce sont les populations civiles, toujours aux premières loges, qui paient de leurs sang, de leurs conditions de vie et de leurs libertés l’affrontement de deux logiques nationalistes, capitalistes, militaires, et religieuses.
    C’est bien le Hamas et le Djihad Islamique qui, arrivés au pouvoir par les urnes en profitant de la corruption et du discrédit du Fatah de Yasser Arafat et de la déliquescence de l’OLP, tirent profit de la colère, de la frustration de la majorité palestinienne en transformant ainsi le combat contre l’oppression colonialiste en combat religieux, avec ses dérives antisémites.
    Les gouvernements israéliens ont toujours cherché ce conflit religieux, et ont donc favorisé la montée d’un courant islamiste intégriste, cherchant ainsi à légitimer aux yeux des pays occidentaux leur politique de colonisation, de domination, et d’apartheid ethnique.
    En tant qu’anarchistes nous savons que les Etats séparent les peuples par l’établissement de frontières. Tout comme la création de l’Etat d’Israël n’a rien réglé pour cette région, et pour les juifs exilés, eux aussi à une autre époque dans une situation désespérante, la création d’un véritable Etat palestinien ne peut nous satisfaire. A quoi donc servirait un Etat plus formel pour les Palestiniens ? Que ferait donc cet Etat ? Maintenir le statu quo sur l’influence grandissante des islamistes, laisser la guerre sociale de côté, sous prétexte que l’ennemi, c’est Israël. Et l’émancipation sociale ?
    Et l’égalité économique et sociale dans tout ça ? La haine entre des peuples, réfugiés derrière d’éventuels barbelés dans leurs Etats respectifs, se cristalliserait sur des communautés nationales, concept diffus,
    trompeur et interclassiste, si l’on dressait plus de frontières.
    Nous proposons le fédéralisme libertaire, fondamentalement égalitaire et adapté à un Moyen-Orient constitué de mosaïques de peuples, préconisant la libre association, la libre fédération, sur des bases égalitaires entre les individus et les groupes d’individus qui fondent ce fédéralisme.
    La répartition des richesses ainsi que l’autogestion généralisée sont des étapes incontournables dans cette région comme ailleurs, où il existe des pauvres et des riches, des Etats qui convoitent l’accès à la mer, à l’eau, aux terres fertiles, et au pétrole.
    Une alternative au Moyen-Orient peut voir le jour si d’un coté comme de l’autre les peuples israéliens et palestiniens, jetant à bas les barrières artificielles qui les séparent et les opposent, s’unissent contre leurs ennemis communs, les pouvoirs politique, économique, religieux et militaire, pour construire ensemble les bases d’une société assurant la paix et l’harmonie.
    L’existence de collectifs communs d’individus palestiniens et israéliens s’opposant par exemple à la construction du Mur, soutenant les déserteurs et les opposants aux militarismes prouve encore une fois que ce qui nous unit, l’entraide et la solidarité, est plus fort que ce qui nous divise.
    La Fédération anarchiste francophone appelle toutes les forces du mouvement social comme tous les individus épris de justice, de paix, et de liberté à protester par tous les moyens possibles
    pour que cesse au plus vite cette situation intolérable que subissent les travailleurs, civils, femmes, hommes, et enfants de cette région du monde.
     »

    ★ Fédération anarchiste, le 05/07/2006

    #Palestine #Israël #colonialisme #militarisme #nationalismes #guerre #violences #souffrances #haines #DroitsHumains #internationalisme #Paix #Liberté...

  • ★ Un grand merci au Compagnon Pierre Mattei pour cette approche lucide sur la situation au Proche-Orient...

    –--------------------------------------------------------------------------------

    🟥 « Dénoncer l’intervention militaire des fascistes verts du Hamas en Israël, bien sur.
    Dénoncer les ultra-nationalistes palestiniens qui continuent de rêver à une grande Palestine et à la destruction de l’Etat d’Israël, c’est une évidence.
    Dénoncer l’extrême-droite israélienne et son projet de grand Israël, sa répression sanglante et ses colonisations de peuplement doit l’être aussi. Non pas qu’il faille se satisfaire d’un pseudo équilibre bancale dans l’horreur, mais parce qu’il faut rappeler partout et en toute circonstance que le nationalisme c’est le racisme, l’éthno-centrisme, la discrimination, l’inégalité, la violence et la guerre dont les premières victimes sont les peuples.
    Contre toutes les dominations et contre toutes les guerres.
     »

    https://www.facebook.com/profile.php?id=100010601802056

    https://www.facebook.com/profile.php?id=100063536022442

    #Palestine #Israël #colonialisme #militarisme #nationalismes #guerre #violences #souffrances #haines #DroitsHumains #internationalisme #Paix #Liberté... ★ Ni #Hamas ni #Nétanyahou

  • [Les ondes d’à côté] Clean my Rights
    https://www.radiopanik.org/emissions/les-ondes-d-a-cote/clean-my-rights

    Qui nettoie derrière toi ? Simple question, réponse bien moins évidente. Le #nettoyage nous affecte toustes, de notre chambre à coucher à nos bureaux, en passant par nos supermarchés, nos gares et nos hôpitaux. Tous les jours, les travailleur·ses du nettoyage frottent, récurent, nettoient nos lieux communs. Sans ces indispensables invisibles, notre monde s’encrasse… et pourrit. Un #travail essentiel, qui est pourtant dévalorisé et souvent oublié.

    Immersion dans la réalité des travailleur·ses du nettoyage, de leur précarisation à leur mobilisation.

    Un podcast de Juliette Cordemans, Lou Lampaert et Nadia Vossen, en 2 épisodes : « Poussière sous tapis » et « Bagarre et feu de joie ».

    Une rencontre avec l’équipe des réalisatrices suivra la diffusion de ces 2 épisodes.

    Merci à Nadia (nom d’emprunt), Evelyne, (...)

    #sous-traitance #travail,sous-traitance,nettoyage
    https://www.radiopanik.org/media/sounds/les-ondes-d-a-cote/clean-my-rights_16547__1.mp3

  • A la “border force” de Gérald Darmanin, l’écologiste #Damien_Carême oppose une #chaîne_de_solidarité

    Communiqué de presse – 29 septembre 2023

    C’est un appel urgent à la #solidarité envers les exilé·es que lance aujourd’hui l’eurodéputé écologiste Damien Carême. Dans la continuité des Maraudes solidaires qu’il initiait à Montgenèvre en 2021, il invite les parlementaires humanistes français·es et européen·nes à le rejoindre sur le terrain à la frontière franco-italienne, de Briançon à Menton, pour créer une chaîne de solidarité. Ensemble, elles et ils se relaieront aux côtés de juristes, avocat·es, acteur·ices et citoyen·nes engagé·es en faveur d’un #accueil_digne et du #respect_des_droits des exilé·es. A la #frontière, où les effectifs des forces de l’ordre ne cessent d’être renforcés, et où les violations du droit sont légion, les élu·es observeront et rendront publiquement compte des pratiques des autorités françaises. Une #mobilisation indispensable pour rappeler le gouvernement aux fondamentaux : #accueil, #solidarité, #respect_du_droit.

