• How many people has climate change killed already? | Grist
    https://grist.org/climate/how-many-people-has-climate-change-killed-already

    Every year heat kills tens of thousands of people. Their breathing grows shallow, their heart rates flutter, their muscles spasm, and then they die. Heat killed over 100,000 people in 2018, when high temperatures broiled the European Union.

    A new study suggests that climate change was responsible for many of those deaths.

    Source:
    The burden of heat-related mortality attributable to recent human-induced climate change | Nature Climate Change
    https://www.nature.com/articles/s41558-021-01058-x

    #climat #mortalité

  • Cabin. Privacy-first, carbon-aware web analytics.

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  • Il fallimento della sanatoria #2020 confermato da dati inediti sul settore domestico

    Il 64% degli stranieri che ha fatto domanda di regolarizzazione nel settore domestico in forza del provvedimento varato lo scorso anno sono uomini. Una quota altissima se si considera che, nel 2019, l’89% degli impiegati domestici in Italia erano donne. È il mercato dei contratti falsi. “Una sanatoria nata male e gestita peggio”, spiega l’avvocato Marco Paggi (Asgi)

    Quasi due stranieri su tre che hanno richiesto di essere regolarizzati nel settore domestico tramite la #sanatoria promossa nel 2020 sono uomini. Una quota altissima se si considera che, nel 2019, l’89% degli impiegati domestici in Italia erano donne (stime Istat). I dati inediti del ministero dell’Interno ottenuti da Altreconomia confermano i limiti di un provvedimento nato zoppo, in aggiunta alla lentezza con cui sta avanzando l’esame delle 207mila richieste di regolarizzazione.
    “Questo dimostra il grande limite di una sanatoria settoriale che ha costretto migliaia di persone a cercare un impiego differente dal proprio, per potersi regolarizzare aumentando, tra l’altro, anche il ‘mercato’ di contratti falsi”, spiega Marco Paggi, avvocato e socio dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi).

    Grazie ai documenti ottenuti tramite accesso civico è possibile conoscere con precisione il numero delle richieste disaggregate per genere del richiedente. “Un dato mai pubblicato fino ad ora -osserva Paggi- per evitare una buona dose di imbarazzo al ministero”. Infatti, dagli elementi ottenuti, si evidenzia che su circa 177mila domande nel settore domestico, oltre 113mila, il 64%, sono state presentate da uomini. Come detto, l’incidenza maschile, secondo l’Istat supera di poco l’11% su un totale stimato, tra regolari e non, di due milioni di lavoratori. Percentuali stravolte che, in parte, non stupiscono.

    Puntualmente, ad ogni sanatoria, la storia si ripete. L’incidenza degli uomini impiegati nel settore domestico, nel periodo compreso tra il 2012 e il 2019, è diminuita del 50%. “Ciò è riconducibile -come si legge nel Rapporto annuale sul settore domestico 2020 realizzato dalla Fondazione Leone Moressa (https://www.osservatoriolavorodomestico.it/documenti/Rapporto-2020-lavoro-domestico-osservatorio-domina.pdf) - a un ampio ricorso alla regolarizzazione del 2012 da parte di lavoratori domestici che poi, una volta ottenuto il permesso di soggiorno, hanno cambiato settore”. Motivo per cui, nell’aprile 2020, Asgi aveva richiesto al governo di promuovere una regolarizzazione non limitata a determinati settori produttivi ma che prevedesse la possibilità di regolarizzarsi attraverso un “permesso di soggiorno per ricerca occupazione -si legge nella proposta che aveva raccolto centinaia di adesioni- svincolando da possibili ricatti o dal mercato dei contratti che hanno contraddistinto tutte le pregresse regolarizzazioni”.

    “È evidente che il difetto sta nel manico -sottolinea Paggi, esperto di diritto del lavoro e dell’immigrazione- non si può scaricare la colpa sugli stranieri: la scelta sciagurata è stata fatta a monte, in un paradosso per cui con l’obiettivo di diminuire il lavoro nero lo aumenti. Chi è in attesa di essere regolarizzato come domestico, infatti, nel frattempo continua a portare avanti il suo ‘vero’ lavoro senza contratto”.

    Una problematica amplificata dalla lungaggine nella procedura di esame delle richieste. Secondo i dati ottenuti dal ilfattoquotidiano.it, alla data del 10 maggio 2021, gli sportelli unici delle prefetture hanno esaminato il 12,7% delle pratiche, delle quali circa l’11% sono state definite positivamente. Un’evidente lentezza già segnalata, a inizio marzo 2021, dai promotori della campagna Ero straniero che, pubblicando un report dettagliato sullo stato di avanzamento dell’esame delle domande, avevano descritto “un quadro preoccupante in tutti i territori con ritardi gravissimi e stime dei tempi di finalizzazione delle domande improbabili, di anni se non decenni”.

    Con riferimento alle diverse attività per cui si è chiesta la regolarizzazione, sempre nel settore domestico, più di 122mila domande sono state presentate per attività di “collaboratore familiare” (colf). Proprio sotto questa voce, il 69% del totale, registra la differenza più marcata tra richieste di uomini e donne, rispettivamente 89mila e 32mila. Peccato che, sempre l’Istat, segnali una minor incidenza dei colf uomini (7,8%) rispetto ai badanti (14,5%) sul totale degli impiegati. L’esatto opposto di quanto evidenziano i numeri della sanatoria.

    Infine, meno di un terzo sono le richieste per l’attività di “assistenza a persona non autosufficiente”, ovvero badanti in senso stretto. “Molte persone che in realtà ricoprono questo ruolo -continua Paggi- sono state assunte come collaboratori domestici perché un richiedono un diverso inquadramento in termini contrattuali, quindi una minor retribuzione annua. Non solo, dal mio osservatorio anche diversi lavoratori impiegati in agricoltura sono stati trasformati in collaboratori domestici”. Il motivo è squisitamente economico: nel caso di regolarizzazione di un rapporto di lavoro già esistente, il datore di lavoro avrebbe dovuto versare per ogni mese di impiego in nero un contributo di 300 euro al mese per gli agricoli, solamente 156 per i domestici. Un’ulteriore dimostrazione del fallimento della regolarizzazione nel settore agricolo: questo, nonostante l’ex ministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova, tra le principali promotrici della sanatoria, avesse promosso il provvedimento con un occhio di riguardo verso i braccianti “invisibili”. Peccato che le domande riguardanti l’agricoltura siano state solamente il 15% delle 207mila totali.

    Delle 180mila persone in attesa, coloro che hanno dovuto cambiare impiego per ottenere un permesso di soggiorno restano, così, nell’impossibilità di svolgere regolarmente il proprio lavoro. “Per quanto verranno bloccati i lavoratori? -si domanda Paggi-. Per quanto tempo resteranno nel ‘nero’? Quanto guadagneranno le nostre casse esattoriali per questo periodo di stallo? Una sanatoria nata male e gestita peggio”.

    https://altreconomia.it/il-fallimento-della-sanatoria-2020-confermato-da-dati-inediti-sul-setto
    #Italie #régularisation #sans-papiers #migrations #chiffres #statistiques #secteur_domestique #femmes #permis_de_séjour

    • La sanatoria-miraggio: solo il 5% dei lavoratori è stato regolarizzato. A Roma neanche uno

      Ad un anno dall’apertura della finestra di emersione su 220mila domande esaminate solo 11mila. Niente assistenza sanitaria né vaccino. La campagna «Ero straniero» denuncia il fenomeno delle badanti «segregate» in casa per paura del contagio

      https://www.repubblica.it/cronaca/2021/06/01/news/la_sanatoria-miraggio_un_anno_dopo_a_roma_su_16_000_domande_neanche_un_permesso_di_soggiorno-303661422/?ref=RHTP-BH-I0-P1-S1-T1&__vfz=medium%3Dsharebar

    • Regolarizzazioni: a Roma 2 pratiche esaminate su 16mila domande

      In Italia delle 220.000 persone che hanno fatto richiesta, solo 11.000 (il 5%) hanno in mano un permesso di soggiorno per lavoro. Molto critica, in particolare, la situazione nelle grandi città. A un anno dall’apertura della finestra, il dossier di Ero Straniero

      «Tre mesi fa - dichiarano i promotori della campagna Ero straniero - abbiamo denunciato il grave ritardo accumulato nell’esame delle domande di emersione e regolarizzazione avviata nel 2020 con il decreto “rilancio”. Torniamo oggi, 1 giugno 2021, a un anno dall’apertura della finestra per presentare le domande, con un nuovo dossier di aggiornamento della situazione nei diversi territori, sulla base dei dati raccolti dal ministero dell’interno e da prefetture e questure attraverso una serie di accessi civici. Il quadro, seppur in lieve miglioramento, appare ancora grave in tutta Italia: delle 220.000 persone che hanno fatto richiesta, solo 11.000 (il 5%) hanno in mano un permesso di soggiorno per lavoro, mentre circa 20.000 sono in via di rilascio. Molto critica, in particolare, la situazione nelle grandi città: a Roma, al 20 maggio, su un totale di circa 16.000 domande ricevute, solo 2 pratiche sono arrivate alla fase conclusiva e non è stato ancora rilasciato alcun permesso di soggiorno. A Milano, su oltre 26.000 istanze ricevute in totale, poco più di 400 sono i permessi di soggiorno rilasciati».

      Nel dossier, oltre all’analisi dei dati relativi allo stato delle pratiche - riportati in formato aperto sul sito della campagna - sono state raccolte alcune testimonianze di chi sta aspettando di sapere se avrà o meno i documenti e potrà uscire dall’invisibilità. Ma anche di tanti datori di lavoro sconcertati per i tempi lunghissimi, come ha dichiarato un datore di lavoro a Bologna: “Io sono furioso. Sono nove mesi che non sappiamo niente. Ma si possono lasciare le famiglie appese così?”.

      Sono pesanti le conseguenze di tale ritardo sulla vita di queste persone e riguardano nuovi insormontabili ostacoli burocratici, a partire dalla difficoltà di accesso al sistema sanitario nazionale e alle vaccinazioni, con un impatto inevitabile anche a livello di salute pubblica nel contesto di emergenza che stiamo vivendo. Questa la testimonianza di un’assistente familiare in emersione a Milano: “Ti rimandano indietro. Dicono che con permesso provvisorio l’iscrizione al Servizio Sanitario non si può fare. Ma non è vero! Io ho diritto al medico di base! Quando sarò vaccinata? Ho 55 anni, le persone della mia età a Milano possono già prenotare su internet. E se io mi ammalo, chi sta con la mia signora, che ha 89 anni? Mi mandano via!”.

      Infine, il dossier prova a spiegare come mai, nonostante fosse stato previsto già nel decreto che ha dato il via alla “sanatoria”, il personale aggiuntivo destinato alle prefetture proprio per l’esame delle pratiche di regolarizzazione sia entrato effettivamente in servizio - e neanche dappertutto - solo i primi di maggio scorso, contribuendo significativamente al prolungarsi dei tempi per le decine di migliaia di pratiche negli uffici competenti in tutt’Italia.

      «Alla luce di quanto emerso dal monitoraggio di questi mesi - concludono i promotori - la campagna Ero straniero ribadisce la richiesta al ministero dell’interno di intervenire immediatamente per superare gli ostacoli burocratici e velocizzare l’iter delle domande, in modo che le quasi 200.000 persone ancora in attesa di risposta possano al più presto perfezionare l’assunzione. Nello stesso tempo, sappiamo chè non sarà sufficiente questa misura a risolvere il problema della creazione costante di nuova irregolarità, come dimostra quanto accaduto con le sanatorie negli ultimi vent’anni. Anche perché una gran parte di persone senza documenti ne è stata esclusa, vista la limitazione a pochi settori lavorativi. Continuiamo per questo a chiedere a governo e Parlamento un intervento a lungo termine che permetta di ampliare le maglie della regolarizzazione e favorire legalità e integrazione, a partire da uno strumento di emersione sempre accessibile, senza bisogno di sanatorie, che dia la possibilità a chi è già in Italia e rimane senza documenti, di regolarizzare la propria posizione se ha la disponibilità di un lavoro o è radicato nel territorio. E, più a monte, nuovi meccanismi di ingresso per lavoro o ricerca lavoro. Soluzioni, queste, previste nella proposta di legge di iniziativa popolare della campagna Ero straniero, ferma in Commissione affari costituzionali della Camera, la cui approvazione non può più aspettare».

      http://www.vita.it/it/article/2021/06/01/regolarizzazioni-a-roma-2-pratiche-esaminate-su-16mila-domande/159542

    • Pesanti i ritardi sulle regolarizzazioni: pratiche ferme al 25%

      “Dati sconfortanti” secondo la campagna Ero straniero quelli forniti dalla ministra Lamorgese che ha riposto oggi pomeriggio a un’interrogazione in Senato. Su oltre 200mila domande di emersione presentate nel 2020 quelle lavorate dalle prefetture sono poco più di 51mila. Critiche le situazione nelle grandi città come Roma e Milano

      I dati che la ministra dell’interno Lamorgese ha fornito oggi in Senato rispondendo alle 15, nel corso del question time, a un’interrogazione delle senatrici Bonino e De Petris, nata a partire dal monitoraggio che la campagna Ero straniero sta svolgendo ormai da un anno in merito all’avanzamento delle pratiche relative alla regolarizzazione straordinaria del 2020, sono definite in una nota «ancora sconfortanti».

      Da quanto riferito dalla ministra dell’Interno, su 207.870 domande di emersione presentate, 45.173 sono in via di conclusione con esito favorevole e la gran parte, circa 40.000, riguardano il settore domestico e di cura. Considerando anche rigetti e rinunce, sono 51.394 le pratiche lavorate dalle Prefetture (il 24,7%) sul totale di quelle presentate a quasi un anno dalla chiusura della finestra utile per mettersi in regola (15 agosto 2020). A queste si aggiungono 9.918 permessi di soggiorno per attesa occupazione rilasciati dalle questure che riguardano la seconda procedura prevista dalla sanatoria lo scorso anno nel decreto «rilancio».

      Giusto per avere un’idea dei tempi lunghissimi - sottolinea una nota della campagna -, si ricorda che dai risultati della ricognizione svolta sulla base dai dati forniti dal ministero dell’interno, a maggio scorso, delle oltre 200mila domande presentate in tutt’Italia, erano stati rilasciati per il primo canale di accesso all’emersione, meno di 30mila permessi di soggiorno per lavoro, con situazioni molto critiche nelle grandi città: a Roma, al 20 maggio, su un totale di circa 16mila domande ricevute, solo 2 pratiche erano arrivate alla fase conclusiva e non era stato ancora rilasciato alcun permesso di soggiorno. A Milano, su oltre 26mila istanze ricevute, poco più di 400 erano i permessi di soggiorno rilasciati.

      La nota prosegue: “Nonostante i piccoli passi in avanti, come campagna Ero straniero non possiamo che esprimere nuovamente la nostra preoccupazione per il grave ritardo in cui versa l’esame delle domande. Tale ritardo, nella realtà, significa precarietà e incertezza per decine di migliaia di lavoratori e lavoratrici presenti nel nostro Paese, da un punto di vista sociale e sanitario. Ancora una volta, dunque, ribadiamo la richiesta al governo di intervenire immediatamente per velocizzare l’esame delle domande e portarle a conclusione; al Parlamento continuiamo a chiedere, invece, un intervento a lungo termine che favorisca legalità e integrazione, senza bisogno di sanatorie, come previsto nella proposta di legge di iniziativa popolare della campagna Ero straniero, ferma in Commissione affari costituzionali della Camera da oltre un anno”.

      Ero straniero è promossa da: Radicali Italiani, A Buon Diritto, Oxfam Italia, ActionAid Italia, ASGI,CNCA, Fondazione Casa della carità “Angelo Abriani”, ARCI, Centro Astalli, Fcei - Federazione Chiese Evangeliche in Italia, CILD, ACLI, Legambiente Onlus, ASCS - Agenzia Scalabriniana per la Cooperazione allo Sviluppo, AOI, con il sostegno di numerosi sindaci e decine di organizzazioni.

      http://www.vita.it/it/article/2021/07/22/pesanti-i-ritardi-sulle-regolarizzazioni-pratiche-ferme-al-25/160103

  • Tant mieux pour eux ? | PrototypeKblog
    https://prototypekblog.wordpress.com/2021/05/21/tant-mieux-pour-eux

    La fortune de Bernard Arnault est évaluée ces jours-ci à 180 milliards de dollars. Le PIB de la France pour 2019 était de l’ordre de 2700 milliards de dollars, gardons cette valeur comme ordre de grandeur. Arrondissons. La fortune de Bernard Arnault représente 7% du PIB de la France. Les ratios comme ça, avec le PIB en dénominateur, ça ne veut rien dire ? C’est pas moi qui les ai inventés en 1982, et qui les ai mis dans les traités européens depuis Maastricht en 1991 – et, comme disait Jean-Claude, il ne peut y avoir grand-chose contre les traités européens ! Et c’est le Financial Times lui-même qui a fait l’exercice de comparer la fortune agrégée des milliardaires de grands pays avant et après la pandémie du Covid-19, en la rapportant au PIB des pays d’origine de ces braves gens.

    Pour la France, ça suggère que la fortune de « ses » milliardaires représente désormais près de 20% de « son » PIB.

    A-t-on déjà vu, dans l’Histoire longue, pareille concentration ? Tant mieux pour eux, vraiment ? On est un peu comme eux ? Allons donc !

    Je pense aussi qu’il faudrait aller au-delà du raisonnement économique, des mesures économiques, avec des symboles monétaires, type PIB. Je pense qu’il faudrait trouver d’autres indicateurs. Pour raisonner au niveau du Système Humain ou de ses écosystèmes. Les entrées et les sorties – les intrants et les extrants, comme on disait jadis en belge –, les ressources et les déchets…

    La terre ? On a appris il y a quelques jours que le premier propriétaire de terres agricoles aux États-Unis, c’est Bill Gates, qui posséderait 100.000 hectares. C’est moins de 1% des surfaces cultivables des États-Unis, évaluées à 371 millions d’hectares ; et c’est rien du tout par-rapport au reste de son pactole. Mais, sachant qu’une exploitation agricole utilise en moyenne entre 50 et 100 hectares, cela veut dire entre mille et deux milles exploitations agricoles. A-t-on déjà vu, dans l’Histoire longue, pareille concentration ?

    Le cheptel humain ? Les trois premiers employeurs privés aux États-Unis — Walmart, McDonald’s et Amazon — emploient 5 millions de personnes. Pour une population active évaluée à 160 millions, ça fait 3%. Trois travailleurs sur cent dépendent d’un de ces trois monstres. Dans le cas d’Amazon, il faudrait regarder les chiffres au niveau mondial, et intégrer les millions de travailleurs hyper-précaires indirectement employés par Amazon. Pour avoir une idée du nombre de gens ainsi subordonnés, directement ou indirectement, à Jeff Bezos (qui, depuis son divorce, ne détient plus que 11% des actions, le pauvre homme). A-t-on déjà vu, dans l’Histoire longue, pareille concentration ?

    Le CO2 ? On comprend mieux les enjeux écologiques quand, derrière l’anthropocène, on débusque le capitalocène. On comprend mieux les enjeux écologiques quand on réalise que plus de 50% des émissions viennent du mode de vie des 1% les plus riches, et des modes de production et des choix énergétiques qu’ils imposent pour alimenter la pompe à profit. Chiffres à affiner, ici aussi, voire à individualiser : combien pour les 0,1%, leurs yachts et leurs jets ? Comment quantifier l’empreinte carbone de Bernard Arnault ? En berluti ?

    Les satellites ? C’est le chiffre qui me fascine le plus ces derniers mois : Un quart des satellites artificiels en orbite autour de cette planète sont la propriété privée d’un seul homme, Elon Musk. Un quart des objets en orbite au-dessus de nos têtes sont sous le contrôle d’un individu qui a largement démontré ces dernières années sa capacité à raconter n’importe quoi à des fins purement spéculatives ou délirantes. A-t-on déjà vu… le premier satellite artificiel n’a été lancé qu’il y a 64 ans !

    Bref, il faudrait trouver les bonnes métriques, il faudrait surtout beaucoup plus d’imagination que je n’en ai, et ça dépasse le cadre de cette petite promenade. Des écrivains de science-fiction ont imaginé jusqu’où pourrait aller la concentration de richesses (au hasard, Brian Aldiss, merci Agnès). Il m’est arrivé d’essayer, mais ça n’est pas réjouissant.

  • Home Office’s rush to deport asylum seekers before Brexit was ‘inhumane’, watchdog finds

    ‘Unprecedented levels of self-harm and suicidal thoughts’ were recorded at the #Brook_House_Immigration_Removal_Centre in late 2020

    https://www.independent.co.uk/news/uk/home-news/brexit-asylum-seekers-home-office-b1850796.html
    #suicides #santé_mentale #UK #Angleterre #asile #migrations #réfugiés #détention_administrative #rétention #statistiques #chiffres #2020

    #paywall

  • Explainer | Gun Violence Archive
    https://www.gunviolencearchive.org/explainer

    Mass Shooting Methodology and Reasoning

    Mass Shootings are, for the most part an American phenomenon. While they are generally grouped together as one type of incident they are several with the foundation definition being that they have a minimum of four victims shot, either injured or killed, not including any shooter who may also have been killed or injured in the incident. Link to follow

    #USA #meurtre #suicide #armes_à_feu #statistiques

  • Le nombre de déplacés internes, dus aux conflits et au climat, atteint des records
    https://www.lemonde.fr/planete/article/2021/05/20/le-nombre-de-deplaces-internes-dus-aux-conflits-et-au-climat-atteint-des-rec

    Le nombre de déplacés internes, dus aux conflits et au climat, atteint des records. A la fin 2020, 55 millions de personnes vivaient en exil dans leur propre pays, un record. Près de 41 millions de nouveaux déplacements internes ont été enregistrés l’an dernier, dont les trois quarts en raison de catastrophes environnementales. Elles ont quitté leur foyer et leurs terres pour fuir des guerres, des tempêtes, des épisodes de sécheresse ou de violentes moussons. A la fin 2020, 55 millions de personnes vivaient en exil dans leur propre pays, un record, alerte l’Observatoire des situations de déplacement interne (IDMC), dans son bilan annuel publié jeudi 20 mai. Parmi ces populations, 48 millions de personnes ont été poussées au départ en raison de conflits et de violences, et 7 millions du fait de catastrophes environnementales – un chiffre probablement sous-estimé.
    Cette structure basée à Genève, qui dépend du Conseil norvégien pour les réfugiés, comptabilise également le nombre de nouveaux déplacements internes intervenus dans l’année, qui peuvent concerner plusieurs fois les mêmes personnes, dont certaines finissent par rentrer chez elles. L’an dernier, près de 41 millions de nouveaux déplacements ont été enregistrés dans 149 pays, soit le chiffre le plus élevé depuis dix ans (+ 20 % par rapport à 2019). Les trois quarts des départs (31 millions) sont dus à des catastrophes environnementales.« Ces nouveaux chiffres sont choquants. La hausse, année après année, du nombre de personnes déplacées montre que l’on ne trouve pas de solutions pour ces gens », regrette Alexandra Bilak, la directrice de l’IDMC. Elle note que les déplacés internes ne suscitent pas la même attention politique que les réfugiés, deux fois moins nombreux. Pourtant, rappelle-t-elle, ces déplacements entraînent « des chocs répétés sur des populations souvent précaires, des déracinements, des traumatismes, des vies brisées ». La pandémie de Covid-19 n’a pas forcément augmenté le nombre de personnes déplacées, mais elle a accru leur vulnérabilité et leur insécurité alimentaire. « Moins de personnes ont cherché des abris d’urgence après des catastrophes, par peur d’être contaminées », ajoute Alexandra Bilak.

    #Covid-19#migrant#migration#sante#vulnerabilite#personnedeplacee#migrantinterne#deracinement#exil#traumatisme#santementale#conflit#environnement#statistiques

  • Push back of responsibility: Human Rights Violations as a Welcome Treatment at Europe’s Borders

    In a new report, DRC in partnership with six civil society organisations across six countries, have collected records of thousands of illegal pushbacks of migrants and refugees trying to cross Europe’s borders. Testimonies also reveal unofficial cooperation between authorities in different countries to transfer vulnerable people across borders to avoid responsibility.

    During only three months, authorities illegally prevented 2,162 men, women and children from seeking protection. The instances of illegal pushbacks were recorded from January to April 2021 at different border crossings in Italy, Greece, Serbia, Bosnia-and-Herzegovina, North Macedonia, and Hungary. More than a third of the documented pushbacks involved rights violations such as denial of access to asylum procedure, physical abuse and assault, theft, extortion and destruction of property, at the hands of national border police and law enforcement officials.

    Further, the report (https://drc.ngo/media/mnglzsro/prab-report-january-may-2021-_final_10052021.pdf) documents 176 cases of so-called “chain-pushbacks” where refugees and migrants were forcefully sent across multiple borders via informal cooperation between states to circumvent their responsibility and push unwanted groups outside of the EU. This could be from Italy or Austria through countries like Slovenia and Croatia to a third country such as Bosnia-and- Herzegovina.

    https://pro.drc.ngo/resources/news/push-back-of-responsibility-human-rights-violations-as-a-welcome-treatment-
    #droits_humains #asile #migrations #réfugiés #responsabilité #frontières #push-backs #refoulements #rapport #DRC #statistiques #chiffres #2021 #Balkans #route_des_Balkans #frontière_sud-alpine #Italie #France #refoulements_en_chaîne

    Pour télécharger le rapport:
    https://drc.ngo/media/mnglzsro/prab-report-january-may-2021-_final_10052021.pdf

  • Darmanin : En matière d’immigration, notre main est ferme

    Au total, il y a 30 % d’#éloignements_forcés de plus que sous les deux quinquennats précédents. Dans le même temps, nous naturalisons 30 % de moins. Nous avons durci les conditions d’intégration et les entretiens d’assimilation.

    https://twitter.com/GDarmanin/status/1390583304378847232

    –-> les 3 tweet de Darmanin likés par #Macron

    –—

    Commentaire de François Gemenne :

    Un éloignement forcé, c’est toujours un échec. Qu’un ministre de l’Intérieur se félicite de cela, c’est comme si un ministre de l’Education se félicitait de l’augmentation du taux de redoublement, ou un ministre de la Justice de la hausse du nombre de prisonniers. Quelle misère.

    https://twitter.com/Gemenne/status/1391787516731273219

    #Darmanin #Gérard_Darmanin #France #expulsions #statistiques #chiffres #migrations #renvois #asile #réfugiés #machine_à_expulser #naturalisation #intégration #conditions_d'intégration #assimilation #titre_de_séjour #rhétorique #fermeté

    ping @isskein @karine4

  • Francia devolvió a España casi 16.000 migrantes en solo cinco meses

    Los números se han disparado coincidiendo con una mayor presión migratoria desde Canarias y con el blindaje que los franceses mantienen en los pasos compartidos.

    Los controles que ha impuesto Francia en sus puestos fronterizos con España como respuesta a la amenaza terrorista y a la covid están teniendo consecuencias en materia migratoria. Entre noviembre y marzo, las autoridades galas devolvieron a España 15.757 inmigrantes en situación irregular, más de 3.000 al mes, según datos de la policía francesa de fronteras divulgados por el diario francés Le Figaro (https://www.lefigaro.fr/actualite-france/clandestins-les-frontieres-ont-ete-verrouillees-avec-l-italie-et-l-espagne-) y confirmados a El PAÍS. Los números se han disparado respecto al mismo periodo del año anterior coincidiendo con una mayor presión migratoria desde Canarias, pero también con el blindaje que los franceses mantienen unilateralmente en los pasos compartidos.

    La inmensa mayoría de los inmigrantes, 12.288 personas, fueron devueltos cuando intentaban entrar en territorio francés. La cifra triplica la registrada entre noviembre de 2019 y marzo de 2020. Las restantes 3.469 personas fueron interceptadas en departamentos vecinos, en particular de los Pirineos Orientales, que hacen frontera con Cataluña. En este caso se trata de un aumento del 25%. En esos controles las autoridades francesas han detenido a 108 personas por facilitar el cruce de los migrantes por la frontera. “Pueden ser camioneros o compatriotas, no son necesariamente parte de una organización estructurada”, declaró a Le Figaro el portavoz adjunto de la policía francesa, Christian Lajarrige.

    España y Francia forman parte del espacio Schengen y, en teoría, no hay frontera entre los dos países. Pero, desde los ataques terroristas de 2015, París ha establecido controles fronterizos amparándose en un artículo del tratado europeo que le permite realizarlos por razones de “seguridad nacional”. El pasado mes de noviembre, tras los últimos atentados en Francia, su presidente, Emmanuel Macron, dobló el número de efectivos en las fronteras (https://elpais.com/internacional/2020-11-05/macron-refuerza-los-controles-en-la-frontera-con-espana-e-italia-ante-el-ter) y desplegó 4.800 policías, gendarmes y militares para establecer controles 24 horas al día. Macron, que teme el ascenso de la extrema derecha de Marine Le Pen en las elecciones presidenciales del año que viene, cerró además 19 puestos fronterizos con España.

    El refuerzo de los controles también ha repercutido en la frontera alpina entre Francia e Italia. Entre noviembre y marzo, Francia impidió la entrada a 23.537 personas, el doble que en el mismo periodo un año antes, según las cifras citadas. A ellos se añaden, 2.502 migrantes detenidos en territorio francés, un aumento del 39%.

    Para expulsar a los inmigrantes que entran irregularmente a su territorio, Francia y España se valen de un acuerdo bilateral de 2002 (https://elpais.com/politica/2018/11/02/actualidad/1541179682_837419.html) que les permite la devolución en las cuatro horas siguientes al paso de la frontera. El acuerdo contempla una serie de garantías, como que los inmigrantes sean entregados a la policía española o que se formalice por escrito su devolución. Los datos de la policía francesa no especifican cuántos inmigrantes han sido devueltos sobre la base de este acuerdo bilateral, pero fuentes policiales y los propios inmigrantes han señalado que la mayor parte se realiza sin que medie un solo trámite.

    Las abultadas cifras no significan, en cualquier caso, que todas las personas devueltas se queden en España. Los gendarmes controlan con celo puentes, estaciones, autobuses, coches y trenes, pero la mayoría de los migrantes lo vuelve a intentar tres, cuatro y hasta cinco veces hasta que finalmente consiguen cruzar. Entre marzo y abril EL PAÍS ha estado en contacto con 14 migrantes, la mayoría malienses, que tenían como objetivo llegar a París y a otras ciudades francesas. Todos, antes o después y tras varios intentos, lo lograron.

    Buena parte de los migrantes que estos meses se han dirigido a la frontera francesa proceden de Canarias. Tras meses bloqueados en las islas han conseguido llegar a la Península por sus propios medios o, en el caso de los más vulnerables, ha sido la Secretaría de Estado de Migraciones la que los ha derivado a centros de acogida en otras provincias. No se conoce cuántos de ellos deciden quedarse en España, pero siempre hay un porcentaje importante que se marcha a Francia y a otros países europeos para encontrarse con parientes y amigos.