    Damien Carême, député européen écologiste et maire solidaire de Grande-Synthe près de Calais jusqu’en 2019, déclare :

    “Les migrations font depuis toujours partie de l’histoire de l’humanité, il y aura toujours des arrivées de personnes exilées en Europe. Les réponses sécuritaires des gouvernements français et européens en réaction à l’arrivée de quelques milliers d’exilé·es sur l’île de Lampedusa, sont extrêmement préoccupantes. C’en est assez de la politique de non accueil prônée par Gérald Darmanin et sa reprise sans honte de la rhétorique nauséabonde de l’extrême-droite ! Nous, solidaires, rappelons que notre devoir, notre mission d’humanité, c’est d’accueillir dignement et inconditionnellement les exilé.es, et de toujours agir dans le respect du droit. C’est aussi la seule solution pour un #apaisement. Notre présence aux côtés des solidaires est indispensable pour montrer aux exilé·es, déjà fragilisé·es par des parcours de vie douloureux et des événements traumatiques, que de nombreux citoyen·nes et élu·es s’opposent à la froideur de la “#border_force” de Monsieur Darmanin pour défendre une politique humaine et fondée sur le droit. Nos #témoignages, en tant que parlementaires, seront cruciaux. Ils compléteront les #observations des acteur·ices de terrain qui, plus que jamais, ont besoin de #visibilité et de #soutien. Notre place est à leurs côtés. La chaîne de la solidarité est lancée.”

    Depuis Lampedusa en Italie, où quelques milliers de chercheur·euses de refuge ont récemment accosté, les parcours d’exil se poursuivent parfois jusqu’à la frontière franco-italienne. Sur place, les associations s’organisent pour répondre aux besoins croissants d’accueil et de solidarité. À cette même frontière, depuis des années, les forces de l’ordre, françaises comme italiennes, interpellent, enferment et refoulent quotidiennement des exilé·es en violation du droit international, européen et français.

    Le 21 septembre, la Cour de Justice de l’Union européenne (CJUE) a d’ailleurs condamné ces pratiques et rappelé le gouvernement français à ses responsabilités. Malgré ce rappel cinglant au respect et à l’application du droit européen, le ministre de l’intérieur Gérald Darmanin continue de militariser les frontières et d’appeler au “tri” des exilé·es selon leur nationalité, des pratiques manifestement contraires au droit européen et au droit d’asile.

    Face aux besoins urgents d’humanité et d’accueil à la frontière, l’opération lancée par Damien Carême appelle les engagé·es solidaires et défenseur·euses des droits fondamentaux à agir ensemble et sans attendre. Pour faire respecter le droit et s’assurer que la France est à la hauteur de ses engagements et de ses responsabilités. La chaîne de la solidarité est lancée.

    Contact presse : Coralie Guillot coralie.guillot@europarl.europa.eu +32.485.145.485.

    En savoir plus :

    · Ces derniers jours, Damien Carême a sollicité par courriers l’ensemble des parlementaires des forces progressistes du Parlement européen, de l’Assemblée nationale et du Sénat pour les appeler à rejoindre cette lutte pour le respect des droits fondamentaux et de la dignité humaine.

    · Les maraudes solidaires : Organisées en 2021 à l’initiative de Damien Carême à l’appel des solidaires, associations et ONG de Montgenèvre, ces opérations de solidarité visaient à dénoncer les atteintes aux droits fondamentaux des personnes exilées et les pressions exercées envers les bénévoles par les forces de l’ordre à la frontière. Plusieurs élu·es se sont mobilisé·es à ses côtés pour protéger les bénévoles et les exilé·es, faire cesser le harcèlement des forces de l’ordre à leur encontre et empêcher les refoulements illégaux.

    – Une situation de crise pour les associations d’accueil des exilé·es à Briançon qui risque de s’amplifier : depuis plusieurs mois, les Terrasses solidaires, lieu d’accueil pour les exilé·es venu·es d’Italie, tirent la sonnette d’alarme. Le lieu est arrivé à l’extrême limite de ses capacités d’accueil : les associations sont débordées et n’arrivent plus à en assurer la gestion dans de bonnes conditions. Dans ce contexte déjà difficile, l’arrivée annoncée de nouvelles personnes exilées en provenance de Lampedusa inquiète les acteur·ices de la société civile, dont les nombreuses alertes n’ont pas entraîné la mise en place de Dispositif d’Hébergement d’Urgence par l’Etat, comme la loi l’impose pourtant.

    – Dans un arrêt du 21 septembre 2023, la Cour de justice de l’Union européenne (CJUE) a confirmé que les pratiques des autorités françaises de contrôle, d’enfermement et d’éloignement des exilé.es aux frontières intérieures depuis près de dix ans sont illégales, et a rappelé la France à ses obligations de respect du droit de l’UE.

    #militarisation_des_frontières #frontières #frontière #Italie #France #frontière_sud-alpine #tri #dignité_humaine #droits_humains #droits_fondamentaux

    –—

    voir aussi ce fil de discussion :
    EU judges slam France’s migrant pushbacks
    https://seenthis.net/messages/1018096

  • La chute du Heron blanc, ou la fuite en avant de l’agence #Frontex

    Sale temps pour Frontex, l’agence européenne de gardes-frontières : après le scandale des pushbacks dans les eaux grecques, qui a fait tomber son ex-directeur, l’un de ses drones longue portée de type Heron 1, au coût faramineux, s’est crashé fin août en mer ionienne. Un accident qui met en lumière la dérive militariste de l’Union européenne pour barricader ses frontières méridionales.

    Jeudi 24 août 2023, un grand oiseau blanc a fait un plongeon fatal dans la mer ionienne, à 70 miles nautiques au large de la Crète. On l’appelait « Heron 1 », et il était encore très jeune puisqu’il n’avait au compteur que 3 000 heures de vol. Son employeur ? Frontex, l’agence européenne de gardes-frontières et de gardes-côtes chargée depuis 2004 de réguler les frontières européennes, avec un budget sans cesse en hausse.