    Estos flujos migratorios, los llamados movimientos secundarios, son una obsesión para París y Berlín que presionan a Madrid para que evite que los migrantes se muevan por el continente. Francia, de hecho, ya ha puesto sobre la mesa una reforma del tratado Schengen para revisar las normas que rigen el espacio de libre circulación en Europa y reforzar el control de fronteras interiores.

    https://elpais.com/espana/2021-04-24/francia-devolvio-a-espana-casi-16000-migrantes-en-solo-cinco-meses.html?ssm=

    #France #Espagne #renvois #expulsions #frontières #asile #migrations #réfugiés #chiffres #statistiques
    #accord_bilatéral #accord_de_réadmission #accords_de_réadmission

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    voir la liste des accords de réadmissions signés par des pays européens et utilisés pour renvoyer (directement sans leur donner la possibilité de déposer une demande d’asile) des personnes à la recherche d’un refuge :
    https://seenthis.net/messages/736091

  • Les statistiques ethniques au Royaume-Uni, un outil essentiel pour lutter contre les inégalités
    https://www.lemonde.fr/economie/article/2021/04/22/les-statistiques-ethniques-au-royaume-uni-un-outil-essentiel-pour-lutter-con

    Les statistiques ethniques au Royaume-Uni, un outil essentiel pour lutter contre les inégalités. Ces données, dont la collecte est réclamée par les minorités, sont désormais systématiquement utilisées par les institutions britanniques. La pandémie de Covid-19 a souligné leur pertinence.
    Le 21 mars dernier, c’était le « census day » au Royaume-Uni : tous les résidents britanniques devaient avoir rempli à cette date un questionnaire destiné au recensement décennal en Angleterre et au Pays de Galles – les retardataires ont encore quelques jours pour s’y coller sur le site census.gov.uk. L’exercice est obligatoire et prend une bonne vingtaine de minutes pour un foyer de cinq personnes : la liste des questions est longue, notamment celles liées à l’ethnicité. Britannique blanc, irlandais, gitan ou rom ? Britannique noir, noir africain ou caribéen ? Britannique indien, pakistanais, chinois, bangladais, ou « autres » ? Et si métis, blanc et asiatique, blanc et noir caribéen, ou noir africain ?
    La pertinence d’une case « Somalien », de deux autres mentionnant les religions « sikh » ou « juive », a bien été discutée en amont, mais surtout entre experts. Pour le reste, les questions (y compris, celles, optionnelles, sur les orientations sexuelles) n’ont choqué personne : au Royaume-Uni, où les interrogations identitaires sont centrales (avec des velléités séparatistes en Ecosse et le vote en faveur du Brexit), la collecte des données religieuses et ethniques ne pose plus problème depuis une trentaine d’années. Au contraire : ces données sont considérées par les Britanniques issus des minorités (on utilise pour les désigner l’acronyme BAME, pour « Black, Asian and minority ethnic » ) comme un puissant outil d’action politique « positive ».Déjà, lors du recensement de 1966, les autorités avaient tenté de classer la population du pays entre Britanniques de l’« ancien Commonwealth » (Australie, Canada, Nouvelle-Zélande), du « nouveau Commonwealth » (Inde, Pakistan, Bangladesh, Antilles) et du « Commonwealth africain » (Nigeria, Ouganda, Kenya), rappelle, dans un post de blog, Richard Laux, directeur adjoint de la Race Disparity Unit, une unité de collecte des données ethniques au sein du cabinet du premier ministre. Le gouvernement de l’époque voulait évaluer la part des « non-Blancs » dans une population en rapide évolution : l’Empire britannique était en voie avancée de délitement et le Royaume-Uni accueillait chaque année des dizaines de milliers d’expatriés indiens ou jamaïcains.
    Ce n’est qu’avec le recensement de 1991 qu’a été pour la première fois assumée la collecte des données ethniques (liées à une histoire, une culture, une langue, des traditions ou la couleur de peau). Le Labour Force Survey (LFS), la grande enquête trimestrielle sur l’emploi britannique menée par le Bureau de la statistique nationale (Office for National Statistics, ONS), a suivi. « Au début, les pouvoirs publics craignaient que les gens refusent de répondre parce qu’ils auraient eu peur que ces données soient utilisées contre eux. C’est le contraire qui s’est passé, les gens ont répondu sans problème », rappelle James Nazroo, directeur adjoint du Center on the Dynamics of Ethnicity à l’université de Manchester.
    Après la forte montée des inégalités dans les années 1980, la prise de conscience des communautés noires discriminées (notamment lors des émeutes de Brixton, un quartier du sud de Londres), les autorités ont pris l’engagement d’utiliser les données ethniques pour piloter l’application de politiques de justice sociale. « Durant les gouvernements de David Cameron et de Theresa May, cette volonté politique d’utiliser ces statistiques pour lutter contre les inégalités fondées sur l’ethnie s’est encore accentuée. Theresa May a même établi la “Race Disparity Unit” pour diffuser des données sur les inégalités religieuses et ethniques dans les ministères : l’éducation, la santé, etc. », souligne le professeur Nazroo.
    Au dernier recensement (de 2011), les BAME représentaient 14 % des Britanniques (dont 3,3 % de Noirs et 7,5 % d’Asiatiques). Ces statistiques ont-elles aidé à une meilleure représentation de ces populations dans la société ? Elles sont en tout cas systématiquement utilisées comme références. L’université d’Oxford communique ainsi fièrement sur la part des nouveaux inscrits issus des minorités : elle est montée à 22,1 % à la rentrée 2019. La BBC s’est engagée à ce que 15 % de son personnel à l’antenne soit BAME. « Il y a 20 % de BAME dans les écoles à Glasgow, je veux travailler à ce qu’ils aient au moins 20 % des opportunités d’emploi sur place », explique Graham Campbell, candidat d’origine jamaïcaine du parti indépendantiste SNP aux élections législatives écossaises du 6 mai. « Le gros avantage des statistiques ethniques, c’est qu’il est très difficile aux politiques d’ignorer les faits quand les chiffres sont là », constate M. Nazroo.
    La pandémie de Covid-19 a souligné la pertinence de ces statistiques. Dès la fin du printemps 2020, l’ONS a pu montrer que les populations BAME avaient près de deux fois plus de risques de tomber gravement malades et de mourir du Covid-19 que les Blancs. Une surexposition liée, a priori, surtout à leurs conditions de vie et leur travail (beaucoup sont employés par le NHS, l’hôpital public britannique). Ces publics à risque ont fait l’objet de campagnes de communication spécifiques, notamment depuis le début de la vaccination (sans avoir pour autant été priorisés). Le NHS est lui aussi censé collecter les données ethniques de ses patients – il n’en fait pas assez, se plaignent les représentants BAME. Ces données ont entre autres permis de montrer que les femmes noires britanniques avaient cinq fois plus de risques de mourir de complications en couches que celles d’autres ethnies (selon des données compilées entre 2014 et 2016). « La collecte des données ethniques n’a pas joué en défaveur des minorités ni freiné leur intégration, au contraire. Les gens considèrent qu’elles valorisent leur identité, ils sont parfaitement satisfaits de dire qu’ils sont à la fois pakistanais et britanniques, par exemple, ce ne sont pas des identités contradictoires », conclu le professeur Nazroo.

    #Covid-19#migrant#migration#grandebretagne#minorite#race#statistique#BAME#immigration#NHS#systemesante#surexposition#surmortalite

  • Nearly 17 child migrants a day vanished in Europe since 2018

    Investigation finds one in six were solo and under 15, as experts say cross-border cooperation ‘nonexistent’.

    At least 18,000 unaccompanied child migrants have disappeared after arriving in European countries including Greece, Italy and Germany.

    An investigation by the Guardian and the cross-border journalism collective Lost in Europe found that 18,292 unaccompanied child migrants went missing in Europe between January 2018 and December 2020 – equivalent to nearly 17 children a day.

    In 2020 alone, 5,768 children disappeared in 13 European countries.

    Most of the children who have gone missing over the past three years came to Europe from Morocco, but Algeria, Eritrea, Guinea and Afghanistan were also among the top countries of origin. According to the data available, 90% were boys and about one in six were younger than 15.

    The investigation, which collated data on missing unaccompanied minors from all 27 EU countries, as well as Norway, Moldova, Switzerland and the UK, found the information provided was often inconsistent or incomplete, meaning the true numbers of missing children could be much higher.

    Spain, Belgium and Finland provided figures only up to the end of 2019. Denmark, France and the UK provided no data at all on unaccompanied missing children.

    The findings of the investigation raise serious questions about the extent European countries are able or willing to protect unaccompanied child migrants.

    Federica Toscano, head of advocacy and migration at Missing Children Europe, a non-profit organisation that connects grassroots agencies across Europe, said the data was “extremely important” for understanding the scale of the problem in Europe. “The high number of missing children is a symptom of a child-protection system that doesn’t work,” she said.

    She said unaccompanied children were among the migrants most vulnerable to violence, exploitation and trafficking. “Criminal organisations are increasingly targeting migrant children,” said Toscano, “especially unaccompanied ones and many of them become victims of labour and sexual exploitation, forced begging and trafficking.”

    In March 2019, the Guardian and Lost in Europe found that at least 60 Vietnamese children had disappeared from Dutch shelters. Dutch authorities suspected they had been trafficked into Britain to work on cannabis farms and in nail salons.

    Herman Bolhaar, the Dutch national rapporteur on human trafficking, said the investigation showed the urgent need for cooperation at the European level to address why thousands of unaccompanied migrant children have disappeared without a trace. “We cannot lose sight of these children,” he said. “They deserve our protection.”

    While almost all of the countries in the investigation have detailed procedures in place intended to deal with the disappearance of unaccompanied minors, they do not always work well in practice, according to a 2020 report from the European Migration Network, part of the European Union. Problems include failure to follow up when children are reported missing and insufficient cooperation between police and asylum or child protection authorities.

    “Very little is recorded in a file of a missing migrant child,” said Toscano, “and too often it is assumed that a migrant child is somewhere safe in another country, although cross-border collaboration on these cases is practically nonexistent.”

    There are multiple reasons why children go missing, she said, including “the lengthy and burdensome procedures to obtain international protection or to be reunited with their family”. Many were also held in inadequate facilities, often with no access to education, she added.

    A spokesperson for the European commission said there was “deep concern about children going missing”, adding that member states needed “to take action to prevent and respond to the disappearances of children in migration … by improving data collection and cross-border collaboration.”

    https://www.theguardian.com/global-development/2021/apr/21/nearly-17-child-migrants-a-day-vanished-in-europe-since-2018

    #MNA #mineurs_non_accompagnés #asile #migrations #disparition #Europe #réfugiés #disparitions #enfants #enfance #réfugiés

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    ajouté au fil de discussion autour des #statistiques de la « disparition » de MNA :

    https://seenthis.net/messages/714320
    #chiffres

    • Kako izbjeglička djeca nestaju u Evropi

      U posljednje tri godine nestalo je više od osamnaest hiljada izbjegličke djece koja su se domogla Evrope, pokazuje novo istraživanje. Državne institucije nemaju pojma gdje su djeca, ali su vjerovatno u velikoj opasnosti.

      Policijska kontrola na granici Njemačke i Poljske. Zaustavljen je automobil – vozač je Poljak, četvoro putnika su Vijetnamci bez isprava. Među njima je i djevojčica od petnaest godina. Kako je maloletna, a niko od saputnika joj nije rod, djevojčica završava u jednom državnom smještaju za djecu u njemačkoj pokrajini Brandenburg.

      Za taj slučaj su reporteri javnog servisa rbb doznali iz dokumentacije berlinskog Državnog tužilaštva. Jer djevojčica je nestala nedugo pošto je smještena u dom. Jedan od zaposlenih u domu prijavio je nestanak, i to je bilo to. Vijetnamska djevojčica je postala broj u statistici.

      Koliko ima djece sa sličnom sudbinom? To sada otkriva analiza novinarske grupe „Lost in Europe" („Izgubljeni u Evropi") u kojoj sarađuju reporteri londonskog Gardijana, holandskog servisa VPRO, njemačkog rbb i drugi. Prema istraživanju, od 2018. do 2020. je u Evropi nestalo 18.292 djece koja su stigla kao „maloljetne izbjeglice bez pratnje“ i za koju su bile nadležne institucije evropskih država.

      Ali, moguće je da je i više djece nestalo jer pojedine države vode manjkavu statistiku. Recimo, Francuska, Danska i Rumunija ne prikupljaju ove podatke. Bugarska ne pravi razliku između maloljetnika koji dođu sa starateljima i onih koji dođu sami.

      Evropska komisija zna za ove probleme. Ilva Johanson, komesarka za unutrašnje poslove, kaže da je Brisel već pozivao članice EU da „moraju da preduzmu više protiv nestanaka izbjegle djece, između ostalog boljim prikupljanjem podataka“.

      Prinuđena da trguje drogom

      Verena Kek iz međunarodne organizacije za dječija prava ECPAT vjeruje da je pravi broj djece kojima se u Evropi gubi trag zapravo mnogo viši. Kritikuje što se EU ne bavi ovim problemom zajednički, niti postoji centralni registar nestalih. „Za djecu i omladinu ovo može da ima fatalne posledice jer mogu dopasti u situaciju u kojoj su izrabljivani. A ako niko ne zna da su nestali, niko ih i ne traži.“

      Vijetnamska djevojčica sa početka priče nađena je poslije nekoliko mjeseci – slučajno. Policija je pronašla tokom racije u jednom stanu u Berlinu. Dijete je živjelo sa vijetnamskim parom koji je ilegalno prodavao drogu i cigarete. Ispostavilo se da je djevojčica bila primorana da radi u studiju za manikir za tri stotine eura mjesečno, da prodaje cigarete i isporučuje narkotike.

      U Njemačkoj je u posljednje tri godine prijavljeno 7.806 ovakvih nestanaka, ali se djeca uglavnom ponovo pronađu. Međutim, 724 njih nikada nije otkriveno. Najčešće nestaju djeca porijeklom iz Avganistana, zatim iz Maroka i Alžira.

      Pa i ovdje je statistika upitna. Savezni ured za kriminalistiku (BKA) koji je zadužen za registar nestalih priznaje da je to kod izbjegličke djece veoma teško jer nemaju papire. Neki bivaju registrovani više puta kao nestali, neki budu sasvim izostavljeni.

      To je skandal, grmi Holger Hofman iz organizacije Njemačka pomoć djeci. „Koliko znamo, nema pouzdanih podataka, čak ni približno. Takve rupe u znanju širom otvaraju vrata kriminalnim mrežama.“

      Evropski problem

      Europol je još 2016. upozoravao na kriminalne mreže koje iskorištavaju djecu koja sama izbjegnu u Evropu. U januaru ove godine je i BKA saopštio da se zna za vijetnamske bande koje trguju ljudima.

      Koliko je problem evropski, tragično je dokazao primjer iz oktobra 2019. godine. Tada je u kamionu-hladnjači nadomak Londona nađeno 39 mrtvih Vijetnamaca. Kamion je doputovao iz Belgije. Među žrtvama su bila dva dječaka koji su desetak dana ranije pobjegli iz jednog doma u Holandiji.

      Tamo ih je prethodno dovela holandska policija koja ih je pronašla u jednom drugom kamionu – koji je krenuo iz Kelna.

      https://www.dw.com/bs/kako-izbjegli%C4%8Dka-djeca-nestaju-u-evropi/a-57243605

  • Réfugiés : contourner la #Croatie par le « #triangle » #Serbie - #Roumanie - #Hongrie

    Une nouvelle route migratoire s’est ouverte dans les Balkans : en Serbie, de plus en plus d’exilés tentent de contourner les barbelés barrant la #Hongrie en faisant un crochet par la Roumanie, avant d’espérer rejoindre les pays riches de l’Union européenne. Un chemin plus long et pas moins risqué, conséquence des politiques sécuritaires imposées par les 27.

    Il est 18h30, le jour commence à baisser sur la plaine de #Voïvodine. Un groupe d’une cinquantaine de jeunes hommes, sacs sur le dos et duvets en bandoulière, marche d’un pas décidé le long de la petite route de campagne qui relie les villages serbes de #Majdan et de #Rabe. Deux frontières de l’Union européenne (UE) se trouvent à quelques kilomètres de là : celle de la Hongrie, barrée depuis la fin 2015 d’une immense clôture barbelée, et celle de la Roumanie, moins surveillée pour le moment.

    Tous s’apprêtent à tenter le « #game », ce « jeu » qui consiste à échapper à la police et à pénétrer dans l’UE, en passant par « le triangle ». Le triangle, c’est cette nouvelle route migratoire à trois côtés qui permet de rejoindre la Hongrie, l’entrée de l’espace Schengen, depuis la Serbie, en faisant un crochet par la Roumanie. « Nous avons été contraints de prendre de nouvelles dispositions devant les signes clairs de l’augmentation du nombre de personnes traversant illégalement depuis la Serbie », explique #Frontex, l’Agence européenne de protection des frontières. Aujourd’hui, 87 de ses fonctionnaires patrouillent au côté de la police roumaine.

    Depuis l’automne 2020, le nombre de passages par cet itinéraire, plus long, est en effet en forte hausse. Les #statistiques des passages illégaux étant impossibles à tenir, l’indicateur le plus parlant reste l’analyse des demandes d’asiles, qui ont explosé en Roumanie l’année dernière, passant de 2626 à 6156, soit une hausse de 137%, avec un pic brutal à partir du mois d’octobre. Selon les chiffres de l’Inspectoratul General pentru Imigrări, les services d’immigrations roumains, 92% de ces demandeurs d’asile étaient entrés depuis la Serbie.

    “La Roumanie et la Hongrie, c’est mieux que la Croatie.”

    Beaucoup de ceux qui espèrent passer par le « triangle » ont d’abord tenté leur chance via la Bosnie-Herzégovine et la Croatie avant de rebrousser chemin. « C’est difficile là-bas », raconte Ahmed, un Algérien d’une trentaine d’années, qui squatte une maison abandonnée de Majdan avec cinq de ses compatriotes. « Il y a des policiers qui patrouillent cagoulés. Ils te frappent et te prennent tout : ton argent, ton téléphone et tes vêtements. Je connais des gens qui ont dû être emmenés à l’hôpital. » Pour lui, pas de doutes, « la Roumanie et la Hongrie, c’est mieux ».

    La route du « triangle » a commencé à devenir plus fréquentée dès la fin de l’été 2020, au moment où la situation virait au chaos dans le canton bosnien d’#Una_Sana et que les violences de la police croate s’exacerbaient encore un peu plus. Quelques semaines plus tard, les multiples alertes des organisations humanitaires ont fini par faire réagir la Commission européenne. Ylva Johansson, la Commissaire suédoise en charge des affaires intérieures a même dénoncé des « traitements inhumains et dégradants » commis contre les exilés à la frontière croato-bosnienne, promettant une « discussion approfondie » avec les autorités de Zagreb. De son côté, le Conseil de l’Europe appelait les autorités croates à mettre fin aux actes de tortures contre les migrants et à punir les policiers responsables. Depuis, sur le terrain, rien n’a changé.

    Pire, l’incendie du camp de #Lipa, près de #Bihać, fin décembre, a encore aggravé la crise. Pendant que les autorités bosniennes se renvoyaient la balle et que des centaines de personnes grelottaient sans toit sous la neige, les arrivées se sont multipliées dans le Nord de la Serbie. « Rien que dans les villages de Majdan et Rabe, il y avait en permanence plus de 300 personnes cet hiver », estime Jeremy Ristord, le coordinateur de Médecins sans frontières (MSF) en Serbie. La plupart squattent les nombreuses maisons abandonnées. Dans cette zone frontalière, beaucoup d’habitants appartiennent aux minorités hongroise et roumaine, et Budapest comme Bucarest leur ont généreusement délivré des passeports après leur intégration dans l’UE. Munis de ces précieux sésames européens, les plus jeunes sont massivement partis chercher fortune ailleurs dès la fin des années 2000.

    Siri, un Palestinien dont la famille était réfugiée dans un camp de Syrie depuis les années 1960, squatte une masure défoncée à l’entrée de Rabe. En tout, ils sont neuf, dont trois filles. Cela fait de longs mois que le jeune homme de 27 ans est coincé en Serbie. Keffieh sur la tête, il tente de garder le sourire en racontant son interminable odyssée entamée voilà bientôt dix ans. Dès les premiers combats en 2011, il a fui avec sa famille vers la Jordanie, puis le Liban avant de se retrouver en Turquie. Finalement, il a pris la route des Balkans l’an dernier, avec l’espoir de rejoindre une partie des siens, installés en Allemagne, près de Stuttgart.

    “La police m’a arrêté, tabassé et on m’a renvoyé ici. Sans rien.”

    Il y a quelques jours, Siri à réussi à arriver jusqu’à #Szeged, dans le sud de la Hongrie, via la Roumanie. « La #police m’a arrêté, tabassé et on m’a renvoyé ici. Sans rien », souffle-t-il. À côté de lui, un téléphone crachote la mélodie de Get up, Stand up, l’hymne reggae de Bob Marley appelant les opprimés à se battre pour leurs droits. « On a de quoi s’acheter un peu de vivres et des cigarettes. On remplit des bidons d’eau pour nous laver dans ce qui reste de la salle de bains », raconte une des filles, assise sur un des matelas qui recouvrent le sol de la seule petite pièce habitable, chauffée par un poêle à bois décati.

    De rares organisations humanitaires viennent en aide à ces exilés massés aux portes de l’Union européennes. Basé à Belgrade, le petit collectif #Klikaktiv y passe chaque semaine, pour de l’assistance juridique et du soutien psychosocial. « Ils préfèrent être ici, tout près de la #frontière, plutôt que de rester dans les camps officiels du gouvernement serbe », explique Milica Švabić, la juriste de l’organisation. Malgré la précarité et l’#hostilité grandissante des populations locales. « Le discours a changé ces dernières années en Serbie. On ne parle plus de ’réfugiés’, mais de ’migrants’ venus islamiser la Serbie et l’Europe », regrette son collègue Vuk Vučković. Des #milices d’extrême-droite patrouillent même depuis un an pour « nettoyer » le pays de ces « détritus ».

    « La centaine d’habitants qui restent dans les villages de Rabe et de Majdan sont méfiants et plutôt rudes avec les réfugiés », confirme Abraham Rudolf. Ce sexagénaire à la retraite habite une modeste bâtisse à l’entrée de Majdan, adossée à une ruine squattée par des candidats à l’exil. « C’est vrai qu’ils ont fait beaucoup de #dégâts et qu’il n’y a personne pour dédommager. Ils brûlent les charpentes des toits pour se chauffer. Leurs conditions d’hygiène sont terribles. » Tant pis si de temps en temps, ils lui volent quelques légumes dans son potager. « Je me mets à leur place, il fait froid et ils ont faim. Au vrai, ils ne font de mal à personne et ils font même vivre l’épicerie du village. »

    Si le « triangle » reste a priori moins dangereux que l’itinéraire via la Croatie, les #violences_policières contre les sans papiers y sont pourtant monnaie courante. « Plus de 13 000 témoignages de #refoulements irréguliers depuis la Roumanie ont été recueillis durant l’année 2020 », avance l’ONG Save the Children.

    “C’est dur, mais on n’a pas le choix. Mon mari a déserté l’armée de Bachar. S’il rentre, il sera condamné à mort.”

    Ces violences répétées ont d’ailleurs conduit MSF à réévaluer sa mission en Serbie et à la concentrer sur une assistance à ces victimes. « Plus de 30% de nos consultations concernent des #traumatismes physiques », précise Jérémy Ristor. « Une moitié sont liés à des violences intentionnelles, dont l’immense majorité sont perpétrées lors des #push-backs. L’autre moitié sont liés à des #accidents : fractures, entorses ou plaies ouvertes. Ce sont les conséquences directes de la sécurisation des frontières de l’UE. »

    Hanan est tombée sur le dos en sautant de la clôture hongroise et n’a jamais été soignée. Depuis, cette Syrienne de 33 ans souffre dès qu’elle marche. Mais pas question pour elle de renoncer à son objectif : gagner l’Allemagne, avec son mari et leur neveu, dont les parents ont été tués dans les combats à Alep. « On a essayé toutes les routes », raconte l’ancienne étudiante en littérature anglaise, dans un français impeccable. « On a traversé deux fois le Danube vers la Roumanie. Ici, par le triangle, on a tenté douze fois et par les frontières de la Croatie et de la Hongrie, sept fois. » Cette fois encore, la police roumaine les a expulsés vers le poste-frontière de Rabe, officiellement fermé à cause du coronavirus. « C’est dur, mais on n’a pas le choix. Mon mari a déserté l’armée de Bachar avec son arme. S’il rentre, il sera condamné à mort. »

    Qu’importe la hauteur des murs placés sur leur route et la terrible #répression_policière, les exilés du nord de la Serbie finiront tôt ou tard par passer. Comme le déplore les humanitaires, la politique ultra-sécuritaire de l’UE ne fait qu’exacerber leur #vulnérabilité face aux trafiquants et leur précarité, tant pécuniaire que sanitaire. La seule question est celle du prix qu’ils auront à paieront pour réussir le « game ». Ces derniers mois, les prix se sont remis à flamber : entrer dans l’Union européenne via la Serbie se monnaierait jusqu’à 2000 euros.

    https://www.courrierdesbalkans.fr/Refugies-contourner-la-Croatie-par-le-triangle-Serbie-Roumanie-Ho
    #routes_migratoires #migrations #Balkans #route_des_Balkans #asile #migrations #réfugiés #contournement #Bihac #frontières #the_game

    ping @isskein @karine4

  • La première vague du Covid-19 a frappé durement les personnes originaires d’Afrique et d’Asie
    https://www.lemonde.fr/les-decodeurs/article/2021/04/16/la-premiere-vague-du-covid-19-a-frappe-durement-les-personnes-originaires-d-

    Une étude de l’Insee montre que l’excès de mortalité, toutes causes confondues, est, pour mars et en avril 2020, deux fois plus élevé parmi les personnes nées à l’étranger. Avec la pandémie de Covid-19, le nombre de décès enregistrés en 2020 a fortement augmenté (669 000 morts en France, contre 613 000 en 2019, soit + 9 %). Mais cette hausse est encore plus marquée chez les personnes nées à l’étranger : elle s’élève à 17 %, contre 8 % pour celles qui sont nées en France – soit presque deux fois plus, comme le montre une étude de l’Institut national de la statistique et des études économiques (Insee) parue le 16 avril. Ce décalage a été particulièrement net lors de la première vague de l’épidémie de Covid-19, au printemps 2020.Pour effectuer ces comparaisons, l’Insee a utilisé les données statistiques d’état civil de 2019 et de 2020, dans lesquelles les causes de décès sont inconnues (on ne peut donc par les attribuer directement au Covid-19). Elles contiennent cependant des informations socio-démographiques sur les personnes décédées, parmi lesquelles le pays de naissance.Sur l’ensemble de l’année 2020, l’excès de mortalité a touché en priorité des personnes nées en Afrique hors Maghreb (+ 36 %), en Asie (+ 29 %) et au Maghreb (+ 21 %), alors que l’augmentation des décès des personnes originaires d’Europe, d’Océanie et d’Amérique a été similaire à celle des personnes nées en France.
    C’est lors de la première vague épidémique que cet écart a été le plus important. Les plus touchées ont été les personnes nées en Afrique hors Maghreb (+ 117 %), en Asie (+ 92 %) et au Maghreb (+ 55 %), contre + 23 % pour celles nées en France. L’écart a eu tendance à se réduire lors de la seconde vague, même s’il est resté présent. Contrairement à la première vague, ce sont les personnes nées au Maghreb qui ont enregistré la plus forte hausse de décès à l’automne, avec + 36 %.
    Lors que l’on étudie le détail par région de résidence, les disparités sont fortes. L’Ile-de-France a été particulièrement touchée par l’excès de mortalité de la première vague, et ce phénomène a, une fois encore, davantage touché les personnes d’origine étrangère. « La région présente une forte concentration de personnes originaires du Maghreb, de l’Afrique subsaharienne et de l’Asie », explique au Monde Sylvie Le Minez, chef de l’unité des études démographiques et sociales de l’Insee. Elle abrite 32 % des personnes nées au Maghreb, 49 % de celles nées dans un autre pays d’Afrique, et 48 % des personnes originaires d’Asie.Entre 2019 et 2020, les décès enregistrés chez les moins de 65 ans ont très peu augmenté parmi les personnes nées en France (+ 4 %) ou en Europe (+ 1 %). En revanche, on constate un pic pour celles qui sont originaires du Maghreb (+ 31 %), d’Afrique subsaharienne (+ 101 %) et d’Asie (+ 79 %).
    L’Insee rappelle que ces chiffres, qui prennent appui sur l’état civil, ne donnent pas d’informations sur les conditions de vie ou l’état de santé des personnes décédées (obésité, diabète, etc.). Mais une étude réalisée en mai 2020 (Warszawski et al.) a montré que la séroprévalence, c’est-à-dire le nombre de personnes ayant développé des anticorps contre le virus SARS-CoV-2, était plus élevée parmi les immigrés non européens, en raison notamment de leurs conditions de vies moins favorables.« Les personnes d’origine étrangère ont occupé davantage de postes, de métiers dits “essentiels”, et ont dû continuer à aller travailler pendant le confinement, analyse Mme Le Minez. De plus, les personnes venant par exemple d’Afrique subsaharienne occupent les logements les plus exigus, ce qui peut favoriser la transmission, notamment entre classes d’âge différentes. »

    #Covid-19#migrant#migration#france#sante#mortalite#immigre#inegalite#travailleuressentiel#travailleurmigrant#minorite#statistique

  • En #Afrique, le retour des présidents à vie, par Tierno Monénembo (Le Monde diplomatique, décembre 2015)
    http://www.monde-diplomatique.fr/2015/12/MONENEMBO/54360

    Le Bénin carbure à la contrebande, par Sabine Cessou (Le Monde diplomatique, janvier 2016)
    http://www.monde-diplomatique.fr/2016/01/CESSOU/54506
    #Bénin #Togo #Nigéria #Pétrole #Energies
    #Afrique #Relations_Internationales

    Croissance sans réconciliation en Côte d’Ivoire, par Vladimir Cagnolari (Le Monde diplomatique, octobre 2015)
    http://www.monde-diplomatique.fr/2015/10/CAGNOLARI/53965

    Le Tchad, puissance de circonstance, par Delphine Lecoutre (Le Monde diplomatique, juin 2016)
    http://www.monde-diplomatique.fr/2016/06/LECOUTRE/55774

    Au Burundi, les racines de la colère, par Pierre Benetti (Le Monde diplomatique, juin 2015)
    http://www.monde-diplomatique.fr/2015/06/BENETTI/53067

    L’Afrique du Sud lassée de ses libérateurs, par Sabine Cessou (Le Monde diplomatique, juin 2017)
    http://www.monde-diplomatique.fr/2017/06/CESSOU/57568

    Métamorphoses de la dette africaine, par Sanou Mbaye (Le Monde diplomatique, mai 2015)
    https://www.monde-diplomatique.fr/2015/05/MBAYE/52950
    #Dette #Dette_publique

    L’Afrique francophone piégée par sa monnaie unique, par Sanou Mbaye (Le Monde diplomatique, novembre 2014)
    http://www.monde-diplomatique.fr/2014/11/MBAYE/50931

    #DataGueule S5E7 - Le Franc CFA : une monnaie de plomb IRL
    http://irl.nouvelles-ecritures.francetv.fr/datagueule-S5E7-1.html

    Une croissance économique inégale en Afrique de l’Ouest, par Cécile Marin (Le Monde diplomatique, novembre 2014)
    http://www.monde-diplomatique.fr/cartes/afrique-francophone


    #Monnaie

    Choc pétrolier : les finances des producteurs africains dans le rouge. Par Martin Mateso
    http://geopolis.francetvinfo.fr/choc-petrolier-les-finances-des-producteurs-africains-dans-le-

    L’Angola au secours du Portugal, par Augusta Conchiglia (Le Monde diplomatique, mai 2012)
    http://www.monde-diplomatique.fr/2012/05/CONCHIGLIA/47660
    #Cemac #Tchad #Angola #Portugal

    Cocktail meurtrier en Afrique centrale, par Gérard Prunier (Le Monde diplomatique, février 2016)
    https://www.monde-diplomatique.fr/2016/02/PRUNIER/54746

    La Corne de l’Afrique dans l’orbite de la guerre au Yémen, par Gérard Prunier (Le Monde diplomatique, septembre 2016)
    http://www.monde-diplomatique.fr/2016/09/PRUNIER/56229
    http://www.monde-diplomatique.fr/2016/09/PRUNIER/56230

    Transition à haut risque en République démocratique du Congo, par Sabine Cessou (Le Monde diplomatique, décembre 2016)
    http://www.monde-diplomatique.fr/2016/12/CESSOU/56889

    "pour de nombreux observateurs congolais, la « communauté internationale » pratique une diplomatie à géométrie variable. « Du point de vue de Joseph Kabila, ces pressions relèvent d’une profonde injustice, dans la mesure où la plupart de ses voisins s’éternisent au pouvoir dans une relative impunité », relève une source diplomatique africaine (5).