    Le Heron 1 est désigné dans la terminologie barbare du secteur de l’armement comme un drone MALE (Medium Altitude Long Endurance) de quatrième génération, c’est-à-dire un engin automatisé de grande taille capable de voler sur de longues distances. Frontex disposait jusqu’au crash de seulement deux drones Heron 1. Le premier a été commandé en octobre 2020, quand l’agence a signé un contrat de 50 millions d’euros par an avec Airbus pour faire voler cet appareil en « leasing » – Airbus passant ensuite des sous-contrats, notamment avec le constructeur israélien IAISystem
    1
    – pour un total de 2 400 heures de vol, et avec des dépassements qui ont fait monter la facture annuelle. En clair, le coût de fonctionnement de ce drôle d’oiseau est abyssal. Frontex rechigne d’ailleurs à entrer dans les détails, arguant de « données commerciales sensibles », ainsi que l’explique Matthias Monroy, journaliste allemand spécialisé dans l’aéronautique : « Ils ne veulent pas donner les éléments montrant que ces drones valent plus cher que des aéroplanes classiques, alors que cela semble évident. »
    2

    La nouvelle de la chute de l’onéreux volatile n’a pas suscité beaucoup de réactions publiques – il n’en est quasiment pas fait mention dans les médias autres que grecs, hormis sur des sites spécialisés. On en trouve cependant une trace sur le portail numérique du Parlement européen, en date du 29 août 2023. Ce jour-là, Özlem Demirel, députée allemande du parti de gauche Die Linke, pose la question « E-002469/2023 » (une interpellation enregistrée sous le titre : « Crash of a second long-range drone operated on Frontex’s behalf »), dans laquelle elle interroge la fiabilité de ces drones. Elle y rappelle que, déjà en 2020, un coûteux drone longue distance opéré par Frontex s’était crashé en mer – un modèle Hermes 900 cette fois-ci, tout aussi onéreux, bijou de l’israélien Elbit Systems. Et la députée de demander : « Qui est responsable ? »

    Une question complexe. « En charge des investigations, les autorités grecques détermineront qui sera jugé responsable, explique Matthias Monroy. S’il y a eu une défaillance technique, alors IAI System devra sans doute payer. Mais si c’est un problème de communication satellite, comme certains l’ont avancé, ou si c’est une erreur de pilotage, alors ce sera à Airbus, ou plutôt à son assureur, de payer la note. »
    VOL AU-DESSUS D’UN NID D’EMBROUILLES

    Le Heron 1 a la taille d’un grand avion de tourisme – presque un mini-jet. D’une envergure de 17 mètres, censé pouvoir voler en autonomie pendant 24 heures (contre 36 pour le Hermes 900), il est équipé de nombreuses caméras, de dispositifs de vision nocturne, de radars et, semble-t-il, de technologies capables de localiser des téléphones satellites
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    . Détail important : n’étant pas automatisé, il est manœuvré par un pilote d’Airbus à distance. S’il est aussi utilisé sur des théâtres de guerre, notamment par les armées allemande et israélienne, où il s’est également montré bien peu fiable
    4
    , sa mission dans le cadre de Frontex relève de la pure surveillance : il s’agit de fournir des informations sur les embarcations de personnes exilées en partance pour l’Europe.

    Frontex disposait de deux drones Heron 1 jusqu’au crash. Airbus était notamment chargé d’assurer le transfert des données recueillies vers le quartier général de Frontex, à Varsovie (Pologne). L’engin qui a fait un fatal plouf se concentrait sur la zone SAR(Search and Rescue
    5
    ) grecque et avait pour port d’attache la Crète. C’est dans cette même zone SAR que Frontex a supervisé plus ou moins directement de nombreux pushbacks (des refoulements maritimes), une pratique illégale pourtant maintes fois documentée, ce qui a provoqué un scandale qui a fini par contraindre le Français Fabrice Leggeri à démissionner de la tête de l’agence fin avril 2022. Il n’est pas interdit de penser que ce Heron 1 a joué en la matière un rôle crucial, fournissant des informations aux gardes-côtes grecs qui, ensuite, refoulaient les embarcations chargées d’exilés.

    Quant à son jumeau, le Heron positionné à Malte, son rôle est encore plus problématique. Il est pourtant similaire à celui qui s’est crashé. « C’est exactement le même type de drone », explique Tamino Bohm, « tactical coordinator » (coordinateur tactique) sur les avions de Sea-Watch, une ONG allemande de secours en mer opérant depuis l’île italienne de Lampedusa. Si ce Heron-là, numéro d’immatriculation AS2132, diffère de son jumeau, c’est au niveau du territoire qu’il couvre : lui survole les zones SAR libyennes, offrant les informations recueillies à ceux que la communauté du secours en mer s’accorde à désigner comme les « soi-disant gardes-côtes libyens »
    6
    – en réalité, des éléments des diverses milices prospérant sur le sol libyen qui se comportent en pirates des mers. Financés en partie par l’Union européenne, ils sont avant tout chargés d’empêcher les embarcations de continuer leur route et de ramener leurs passagers en Libye, où les attendent bien souvent des prisons plus ou moins clandestines, aux conditions de détention infernales
    7
    .

    C’est ainsi qu’au large de Lampedusa se joue une sorte de guerre aérienne informelle. Les drones et les avions de Frontex croisent régulièrement ceux d’ONG telles que Sea-Watch, dans un ballet surréaliste : les premiers cherchant à renseigner les Libyens pour qu’ils arraisonnent les personnes exilées repérées au large ; les seconds s’acharnant avec leurs maigres moyens à documenter et à dénoncer naufrages et refoulements en Libye. Et Tamino d’asséner avec malice : « J’aurais préféré que le drone crashé soit celui opérant depuis Malte. Mais c’est déjà mieux que rien. »
    BUDGET GONFLÉ, MANDAT ÉLARGI

    Tant que l’enquête sur le crash n’aura pas abouti, le vol de drones Heron 1 est suspendu sur le territoire terrestre et maritime relevant des autorités grecques, assure Matthias Monroy (qui ajoute que cette interdiction s’applique également aux deux drones du même modèle que possède l’armée grecque). Le crash de l’un de ses deux Heron 1 est donc une mauvaise nouvelle pour Frontex et les adeptes de la forteresse Europe, déjà bien éprouvés par les arrivées massives à Lampedusa à la mi-septembre et l’hospitalité affichée sur place par les habitants. À l’image de ces murs frontaliers bâtis aux frontières de l’Europe et dans l’espace Schengen – un rapport du Parlement européen, publié en octobre 2022 « Walls and fences at EU borders » (https://www.europarl.europa.eu/thinktank/en/document/EPRS_BRI(2022)733692), précise que l’on en est à 2 035 kilomètres de barrières frontalières, contre 315 en 2014 –, matérialisation d’un coûteux repli identitaire clamant une submersion fantasmée, il est évident que la démesure sécuritaire ne freine en rien les volontés de rejoindre l’Europe.

    Ce ne sont pourtant pas les moyens qui manquent. Lors de sa première année d’opérations, en 2005, Frontex disposait d’un budget de 6 millions d’euros. Depuis, celui-ci n’a cessé d’enfler, pour atteindre la somme de 845,4 millions d’euros en 2023, et un effectif de plus de 2 100 personnels – avec un budget prévisionnel 2021-2027 de 11 milliards d’euros et un objectif de 10 000 gardes d’ici à 2027 (dont 7 000 détachés par les États membres).

    Depuis 2019, Frontex dispose d’un mandat élargi qui autorise l’acquisition et la possession d’avions, de drones et d’armes à feu. L’agence s’est aussi géographiquement démultipliée au fil de temps. Ses effectifs peuvent aussi bien patrouiller dans les eaux de Lampedusa que participer à des missions de surveillance de la frontière serbo-hongroise, alors que son rôle initial était simplement d’assister les pays européens dans la gestion de leurs frontières. L’agence européenne joue aussi un rôle dans la démesure technologique qui se développe aux frontières. Rien que dans les airs, l’agence se veut novatrice : elle a déjà investi plusieurs millions d’euros dans un projet de #zeppelin automatisé relié à un câble de 1 000 mètres, ainsi que dans le développement de drones « #quadcopter » pesant une dizaine de kilos. Enfin, Frontex participe aussi à la collecte généralisée de #données migratoires dans le but d’anticiper les refoulements. Elle soutient même des projets visant à gérer les flux humains par #algorithmes.

    Traversée comme les armées par une culture du secret, l’agence s’est fait une spécialité des zones grises et des partenariats opaques, tout en prenant une place toujours plus importante dans la hausse de la létalité des frontières. « Frontex est devenue l’agent de la #militarisation_des_frontières européennes depuis sa création, résume un rapport de la Fondation Jean-Jaurès sorti en juillet 2023. Fondant son fonctionnement sur l’#analyse_des_risques, Frontex a contribué à la perception des frontières européennes comme d’une forteresse assiégée, liant le trafic de drogue et d’êtres humains à des mouvements migratoires plus larges. »

    « VOUS SURVEILLEZ LES FRONTIÈRES, NOUS VOUS SURVEILLONS »

    Dans sa volonté d’expansion tous azimuts, l’agence se tourne désormais vers l’Afrique, où elle œuvre de manière plus ou moins informelle à la mise en place de politiques d’#externalisation des frontières européennes. Elle pèse notamment de tout son poids pour s’implanter durablement au #Sénégal et en #Mauritanie. « Grâce à l’argent des contribuables européens, le Sénégal a construit depuis 2018 au moins neuf postes-frontières et quatre antennes régionales de la Direction nationale de lutte contre le trafic de migrants. Ces sites sont équipés d’un luxe de #technologies de #surveillance_intrusive : outre la petite mallette noire [contenant un outil d’extraction des données], ce sont des #logiciels d’#identification_biométrique des #empreintes_digitales et de #reconnaissance_faciale, des drones, des #serveurs_numériques, des lunettes de vision nocturne et bien d’autres choses encore », révèle une enquête du journal étatsunien In These Times. Très impopulaire sur le continent, ce type de #néocolonialisme obsidional se déploie de manière informelle. Mais il porte bien la marque de Frontex, agence agrippée à l’obsession de multiplier les murs physiques et virtuels.

    Au Sénégal, pour beaucoup, ça ne passe pas. En août 2022, l’association #Boza_Fii a organisé plusieurs journées de débat intitulées « #Pushback_Frontex », avec pour slogan : « Vous surveillez les frontières, nous vous surveillons ». Une manifestation reconduite en août 2023 avec la mobilisation « 72h Push Back Frontex ». Objectif : contrer les négociations en cours entre l’Union européenne et le Sénégal, tout en appelant « à la dissolution définitive de l’agence européenne de gardes-frontières ». Sur RFI, son porte-parole #Saliou_Diouf expliquait récemment son point de vue : « Nous, on lutte pour la #liberté_de_circulation de tout un chacun. […] Depuis longtemps, il y a beaucoup d’argent qui rentre et est-ce que ça a arrêté les départs ? »

    Cette politique « argent contre muraille » est déployée dans d’autres États africains, comme le #Niger ou le #Soudan. Frontex n’y est pas directement impliquée, mais l’Europe verse des centaines de millions d’euros à 26 pays africains pour que des politiques locales visant à bloquer les migrations soient mises en place.

    « Nous avons besoin d’aide humanitaire, pas d’outils sécuritaires », assure Mbaye Diop, travailleur humanitaire dans un camp de la Croix-Rouge situé à la frontière entre le Sénégal et la Mauritanie, dans l’enquête de In These Times. Un constat qui vaut de l’autre côté de la Méditerranée : dans un tweet publié après le crash du Heron 1, l’ONG Sea-Watch observait qu’avec les 50 millions alloués à Airbus et à ses sous-traitants pour planter son Heron dans les flots, « on pourrait faire voler pendant 25 ans nos avions de secours Seabird 1 et Seabird 2 ».

    https://afriquexxi.info/La-chute-du-Heron-blanc-ou-la-fuite-en-avant-de-l-agence-Frontex

    #drones #Heron_1 #frontières #surveillances_des_frontières #contrôles_frontaliers #migrations #asile #réfugiés #drone_MALE (#Medium_Altitude_Long_Endurance) #crash #Airbus #complexe_militaro-industriel #IAI_System #coût #prix #budget #chute #fiabilité #Hermes_900 #Elbit_Systems #données #push-backs #refoulements #AS2132 #Libye #guerre_aérienne_informelle #biométrie

  • Frontex boosts support to Italy
    2023-09-20

    Frontex, the European Border and Coast Guard Agency, will expand its support for Italy following the recent spike in the number of arrivals of irregular migrants on the island of Lampedusa.

    Frontex has already agreed to double the number of flight hours of its aircraft that monitor the Central Mediterranean Sea and offered additional satellite images of the main departure areas of migrants from Tunisia. These measures will allow the Italian authorities to be better monitor the seas and will support any potential search and rescue operations.

    The agency also offered additional support in the registration and identification of migrants by contributing mobile migration teams, comprising about 30 experts, to the port cities of Reggio Calabria and Messina, where many of the migrants were transported to.

    “We are actively collaborating with Italian authorities and stand ready to bolster our support. This is not just an Italian challenge but a collective one for Europe. Together, we embrace the shared responsibility of safeguarding the EU’s external borders,” said Frontex Executive Director Hans Leijtens.