    Le secrétaire d’État américain John Kerry a maintes fois mis en garde Kinshasa. Pour Washington, il s’agit de préserver des intérêts stratégiques et de ne pas se couper des jeunes Africains, à la fois nombreux (327 millions de 15-24 ans, 32 % de la population totale) et impatients. En août 2014, en marge du premier sommet États-Unis - Afrique à Washington, le chef de la diplomatie américaine a reçu M. Kabila et trois autres présidents en tête-à-tête pour évoquer la nécessité de respecter la limitation du nombre de mandats. Trois mois plus tard, le Burkinabé Blaise Compaoré était chassé du pouvoir par la rue après vingt-sept ans de présidence. En revanche, le Burundais Pierre Nkurunziza s’est fait réélire en juillet 2015 pour un troisième mandat, sans même changer la Constitution, en recourant à une répression massive. De son côté, M. Denis Sassou-Nguesso, au Congo-Brazzaville, a organisé en octobre 2015 un référendum constitutionnel, suivi en mars dernier de sa réélection, avec un score officiel de 60 % des voix. Contesté par l’opposition, le scrutin a été suivi d’une vague de répression."

    Omniprésence des intérêts étrangers en RDC, par Sabine Cessou (Le Monde diplomatique, décembre 2016)
    http://www.monde-diplomatique.fr/2016/12/CESSOU/56890

    « Depuis 2003, plusieurs rapports du groupe d’experts des Nations unies sur les causes économiques du conflit dans l’est de la RDC (2) ont mis en lumière le lien entre les milices armées et l’exploitation, pour le compte de sociétés étrangères, de minerais stratégiques indispensables à la fabrication de certains appareils électroniques comme les téléphones portables. »

    Trafics d’influence en Afrique, par Anne-Cécile Robert (Le Monde diplomatique, janvier 2017)
    http://www.monde-diplomatique.fr/2017/01/ROBERT/56968
    #Asie #Golfe #Mondialisation #Organisations_internationales #Multinationales

    "Le changement majeur pour l’Afrique contemporaine réside dans une diversification inédite de ses partenaires"

    "Multinationales et puissances étrangères, traditionnellement attirées par les matières premières, sont désormais séduites par la multiplication d’alléchants programmes d’investissement"

    "Grâce aux cours élevé des minerais et des produits de base au début du millénaire, l’Afrique a en effet bénéficié d’une manne suffisante pour entamer son désendettement et lancer de spectaculaires projets financés sur les marchés mondiaux"

    " les pays arabes souhaitent diversifier leurs économies, trop dépendantes du pétrole et du gaz [...]. Dans les années 2000, les États du Golfe, notamment l’Arabie saoudite, ont pris part au mouvement d’accaparement des terres dans le but d’assurer leur sécurité alimentaire ou de s’inscrire dans la production d’agrocarburants "

    "si cette nouvelle géoéconomie confère des marges de manœuvre aux capitales africaines, leur fournissant des partenaires et des financements, elle demeure le fruit d’une insertion passive dans le concert mondial."

    "Pékin se voit désormais contraint de déroger à sa règle de non-ingérence dans les affaires intérieures des pays hôtes. Cette réserve, qui contrastait avec le paternalisme des anciens colonisateurs, était plutôt bien perçue. Mais, comme toutes les puissances, la Chine doit protéger ses intérêts et ses expatriés."

    "En 2013, l’opération « Serval », au Mali, a conforté Paris dans son rôle de gendarme du continent. L’ancienne puissance coloniale n’oublie pas les intérêts de groupes tels que celui de M. Vincent Bolloré, souvent sollicité pour assurer la logistique de ses opérations."

    "Les organisations régionales [...] créent des zones de libre-échange sur les bons conseils des institutions financières internationales, mais se révèlent incapables de définir des politiques concertées de développement et une vision des intérêts continentaux. "

    "l’acheminement d’un conteneur du Kenya au Burundi coûte toujours plus cher que de la Belgique ou du Royaume-Uni vers Nairobi "

    Le #Maghreb entre autoritarisme et espérance démocratique, par Hicham Alaoui (Le Monde diplomatique, novembre 2016)
    http://www.monde-diplomatique.fr/2016/11/ALAOUI/56776

    Les entreprises françaises défiées dans leur pré carré, par Olivier Piot (Le Monde diplomatique, avril 2017)
    https://www.monde-diplomatique.fr/2017/04/PIOT/57344
    #Economie_Statistiques #Statistiques #Traités_commerciaux_APE #Multinationales

    "Dans son dernier livre (13), Alain Deneault dissèque les mécanismes de « perversion du droit » utilisés par un fleuron français. Ses armes, selon ce professeur de sciences politiques à l’université de Montréal ? « La fixation des cours du pétrole et le partage des marchés ; la collaboration avec des régimes politiques officiellement racistes ; la corruption de dictateurs et de représentants politiques ; la conquête de territoires à la faveur d’interventions militaires ; la délocalisation d’actifs dans des paradis fiscaux ; la pollution de vastes territoires au point de menacer la santé publique... »"

    Dictature oubliée en #Guinée-Équatoriale. par Jean-Christophe Servant
    https://www.monde-diplomatique.fr/2021/11/SERVANT/64011

  • Che cos’è il “femminismo dei dati” e perché Bologna è una città apripista
    https://www.editorialedomani.it/politica/italia/che-cose-il-femminismo-dei-dati-e-perche-bologna-e-una-citta-apripi

    Che cos’è il “femminismo dei dati” e perché Bologna è una città apripista

    Bologna pubblicherà dati di genere e adotterà indicatori di impatto di genere fin dalla programmazione di attività e spesa. Altre città seguiranno l’esempio per portare in Italia il «data feminism» che considera i dati come dispositivo di potere dai quali quindi partire per ridurre le diseguaglianze

    #genre #Bologne #data #datafemminism #femminism

    • https://www.youtube.com/watch?v=K3odScka55A

      ... “efficacy rates,” of around 95%. But the third vaccine introduced in the US, from Johnson & Johnson, has a considerably lower efficacy rate: just 66%. Look at those numbers next to each other, and it’s natural to conclude that one of them is considerably worse. Why settle for 66% when you can have 95%? But that isn’t the right way to understand a vaccine’s efficacy rate, or even to understand what a vaccine does. And public health experts say that if you really want to know which vaccine is the best one, efficacy isn’t actually the most important number at all.

      #covid-19 #sars-cov2 #statistique #vaccine

    • https://en.wikipedia.org/wiki/Vaccine_efficacy

      [...]

      Vaccine efficacy formula

      The outcome data (vaccine efficacy) generally are expressed as a proportionate reduction in disease attack rate (AR) between the unvaccinated (ARU) and vaccinated (ARV), or can be calculated from the relative risk (RR) of disease among the vaccinated group.[3][4][5]

      The basic formula[6] is written as:
      VE= (ARU-ARV): ARU x 100%

      VE = Vaccine efficacy,
      ARU = Attack rate of unvaccinated people,
      ARV = Attack rate of vaccinated people.

      An alternative, equivalent formulation of vaccine efficacy
      VE=(1-RR) x 100%
      where RR is the relative risk of developing the disease for vaccinated people compared to unvaccinated people.

      Testing for efficacy

      Vaccine efficacy differs from vaccine effectiveness in the same way that an explanatory clinical trial differs from an intention to treat trial[clarification needed]: vaccine efficacy shows how effective the vaccine could be given ideal circumstances and 100% vaccine uptake; vaccine effectiveness measures how well a vaccine performs when it is used in routine circumstances in the community.[7] What makes the vaccine efficacy applicable is that it shows the disease attack rates as well as a tracking of vaccination status.[jargon][7] Vaccine effectiveness is more easily tracked than the vaccine efficacy considering the difference in environment;[vague] however, the vaccine efficacy is more expensive and difficult to conduct. Because the trial is based on people who are taking the vaccination and those not vaccinated, there is a risk for disease, and optimal treatment is needed for those who become infected.

      The advantages of a vaccine efficacy have control for all biases that would be found with randomization, as well as prospective, active monitoring for disease attack rates, and careful tracking of vaccination status for a study population there is normally a subset as well, laboratory confirmation of the infectious outcome of interest and a sampling of vaccine immunogenicity.[7][failed verification] The major disadvantages of vaccine efficacy trials are the complexity and expense of performing them, especially for relatively uncommon infectious outcomes of diseases for which the sample size required is driven up to achieve clinically useful statistical power.[7]

      It has been proposed that standardized statements of efficacy be parametrically expanded to include multiple categories of efficacy in a table format. While conventional efficacy / effectiveness data typically shows ability to prevent a symptomatic infection, this expanded approach could include prevention of outcomes categorized to include symptom class, viral damage minor/serious, hospital admission, ICU admission, death, various viral shedding levels, etc. Capturing effectiveness at preventing each of these “outcome categories” is typically part of any study and could be provided in a table with clear definitions instead of being inconsistently presented in study discussion as is typically done in past practice. Some 2021 era COVID-19 studies appear to be implementing similar methods and presentation. Improved methods and presentation remain desirable.[8][9]

      [...]

    • #efficacité_clinique vs.
      #efficacité_sérologique

      https://fr.wikipedia.org/wiki/Vaccin#Efficacité

      [...]

      L’efficacité clinique d’un vaccin se mesure par la réduction de la fréquence de la maladie chez les sujets vaccinés (taux de protection effectif de la population vaccinée). Elle est parfois estimée par des marqueurs de substitution (taux d’anticorps connus protecteurs)2, mais l’efficacité sérologique (mesurée en laboratoire) ne concorde pas toujours avec l’efficacité clinique (mesurée en épidémiologie de terrain).

      [...]

    • La vidéo est très claire ; elle indique pourquoi on ne peut pas comparer des résultats d’essais conduits dans des contextes différents (en termes d’incidence du virus et des variants présents), et en conclusion rappeller que les 6 vaccins évalués offrent 100% de protection contre un covid qui conduirait à une hospitalisation.

  • Pourquoi j’ai quitté « le job le plus sexy du XXIè siècle » | Le Club de Mediapart
    https://blogs.mediapart.fr/vous-netes-pas-seuls/blog/060421/pourquoi-jai-quitte-le-job-le-plus-sexy-du-xxie-siecle
    #IA #deep_learning #algos #statistiques #data #big_data

    "Le rapport qui suit s’intéresse aux causes mais surtout aux effets de l’automatisation algorithmique et statistique de l’économie mondialisée, posant notamment le problème de maintenir coûte que coûte le dogme du progrès technologique comme horizon indiscutable de nos sociétés. Trois ans dans le monde des data sciences, en tant que consultant #data_scientist au sein du cabinet Sia Partners, m’ont fait découvrir l’intérêt porté au secteur par les grands groupes de l’énergie, de la banque et de l’assurance, mais aussi par l’administration publique et l’écosystème #start-up.
    A travers cette analyse, rédigée après ma démission en mars 2020, j’ai essayé d’exposer ma compréhension de ce qui est actuellement en jeu dans l’économie du numérique. J’y présente un témoignage personnel enrichi de réflexions théoriques documentées, afin de démystifier les fantasmes à la source du #solutionnisme_technologique et de caractériser les effets des récentes innovations sur nos sociétés et, plus largement, sur le vivant. Cette prise de recul à l’aune d’un examen idéologique tente d’exposer les dysfonctionnements d’un système ayant placé le progrès technologique au cœur de sa doctrine et de son rapport au temps. La fin du rapport interroge en particulier notre conception du temps comme point de bascule paradigmatique.
    Il ne s’agit évidemment pas d’une croisade à l’encontre de mon ancien employeur, qui ne revêt à mon sens aucune importance systémique, même si telle peut être l’ambition de ses dirigeants. Les mêmes considérations symptomatiques auraient pu être faites au sein de la concurrence. Il s’agit ici d’informer concrètement celles et ceux qui n’auraient pas toutes les cartes en mains, et d’interpeller la conscience des autres. Les éléments présentés sont, autant que possible, factuellement argumentés. Les assertions et observations critiques sont le fruit d’une réflexion personnelle documentée, et de ce fait, comme tout écrit, empruntes d’une certaine forme de subjectivité. Néanmoins, l’objectif est conservé d’y établir un discours plus
    rationnel que les croyances maintenues à bout de bras par une culture dominante en péril."

    #Rapport

    https://vous-netes-pas-seuls.org/wp-content/uploads/2021/04/Rapport-Romain-Boucher.pdf

    https://vous-netes-pas-seuls.org

  • L’environnement est-il soluble dans l’économie ?
    https://laviedesidees.fr/L-environnement-est-il-soluble-dans-l-economie.html

    À propos de : Eve Chiapello, Antoine Missemer, Antonin Pottier (coord.) Faire l’économie de l’environnement, Presses des Mines. Comment l’environnement est-il considéré par les discours et #statistiques économiques ? Un ouvrage collectif examine autant les études des économistes que les activités d’acteurs militants ou d’entreprises qui cherchent à mesurer l’environnement ou à en faire abstraction.

    #Économie #environnement #écologie
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/20210405_environnement.pdf
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/20210405_environnement.docx

  • Tribune de l’#Observatoire_du_décolonialisme
    –-> observatoire déjà signalé ici :
    https://seenthis.net/messages/901103
    https://seenthis.net/messages/905509

    « #Décolonialisme et #idéologies_identitaires représentent un quart de la #recherche en #sciences_humaines aujourd’hui »

    Les tenants du décolonialisme et des idéologies identitaires minimisent ou nient leur existence. La montée en puissance de ces #idéologies dans la recherche est pourtant flagrante et on peut la mesurer, démontrent les trois universitaires.

    Dans les débats sur le terme d’#islamo-gauchisme, beaucoup ont prétendu qu’il n’existait pas, puisque ni les islamistes ni les gauchistes n’emploient ce terme. De même, dans de multiples tribunes et émissions, les tenants du décolonialisme et des idéologies identitaires minimisent ou nient leur existence en produisant des chiffres infimes et en soulignant qu’il n’existe pas de postes dont l’intitulé comprend le mot décolonialisme. À ce jeu-là, un essai intitulé « Les Blancs, Les Juifs et nous » [nom du livre de Houria Bouteldjane, porte-parole du Parti des Indigènes de la République, NDLR] ne serait évidemment pas #décolonial, puisqu’il n’y a pas le mot « décolonial » dedans.

    Parler de « décolonialisme », ce n’est donc pas s’intéresser au mot « décolonial » mais aux notions qui le structurent dont le vocabulaire est un reflet, mais pas seulement. La rhétorique, la syntaxe, la stylistique : tout participe à un ensemble qui détermine le caractère d’un écrit. Par exemple, « pertinent » est un adjectif qui nous sert à caractériser un essai. On dit par exemple d’un article qu’il est « pertinent » - Mais le mot « pertinent », c’est nous qui l’employons. Il n’est pas présent dans le texte évalué. C’est le propre du jugement de dégager une idée synthétique à partir des mots exprimés.