    Frontex already has nearly 40 officers and staff members on Lampedusa to help Italian authorities with the identification and registration of people arriving on the island, as well as one patrol vessel stationed there. In addition, the agency has two aircraft based on Lampedusa and one drone in Malta, assisting with aerial surveillance and providing early warning.

    Frontex is currently looking into sending additional officers to Lampedusa and increasing the number of patrolling hours of the vessels deployed in the area and support efforts to combat the criminal groups involved in people smuggling.

    The agency is also ready to step up its support with return activities. Apart from sending additional return experts and providing training, Frontex may organise identification missions to non-EU countries based on the needs of the Italian authorities to facilitate return procedures.

    Frontex is present in Italy through joint operation Themis, which in total consists of 283 officers and staff, five vessels, seven aircraft, 18 mobile offices and 4 vehicles for migration management.

    https://frontex.europa.eu/media-centre/news/news-release/frontex-boosts-support-to-italy-IHEK3y
    #Frontex #Italie #asile #migrations #réfugiés #frontières #contrôles_frontaliers #Méditerranée #mer_Méditerranée #avions #enregistrement #Reggio_Calabria #identification #Messina #soutien #aide #mobile_migration_teams #Lampedusa #Themis #opération_Themis #militarisation_des_frontières

  • En Libye, les travailleurs étrangers rescapés « sont parmi les plus détruits psychologiquement par la catastrophe » de Derna
    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2023/09/23/en-libye-les-travailleurs-etrangers-rescapes-sont-parmi-les-plus-detruits-ps

    En Libye, les travailleurs étrangers rescapés « sont parmi les plus détruits psychologiquement par la catastrophe » de Derna
    Par Nissim Gasteli et Madjid Zerrouky (envoyés spéciaux à Derna, en Libye)
    Publié le 23 septembre 2023 à 10h05, modifié le 24 septembre 2023 à e
    Venus d’Egypte, du Soudan ou du Tchad, de nombreux immigrés, saisonniers ou plus permanents, doivent surmonter le traumatisme de l’inondation sans le secours des solidarités familiales. Ils seraient quelque 100 000 dans les zones affectées par les inondations.
    La mort a fini par congédier Awad au dernier moment. Le 11 septembre, alors qu’on s’apprêtait à refermer le sac mortuaire dans lequel il avait été placé, un spasme a alerté les employés des services funéraires de Derna et l’a ramené dans le monde des vivants. Dans la nuit, la crue du Wadi Derna venait d’emporter un tiers de cette ville libyenne de 100 000 habitants, pulvérisant ou projetant des blocs d’habitation entiers dans la mer.
    (...)Des jeunes psychologues de l’hôpital psychiatrique de la ville préviennent : « Ici se trouvent ceux, petits et grands, qui sont parmi les plus détruits psychologiquement par la catastrophe. Ils ont vécu les mêmes scènes d’horreur que beaucoup d’entre nous, mais ils sont isolés et ne peuvent pas compter sur les solidarités familiales. » La ville compte 40 000 déplacés.
    Fiévreux, le visage marqué, les avant-bras et les mains anormalement gonflés, Awad est toujours sous le choc quand il se présente à nous. Solitaire quand les autres rescapés devisent en groupe à l’extérieur ou font le ménage à l’intérieur. Comme tous les habitants de Derna, il commence par raconter « son » 11 septembre : « C’était le jour du jugement dernier. Je m’étais barricadé avant de dormir dans le restaurant quand, vers 2 h 30, j’ai entendu un son terrifiant [la rupture du premier barrage, à 1 kilomètre en amont de la ville]. L’immeuble roulait sur lui-même. J’ai repris conscience quatre heures plus tard après avoir vomi de l’eau. Ils m’avaient déshabillé et commençaient à m’envelopper. Techniquement, j’étais mort, raconte-t-il d’une traite. Je n’habitais Derna que depuis deux semaines… »
    Près de 8 000 migrants et travailleurs étrangers
    De sa vie d’avant, il ne lui reste qu’un compte Facebook et les téléphones que lui prêtent ses compatriotes et compagnons d’infortune. Parmi eux, Mohamed Al-Saïd, 29 ans, Saïd Al-Masry, 26 ans, et Ahmad Mohamad, 24 ans. Assis à l’ombre de quelques arbustes sur une couverture, les trois amis sont originaires du village égyptien décimé de Nazlat Al-Sharif, une petite commune de la vallée du Nil d’où de nombreux jeunes étaient partis travailler en Cyrénaïque (province de l’est de la Libye, frontalière de l’Egypte) pour nourrir leur famille. Officiellement, soixante-quinze d’entre eux sont morts à Derna. Ils seraient davantage, selon les trois amis. « Environ 120 habitants de notre village sont décédés ou disparus », estime Mohamed, le pied bandé. Il s’est blessé sur des tessons de bouteille en escaladant un mur lors de la montée des eaux. Tous trois travaillent dans le secteur du bâtiment. « Beaucoup d’entre nous sont des travailleurs saisonniers, qui viennent ici pour quelques mois. D’autres restent un, deux ou trois ans avant de repartir en Egypte », précise Saïd Al-Masry.
    Selon l’Organisation internationale pour les migrations, la ville comptait près de 8 000 migrants et travailleurs étrangers au moment de la catastrophe, sur plus de 100 000 vivant dans les zones affectées par les inondations, la plupart originaires d’Egypte, du Tchad et du Soudan. Près de 430 d’entre eux auraient perdu la vie dans la nuit du 11 septembre, selon des bilans encore très parcellaires. Les autorités égyptiennes, qui faisaient état de plus de 120 corps identifiés jeudi, restaient sans nouvelles de 300 de leurs ressortissants.
    Les Egyptiens se rendent depuis des décennies en Libye pour y chercher du travail, « attirés par la prospérité relative du pays, structurellement plus riche et moins peuplé que l’Egypte », explique Jalel Harchaoui, chercheur associé au Royal United Services Institute for Defence and Security Studies. La migration de travail vers la Cyrénaïque est d’abord un enjeu socio-économique : pour Le Caire, elle offre des débouchés professionnels à ses ressortissants et leur permet de soutenir financièrement leurs familles restées au pays, afin d’éviter toute gronde sociale. « L’accueil continu des Egyptiens en Libye est perçu par les autorités égyptiennes comme un dû, vu les défis démographiques et économiques croissants de l’Egypte », précise l’universitaire. Dans ce contexte, le sort des travailleurs égyptiens est imbriqué dans les relations entre leur pays et le pouvoir de Benghazi, principale ville de la Cyrénaïque. Début juin, les autorités de l’Est libyen ont mené de larges opérations d’arrestations et d’expulsions contre les migrants égyptiens. Près de 4 000 auraient été reconduits aux frontières, selon des sources sécuritaires égyptiennes citées par Reuters. En Egypte, cette politique a été perçue comme une « humiliation », survenant à un moment de tensions entre Le Caire et Benghazi, ajoute M. Harchaoui. La situation s’est depuis apaisée, permettant aux Egyptiens de poursuivre leurs occupations professionnelles dans l’Est.(...)
    Les grandes villes de la Cyrénaïque ne sont pas les seules à attirer la main-d’œuvre venue d’ailleurs. La région du djebel Akhdar et ses multiples exploitations agricoles s’appuient sur de nombreux travailleurs migrants. Les dégâts provoqués par la tempête, qui a ravagé les cultures sur des milliers d’hectares, pourraient faire basculer l’avenir de beaucoup d’entre eux. « Je devais être payé mi-septembre, mais mon patron ne m’a pour l’instant rien donné », explique Naïm, 21 ans, employé d’un élevage de poulets près de la ville de Gandoula.
    Originaire du nord du Tchad, Naïm garde aujourd’hui l’entrée d’une exploitation vide de toute vie et d’activités. « Je gagne 1 000 dinars [190 euros] et je suis soutien de ma famille qui est restée là-bas. Enfin, je gagnais… », explique d’un ton doux le jeune homme. Il ne s’en cache pas, il se rêvait un avenir au-delà de l’horizon libyen : « J’espérais constituer un petit pécule pour quitter ce pays un jour. Je n’ai plus rien. Même mes papiers d’identité ont été emportés par l’eau. »
    La Cyrénaïque est aussi un point de départ majeur vers l’Europe. Depuis la fin de l’année 2022, un corridor reliant l’est de la Libye à l’Italie s’est rouvert, sur lequel s’élancent de vétustes chalutiers embarquant plusieurs centaines de personnes. La route est empruntée par de nombreux Egyptiens, qui ont représenté le premier contingent d’arrivées en Italie en 2022, avec 21 301 personnes, mais aussi par des Syriens qui y voient une alternative à la route des Balkans, désormais difficile d’accès, et des Bangladais.Mais, pour les trois rescapés de l’Institut technique de Derna, pas question de bouger pour le moment. « Nous resterons ici jusqu’à ce que nous retrouvions nos disparus. Puis nous retournerons en Egypte. Si telle est la volonté de Dieu », annoncent, fatalistes, Mohamed, Saïd et Ahmad. Revenu d’entre les morts, Awad, lui, n’a que faire du destin. « Ce sont des erreurs humaines, assène-t-il. Nous sommes venus dans ce pays pour travailler, pas pour finir au fond de la mer à des kilomètres [des immeubles entiers ont été repérés à 3 kilomètres de la côte, leurs habitants toujours piégés à l’intérieur]. Qui s’occupait des barrages ? Qui a permis qu’on construise sur des sols dangereux ? Je ne demande pas des comptes à Dieu, j’en réclame aux autorités libyennes. »

    #Covid-19#migrant#migration#libye#travailleurmigrant#mortalite#inondation#crise#humanitaire#egypte#soudan#tchad#sante#santementale#routemigratoire

  • The Project : Sound like Donauinsel

    With this blog post and sound map of the Donauinsel in Vienna, we tried to capture place-specific acoustic features along a roughly 500m interval transect across the whole island. On May 20th, 2023, we walked the island from the north-western to the south-eastern end and took 2 minute long recordings at every stop. The recording took place at noon and afternoon on a warm and sunny Saturday. However, due to heavy rains in the days and weeks before that date, resulting in higher water-levels as well as low water temperatures, the island was less populated than it normally would have been in late spring and summer weekends. By clicking on the points on the map you can see the name of the recording and find it in the playlist below. The playlist will also play the sounds from north to south automatically in the background as well. The way urban soundscapes can be studied are manifold. With this blog we first want to present the recordings as they are, simply to be listened to, without any analysis of the sound data itself for now. However, we understand this as a first step in an exploratory process to capturing and analysing urban soundscapes in Vienna. Important considerations include comparative analyses of sound data at different day and night times as well as seasonal variation in relation to not only how different places can sound in terms of volumes and frequencies, but also how people sense and react to different soundscapes at different times.

    https://soundslikedonauinsel.blogspot.com

    #son #bruit #villes #urbanisme #urban_matter #soundscape #Vienna #Vienne #Donauinsel #soundmap #cartographie #visualisation

    ping @reka

  • Secret des sources : une journaliste de Disclose placée en garde à vue
    https://disclose.ngo/fr/article/secret-des-sources-une-journaliste-de-disclose-placee-en-garde-a-vue

    Une perquisition est en cours depuis 6h00, ce mardi 19 septembre, au domicile personnel d’Ariane Lavrilleux, journaliste de Disclose et co-autrice de la série d’enquêtes « Egypt Papers ». Accompagnés d’un juge d’instruction, des policiers de la Direction générale de la sécurité intérieure (DGSI) ont placé la journaliste en garde à vue dans le cadre […] Lire l’article

  • À #Montagnac, le maire balance sa source à #Cristaline

    Pour 30 000 euros, la marque est en passe de mettre la main sur une gigantesque masse d’eau près de #Béziers. Dans une zone frappée de plein fouet par les #sécheresses.

    Au début du printemps, au sortir d’une sécheresse hivernale inédite (lire l’épisode 1, « Eau, rage et désespoir » : https://lesjours.fr/obsessions/eau-guerres/ep1-macron-bassines), certains habitants d’#Occitanie ont appelé à l’aide leurs divinités pour faire venir la pluie. Ç’a été le cas à #Perpignan, mais aussi dans l’#Hérault, dans le village de #Corneilhan, près de Béziers. Le 30 mars, un cortège mené par un curé avait transporté une statue de Marie en plein cagnard pendant deux kilomètres et demi. Le #cortège, racontait alors France Bleu, s’était arrêté pour prier dans les vignes. Un viticulteur avait expliqué : « L’eau, on en manque. Donc, je demande au bon #Dieu de nous l’envoyer. Les politiques ne sont pas encore capables de faire tomber la pluie. Donc à part lui, je ne vois pas ! »

    Tout cela en vain, puisque la pluie ne s’est que peu montrée, en dehors de quelques averses en juin. Puis certaines communes alentour ont affronté l’angoisse du robinet à sec, le #lac_du_Salagou a connu son plus bas niveau depuis vingt ans, tandis que mi-août, un arrêté préfectoral plaçait pour la première fois les communes limitrophes de l’#étang_de_Thau en état de « #crise », seuil maximal de #restriction des usages face à la #sécheresse. En clair, l’#eau est rare dans le coin. Mais elle n’est pas forcément chère.