    Mais soit, faisons le pari des mots et jouons le jeu qui consiste à croire que les #mots disent le contenu. Mais alors : de tous les mots. Et pas seulement de ceux que l’on nous impose dans un débat devenu byzantin où un chef d’entreprise-chercheur nous explique que tout ça est un micro-phénomène de la recherche qui n’a aucun intérêt, que le mot ne pèse que 0,001% de la recherche en sciences humaines et où, par un psittacisme remarquable, on en vient presque à prouver que la sociologie elle-même ne publie rien.

    Partons simplement d’un constat lexical : sous le décolonialisme tel que nous pensons qu’il s’exprime en France dans l’université au XXIe siècle, nous trouvons les idées qui « déconstruisent » les sciences - la #race, le #genre, l’#intersectionnalité, l’#islamophobie, le #racisme. Que ces mots occupent les chercheurs avec des grilles de lecture nouvelles, tantôt pour les critiquer tantôt pour les étayer et que ces mots - dans le domaine bien précis des Lettres - occupent une place qu’ils n’occupaient pas autrefois - ce qui dénote une évolution de la discipline.

    Dans un premier temps, nous nous intéresserons au fonctionnement des #blogs à visée scientifique, dont nous pensons qu’ils constituent un lieu de la littérature marginale scientifique. Puis dans un second temps, à la #production_scientifique au prisme des #publications présentes à travers les revues et les livres. On s’intéressera en particulier à l’#OpenEdition parce que c’est précisément un lieu-outil où la recherche se présente aux instances gouvernantes comme un mètre-étalon des livrables de la recherche.

    Notre vocabulaire réunit quelques mots identifiés comme représentatifs des thématiques décoloniales et intersectionnelles, sans préjuger du positionnemenent de l’auteur soit pour ou contre (décolonial, #postcolonial, #discriminations, race(s), genre(s), racisme(s), intersectionnalité et synonymes). Il nous suffit d’acter que le sujet occupe une place plus ou moins importante dans le débat.

    Sur OpenEdition, réduit à la part des blogs (Hypotheses) et événements annoncés (Calenda) : une recherche « courte » sur « genre, race et intersectionnalité » donne près de 37578 résultats sur 490078 (au 20 mars 2021) soit 7% de la recherche globale. Ce qui à première vue semble peu. Une recherche étendue sur « racisme et #discrimination » présente d’ailleurs une faible augmentation avec 32695 occurrences sur 39064 titres, soit 8% des objets décrits sur la plateforme.

    Toutefois, si on s’intéresse à la période 1970-2000, le nombre de résultats pour le motif « racisme discrimination » est de 9 occurrences sur 742 documents soit à peine 1% des objets d’études. En 20 ans, la part représentée par des sujets liés à ces mots-clés a donc été multipliée par 7.

    À ce volume, il faut maintenant ajouter les recherches sur « décolonial ». Le mot est totalement absent de la recherche avant 2001, comme le mot « #islamophobie ». Le mot « #post-colonial », c’est 76 documents. Après 2002, le mot « décolonial » pèse 774 tokens ; « post-colonial » (et son homographe « postcolonial »), c’est 58669 ; islamophobie : 487. Au total, ces mots comptent donc au 20 mars 59930 occurrences et représentent 12% des blogs et annonces de recherche. Maintenant, si nous prenons l’ensemble des mots du vocabulaire, ils représentent 89469 documents soit 20% des préoccupations des Blogs.

    Si maintenant, on s’intéresse à la production scientifique elle-même représentée par des articles ou des livres : une recherche sur « racisme genre race intersectionnalité discrimination » renvoie 177395 occurrences sur 520800 documents (au 20 mars), soit 34% des documents recensés.

    Le rapport entre le volume de résultats montre que la part d’étude sur « racisme et discrimination » ne pèse en fait que 43962 documents (au 20 mars), soit 9% de la recherche globale mais 25% des résultats du panel. Si nous réduisons la recherche à « genre, race et intersectionnalité », on trouve en revanche 162188 documents soit 31% du volume global - un tiers - mais 75% du panel.

    Cet aperçu montre à quel point ces objets occupent une place importante dans les publications, sans préjuger de l’orientation des auteurs sur ces sujets : critiques ou descriptifs. Simplement on montre ici que les préoccupations pressenties par l’Observatoire du Décolonialisme et des idéologies identitaires ne sont pas vaines.

    À titre de comparaison, pour toute la période 1970-2021, la recherche sur « syntaxe et sémantique » c’est 55356/520849 items, soit 10% de la recherche pour une thématique qui représente 48% des enjeux de recherches en linguistique qui elle-même ne pèse que 115111 items en base toute sous-discipline confondue, soit 22% de la recherche (22% qui peuvent parfaitement créer une intersection avec l’ensemble de la recherche décoloniale comme par exemple cet article : « Quelle place occupent les femmes dans les sources cunéiformes de la pratique ? » où l’on identifie les tokens linguistiques comme « écriture cunéiforme » et des tokens intersectionnels dans le sommaire : « De l’histoire de la femme à l’histoire du genre en assyriologie » ).

    Maintenant, si on reprend ces mêmes motifs de recherche globaux appliqués aux seuls revues et livres, on réalise que le total de publications sur ces sujets est de 262618 sur 520809 (au 20 mars) soit 50.4% de la recherche exprimée à travers les publications scientifiques.

    La recherche en décolonialisme pèse donc 20% de l’activité de blogging et d’organisation d’événements scientifiques et la moitié (50%) de la part des publications.

    Que faut-il comprendre d’une telle donnée ? Dans un premier temps, il faut déjà acter la forte pénétration des enjeux de recherches liés aux thématiques décoloniales, pour d’excellentes raisons sans doute qu’il n’est pas question de discuter.

    Presque la moitié des activités du cœur de l’évaluation des carrières - revues et livres - passe par la description toutes disciplines confondues des objets de la sociologie. La disparité avec les activités scientifiques d’édition journalière ou d’annonces d’événements ne contredit pas bien au contraire cette envolée.

    Le marché symboliquement lucratif en termes d’enjeux de carrière de l’édition est saturé par les thématiques décoloniales qui sont porteuses pour les carrières jugées sur les publications sérieuses. Cette situation crée un #appel_d’air du côté de l’activité fourmillante des marges de la recherche où se reportent les activités scientifiques « fondamentales » parce qu’elles trouvent dans ces nouveaux lieux des moyens de faire subsister simplement leurs thématiques.

    Andreas Bikfalvi dans son article intitulé « La Médecine à l’épreuve de la race » rappelle certaines données de la science qui confirment l’orientation générale. Car, si les sciences sociales sont très touchées par l’idéologie identitaire, les #sciences_dures et même les #sciences_biomédicales n’en sont pas exemptées.

    Une recherche sur la plateforme scientifique Pubmed NCBI avec comme mot-clé racism ou intersectionality montre des choses étonnantes. Pour racism, il y avait, en 2010, seulement 107 entrées, avec ensuite une augmentation soutenue pour atteindre 1 255 articles en 2020. Par ailleurs, en 2018, il y avait 636 entrées et, en 2019, 774 entrées, ce qui signifie une augmentation de 100 % en à peine deux ans, et 62 % en à peine un an.

    Avant 2010, le nombre d’entrées s’était maintenu à un niveau très faible. Pour intersectionality, il n’y avait que 13 entrées en 2010, avec, en 2020, 285 entrées.

    L’augmentation de ces deux mots-clés suit donc une évolution parallèle. C’est certainement explicable par les événements récents aux États-Unis, à la suite de l’apparition de groupes militants de « #justice_sociale », dans le sillage du mouvement « #Black_Lives_Matter », qui ont eu un impact significatif dans les différentes institutions académiques. Cela ne reflète donc pas l’augmentation des problèmes raciaux, mais une importation récente de ces problématiques dans la recherche.

    Le rapport entre les différentes entrées lexicales dans la galaxie de la pensée décoloniale à travers certaines unités lexicales caractérise un discours hyperbolique. On voit parfaitement que la comparaison de l’emploi de certaines expressions comme « #écriture_inclusive » ou « #place_de_la_femme » qu’un regard hâtif pourrait dans un premier temps juger faible est en nette surreprésentation par rapport à des unités liées comme « place de l’enfant » ou « écriture cursive ».

    Inutile d’effectuer ici une analyse scientométrique précise. Mais on peut dire que la qualité des divers articles des journaux est variable si on se réfère au facteur impact, depuis des publications marginales comme Feminist Legal Studies (IF : 0,731) à des revues parmi les plus prestigieuses au monde, comme New England Journal of Medicine (NEJM) (IF : 74.699) et The Lancet (IF : 60.392). Les titres et le contenu de ces articles sont aussi évocateurs.

    Pour citer quelques exemples : « Devenir une communauté antiraciste néonatale » (1). L’article prône une prise de conscience critique basée sur les stratégies visant à améliorer l’équité en santé, à éliminer les biais implicites et à démanteler le racisme en néonatalogie et périnatalogie. « Vers une neuroscience compassionnelle et intersectionnelle : augmentation de la diversité et de l’équité dans la neuroscience contemplative » (2). Un cadre de recherche appelé « neuroscience intersectionnelle » est proposé, qui adapte les procédures de recherche pour être plus inclusif et plus « divers ». « Intersectionnalité et traumatologie dans la bio-archéologie » (3). Ici, les auteurs parlent de l’utilité du concept d’intersectionnalité de K. Crenshaw dans l’examen des squelettes lors des fouilles archéologiques. « Six stratégies pour les étudiants en médecine pour promouvoir l’antiracisme » (4). Ici, on prône l’introduction de l’activisme racialiste dans les programmes des études de médecine à la suite du racisme anti-noir, de la brutalité policière et de la pandémie de Covid-19. 1

    Entre les 0,01% de mots de la recherche décoloniale identifiés par certains lexicomètres et nos 50%, la marche est grande. On entend déjà les uns hurler au blasphème, les autres à la caricature et les troisièmes déclarer qu’entre deux extrêmes, la vérité est forcément entre les deux.

    Ce #dogme de la #parité d’où émerge la voie médiane est une illusion rhétorique - mais quand bien même : disons que de 1 à 50, la vérité soit 25 : cela signifie donc qu’un quart de la recherche en Sciences Humaines est occupée aujourd’hui par ces questions transverses - ce qui est non négligeable. Mais pour couper court au débat stérile qu’entraîneront les ratiocinations, rappelons deux ou trois choses que l’on voit en première année de licence de lettres :

    Il n’est pas exclu qu’une idéologie repose sur des mots, mais une idéologie repose surtout et avant tout sur une argumentation : le #vocabulaire n’en est que le grossissement superficiel. Supposer que des mots-clés permettent le recensement d’une idéologie est une proposition à nuancer : elle néglige la stylistique des titres et résumés de thèses, la façon contournée de dire les choses. Bref, comme le disait un kremlinologue, les mots servent à cacher les phrases.

    Or, dans leur étude reprise par « Le Monde », nos collègues n’ont retenu que trois mots et sous une forme unique (racialisé et pas racisé, intersectionnalité et pas intersectionnel, etc.). Ils négligent par exemple genre ou #féminin ou islamophobie…

    Cette étude suppose aussi que l’ idéologie qu’ils minimisent se trouve dans les documents officiels qui ont été choisis par eux. Mais le corpus dans lequel nos collègues cherchent est nécessairement incomplet : les annonces de colloques et de journées d’étude, les interventions ponctuelles dans les séminaires et les séminaires eux-mêmes ne sont pas pris en compte, ni les ateliers et autres événements para-institutionnels.

    Les écrits des universitaires dans la presse ne figureront pas non plus. Un site comme GLAD ne sera vraisemblablement pas pris en compte alors qu’il est saturé de ces mots clés. Un titre comme « Les blancs, les juifs et nous » ne comporte aucun mot déclencheur et n’apparaît ni dans son étude, ni dans la nôtre. On peut multiplier les exemples : il suffit qu’au lieu de genre on ait « féminin » (« Déconstruire le féminin ») pour que cette thématique soit gommée. Efficace ?

    En réalité, partir de #mots-clés suppose le principe de #déclarativité : l’idéologie serait auto-déclarée, conformément à la théorie performative du langage propre au discours intersectionnel. Selon ce principe, il n’existerait aucun texte islamo-gauchiste ni antisémite, puisqu’ils ne comportent pas ces mots-clés dans leur propre description.

    Avec ce raisonnement, il n’existerait pas non plus de thèse médiocre, ni excellente puisque ces mots n’y seront pas repérables… Les termes à repérer sont donc nécessairement neutres axiologiquement : si des mots sont repérables, c’est qu’ils sont considérés comme acceptables et qu’ils pénètrent le champ de la recherche. La recrudescence repérée de ces mots-clés indiquerait alors une idéologie de plus en plus affichée. Il faut donc prendre en compte l’évolution numérique comme un indice fort.

    Pour obtenir des conclusions plus solides, il faudrait contraster des chiffres relatifs, pour comparer ce qui est comparable : les thématiques ou les disciplines (avec des termes de niveaux différents comme « ruralité » ou « ouvrier » ; voire des domaines disciplinaires plus larges : narratologie, phonologie…). On peut aussi circonscrire d’autres champs d’analyse (Paris 8 sociologie, au hasard) ou regarder combien de thèses ou articles en sociologie de la connaissance ou en esthétique, etc. Il y aurait de quoi faire un état des lieux de la recherche…

    1. Vance AJ, Bell T. Becoming an Antiracist Neonatal Community. Adv Neonatal Care 2021 Feb 1 ;21(1):9-15.

    2. Weng HY, Ikeda MP, Lewis-Peacock JA, Maria T Chao, Fullwiley D, Goldman V, Skinner S, Duncan LG, Gazzaley A, Hecht FM. Toward a Compassionate Intersectional Neuroscience : Increasing Diversity and Equity in Contemplative Neuroscience. Front Psychol 2020 Nov 19 ;11:573134.

    3. Mant M, de la Cova C, Brickley MB. Intersectionality and Trauma Analysis in Bioarchaeology. Am J Phys Anthropol 2021 Jan 11. doi : 10.1002/ajpa.24226.

    4. Fadoju D, Azap RA, Nwando Olayiwola J. Sounding the Alarm : Six Strategies for Medical Students to Champion Anti-Racism Advocacy. J Healthc Leadersh, 2021 Jan 18 ;13:1-6. doi : 10.2147/JHL.S285328. eCollection 2021.

    https://www.lefigaro.fr/vox/societe/decolonialisme-et-ideologies-identitaires-representent-un-quart-de-la-reche

    et déjà signalé par @gonzo ici :
    https://seenthis.net/messages/908608

    #Xavier-Laurent_Salvador #Jean_Szlamowicz #Andreas_Bikfalvi
    –—

    Commentaire sur twitter de Olivier Schmitt, 27.03.2021 :

    Cette tribune est tellement bourrée d’erreurs méthodologiques qu’elle en dit beaucoup plus sur la nullité scientifique des auteurs que sur la recherche en SHS.
    Pour gonfler leurs stats, ils comptent toutes les occurrences du mot « racisme ». Vous travaillez sur le racisme et avez ce terme dans votre publication ? Vous êtes forcément un postcolonial tenant des idéologies identitaires...
    Idem, et ce n’est pas anodin, ils incluent l’occurence « post-colonial » (avec le tiret). Qui est simplement un marqueur chronologique (on parle par exemple couramment de « sociétés post-coloniales » en Afrique ou en Asie) et n’a rien à voir avec une idéologie « postcoloniale »
    Et oui, un tiret à de l’importance... Mais donc vous êtes historien et travaillez sur, au hasard, Singapour après l’indépendance (donc post-colonial), et bien vous êtes un tenant des idéologies identitaires...
    Et même en torturant les données et les termes dans tous les sens pour gonfler complètement artificiellement les chiffres, ils arrivent à peine à identifier un quart des travaux...
    C’est définitivement pathétiquement débile.
    Et puisqu’ils veulent « mesurer » et « objectiver », un truc comme ça dans n’importe quelle revue un minimum sérieuse, c’est un desk reject direct...

    https://twitter.com/Olivier1Schmitt/status/1375855068822523918

    Sur les #chiffres en lien avec les recherches sur les questions post- / dé-coloniales, voir ce fil de discussion :
    https://seenthis.net/messages/901103
    #statistiques

    ping @isskein @cede @karine4

    • Les fallaces de l’anti-décolonialisme

      fallace
      (fal-la-s’) s. f.
      Action de tromper en quelque mauvaise intention.
      Émile Littré, Dictionnaire de la langue française, 1873-1874, tome 2, p. 1609.