    L’association #Veille_Eau_Grain estime qu’il y a de quoi fournir de l’#eau_potable à 20 000 habitants pendant quinze ans

    C’est ce qu’on découvert les 4 000 habitants de Montagnac, à une trentaine de kilomètres au nord-est de #Corneilhan. Fin 2022 ils ont appris, un peu par hasard vous le verrez, que leur mairie avait décidé de vendre pour à peine 30 000 euros une parcelle dotée d’un #forage qui plonge à 1 500 mètres sous terre, jusqu’à une masse d’eau gigantesque. À l’abandon aujourd’hui, le #puits pourrait, moyennant de gros travaux, donner accès à cette #nappe_d’eau_souterraine de qualité et dont les volumes suscitent bien des convoitises. L’association Veille Eau Grain, née contre la vente de ce forage, a depuis réuni des informations permettant d’estimer qu’il y a là de quoi fournir de l’eau potable à 20 000 habitants pendant quinze ans !

    La générosité municipale est d’autant plus étonnante que le futur acquéreur n’est pas sans le sou : il s’agit de la #Compagnie_générale_d’eaux_de_source, une filiale du géant #Sources_Alma, connu pour ses bouteilles #Saint-Yorre, #Vichy_Célestins et surtout Cristaline. Cette dernière eau, née en 1992 et numéro 1 en #France aujourd’hui, est une simple marque et s’abreuve à 21 sources différentes dans l’Hexagone – et même en Allemagne et au Luxembourg. À Montagnac et en particulier dans le secteur où est situé le forage, elle est plébiscitée. Voisin, viticulteur et fondateur de l’association Veille Eau Grain, #Christophe_Savary_de_Beauregard s’en explique : « La zone qu’on habite est quasiment désertique, nous n’avons pas l’eau potable. L’eau, on l’achète, et celle qu’on choisit, c’est la Cristaline parce que c’est la moins chère. » Cruel.

    Comment expliquer une telle vente ? Cristaline et Alma ont été pointés du doigt pour leurs méthodes commerciales et pour leur capacité à obtenir les faveurs des autorités locales, le tout, selon leurs détracteurs, grâce à du #chantage à l’#emploi. Les généreuses #dérogations_préfectorales accordées à Cristaline pour des #prélèvements d’eau dans les #Pays-de-la-Loire ont aussi été dénoncées en 2018 par les représentants locaux du Mouvement national de lutte pour l’environnement. Rien de tout ça ici, semble-t-il, puisque c’est la mairie de Montagnac elle-même qui a démarché #Alma. C’est en tout cas ce que l’équipe de communication du géant de la bouteille nous a affirmé par écrit.

    Des #viticulteurs ont raconté avoir été démarchés par des intermédiaires pour autoriser le passage de tuyaux et de canalisations menant jusqu’à une future usine. C’est là qu’on a découvert que le conseil municipal avait voté la vente du forage.
    Christophe Savary de Beauregard, fondateur de l’association Veille Eau Grain

    Après plusieurs sollicitations en juillet et en septembre, #Yann_Llopis, le maire de Montagnac, nous a fait savoir qu’il refusait de répondre à la presse – lui qui ne rechigne pourtant pas à parler de lui et de sa « préoccupation » pour l’environnement sur le site de la ville. On ne saura donc pas s’il a vendu à vil #prix l’eau de sa commune dans l’espoir de #retombées_fiscales et de créations d’emplois. Ce silence n’étonnera pas les riverains, qui disent n’avoir à aucun moment été informés par l’édile et son équipe des tractations avec le groupe Alma. Christophe Savary de Beauregard raconte avoir découvert par hasard la décision du #conseil_municipal actant la vente de la parcelle et du forage : « Fin 2022, des viticulteurs nous ont raconté qu’ils avaient été démarchés par des intermédiaires, afin d’autoriser le passage sur le terrain de tuyaux et de canalisations venant du forage et menant jusqu’à une future usine. On s’est renseignés, et c’est là qu’on a découvert qu’en septembre le conseil municipal avait délibéré et voté pour la vente du terrain et du forage au groupe Alma. »

    Habitant de Montagnac, le conseiller régional socialiste René Moreno confirme et dénonce ce manque de transparence, avant de dresser une chronologie de ce forage qu’il connaît bien. Creusé en 1980 par deux entrepreneurs locaux, il est devenu propriété de l’État à la mort de ces derniers, en 2018. La parcelle et son forage ont alors été mis en vente sous le contrôle d’une instance locale, le comité technique de la #Safer (Société d’aménagement foncier et d’établissement rural), dont l’élu est membre. « À l’époque, il y avait plusieurs projets de reprise, dont celui de la mairie de Montagnac qui avait pour ambition de le destiner à un élevage privé d’esturgeons, se souvient René Moreno. Ce genre d’élevage est consommateur d’eau mais dans de faibles quantités. J’ai insisté pour que la mairie obtienne le forage. » Il obtiendra gain de cause.

    Après l’achat de la parcelle par la mairie (pour la somme de 30 000 euros, déjà), les porteurs du projet d’élevage d’esturgeons ont malheureusement baissé les bras. La mairie s’est alors retrouvée le bec dans l’eau, selon le service de communication du groupe Alma. Celui-ci indique par mail que si celle-ci ne vend pas le forage aujourd’hui, elle devra assumer les coûts de son obturation (qu’il estime à 300 000 euros) ou de sa remise en service (on dépasserait alors les 500 000 euros). René Moreno assure de son côté que ces sommes, si elles étaient avérées, pourraient être déboursées en partie par l’État ou d’autres collectivités, afin de préserver la précieuse ressource souterraine ou la destiner aux populations locales en cas de crise.

    Le projet actuel est on ne peut plus à l’opposé : construire une gigantesque #usine privée d’#embouteillage d’#eau_minérale pour une grande marque, occasionnant quelques joyeusetés comme l’artificialisation de plusieurs milliers de mètres carrés ou le passage quotidien de plusieurs dizaines de camions pour le transport des packs. Une perspective qui inquiète les riverains, tout autant que la réputation sulfureuse du groupe. Une enquête de Médiacités publiée en décembre 2022 a, par exemple, révélé que 13 de ses 34 usines françaises avaient été épinglées par les services de l’État depuis 2010 : non-conformités, contaminations, pollution de ruisseau et mêmes fraudes…

    Derrière Cristaline, deux hommes à la réputation sulfureuse : le milliardaire #Pierre_Castel et #Pierre_Papillaud, le visage des pubs télé Rozana

    Quant aux créateurs de Cristaline, ils se signalent autant par leurs succès que par leurs casseroles. Le milliardaire Pierre Castel, l’un des dix Français les plus riches, a été condamné pour avoir abrité son immense fortune – faite dans la bière en Afrique et dans le vin partout dans le monde (les cavistes Nicolas, la marque Baron de Lestac…) – dans des #paradis_fiscaux. Il apparaît dans les listings des « Pandora Papers ». Son groupe est en prime visé par une enquête du parquet antiterroriste pour « complicité de crimes contre l’humanité » et « complicité de crimes de guerre » parce qu’il aurait financé en Centrafrique une milice coupables d’exactions en masse. Pierre Castel a vendu ses parts à son compère Pierre Papillaud en 2008. Celui-ci, dont vous avez vu la tête dans les pubs télé pour la marque d’eau gazeuse #Rozana, a été accusé par d’anciens salariés de méthodes managériales violentes et de harcèlement moral, et condamné pour une campagne de dénigrement de l’eau du robinet. Il apparaît, lui, dans les listings des « Panama Papers ». Il est décédé en 2017.

    C’est face à ce groupe que se dressent la vingtaine de membres de l’association Veille Eau Grain. Ceux-ci ont entamé une procédure devant le tribunal administratif pour faire annuler la délibération du conseil municipal de Montagnac concernant la vente du forage, arguant que cette décision a été prise sans informer la population et à partir d’un corpus de documents trop limité pour juger de sa pertinence. Ce n’est que le début du combat. L’exploitation du forage est soumise à une étude d’impact environnementale, qui, selon le groupe Alma, a démarré en juillet et durera dix-huit mois.

    https://lesjours.fr/obsessions/eau-guerres/ep7-montagnac-cristaline

    #accès_à_l'eau #impact_environnemental

    voir aussi :
    https://seenthis.net/messages/1016901

  • Egypte : les réfugiés soudanais, une manne inespérée pour le tourisme à Assouan
    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2023/09/15/egypte-les-refugies-soudanais-une-manne-inesperee-pour-le-tourisme-a-assouan

    Egypte : les réfugiés soudanais, une manne inespérée pour le tourisme à Assouan
    Des milliers de Soudanais ont trouvé refuge à Assouan, contribuant à revitaliser la saison touristique dans cette ville du sud de l’Egypte où ils tentent d’oublier les horreurs de la guerre. Hicham Ali, 54 ans, est arrivé à Assouan après un périple de mille kilomètres entre Khartoum, capitale soudanaise en proie aux combats, et la frontière égyptienne, au nord. Après avoir trouvé un appartement pour loger sa famille, cet ancien fonctionnaire souhaite désormais que ses enfants profitent de leur nouvelle ville. « Je suis venu avec ma famille pour passer ici une belle journée ensemble », dit-il depuis la terrasse d’une auberge qui, pendant la haute saison touristique, en hiver, attire un grand nombre de visiteurs étrangers. Il espère que cette journée permettra à ses proches d’« oublier la guerre, les bombes, les raids aériens et les tirs », confie-t-il, la voix couverte par les éclats de rire de ses enfants.
    Depuis le début de la guerre, le 15 avril, opposant deux généraux en lutte pour le pouvoir, plus de 310 000 personnes ont, comme Hicham Ali, trouvé refuge en Egypte. De l’autre côté de la frontière, de nombreuses personnes attendent, arrêtées en route par la décision soudaine de l’Egypte, en juillet, de réimposer des visas à tous les Soudanais fuyant la guerre. Auparavant, les femmes, les enfants et les hommes de plus de 50 ans traversaient sans aucune formalité.
    Zeinab Ibrahim, 30 ans, a réussi à traverser il y a trois mois. Avant cela, elle a passé deux mois avec sa famille à se terrer dans leur appartement de Khartoum par crainte des frappes aériennes, des tirs d’artillerie et des combats de rue. « J’étais enceinte et il n’y avait plus aucun hôpital pour accoucher », affirme-t-elle à l’AFP, alors que des millions de personnes n’ont plus accès aux soins, la guerre ayant gravement endommagé le système de santé soudanais, déjà fragile.
    Une fois en Egypte, de nombreux réfugiés ont rejoint Le Caire, tandis que d’autres sont restés à Assouan, première grande ville égyptienne en venant du Soudan, à 300 km de la frontière. Les deux pays partagent la même langue et une grande partie de leur histoire depuis l’époque des pharaons. Avant la guerre, plus de 4 millions de Soudanais vivaient déjà en Egypte, selon l’ONU. La plupart des nouveaux arrivés aspirent à s’y installer durablement, loin de leur pays, qu’ils n’imaginent pas se relever avant des décennies. A Assouan, chaque hiver, les habitants voient débarquer des vagues de touristes égyptiens et étrangers venus découvrir les sites pharaoniques extrêmement bien préservés des environs, se prélasser au bord du Nil et profiter des températures clémentes. Mais ils ne s’attendaient pas à recevoir un tel afflux de réfugiés, ni aux opportunités que ces derniers ont apportées.
    Début septembre, alors que la chaleur écrasante de l’été avait fait fuir les visiteurs égyptiens, les capitaines de bateaux ont dû reprendre du service. Ils ont de nouveau levé l’ancre pour écumer le Nil sinueux, les enceintes diffusant de la musique à plein volume, entre les îles nubiennes qui parsèment son cours. Sur une rive sablonneuse où les guides recommandent aux voyageurs de se baigner entre deux gorgées de café nubien, les familles se rafraîchissent volontiers. « Depuis la guerre et l’arrivée de nos frères soudanais, nous avons repris nos activités et nous avons plus de travail », se réjouit Mahmoud Al-Aswany, 19 ans, perché sur le pont de la felouque sur laquelle il navigue depuis cinq ans. Une aubaine dans ce pays qui traverse sa pire crise économique, avec une inflation à son plus haut niveau historique.
    Mais tous les Soudanais ne sont pas accueillis de la même manière. Au Caire, ils se plaignent de discriminations, de racisme et de propriétaires véreux qui gonflent les loyers. A Assouan, où les communautés nubiennes vivent depuis des millénaires à cheval sur la frontière, les Soudanais ont trouvé à leur arrivée des bénévoles qui les attendaient avec des repas chauds. « Assouan est une belle ville et ses habitants sont gentils », répète Hicham Ali.Mais au-delà des petites initiatives privées, les réfugiés dans le besoin sont souvent livrés à leur sort. Les autorités égyptiennes n’autorisent pas les agences onusiennes et les ONG internationales à établir des camps pour accueillir les migrants, Le Caire faisant valoir qu’en échange, les nouveaux arrivants ne sont pas privés du droit de travailler ou de circuler librement.

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