      Vendredi 26 mars 2021 le journal Le Figaro a mis en ligne sur son site internet une tribune signée par #Xavier-Laurent_Salvador, #Jean_Szlamowicz et #Andreas_Bikfalvi intitulée « Décolonialisme et idéologies identitaires représentent un quart de la recherche en sciences humaines aujourd’hui ». Ce texte qui avance à grandes enjambées vers un résultat fracassant tout entier contenu dans le titre est fondé sur une méthodologie défaillante et une argumentation confuse. Il a principalement provoqué des éclats de rire, mais aussi quelques mines attérées, parmi les sociologues, les géographes, les historiens, les politistes, les linguistes ou les anthropologues de ma connaissance qui ont eu la curiosité de le lire. Cependant sa publication était attendue et constitue, en quelque sorte, l’acmé de la maladie qui frappe le débat public sur l’Université en France depuis de longs mois. Le contexte impose donc de s’y attarder un peu plus.

      Je voudrais le faire ici en montrant la série impressionnante de fallaces logiques qu’il contient. Des fallaces que l’on retrouve d’ailleurs, avec quelques variations, dans d’autres productions de l’Observatoire du décolonialisme que les trois auteurs ont contribué à fonder. En employant ce terme un peu désuet je désigne un ensemble d’arguments ayant les apparences de la logique mais dont l’intention est de tromper ceux à qui ils sont adressés. Le terme est toujours fréquemment employé en anglais sous la forme fallacy pour désigner des ruses argumentatives que le raisonnement scientifique devrait s’interdire, particulièrement dans les sciences humaines et sociales. Il est évidemment ironique de constater que des intellectuels qui prétendent depuis des mois que l’Université française est corrompue par l’idéologie et le manque d’objectivité le font au moyens de procédés d’argumentation grossièrement fallacieux. C’est pourtant le cas et ce constat, à lui seul, justifie d’exposer les méthodes de ce groupe. Au-delà, ces procédés en disent aussi beaucoup sur l’offensive idéologique menée par ceux qui, à l’image des trois signataires, prennent aujourd’hui en otage l’Université, et particulièrement les sciences humaines et sociales, pour accréditer l’idée selon laquelle toute critique des inégalités et des discrimnations, comme toute entreprise d’élaboration conceptuelle ou méthodologique pour les mettre en évidence — particulièrement celles qui touchent aux questions du genre et de la race — devrait être réduite au silence car suspecte de compromission idéologique « décoloniale » ou « islamo-gauchiste ».

      Les auteurs de cette tribune, deux linguistes et un médecin, sont familiers des prises de position dans les médias. On ne peut donc les suspecter d’avoir fait preuve d’amateurisme en publiant cette tribune. Tous les trois sont par exemple signataires de l’appel des cent qui dès novembre 2020 exigeait de la Ministre de l’enseignement supérieur et de la recherche qu’elle rejoigne son collègue de l’Éducation nationale dans la lutte contre « les idéologies indigéniste, racialiste et ‘décoloniale’ » à l’Université. Si l’on doit au Ministre de l’Intérieur Géral Darmanin d’avoir le premier agité le spectre de l’islamo-gauchisme dans la société française à l’automne 2020, c’est en effet Jean-Michel Blanquer qui marqua les esprits au lendemain de l’assassinat de Samuel Paty en évoquant les « complices intellectuels » de ce crime et en déclarant que, je cite, « le poisson pourrit par la tête ». Il n’est évidemment pas possible de déterminer si l’activisme des cent, qui a conduit à la création de l’Observatoire du décolonialisme en janvier 2021 et à de très nombreuses interventions médiatiques de ses animateurs depuis, est à l’origine du changement de cap de Frédérique Vidal ou s’il n’a fait que l’accompagner, ce qui est plus probable. Il est certain, en revanche, que la Ministre de l’Enseignement supérieur, en évoquant à son tour la « gangrène » islamo-gauchiste à l’Université le 14 février 2021 et en annonçant une enquête sur le sujet, a satisfait les demandes de ces cent collègues. Ceux-ci sont d’ailleurs, de ce fait, les seuls à pouvoir se féliciter de l’action d’une ministre qui a réussi à fédérer contre elle en quelques mois — la polémique sur l’islamo-gauchisme étant la goutte d’eau qui fait déborder le vase — tout ce que le monde de la recherche compte de corps intermédiaires ou d’organismes de recherche ainsi que 23.000 signataires d’une pétition demandant sa démission.

      Que signifient exactement « décolonial » et « idéologies identitaires » pour ces auteurs ? Il n’est pas aisé de répondre à cette question car les définitions proposées sur le site de l’association sont assez sibyllines. On devine cependant que ces labels s’appliquent à tout un ensemble d’idées qui ont pour caractéristique commune de questionner la domination masculine et le racisme mais aussi la permanence du capitalisme et contribuent de ce fait, pour les membres de l’Observatoire, à une « guerre sainte menée contre l’occident ». Dans cette auberge espagnole conceptuelle il n’est cependant pas besoin d’être grand clerc pour comprendre que les convives ont quelques obsessions. L’écriture inclusive, l’identité, l’intersectionalité, le « wokisme », la racialisation, les études sur le genre ou l’analyse du fait « postcolonial » en font partie.

      À défaut d’une définition claire, concentrons-nous sur la stratégie d’argumentation des membres de l’Observatoire. Jusque là ceux-ci ont adopté une stratégie que l’on peut qualifier, sans jugement de valeur, d’anecdotique. Elle vise en effet à isoler dans le flot de l’actualité universitaire un événement, un livre ou une prise de position et à réagir à son propos de manière souvent brève ou ironique, voire sur le ton du pastiche que prisent ces observateurs. On trouve par exemple en ligne sur leur site un recueil de textes « décoloniaux », un générateur de titres de thèses « décoloniales », un lexique humoristique du « décolonialisme »… Quant aux interventions dans les médias elles se font l’écho des initiatives du gouvernement en soulignant leurs limites (par exemple en réfutant l’idée que le CNRS puisse mener l’enquête demandée par la ministre), ciblent des institutions soupçonnées de trop grande compromission avec le « décolonialisme » comme la CNCDH qui publie l’enquête la plus approfondie et la plus reconnue sur le racisme, l’antisémitisme et la xénophobie en France. Elles relaient aussi les positions d’intellectuels critiques des discriminations positives ou du « multiculturalisme ».

      Ces interventions privilégient un mode d’action singulier dans l’espace académique qui constitue la première fallace que nous pouvons attribuer à ce groupe, à savoir l’attaque ad hominem contre des chercheuses et des chercheurs (mais aussi contre des militantes et militants des mouvements anti-raciste et féministe). Nahema Hanafi, Nonna Mayer et plus récemment Albin Wagener en ont par exemple fait les frais. En soi, critiquer les arguments avancés par des personnes n’est évidemment pas un problème (c’est d’ailleurs ce que je fais ici). Mais critiquer, plus ou moins violemment, des personnes dont on ignore ou déforme les arguments en est bien un. On ne compte plus dans les textes ou interviews des membres de cet Observatoire les références à des ouvrages cités par leur quatrième de couverture, les allusions moqueuses à des recherches dont les auteur•es ne sont même pas cité•es et peut-être pas connu•es, les références à des saillies d’humoristes pour analyser des travaux de recherche ou les petites piques visant à disqualifier telle ou tel collègue. Cette fallace a d’autres variantes comme celle de l’homme de paille (on devrait d’ailleurs dire ici dela femme de paille tant il existe un biais genré dans le choix des cibles de cet Observatoire) qui consiste à fabriquer des individus imaginaires qui incarnent de manière stylisée la dangereuse chimère « décoloniale ». Le travail ethnographique de Nahema Hanafi est par exemple violemment attaqué au motif qu’il ferait « l’éloge d’un système criminel », rien de moins.

      Une autre variante de cette fallace consiste à suggérer des associations d’idées saugrenues par le détour du pastiche ou de l’ironie qui permettent aussi de critiquer sans lire mais qui remplissent un autre rôle, plus original : celui de détourner l’attention du public quant on est soi-même critiqué. Albin Wagener, qui a mené un travail d’objectivation précis de certains mots-clés considérés comme « décoloniaux » dans la production des sciences humaines et sociales (voir plus bas), est par exemple moqué dans une vidéo imitant la propagande nord-coréenne. Plus grave encore, les sciences sociales « décoloniales » et « intersectionnelles » selon l’Observatoire sont incarnées dans une autre vidéo sous les traits du personnage de Hitler joué par Bruno Ganz dans une scène très souvent détournée du film « La Chute » d’Oliver Hirschbiegel. La stratégie d’argumentation emprunte ici à la fallace du « hareng rouge » consistant pour ces auteurs à utiliser des arguments grotesques ou scandaleux pour détourner l’attention de critiques plus fondamentales qui leur sont faites. En l’occurrence, suggérer que les sciences sociales « décoloniales » ou l’analyse du phénomène raciste sont nazies est à la fois pathétique et insultant. Mais ce parallèle permet aussi de faire diversion — par l’absurde. Ce qu’il s’agit en effet de cacher c’est justement que la version du républicanisme « anti-décolonial » proposée par l’Observatoire reproduit dans ses modes d’intervention des pratiques de ce qu’il est désormais convenu d’appeler la droite « alternative » ou alt-right. Le paralogisme « c’est celui qui dit qui l’est » — aujourd’hui courant dans les milieux d’extrême-droite — fait donc son entrée, avec l’Observatoire du décolonialisme, dans le milieu académique.

      Une seconce fallace de l’argumentation est à l’oeuvre dans les prises de position des anti-décolonialistes : l’argumentation ad nauseam ou répétition sans fin des mêmes arguments. Au lieu de faire ce qui est attendu dans le monde académique, à savoir une enquête sérieuse et patiente sur chaque cas de « décolonialisme » que l’on voudrait critiquer, les membres de l’Observatoire emploient depuis des mois une stratégie consistant plutôt à distiller quelques éléments de langage sur de multiples supports en profitant des effets de caisse de résonance des réseaux sociaux. Le mécanisme est simple : tel article sur le site de l’Observatoire s’appuie sur une tribune du Point qui suscite elle-même un autre article dans le Figaro qui provoque un tweet d’une figure politique ou journalistique très suivie, lequel suscite des dizaines ou des centaines de réponses, mentions et autres retweets. De cette manière l’Observatoire et ses membres s’installent dans l’espace public sur la simple base de leur activisme de la visibilité. Ironie : un journal un peu plus sérieux cherchera alors à analyser ce phénomène et pour cela donnera la parole de manière disproportionnée aux membres de l’Observatoire ou ravivera le cliché éculé des « guerres de tranchées » universitaires qui laisse penser que tout cela, au lieu d’être une offensive inédite contre la liberté de l’enseignement et de la recherche est un effet pervers de la vie universitaire elle-même. À n’en pas douter, un autre journal trouvera bientôt ces personnalités singulières ou attachantes et se proposera d’en faire le portrait…

      Pourquoi, dès lors, des réactions plus nombreuses peinent-elles à émerger pour contrer cette logorrhée anti-décoloniale ? L’explication tient dans la loi dite de Brandolini, ou « bullshit asymmetry principle » : énoncer une ineptie ne prend que quelques minutes alors que la réfuter sérieusement prend du temps. Celles et ceux qui sont la cible des attaques de l’Observatoire ou qui envisagent de critiquer ses thèses déclarent donc souvent forfait par manque de temps mais aussi par manque d’intérêt pour la polémique en elle-même dont le niveau est accablant. Plus grave, critiquer les thèses de l’observatoire ou émettre des idées considérées comme lui par « décoloniales » expose de plus en plus souvent à des tirs de barrage considérables sur les réseaux sociaux et à des insultes et des menaces. La fallace de l’argumentation ad nauseam porte, en effet, bien son nom : dès lors que l’un des membres de l’observatoire, ou un influenceur qui se fait le relais de ses thèse, désigne aux réseaux de ses soutiens une cible à viser, celle-ci reçoit des centaines de messages infamant qui sont en soi un motif légitime d’inquiétude et supposent un surcroit de travail pour les signaler aux autorités, quand bien même il est très probable que rien ne sera fait pour les arrêter.

      La troisième fallace que l’on peut observer dans les prises de position de l’Observatoire du décolonialisme consiste évidemment à ne sélectionner dans l’ensemble de la production des sciences sociales que les quelques exemples de travaux susceptibles d’alimenter la thèse défendue, à savoir celle d’une augmentation de la production académique sur le genre, le racisme ou le « décolonialisme ». Cette fallace, que l’on qualifie souvent de « cueillette de cerises » (cherry picking) est inhérente à l’argumentation anecdotique. On ne s’attend évidemment pas à ce que les cas sélectionnés par l’Observatoire soient choisis autrement que parce qu’ils valident la thèse que celui-ci défend. Ceci étant dit on peut quand même faire remarquer que s’il existait un Observatoire de l’inégalitarisme celui-ci montrerait sans peine que la thématique du creusement des inégalités progresse fortement dans les SHS en ce moment. Un observatoire du pandémisme montrerait que de plus en plus d’articles s’intéressent récemment aux effets des structures sociales sur les pandémies et un observatoire du réseautisme que la métaphore du « réseau » a plus le vent en poupe que celle de la « classe ». En bref : le fait que des chercheurs inventent des concepts et les confrontent à la réalité sociale est inhérent à l’activité scientifique. Le fait qu’ils le fassent de manière obsessionnelle et à partir de ce qui constitue leur rapport aux valeurs, comme dirait Max Weber, aussi. La seule question qui vaille au sujet de ces recherches est : sont-elles convaincantes ? Et si l’on ne le croit pas, libre à chacun de les réfuter.

      Venons donc maintenant à l’originalité de la tribune du Figaro. Elle propose en effet un nouveau style argumentatif fondé sur une étude empirique aspirant à une telle quantification. Il s’agit en effet ni plus ni moins que d’évaluer la part des sciences humaines et sociales gangrénées par le « décolonialisme ». On imagine que les auteurs se sont appliqués puisque cette mesure est d’une certaine façon ce qui manquait jusque là à leur bagage et qu’elle répond à la demande de la ministre Frédérique Vidal tout en ambitionnant de contrer les arguments quantitatifs avancés par deux collègues qui ont au contraire montré la faiblesse de l’idée de conversion des sciences sociales au décolonialisme à partir d’analyses de corpus.

      Rappelons ces deux études dont nous disposons. D’un côté Albin Wagener a mesuré le poids quelques mots-clé dans un éventail assez large de sources (theses.fr, HAL, Cairn et Open Edition). Sa conclusion : les travaux employant des termes comme « décolonial », « intersectionnel », « racisé » ou « islamo-gauchisme » augmentent depuis les années 2010 mais restent marginaux (0,2% des thèses soutenues ou à venir en 2020, 3,5% du total des publications dans Open Editions et 0,06% dans HAL). D’un autre côté David Chavalarias a analysé le contenu de 11 millions de comptes Twitter pour mettre en évidence la marginalité du terme « islamo-gauchisme » et de ses variantes qui ne sont présents que dans 0,019% des tweets originaux analysés mais dont on peut caractériser l’origine dans des comptes de l’extrême-droite dont beaucoup ont été suspendus par Twitter parce qu’ils pratiquaient l’astroturfing, un ensemble de pratique visant à diffuser massivement des contenus en automatisant l’envoi de tweets ou les retweets de ces tweets. David Chavalarias a souligné la singularité de la stratégie du gouvernement français qui a contribué massivement en 2020 à faire sortir ce terme des cercles d’extrême-droite pour l’amener sur le devant de la scène, une stratégie proche de celle de l’alt-right américaine.

      La fallace la plus évidente que contient le texte du Figaro relève du domaine des conclusions hâtives (hasty conclusion). Les auteurs en arrivent en effet à une conclusion impressionnante (« La recherche en décolonialisme pèse donc 20% de l’activité de blogging et d’organisation d’événements scientiques et la moitié (50%) de la part des publications. ») mais au prix de raccourcis logiques si évidents et grossiers qu’ils ont conduit la plupart des lecteurs de ce texte à déclarer forfait après quelques lignes et qu’ils auraient dû mettre la puce à l’oreille de tous ceux qui eurent à le lire jusqu’au bout, par exemple au Figaro (à moins que personne ne l’ait lu jusqu’au bout dans ce journal ?). Citons les quatre plus importants : le manque de spécificité de la méthode, son manque d’homogénéité, l’introduction de biais massifs d’échantillonnage et un problème confondant de mesure.

      La méthode retenue consiste d’abord à identifier quelques mots-clé considérés comme des signaux permettant de constituer un corpus de documents représentatifs des idées « décoloniales ». On en s’attardera pas sur un des problèmes possibles de ce type de méthodes qui est qu’elle conduisent à mêler dans le corpus des documents mentionnant ces mots-clés pour des raisons très différentes (pour adhérer à un chois de concept, pour le critiquer, pour le moquer…). Les auteurs évoquent ce défaut au début de l’article et ce n’est pas le plus grave. Beaucoup plus stupéfiante en effet est l’absence de prise en compte de la polysémie des termes choisis. Faisons-en la liste : « genre », « race » et « intersectionnalité » sont d’abord mentionnés mais la recherche a été vite élargie à « racisme » et « discrimination » puis à « décolonial », « post-colonial » et « islamophobie ». Les auteurs prennent la peine de signaler qu’ils ont inclus un « homographe » de « post-colonial » (à savoir « postcolonial ») mais il ne leur vient semble-t-il pas à l’esprit que certains de ces termes sont surtout polysémiques et peuvent être employés dans des contextes totalement étrangers aux questions idéologiques qui obsèdent l’Observatoire du décolonialisme. C’est notamment le cas de « genre » et de « discrimination » dont l’emploi conduit à compter dans le corpus des articles sur le genre romanesque ou la discrimination entre erreur et vérité. Un collègue m’a même fait remarquer que les trois auteurs se sont, de fait, inclus dans leur propre corpus dangereusement décolonial, sans doute par mégarde. L’un a en effet utilisé le mot « genre », pour décrire « un navigateur d’un genre un peu particulier », l’autre le même terme pour parler de de musique et le troisième — qui n’a pas de publications dans OpenEdition — mentionne quant à lui dans PubMed des méthodes permettant de « discriminer des échantillons ». Nos auteurs ont cru avoir trouvé avec leurs calculs l’arme fatale de l’anti-décolonialisme. Il semble que c’est une pétoire qui tire sur leurs propres pieds…

      Un autre problème mérite aussi d’être soulevé concernant les mots-clé choisis. Ceux-ci mélangent des concepts des sciences sociales et des termes décrivant des faits qui sont reconnus comme tels très largement. Ainsi, même si l’on laisse de côté la question de l’islamophobie, le « racisme » et les « discriminations » sont des faits reconnus par le droit et mesurés régulièrement dans quantité de documents. On pourrait comprendre que la méthode des auteurs consiste à cibler des concepts dont ils pensent qu’ils sont problématiques et dont il s’agirait dès lors de suivre l’expansion. Mais en incluant « racisme » et « discriminations » dans la sélection du corpus les auteurs trahissent une partie de l’obsession qui est la leur. Ils ne contestent en effet pas seulement le droit des sciences sociales à élaborer comme bon leur semble leur vocabulaire mais aussi leur droit à s’intéresser à certains faits comme le racisme ou les discriminations. Faudrait-il donc confier l’objectivation de ces faits à d’autres disciplines ? Ou bien tout simplement décider que ces faits n’existent pas comme le font certains régulièrement ?

      La méthode pose aussi un problème d’échantillonnage qui ne semble pas avoir vraiment effleuré les auteurs. Ceux-ci construisent un corpus fondé principalement sur la plateforme OpenEdition considérée comme « un lieu-outil où la recherche se présente aux instances gouvernantes comme un mètre-étalon des livrables de la recherche » Il faut sans doute être assez éloigné de la recherche pour considérer ce choix comme pertinent, surtout lorsque l’on restreint encore le corpus en ne gardant que les blogs et événements scientifiques… Les instances d’évaluation de la recherche sont en effet — c’est d’ailleurs heureux — bien plus intéressées par les publications dans des revues de premier rang, qu’elles soient en accès libre ou pas, que par des billets de blog. Et il est de notorité commune que OpenEdition ne couvre pas tout le champ de la production scientifique et n’a pas été créé pour cela.

      Enfin, last but not least, les auteurs de ce texte utilisent pour mesurer le phénomène qui les intéresse une fallace très connue — mais dont beaucoup pensaient qu’elle avait été éradiquée de la recherche en sciences sociales — la fallace du juste milieu (ou golden mean fallacy). Celle-ci consiste à considérer que si l’on dispose de deux évaluations discordantes d’un même phénomène on peut utiliser la moyenne des deux comme solution. Essayons de suivre le raisonnement des auteurs de la tribune : « Entre les 0,01% de mots de la recherche décoloniale identiés par certains lexicomètres et nos 50%, la marche est grande. On entend déjà les uns hurler au blasphème, les autres à la caricature et les troisièmes déclarer qu’entre deux extrêmes, la vérité est forcément entre les deux. Ce dogme de la parité d’où émerge la voie médiane est une illusion rhétorique - mais quand bien même : disons que de 1 à 50, la vérité soit 25 : cela signie donc qu’un quart de la recherche en Sciences Humaines est occupée aujourd’hui par ces questions transverses - ce qui est non négligeable. » On admirera la logique qui consiste à déclarer le choix moyen — et pas médian d’ailleurs comme l’écrivent les auteurs (mais laissons cela de côté) — comme une « illusion rhétorique » (imputée à un étrange « dogme de la parité », encore un hareng rouge sans doute…) tout en faisant ce choix dans la même phrase à coups de tirets et de guillemets… On admirera aussi la logique qui assimile 0,01 à 1… À ce niveau de pifométrie, il est dommage que les auteurs ne soient pas allés jusqu’au bout de leur logique en déclarant que 100% de la recherche en sciences humaines et sociales est gangrénée par le décolonialisme. Ils auraient pu alors, comme le Dr Knock de Jules Romains, ériger en maxime le fait que, dans ces disciplines, « tout homme bien portant est un malade qui s’ignore ».

      On pourrait encore signaler au moins deux autres fallaces logiques dans ce texte. La première est l’absence de la moindre préoccupation pour la littérature pertinente sur le problème abordé. La bibliométrie (le fait de compter des publications) est pourtant une méthode reconnue de la sociologie comme de l’histoire des sciences et de nombreuses recherches l’ont appliquée au sciences sociales. Si les auteurs de ce texte avaient fait preuve d’un peu de modestie et s’étaient intéressés à cette littérature — ce qu’auraient fait des chercheurs — ils auraient évité de se fourvoyer à ce point. Ils auraient aussi découvert qu’un des résultats les plus fondamentaux de ces disciplines est que les « fronts de la recherche » progressent non pas à la mesure des occurrences de mots-clé dans la littérature scientifique mais à celle des citations des articles qui la composent.

      On peut dès lors invoquer une dernière fallace qui caractérise ce texte, celle du raisonnement circulaire : les résultats de la recherche étaient évidemment entièrement contenus dans ses prémisses et tout l’appareil méthodologique employé ne visait qu’à prouver des préjugés et à recouvrir ce tour de magie d’un voile de scientificité au moyen de divers artifices comme celui de l’argument d’autorité dont relèvent dans ce texte l’usage de mots compliqués employés à plus ou moins bon escient comme « panel », « token » ou « principe de déclarativité » et celui de raisonnements si manifestement confus qu’ils semblent forgés pour un canular scientifique. Le raisonnement établissant qu’en élargissant la recherche on arrive à baisser le nombre total d’articles décomptés est un modèle du genre : « Sur OpenEdition, réduit à la part des blogs (Hypotheses) et événements annoncés (Calenda) : une recherche « courte » sur « genre, race et intersectionnalité » donne près de 37578 résultats sur 490078 (au 20 mars 2021) soit 7% de la recherche globale. Ce qui à première vue semble peu. Une recherche étendue sur « racisme et discrimination » présente d’ailleurs une faible augmentation avec 32695 occurrences sur 39064 titres, soit 8% des objets décrits sur la plateforme. » Tempête sous un crâne !

      À quoi peut donc bien servir ce texte si malhonnête dans son argumentation ? Il semble évident qu’il ne sert à rien pour l’avancement des connaissances sur l’évolution des sciences humaines et sociales. Reste donc son efficacité politique. En affirmant haut et fort que le quart de la recherche française en sciences humaines et sociales est gangréné par le « décolonialisme » (une affirmation que n’importe quel journaliste un peu au fait du monde de la recherche aurait dû trouver immédiatement ridicule, mais semble-t-il pas celles et ceux qui éditent les tribunes du Figaro) les auteurs de ce texte alimentent évidemment une panique morale dont l’Université est aujourd’hui la cible et qui vise à justifier des politiques de contrôle gouvernemental sur l’activité d’enseignement et de recherche et, pour faire bonne mesure, la baisse des budgets qui leur sont consacrés (tout ceci étant déjà en bonne voie). Une panique morale qui vise aussi à intimider et menacer celles et ceux qui travaillent sur les inégalités et les discriminations liées au genre et à l’expérience raciale dans notre société. Une panique morale qui vise enfin à polariser l’opinion en lui livrant — pour quel profit politique à venir ? — des boucs émissaires décoloniaux, intersectionnels et islamo-gauchistes à blâmer pour toutes les calamités qui affligent aujourd’hui notre société.

      https://gillesbastin.github.io/chronique/2021/04/07/les-fallaces-de-l'antidecolonialisme.html

    • Leila Véron sur twitter

      Je vous résume l’"Observatoire" du décolonialisme en quatre points (les gens, le propos, la rhétorique, les méthodes)
      1) « observatoire » autoproclamé sans légitimité institutionnelle, composé de chercheuses et de chercheurs et de leur cercle amical bien au-delà de la recherche
      2) le propos. Propos proclamé : défendre la science, la rationalité, le débat contradictoire. Propos réel : en grande partie, des billets d’humeur sur la société, la politique, et leurs collègues.
      3) le ton : celui de la constatation indignée (ça me fait penser à ce que disait Angenot sur le style pamphlétaire, ça évite d’avoir à argumenter, genre c’est EVIDENT que c’est scandaleux), de l’insulte peu originale (ils aiment bcp liberté égalité débilité), tendance à la litanie
      La rhétorique : un peu de vrai, pas mal de faux, et beaucoup d’invérifiable/ fantasmé/ présenté de manière exagérée/tordue/de mauvaise foi. Ca me fait penser aux rhétoriques des théories du complot.
      Quand ces gens qui prétendent défendre la science ont essayé d’appuyer leurs propos sur une étude chiffrée argumentée, que croyez-vous qu’il arriva ? Ils racontèrent n’importe quoi, @gillesbastin a relevé leurs erreurs grotesques : https://gillesbastin.github.io/chronique/2021/04/07/les-fallaces-de-l'antidecolonialisme.html

      Je ne sais pas ce que je préfère, le fait d’assimiler 0,01 à 1 ou de dire « certains disent que c’est 0,01% de la recherche qui est décoloniale, nous on disait 50%, ben on n’a qu’à choisir le milieu ma bonne dame ». La rigueur scientifique !

      4) la méthode : le contraire de l’argumentation scientifique et en plus ils l’assument : « On fait dans le pamphlet et dans l’ironie » déclare M. Salvador (co-fondateur). On pourrait rajouter le trollage, avec des vidéos et montages de collègues

      Je ne me remets pas de cette citation de XL Salvador « Si on est réduits à sortir un observatoire qui a ce ton, c’est bien parce qu’on n’arrive pas à mener ce débat. C’est un appel au secours d’amant éconduit »
      Bien vu pour l’incapacité à mener un débat scientifique...
      .. mais cette métaphore sérieusement ! J’ai envie de dire qu’il y a d’autres moyens que l’insulte et le pleurnichage pour gérer sa peine d’amant éconduit, non ?
      Conclusion : contradictions, les gens de l’observatoire hurlent au danger de la politisation dans la science et sont archi engagées politiquement dans des sujets divers qui excèdent largement la recherche (ce qui est leur droit, mais le niveau de mauvaise foi est énorme).
      J’ai oublié, stratégie : le matraquage. Les mêmes dénonciations, les mêmes textes vides, les mêmes pastiches, les mêmes vannes dans des bouquins, articles, site1, site2, site3... et sur twitter.
      Ca conduit à des situations où ces gens qui dénoncent l’écriture inclusive et la recherche sur l’écriture inclusive finissent par ne quasi plus parler que de l’écriture inclusive (alors que ce qu’ils et elles faisaient avant avait un autre niveau !) Marche aussi pour la race.
      On leur souhaite une bonne fin de carrière chez Causeur ou CNews, et un bon courage à toutes les chercheuses et chercheurs qui ont déjà assez de luttes à mener et qui se prendront leurs attaques. Par expérience : n’hésitez pas à porter plainte si besoin est (insulte, diffamation).

      https://twitter.com/Laelia_Ve/status/1405257470709317634

  • Extreme poverty isn’t natural, it’s created — Jason Hickel
    https://www.jasonhickel.org/blog/2021/3/28/extreme-poverty-isnt-natural-it-is-created

    Over the past few years, this graph has become a sensation. Developed by Our World In Data and promoted widely by Bill Gates and Steven Pinker, the graph gives the impression that virtually all of humanity was in “extreme poverty” as of 1820 (...)
    There’s only one problem: the graph’s long-term trend is empirically baseless.

  • Glocal Climate Change

    Global warming is not only about melting icebergs or expanding deserts. It is something which does happen in our backyard as well. Data and estimates on the mean temperatures at the local level indicate that climate change has been affecting almost every corner of Europe, as mean temperatures have increased by more than 2°C in half a century in multiple areas.

    https://climatechange.europeandatajournalism.eu/en/map

    Les données sont présentées au niveau de la commune, ici par exemple Grenoble :

    #carte #cartographie #visualisation #changement_climatique #climat #local #Europe #températures #données #database #statistiques #chiffres #commune

    ping @reka @visionscarto @simplicissimus

  • Working conditions in essential occupations and the role of migrants

    Following a national #lockdown in response to the Covid-19 pandemic, state governments in Germany published lists of “essential” occupations that were considered necessary to maintain basic services such as health care, social care, food production and transport. Against this background, this paper examines working conditions and identifies clusters of similar jobs in these essential occupations. Differences across clusters are highlighted using detailed data on job characteristics, including tasks, educational requirements and working conditions. Two clusters with favourable or average working conditions account for more than three-quarters of jobs in essential occupations. Another two clusters, comprising 20% of jobs in essential occupations, are associated with unfavourable working conditions such as low pay, job insecurity, poor prospects for advancement and low autonomy. These latter clusters exhibit high shares of migrants. Further evidence suggests that this pattern is linked to educational requirements and how recent migrants evaluate job characteristics. It is argued that poor working conditions could affect the resilience of basic services during crises, notably by causing high turnover. Policies towards essential occupations should therefore pay close attention to working conditions, the role of migrant labour and their long-term implications for resilience.

    https://cadmus.eui.eu//handle/1814/70541

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